Giorgio Rochat – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immaginario coloniale italiano https://www.carmillaonline.com/2019/01/05/immaginario-coloniale-italiano/ Fri, 04 Jan 2019 23:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50505 di Armando Lancellotti

Gabriele Bassi, Sudditi di Libia, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 278, € 24.00

Che cos’è l’immaginario coloniale? Quali fattori intervengono ed interagiscono nella sua elaborazione? Come cambia nel corso del tempo o conseguentemente al mutare di altre condizioni? Quali motivazioni lo sottendono e ne richiedono la formulazione? Quali fini persegue e quali effetti, immediati e temporanei o successivi e permanenti, produce? In che modo l’immagine modifica la realtà e come da quest’ultima è condizionata?

Sono queste alcune delle domande a cui risponde il volume scritto da Gabriele Bassi – dottore di [...]]]> di Armando Lancellotti

Gabriele Bassi, Sudditi di Libia, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 278, € 24.00

Che cos’è l’immaginario coloniale? Quali fattori intervengono ed interagiscono nella sua elaborazione? Come cambia nel corso del tempo o conseguentemente al mutare di altre condizioni? Quali motivazioni lo sottendono e ne richiedono la formulazione? Quali fini persegue e quali effetti, immediati e temporanei o successivi e permanenti, produce? In che modo l’immagine modifica la realtà e come da quest’ultima è condizionata?

Sono queste alcune delle domande a cui risponde il volume scritto da Gabriele Bassi – dottore di ricerca, storico e studioso del colonialismo italiano – che delimita il campo della sua indagine alla Libia, colonia italiana dall’età giolittiana alla seconda guerra mondiale, dal 1911-’12 al 1943, e al punto di vista coloniale, cioè quello del conquistatore italiano, che elabora l’immagine del “suddito di Libia” del tutto indipendentemente dalla effettiva conoscenza della realtà e della popolazione libiche. Si costruisce aprioristicamente uno stereotipo, lo si applica alla realtà, dando luogo ad un pregiudizio che a sua volta conferma e corrobora lo stereotipo: è questo il circolo vizioso che – spiega Bassi – agisce da meccanismo di produzione di un immaginario coloniale.

L’immagine del suddito coloniale di Libia si forma grazie alla convergenza di almeno tre fattori: lo stereotipo con cui l’italiano conquistatore si accosta al libico da sottomettere; il contatto con la realtà libica e i libici dopo la conquista della colonia; le esigenze della propaganda politica. Inoltre il lavoro di Bassi mette in luce come la rappresentazione del suddito coloniale non sia qualcosa di statico, ma, tutto al contrario, sia un’immagine dinamica e variabile che, sulla base di un sostanziale – e questo sì invariabile – disprezzo razzista dell’altro, si trasforma per alcuni aspetti, anche importanti, a seconda delle particolari circostanze storico-politiche, interne ed internazionali, e delle conseguenti e contingenti esigenze politico-propagandistiche.

In generale, l’immagine del suddito coloniale si regge su una tanto essenziale quanto necessaria ignoranza dell’oggetto della rappresentazione e risponde a finalità e consegue obiettivi funzionali esclusivamente all’interesse del conquistatore. L’ignoranza del soggetto da rappresentare è il prerequisito della costruzione dell’immagine stereotipata del popolo da sottomettere; le finalità perseguite sono la spiegazione e la giustificazione dell’impresa coloniale, la legittimazione della conquista, la riconferma dell’opportunità e della convenienza della sottomissione del suddito al potere del colonizzatore. Si tratta di dinamiche e di fenomeni che non riguardano solo il colonialismo italiano o, ancor più nello specifico, il caso della Libia italiana, ma interessano l’intero macro evento storico dell’imperialismo occidentale tra ‘800 e ‘900 e pertanto, semplificando e sintetizzando al massimo le dettagliate analisi e le approfondite considerazioni di Bassi, si può dire che anche nel caso italiano la costruzione dell’immaginario coloniale declini il paradigma del “fardello dell’uomo bianco” e del diritto-dovere occidentali alla “conquista civilizzatrice”.

A fare da cornice e da punti di riferimento costanti del lavoro di Gabriele Bassi sono gli studi storiografici sul colonialismo italiano, che all’incirca dagli anni Settanta del secolo scorso, grazie ai contributi di Giorgio Rochat e Angelo Del Boca prima di altri, hanno sottratto l’argomento alla semplice memorialistica o all’oblio conseguente alla perdita delle colonie; a questi si aggiungono poi i lavori riconosciuti da Bassi come fondamentali di Claudio G. Segré, Federico Cresti e Nicola Labanca. Soprattutto quest’ultimo – sostiene l’autore – «è lo studioso che più sembra avvicinarsi all’utilizzo degli studi culturali, già diffuso all’estero, per comprendere la storia coloniale italiana» (p. 24). Ed è proprio al modello dei “cultural studies” che Gabriele Bassi si ispira per affiancare allo studio dei fatti economici, politici, militari anche quello dei molteplici e complessi fenomeni ed aspetti culturali, che – da Orientalism (1978) di Edward Said in poi – non possono più essere trascurati nello sforzo di comprensione complessiva del fenomeno del colonialismo. Scrive Bassi:

Il nostro studio sull’immagine del libico nella percezione comune degli italiani parte dalle premesse dello stesso Said, verificandone la piena applicabilità anche nell’esperienza coloniale in Libia. Si è cioè sviluppata una ricerca incentrata non solo su “cannoni e soldati – come sosteneva appunto Said – ma anche idee, forme, rappresentazioni, meccanismi dell’immaginario” (p. 26)

Come è noto l’Italia liberale muove i suoi primi incerti passi di politica coloniale, in un contesto di scarso interesse dell’opinione pubblica e di limitato coinvolgimento delle forze economiche del paese, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento e nel Corno d’Africa, dal momento che le mire italiane sul Nord Africa ed in particolare sulla Tunisia, prima ancora che sulle ottomane Tripolitania e Cirenaica, vengono frustrate dall’intervento francese del 1881 nel paese nordafricano. Nonostante ciò, già in quegli anni comincia a prendere forma un’immagine del libico, che Bassi evince soprattutto da resoconti o memorie di esploratori e viaggiatori, che risente di tutti gli stereotipi razzisti europei, propri della mentalità coloniale: i libici, ma più in generale i popoli africani, sono inevitabilmente rozzi, incivili, arretrati, violenti, insomma bisognosi dell’intervento civilizzatore e salvifico di un popolo europeo.

Intorno agli anni Dieci del Novecento poi, in un contesto decisamente più favorevole alla politica coloniale rispetto al precedente, la costruzione dell’immagine del libico, che è in procinto di diventare suddito coloniale, prosegue, per concludersi con una rappresentazione che insieme contiene aspetti sia negativi sia positivi: alle connaturate negligenza e pigrizia e all’arretratezza civile, dovuta anche agli effetti della dominazione ottomana, fanno da contraltare le potenzialità positive, come le capacità di apprendimento e di assimilazione che una guida adeguata – come quella italiana – potrà fare emergere e mettere a frutto. Insomma, la martellante propaganda filogovernativa, filocoloniale e nazionalista assegna alla “Grande Proletaria” una inderogabile missione di civilizzazione e di progresso. La guerra italo-turca inizia a settembre del 1911, ma la presunta “passeggiata militare”, che con la consueta nonché infondata supponenza, che già era costata cara a fine Ottocento in Abissinia, i vertici militari e politici avevano ipotizzato, si dimostra in realtà molto impegnativa e l’appoggio generale della popolazione libica alle truppe turche contribuisce ad una prima significativa variazione nella rappresentazione della propaganda coloniale: viene creata «l’icona del libico quale “bestia”, “traditore”, “barbaro”, e non curante dell’opportunità “civilizzatrice” che gli veniva offerta» (p. 33).

A guerra conclusa – prosegue l’attenta ed interessante analisi di Bassi – cambiano nuovamente le esigenze dalla propaganda, che ritorna ad alternare l’immagine negativa del libico che resiste e si oppone a quella delle grandi potenzialità di una popolazione che, quando avrà compreso le buone e positive intenzioni italiane, collaborerà alla propria emancipazione. Lo scoppio della Grande Guerra nell’estate del 1914 e la decisione italiana di intervenire nel 1915 cambiano drasticamente il quadro della situazione in Libia, perché di nuovo l’Italia è in guerra contro l’Impero ottomano ed è costretta quasi ad abbandonare il territorio, che fatica a controllare e contestualmente la resistenza libica si rianima. «Fu da tutto ciò che ebbe origine l’immagine del libico che caratterizzò il periodo dalla seconda metà del 1914 fino al termine della prima guerra mondiale. Si trattò nuovamente di una forte demonizzazione del “ribelle”» (p. 38). La riabilitazione del suddito libico subentra nel 1919, quando si pensa anche ad un possibile coinvolgimento di una parte della popolazione nell’amministrazione della colonia e alla collaborazione, seppur asimmetrica, tra italiani e libici. Ma la presa del potere del fascismo nel 1922 muta ancora una volta la situazione.

Le differenze tra la politica coloniale dell’Italia liberale e di quella fascista sono più di grado che di sostanza, in quanto aree di interesse ed obiettivi rimangono gli stessi, mentre mutano i mezzi per conseguirli e conservarli; di certo aumentano sia la violenza della politica italiana in Africa sia il coinvolgimento della propaganda che la deve sostenere e giustificare. Pertanto, l’immagine del suddito libico si configura secondo differenti e mutati aspetti e sfaccettature, che risentono di una nuova fase della politica italiana in Libia, quella della “riconquista” della colonia, più semplice e veloce in Tripolitania, decisamente più complicata e difficile in Cirenaica.

Si fece […] una cesura, netta, tra due principali figure. Il libico “lungimirante” e “sottomesso”, che aveva compreso i buoni propositi dell’Italia, e che quindi più o meno attivamente aveva deciso di collaborare […] ed il libico “cieco”, ostinato a combattere una guerra dal risultato ormai scritto in suo sfavore» (pp. 44-45). Una seconda distinzione «avvenne in ambito geografico, ma fra tripolitani e cirenaici. Mentre i primi, per tutti gli anni Venti, si ritennero avviati in un percorso di “redenzione”, i secondi rimasero per l’intero decennio sotto il controllo della Senussia, considerati pertanto quasi indistintamente tutti “ribelli” (p. 45).

La cosiddetta “pacificazione” della Cirenaica, in realtà una guerra cruenta combattuta contro la resistenza locale guidata da Omar al-Muctar, prosegue dal 1929 al 1932 e per avere la meglio dei nemici Badoglio e Graziani adottano i metodi e gli strumenti più spietati: la deportazione della popolazione civile, l’apertura di campi di concentramento, la costruzione di una reticolato invalicabile di filo spinato lungo 270 km, che trasforma una parte della Cirenaica in uno sterminato campo di prigionia. Lo sforzo della propaganda del regime diventa quello di presentare questi provvedimenti, innanzi tutto agli italiani e secondariamente ai libici stessi, non solo come necessari, ma anche come salutari strumenti di realizzazione di un progresso benefico anche per coloro che si ostinano ad opporvisi. L’obiettivo viene raggiunto, rappresentando i sudditi cirenaici come “banditi”, ingrati “traditori”, “barbari” e “violenti”.

L’immagine della realizzazione dei campi di concentramento della Cirenaica offerta dalla stampa coloniale e nazionale fornì un’ultima conferma della definitiva e radicale demonizzazione del ribelle […]. I campi, da mezzo di repressione estremo e disastroso per l’economia e la società libiche, giunsero persino a rappresentare una sorta di vetrina dell’operato del fascismo in colonia. […] Il Regime ebbe piuttosto la necessità di magnificare l’opera del colonialismo fascista e quindi la propaganda non tardò molto ad aggiustare il tiro iniziando a fare leva sulla funzione educativa dei campi. Non si parlò più di semplici strutture detentive, bensì di luoghi in cui l’Italia di Mussolini realizzava la sua missione civilizzatrice (p. 50).

A “pacificazione” avvenuta, ancora una volta la rappresentazione del libico si trasforma, per diventare quella di un suddito, almeno potenzialmente, disposto alla collaborazione e che finalmente e progressivamente va acquisendo coscienza delle opportunità di civilizzazione e progresso a lui generosamente offerte dalla conquista e dal governo italiani. Di nuovo riprendono a circolare ipotesi circa un possibile coinvolgimento dei sudditi nell’amministrazione della colonia, o almeno di una ristretta élite e in mansioni secondarie, ma di certo non viene meno l’atteggiamento paternalistico che percepisce i libici come un popolo inferiore ed arretrato che abbisogna, come un bambino, della guida sicura di un popolo adulto e civile. Si tratta di un paternalismo che ben presto assume i tratti dell’esplicito razzismo, quando, nella seconda metà degli anni Trenta, il regime decide la svolta in tal senso e in concomitanza non casuale con un’altra impresa coloniale, quella “imperiale”, cioè quella abissina. Non si può infatti trascurare il fatto che il fascismo consideri il colonialismo anche alla stregua di un’officina nella quale forgiare il prototipo dell’”uomo nuovo”, dell’italiano fascista consapevole ed orgoglioso della propria superiorità di razza e civiltà e conscio del proprio destino imperiale.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale produce l’ennesima trasformazione della rappresentazione dei libici: da un lato, a seguito delle sollevazioni popolari che tentano di sfruttare le difficoltà belliche italiane, ritorna in auge l’immagine del “suddito ingrato e traditore”, dall’altro si tenta di presentare l’immagine del “libico fedele” che si duole dell’arrivo degli inglesi, al fine di «presentare l’invasione inglese e l’eventuale perdita della Cirenaica come un sopruso che non avrebbe goduto dell’appoggio libico. […] L’intenzione era quella di mettere in rilievo la soddisfazione dei libici rispetto all’amministrazione di Roma nascondendo il loro malcontento e le loro aspirazioni all’autonomia legate alla prospettiva di un cambiamento di governo. Era un ultimo tentativo ci creare un’immagine artefatta, adatta alle esigenze coloniali del momento» (p. 65).

Altre approfondite analisi, analoghe a quelle sopra riassunte per sommi capi e sulla base di un ricchissimo apparato di fonti e di riferimenti bibliografici, Gabriele Bassi le produce anche su ulteriori aspetti del processo di costruzione dell’immaginario coloniale libico. Prendendo le mosse dalla definizione di Bruno Mazzara, secondo la quale «lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio: una serie di informazioni su una categoria di oggetti o di persone che consente la riproduzione e la trasmissione sociale inalterata del pregiudizio» (p. 104), Bassi individua e passa in rassegna i diversi elementi stereotipici che concorrono alla elaborazione del pregiudizio coloniale italiano del “suddito libico” e questi sono: la violenza, il fanatismo, la sporcizia, la pigrizia, la disonestà. È fin troppo evidente come questi stereotipi permangano tutt’oggi nei pregiudizi in circolazione ed in crescente aumento nella società italiana nei confronti di immigrati, stranieri, islamici e rom.

Interessanti sono anche le considerazioni sull’immagine costruita dalla propaganda italiana, tanto liberale quanto fascista, del “libico collaboratore”, cioè, in altri termini, del “buon suddito” sottomesso e disponibile a partecipare al lavoro di civilizzazione italiana della colonia. Si tratta di una rappresentazione del tutto artificiale, in quanto – come dimostra Bassi – una politica di vera integrazione tra metropolitani e libici, salvo qualche sterile tentativo, non viene intrapresa dai governi italiani e a maggior ragione nel periodo fascista, quando si procede, secondo una direzione diametralmente opposta, alla realizzazione della netta separazione tra italiani e libici, anche attraverso lo strumento dell’istruzione e della scuola.

Bassi si sofferma anche su quest’ultimo aspetto di grande interesse, perché le autorità di occupazione italiane, sin dal periodo liberale, vedono nell’insegnamento della lingua italiana, nell’organizzazione della scuola e dell’istruzione gli strumenti più efficaci per avvicinare la popolazione locale ai conquistatori, per coinvolgere i libici nell’amministrazione italiana del territorio, per imporre e consolidare il potere italiano nella colonia. Ancora maggiore si dimostra successivamente l’attenzione riservata a questi aspetti della politica di amministrazione della Libia dal regime fascista e per numerose ragioni: i bambini e i giovani si prestano più facilmente ad essere educati, cioè plasmati, secondo le esigenze italiane rispetto agli adulti e ai vecchi, legati alle loro tradizioni, sospettosi nei confronti degli occupanti e sostanzialmente non disposti alla collaborazione con i conquistatori. Inoltre, esattamente come in patria, il regime assegna alla scuola il compito a lungo termine di modellare in modo fascista le generazioni a venire e nella fattispecie i sudditi sottomessi, ubbidienti e collaborativi del futuro. In terzo luogo, predisponendo un sistema scolastico ed impartendo un’istruzione “italiana” ai libici, si può conseguire il duplice fine di formare le figure professionali che si ritengono necessarie per lo sfruttamento economico del territorio e dimostrare, tanto agli italiani quanto ai libici stessi, che l’Italia realizza pienamente il proprio dovere, la propria missione di civilizzazione.

L’immagine del “libico sul banco di scuola” risente – osserva Bassi – di tutti gli stereotipi negativi sopra ricordati. Il bambino libico viene descritto come indisciplinato, incostante, lento nell’apprendimento, sporco, dotato di inferiore intelligenza e per quantità e per qualità. Ne consegue che le autorità italiane concepiscano come adatta a questo (stereo)tipo di studente un’istruzione esclusivamente basilare, finalizzata al lavoro e all’impiego in una tipologia ben precisa di professioni, semplici ed umili. Di fatto, l’istruzione offerta dagli italiani ai giovani libici si limita a quella della scuola elementare, seppure in alcuni momenti dei quarant’anni di occupazione coloniale della Libia si pensi anche all’eventualità di concedere almeno alle élite locali l’accesso alla scuola secondaria. Ma se da un lato questo consentirebbe un più agevole coinvolgimento collaborativo di una parte della popolazione nell’amministrazione della colonia, dall’altro lato prevale nelle autorità italiane il timore che attraverso l’istruzione superiore possano diffondersi aspirazioni indipendentistiche e spinte in direzione dell’emancipazione nazionale, insomma idee ed ideologie anti-italiane. Pertanto, la scuola italiana in Libia, per tutta la durata del dominio coloniale, conserva una netta separazione di istituti, percorsi didattici, programmi e testi scolastici per i metropolitani – sostanzialmente identici a quelli in uso in patria – e per i sudditi libici, relegati quindi alla condizione di studenti di second’ordine e destinati ad una formazione scolastica strettamente funzionale agli interessi italiani.

Il denso, ricco ed approfondito libro di Gabriele Bassi è un lavoro di ricerca accurato e di grande interesse che attraverso le metodologie e l’approccio dei “cultural studies” contribuisce a fare avanzare gli studi su un argomento e su un periodo della storia italiana – il colonialismo – che ancora oggi è tra i meno conosciuti e divulgati e tra i più trascurati anche dall’editoria e dalla manualistica scolastiche, a conferma, anche in questo caso, di uno stereotipo solidissimo, quello che vuole l’Italia quasi sempre oggetto o vittima e quasi mai soggetto di violenze e soprusi.

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“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi”. Gli Arditi del popolo: dalle trincee della Grande Guerra all’antifascismo armato https://www.carmillaonline.com/2016/06/28/armateci-pure-uomini-sanguinari-lora-della-riscossa-suonata-anche-gli-arditi-del-popolo-dalle-trincee-della-grande-guerra-allantifascismo-armato/ Tue, 28 Jun 2016 21:30:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31439 di Armando Lancellotti

gli-arditi-del-popolo-milieuAndrea Staid, Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata al fascismo 1921-22, Milieu edizioni, Milano, 2015, 128 pagine, € 11.90

L’editore Milieu nel 2015 ha ripubblicato un libro di Andrea Staid – uscito per la prima volta nel 2007 – che considera una pagina breve, ma non per questo secondaria, della storia italiana del primo Novecento: una pagina di opposizione armata a quello squadrismo fascista che, come un’onda in piena, a partire dall’autunno del 1920, investì prima le campagne padane e travolse poi l’intero paese, contribuendo in modo decisivo [...]]]> di Armando Lancellotti

gli-arditi-del-popolo-milieuAndrea Staid, Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata al fascismo 1921-22, Milieu edizioni, Milano, 2015, 128 pagine, € 11.90

L’editore Milieu nel 2015 ha ripubblicato un libro di Andrea Staid – uscito per la prima volta nel 2007 – che considera una pagina breve, ma non per questo secondaria, della storia italiana del primo Novecento: una pagina di opposizione armata a quello squadrismo fascista che, come un’onda in piena, a partire dall’autunno del 1920, investì prima le campagne padane e travolse poi l’intero paese, contribuendo in modo decisivo a portare Mussolini alla guida del governo. Gli “autori” di questa pagina furono coloro che per primi – sostiene Staid – compresero «il male del fascismo, ovvero gli Arditi del popolo, gli anarchici, i socialisti e comunisti. A onor del vero solo la base di questi movimenti e non i vertici capirono quello che stava succedendo (area libertaria a parte). I leader di questi movimenti proletari non compresero nel 1921 l’importanza di resistere al neonato movimento fascista, non avevano capito l’importanza di costituire (per usare le parole di Errico Malatesta) un fronte unico proletario e antifascista». (p. 6)

E quello delle responsabilità dei partiti socialista e comunista, che anziché sposare l’iniziativa degli Arditi del popolo la abbandonarono a se stessa, è argomento centrale del saggio di Staid, il quale ritiene che «i partiti della sinistra ufficiale infatti non hanno voluto sostenere in nessun modo questo movimento, prendendo le distanze, in ogni occasione, da tutto ciò che rappresentava l’operato degli Arditi antifascisti. Lo stesso partito comunista, per bocca di Terracini, denuncerà gli Arditi del popolo senza mezzi termini di essere una manovra della borghesia». (p. 21)

Le ragioni dell’ostracismo socialista e comunista nei confronti degli Arditi del popolo sono da ricercare, scrive Staid, tanto nella strategia politica dei due principali partiti della sinistra italiana – uno, il PSI, propenso alla firma del “patto di pacificazione” proposto dal governo Bonomi e in generale ad una politica riformistica, l’altro, il PCI, mosso da una volontà di egemonia politica e partitica sul proletariato italiano – quanto nelle incomprensioni o incompatibilità ideologiche, in buona parte dovute – ci sembra – alla genesi e alla natura eccentriche degli stessi Arditi del popolo.

Questi ultimi infatti nascono nell’estate del 1921, per iniziativa dell’anarchico Argo Secondari, interventista e volontario nelle file degli Arditi, da una «scissione della sezione romana dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (l’associazione che organizzava gli ex combattenti dei gruppi speciali d’assalto della Prima guerra mondiale) con l’intento di difendere le masse lavoratrici dalle azioni squadristiche dei fascisti». (p.12) Nelle settimane e nei mesi successivi «gli Arditi del popolo si diffondono rapidamente su quasi tutto il territorio nazionale. Vi aderiscono migliaia di giovani e di lavoratori di varia tendenza politica, che vedono nel movimento un efficace strumento di opposizione alla violenza delle camicie nere». Secondo la ricostruzione dell’autore, nel momento di massima diffusione e fortuna «l’organizzazione antifascista risultava strutturata, nell’estate del 1921, in almeno 144 sezioni che raggruppavano quasi 20 mila aderenti». (p.29) Ma alla fine dell’anno la situazione è già radicalmente cambiata: «Dall’ottobre-novembre del 1921, fino alla marcia su Roma, infatti l’associazione antifascista sopravvive precariamente e in semi-clandestinità, senza raggiungere l’ampiezza di consensi che l’aveva caratterizzata all’atto della sua nascita» (p. 12) e conservando una significativa consistenza solo in alcune città, come Parma, Ancona, Bari, Civitavecchia e Livorno, dove riuscì, «con risultati differenti, a opporsi all’offensiva finale fascista nei giorni dello sciopero generale “legalitario” dell’agosto 1922». (p.30)

Insomma, se gli Arditi del popolo sono consustanziali al più generale “arditismo” e al combattentismo italiani (e questa è la linea interpretativa scelta dallo stesso Staid, il quale non condivide la lettura di Giorgio Rochat, che invece tende ad allentare il legame tra l’arditismo antifascista e il sovversivismo degli ex combattenti, poi prevalentemente confluiti nelle file del fascismo stesso, e che ritiene che le origini degli Arditi del popolo siano da trovare nella storia e nelle tradizioni del movimento operaio); se sono un prodotto delle trincee della Grande Guerra e di fatto anche di quell’interventismo e di quel militarismo che si riflettono poi nell’organizzazione e nella disciplina prettamente militari degli Arditi antifascisti; allora si nutrono di un humus psicologico, culturale e politico che non era stato – prima e durante la guerra – quello dei socialisti neutralisti, né – successivamente – lo sarebbe stato dei comunisti italiani. Questo, da un lato, può aiutare parzialmente a capire, anche se non a giustificare, l’ostruzionismo socialista e comunista nei confronti dell’arditismo popolare e dall’altro – ed è forse l’aspetto più interessante delle vicende studiate da Staid – ci deve portare a riconsiderare con estrema attenzione storico-politica quella materia psicologica, sociale e politica, indeterminata e magmatica, che si forma nelle trincee, sotto il fuoco di bombe e granate, per fusione e liquefazione di una intera generazione di italiani e che si risolidifica in forme diverse, spesso divergenti ed anche antitetiche, come nel caso dell’arditismo popolare ed antifascista da un lato e, dall’altro, del più frequente arditismo combattentistico, evolutosi poi in fiumanesimo dannunziano, sansepolcrismo e squadrismo.

Se in generale la Grande Guerra è stata per milioni di popolani, operai e soprattutto contadini italiani una prima esperienza, anche politica, di massa, a maggior ragione questo vale per quelli, come coloro che poi sarebbero stati gli Arditi del popolo, che in trincea si costruiscono, o consolidano, una coscienza politica di classe, o almeno divengono consapevoli di quali siano i veri nemici contro cui combattere: lo Stato ed il potere borghesi; ovvero, ancor più semplicemente, per coloro che coltivano un rancore crescente contro i padroni che li hanno mandati a combattere e a morire.

E proprio negli anni del centenario della prima guerra mondiale e delle celebrazioni ufficiali retorico-nazionalistiche è ancor più importante – secondo l’autore del saggio – non dimenticare «gli ammutinati delle trincee della Grande Guerra che si ribellarono al fronte, disertando, sparando agli ufficiali, disobbedendo agli ordini dati dai loro carnefici. Sono storie di rifiuto individuale e collettivo, un’insubordinazione, una non-collaborazione contro l’esercito, dettata dall’orrore di una guerra-fabbrica di morte». (p. 8) [si veda a tal proposito il caso dell’ammutinamento della Brigata Catanzaro su Carmilla]
E come è necessario fare riemergere, dal generale e profondo oblio in cui sono stati relegati, gli ammutinati delle trincee, così occorre riconoscere l’importanza che meritano agli Arditi del popolo e alla loro opposizione armata allo squadrismo fascista, che non va confusa – sostiene Staid, sulla scorta delle argomentazioni di Eros Francescangeli – con l’antifascismo delle Brigate internazionali in Spagna o con quello della lotta partigiana, in quanto a «differenza della lotta di liberazione dal nazifascismo, l’opposizione allo squadrismo intentata dagli arditi del popolo venti anni prima non è iscrivibile nel contesto della contrapposizione tra democrazia e totalitarismo, ma si colloca interamente nello scontro sociale, prima che politico fra partiti, leghe, associazioni del movimento operaio da una parte e classe dominante dall’altra». (p. 24)

legaproletaria3_Tornando alla questione dei rapporti difficili tra i gruppi dirigenti dei più importanti partiti politici proletari dell’Italia degli anni Venti e gli Arditi del popolo, nonostante questi ultimi si sviluppino in stretta relazione con la Lega proletaria. Mutilati, Invalidi, Reduci, Genitori e Vedove dei Caduti in Guerra – cioè l’associazione dei reduci proletaria e socialista, trait d’union «tra fabbrica e trincea, tra combattentismo e movimento operaio» (p. 18) e che sorge in aperta polemica con l’Associazione Nazionale Combattenti, accusata di essere un’organizzazione borghese – Staid spiega come innanzi tutto il PSI boicotti gli Arditi popolari perché intenzionato a tentare la via politica del “patto di pacificazione” e della mediazione col nemico fascista, mentre il PCI definisca una posizione di chiusura verso gli Arditi del popolo «poiché, a detta del Comitato esecutivo, costituitisi su un obiettivo parziale e per giunta arretrato (la difesa proletaria), dunque, insufficientemente rivoluzionario. La difesa proletaria doveva realizzarsi esclusivamente all’interno di strutture controllate direttamente dal partito, e gli Arditi del popolo – definiti infondatamente “avventurieri“ e “nittiani“ – dovevano considerarsi alla stregua di potenziali avversari». (p. 32)

Sul piano teorico-programmatico, quindi, la principale critica comunista riguarda una presunta “immaturità” politica di un movimento nato come reazione difensiva all’attacco sferrato dalle squadre fasciste e che non colloca esplicitamente la propria azione in una prospettiva rivoluzionaria finalizzata alla dittatura del proletariato. Sul piano pratico-organizzativo, un comunicato dell’Esecutivo, pubblicato su Il Comunista il 14 luglio 1921, spiega che «L’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici di partito; e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito». (p. 33)

La linea della dirigenza comunista – espressa chiaramente da Ruggero Grieco, che vede negli Arditi del popolo uno strumento della borghesia e in particolare delle manovre antigiolittiane di Nitti – non cambia nonostante al suo interno si delineino posizioni diverse, come quella dell’Ordine nuovo di Antonio Gramsci, che continua a dare voce ai comunicati di Secondari e a diffondere notizie sugli Arditi del popolo e nonostante le parole di apprezzamento per il movimento di Argo Secondari espresse da Lenin sulla Pravda del 10 luglio 1921 o le critiche di settarismo rivolte ai compagni italiani da Bucharin, secondo il quale il PCI avrebbe dovuto entrare nel movimento degli Arditi del popolo, per imprimere in seguito ad esso una forma più marcatamente classista.

Se alle preclusioni socialiste e comuniste si aggiungono le iniziative prefettizie volute dal governo Bonomi e la politica “dei due pesi e delle due misure” di una Magistratura accondiscendente nei confronti di squadristi e ras e severa verso gli Arditi del popolo o altre organizzazioni di difesa proletaria, diviene semplice comprendere perché l’antifascismo armato del biennio 1921-’22 non abbia potuto incidere più di tanto, se non in alcune situazioni particolari.

Solo gli anarchici – afferma Staid – hanno sostenuto pienamente l’arditismo popolare, «sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana furono, per tutto il biennio 1921-‘22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. […] Il contributo libertario alla lotta armata antifascista incontrò però ostacoli a causa della frammentarietà, della modesta consistenza numerica e della non omogeneità del movimento anarchico e anarcosindacalista». (p. 41)
Anche in questo caso però non mancano completamente perplessità o cautele, dovute innanzi tutto «alla diffidenza propria degli anarchici verso organizzazioni di stampo militare» (p. 41) e in secondo luogo all’assenza di un preciso progetto rivoluzionario libertario all’interno degli Arditi del popolo. Nonostante questo però l’Unione anarchica italiana, riunitasi nell’agosto del ’21 a Roma, decide di appoggiare gli Arditi, mantenendo la propria specificità politica e rispettando quella degli Arditi stessi ed esprimendo – come recita la dichiarazione del 14-15 agosto 1921 – «simpatia e riconoscenza per l’opera di difesa da essi compiuta a vantaggio delle libertà proletarie e popolari». (p. 42)

Il tal modo – secondo Staid – gli anarchici danno concreta esecuzione alla teoria del “fronte unico” antifascista, espressione con cui «intendevano un legame prettamente rivoluzionario, che sarebbe dovuto partire dal basso, a livello locale, fra individui anche appartenenti a partiti politici diversi, ma con un obiettivo minimo comune» (p. 43): vincere le resistenze dello Stato e organizzare la vita e la società su nuove basi.

Occorre ricordare però che se le dirigenze di PSI e PCI negano il loro aiuto agli Arditi del popolo, altrettanto non fanno tanti militanti socialisti e comunisti, che invece aderiscono al movimento e per esempio combattono e con successo sulle barricate di Parma, a cui il libro di Staid dedica il terzo capito e come dimostrano anche le testimonianze dirette dei protagonisti delle giornate dell’agosto 1922 a Parma, di cui l’autore riporta qualche stralcio nel capitolo quarto, raccolte nel 1982 dall’Istituto storico della Resistenza di Parma e dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e confluite nel documentario Le barricate di Parma, di Anna Paola Olivetti e Paola Zanetti (1983). Segue infine una sezione fotografica che dà un volto agli Arditi del popolo e una forma alle barricate di Parma e che arricchisce questo breve, ma interessante libro di Andrea Staid.

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Sta attraversando l’Italia il reading musicato “Arditi del popolo. Le voci dalle barricate” di Andrea Staid. Musiche di Jacopo Tarantino al clarinetto e Jacopo Raimondi al sound design

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La smania fascista per l’impero: a ottant’anni dalla guerra d’Etiopia https://www.carmillaonline.com/2016/03/11/la-smania-fascista-per-limpero-a-ottantanni-dalla-guerra-detiopia/ Fri, 11 Mar 2016 22:30:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29017 di Armando Lancellotti

1936_Carlino_EtiopiaNicola Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015, 271 pagine, € 20,00

L’ultimo libro di Nicola Labanca si apre con una domanda che spesso chi si occupa di memoria storica italiana è costretto a porsi: «perché questa dimenticanza, o questo silenzio?» (p. 7) Come ci è capitato di considerare in altri pezzi pubblicati su Carmilla, quella italiana è una coscienza storica collettiva smemorata e distratta, facilmente portata a collocare in un’area periferica e secondaria della propria memoria, se non addirittura ad abbandonare e nascondere in un [...]]]> di Armando Lancellotti

1936_Carlino_EtiopiaNicola Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015, 271 pagine, € 20,00

L’ultimo libro di Nicola Labanca si apre con una domanda che spesso chi si occupa di memoria storica italiana è costretto a porsi: «perché questa dimenticanza, o questo silenzio?» (p. 7)
Come ci è capitato di considerare in altri pezzi pubblicati su Carmilla, quella italiana è una coscienza storica collettiva smemorata e distratta, facilmente portata a collocare in un’area periferica e secondaria della propria memoria, se non addirittura ad abbandonare e nascondere in un angolo remoto e buio, momenti al contrario fondamentali, essenziali del proprio vissuto, cioè della storia di questo Paese.

La dimenticanza qui presa in considerazione dallo storico riguarda la guerra d’Etiopia, scoppiata e combattuta esattamente ottant’anni fa (1935/’36), ma a differenza di altre ricorrenze dell’anno 2015, come l’inizio della Grande guerra italiana e il settantesimo della Liberazione, sostanzialmente trascurata, se non addirittura ignorata, dall’opinione pubblica, cosa che più in generale accade per l’intera storia del colonialismo italiano otto-novecentesco, affrontata, ricostruita ed interpretata dagli studiosi e da analisi sempre più attente e specifiche, ma sostanzialmente ignorata dall’opinione pubblica, soprattutto nelle sue manifestazioni più brutali ed imbarazzanti; ma non per questo meno pronta a riemergere da dietro le quinte della nostra coscienza storica collettiva, dove abita latente, per modellare luoghi comuni, pregiudizi e giudizi del modo italiano di pensare l’altro, lo straniero, l’africano in particolare.

Il “vuoto di memoria” collettivo risulta in questo caso particolarmente problematico perché riguarda una guerra che, per numerosi – e da Labanca con precisione considerati – motivi, ebbe un’importanza fondamentale per l’Italia fascista, produsse effetti incisivi sugli equilibri internazionali della seconda metà degli anni Trenta, fu organizzata e combattuta in modo per molti aspetti diverso dalle altre guerre coloniali europee e portò alla formazione di un impero coloniale africano fascista e razzista.
Innanzi tutto, come il titolo del libro lascia subito intendere, essa non fu la “guerra dei sette mesi” celebrata dal regime, ma durò molto di più, ben oltre il maggio del 1936 e l’entrata di Badaglio ad Addis Abeba, in quanto proseguì fino all’autunno del 1941, quando le truppe del Commonwealth britannico conquistarono l’AOI (l’Africa orientale italiana), evidenziando quanto velleitari fossero stati i sogni di grandezza imperiale di Mussolini. Una guerra quindi che inizia quattro anni prima del secondo conflitto mondiale, ma la cui conclusione costituisce un episodio di quest’ultimo.
Come scrive Labanca, «essa era iniziata almeno tre volte, e per tre volte dichiarata finita. […] Partita come guerra d’aggressione dello Stato fascista a uno Stato africano indipendente, era iniziata di nuovo ora da parte delle istituzioni ormai dell’Africa orientale italiana contro le popolazioni che non volevano accettare il nuovo dominio coloniale», fatto questo che diede luogo a ininterrotti cicli di operazioni di “polizia coloniale” contro oppositori e resistenti etiopi, «infine era ripresa di nuovo, come capitolo e campagna di una più ampia guerra mondiale». (p. 219)

Ma la guerra italiana in Abissinia fu anche un “evento globale”, sia per gli intrecci gravidi di nefaste conseguenze che stabilì con i contemporanei avvenimenti di un quadro politico internazionale che andava rapidamente predisponendosi per l’esplosione del 1939 – per questo, scrive Labanca, da storici africani ed africanisti è stato sostenuto che la guerra italiana del 1935/’36 sia da considerare come il primo passo della seconda guerra mondiale – sia perché fu osservata con attenzione preoccupata ed ostilità in tutto il mondo e non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, nell’Urss di Stalin, fino alla Cina e al Giappone. Ma nonostante la preoccupazione internazionale dinanzi alla smania mussoliniana per l’impero, le due grandi potenze coloniali europee (Inghilterra e Francia) – e si tratta di un ulteriore motivo di importanza di questa guerra – applicarono quella politica dell’appeasement, che avrebbero poi replicato nei confronti della Germania hitleriana fino alla Conferenza di Monaco compresa.

Labanca copertina EtiopiaMa allora perché a fronte di una così evidente rilevanza, tanto per la storia d’Italia quanto per quella mondiale, la guerra d’Etiopia occupa uno spazio così ridotto della nostra memoria nazionale collettiva? Ci sembra in realtà che la situazione di marcata divergenza tra analisi e ricerche sempre più numerose e sempre più puntuali di studiosi e storici prodotte negli ultimi decenni, da un lato e consapevolezza collettiva vaga ed approssimativa che facilmente muta in sostanziale ignoranza, dall’altro riguardi non solo o in particolar modo la guerra fascista all’Abissinia, ma anche altre pagine rilevanti del nostro passato, come la conquista “liberale” prima e la riconquista fascista poi della Libia, o le campagne di Grecia, Jugoslavia e Russia, la cui memoria storica è altrettanto vaga o quasi esclusivamente concentrata su alcuni aspetti, di solito quelli meno negativi o imbarazzanti per il popolo italiano.

Sul piano dello stato di avanzamento degli studi, Labanca – coerentemente con l’indirizzo dei suoi più recenti interessi che guardano in direzione di un approccio storiografico transnazionale [su Carmilla] – denuncia l’assenza, per il momento, di «una storia della guerra d’Etiopia radicalmente transnazionale, basata sulla conoscenza dell’intreccio della parte italiana e della parte etiopica (e, pro quota, eritrea, somala, araba, ecc)» (p. 21), ma è sulla ricostruzione dei meccanismi e delle ragioni delle dimenticanze e delle lacune della memoria collettiva che il libro si sofferma e si concentra.

Nell’interessante nono ed ultimo capitolo – Ricordare la guerra d’Etiopia – Labanca sostiene che affinché il ricordo di un evento storico si fissi nella memoria collettiva di un popolo occorre un contesto complessivo e generale che lo contenga, un «macro-ricordo (una categoria, una cornice) entro cui poter inserire quello specifico oggetto». (p. 220) Nel caso italiano della guerra in Abissinia, una prima “cornice” di riferimento fu il fascismo stesso, dal 1936 fino alla sua caduta, che la guerra l’aveva voluta e combattuta, ma dopo il 1945 essa risultò del tutto inutilizzabile, eccezion fatta – ovviamente – per i nostalgici più o meno dichiarati. A ciò si aggiunga che la guerra africana rimase schiacciata, finendone ridimensionata, dalla memoria di altri avvenimenti decisamente più importanti per il Paese, come la seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Liberazione, il passaggio alla Repubblica. Ricordi questi che molto meglio si acconciavano al nuovo presente post fascista, repubblicano e democratico rispetto ad una guerra fascista, imperialista e razzista, seguita da una perdita dell’impero che Labanca definisce efficacemente come una «decolonizzazione senza decolonizzazione» (p. 221), essendo avvenuta per mano dei nemici della seconda guerra mondiale (gli inglesi) e non come conseguenza delle mobilitazioni ed insurrezioni popolari degli altri casi di decolonizzazione post ’45.

Anche la mancanza di una “Norimberga italiana”, cioè di un processo internazionale per crimini di guerra, che riguardò non solo la guerra d’Etiopia, ma l’intera seconda guerra mondiale italiana nonostante le richieste dei paesi aggrediti, contribuì ad ottundere la nostra memoria o quanto meno non risvegliò ricordi di un recente passato che conveniva lasciar trascorrere in silenzio. Come conveniva, considera l’autore, anche ai nuovi alleati dell’Italia democratica e in particolare al Regno Unito e alla Francia, ancora a capo di imperi coloniali, per quanto in via di disfacimento. Cosa sarebbe accaduto se le richieste abissine di consegnare i responsabili italiani di crimini di guerra, come Badoglio e Graziani, fossero state accolte? Questo «avrebbe rischiato di aprire un diluvio di analoghe richieste da parte di movimenti anticoloniali o stati decolonizzati. Per salvare se stessa Londra (e di fatto Parigi) salvò anche Roma, dannando Addis Abeba». (p. 222)

Della memoria pubblica della guerra d’Etiopia Labanca propone poi un’analisi e “sistematica” e “diacronica”, individuandone rispettivamente «tre tratti peculiari» e «tre diverse fasi», prima di una quarta, quella di oggi. Il primo tratto specifico consiste nel «silenziamento», cioè – spiega Labanca – nell’aver messo a tacere il più possibile il ricordo della guerra africana, come di altri aspetti e momenti del fascismo; il «secondo tratto è consistito nel guardare al conflitto in Etiopia in un’ottica quanto più possibile di “italiani brava gente”, secondo l’immagine che il Paese si è più volte autoattribuito» (p. 232) e che ha prodotto la distorsione o la dimenticanza anche delle responsabilità italiane nello scatenamento del secondo conflitto mondiale, delle leggi razziali e della collaborazione nello sterminio ebraico, del ricorso all’uso dei gas nell’Etiopia stessa, della costruzione di campi di concentramento in Cirenaica, ma anche altrove, ecc. Il terzo tratto, infine, è il «ridimensionamento», cioè un atteggiamento riduzionistico che tende a minimizzare le responsabilità e la portata storiche, politiche, etiche dei fatti accaduti, «in un quadro di ricordi nostalgici, di tipo nazionalista o parafascista, con venature persino “vittimistiche”». (p. 232)

Passando di seguito alla articolazione in fasi della memoria collettiva della guerra d’Etiopia – fasi la cui variazione è strettamente legata a quella dei contesti politici internazionali e nazionali – Labanca individua la prima nel ventennio che va dall’immediato dopoguerra fino alla grande decolonizzazione internazionale degli anni Sessanta e la ritiene caratterizzata da un sostanziale silenzio che calò sul recente passato coloniale, argomento monopolizzato, di conseguenza, dalla memoria di reduci e nostalgici. Concause di questo atteggiamento omertoso furono, tra le altre, l’incapacità e l’indisponibilità a fare i conti col passato fascista, la mancata epurazione e defascistizzazione del Paese e dell’apparato burocratico, militare e ministeriale, il tentativo di riottenere le vecchie colonie e l’assunzione dell’amministrazione fiduciaria della Somalia fino al 1960, le direttive strategiche di politica economica energetica che vedevano l’Italia impegnata a stabilire buoni rapporti col Medio Oriente.

L’inizio della seconda fase viene fatto coincidere con la pubblicazione nel 1965 del libro di Angelo Del Boca, La guerra d’Abissinia, «nel clima generale dell’entusiasmo per la decolonizzazione» (p. 235). Ebbero così inizio studi critici e scientifici sul colonialismo italiano e sul fascismo più in generale e alle ricerche di Del Boca si aggiunsero quelle di altri storici, tra i quali è doveroso ricordare Giorgio Rochat, che se da un lato impostarono un primo dibattito, anche pubblico, su questi temi, dall’altro però non furono in grado di scalfire il coriaceo mito riduzionistico ed autoassolutorio degli “italiani brava gente”, che connotò la lettura più diffusa del passato coloniale italiano nel ventennio tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta. Si tratta di una «visione del fascismo e del colonialismo “da brava gente”» che, seppur in misura minore rispetto al passato e nonostante gli esiti della ricerca storica, «continua ad essere accreditata in più sedi». (p. 233)

Ancora un altro gruppo di scritti di Del Boca ha dato inizio – sostiene Labanca – alla terza fase della memoria collettiva nazionale della guerra in Abissinia, fase contraddistinta da un atteggiamento più critico e dialettico. Il Negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re (1995), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia (1997), Italiani, brava gente? Un mito duro a morire (2004) sono gli scritti di Del Boca che innescarono, accompagnarono e seguirono la dura polemica pubblica tra Del Boca stesso ed Indro Montanelli, polemica che a sua volta diede un contributo determinante alla decisione del Ministro della Difesa Domenico Corcione di ammettere per la prima volta l’uso da parte italiana di gas e altri aggressivi chimici durante la guerra d’Etiopia. Poteva così prendere il via un «percorso di riconquista della memoria e di maturazione del paese rispetto al passato coloniale nazionale. Il senso di tale percorso sta nella progressiva accettazione da parte degli italiani di un passato complesso, non solo da brava gente, in Etiopia e in genere nel colonialismo». (p. 238)

E con i primi anni del XXI secolo si apre la quarta fase, quella attuale, che Labanca definisce “postcoloniale”, sia perché le generazioni di coloro che la guerra d’Etiopia l’hanno combattuta o che hanno vissuto in un’Italia “imperiale e coloniale” sono per lo più scomparse, sia perché l’assetto politico mondiale ha quasi superato il ciclo storico plurisecolare del dominio coloniale europeo del resto del pianeta, sia perché – scrive Labanca – «da un paio di decenni si è ormai affermata una visione della storia che si è appunto definita e proclamata postcoloniale» (p. 241), la quale muove dall’esigenza di operare una profonda decostruzione critica della cultura e del pensiero coloniali. Un approccio che, tra l’altro, intende muovere alla ricerca dei lasciti, dei residui, delle eredità palesi o implicite che il passato coloniale ha tramandato all’immaginario e alla mentalità odierni. Residui del passato che, sottolinea l’autore, è possibile trovare un po’ ovunque: «nella politica, per come essa tratta oggi i migranti; nei media, per come essi trasmettono e moltiplicano lo scontro di civiltà; nelle menti degli italiani, per come essi siano ancora impregnate di stereotipi e di pregiudizi razziali, chiaro retaggio dell’epoca coloniale». (p.242)

All’interno di questa cornice complessiva, il cui perimetro è dato dal riconoscimento dell’importanza storica fondamentale della guerra d’Etiopia e dall’esame delle modalità e delle ragioni della costruzione della sua memoria storica collettiva, Labanca colloca il suo articolato studio sulla guerra italiana in Abissinia, la cui tesi di fondo ci sembra possa essere colta nella affermazione del carattere essenzialmente fascista di questa guerra, delle sue motivazioni, delle sue finalità, delle modalità con cui fu combattuta, degli effetti che produsse.
È una smania per l’impero quella che spinge Mussolini e il regime verso la guerra d’aggressione all’antico impero africano e per ragioni di prestigio sia internazionale sia interno: negli anni Trenta del Novecento, l’Italia fascista, che «era tanto un latecomer quanto un junior partner dell’imperialismo coloniale europeo» (p. 36), voleva la “grande impresa”, per trionfare laddove l’Italia liberale aveva fallito, che riportasse – per dirla con Mussolini stesso – “l’impero sui colli fatali di Roma”, che consentisse di gettare un ponte lungo un paio di millenni tra la Roma dei Cesari e la Roma fascista. Per tutti questi motivi la guerra all’impero del Negus non poteva essere una “normale” spedizione coloniale, ma doveva assumere un chiaro ed inequivocabile carattere fascista.

La scelta almeno iniziale dell’anziano quadrumviro della marcia su Roma, De Bono, poi sostituito dal più esperto Badoglio, come comandante dell’intero corpo di spedizione e del fronte nord in particolare a cui si aggiungeva sul fronte sud, quello somalo, il generale Graziani, modello del soldato e dell’ufficiale che il regime avrebbe voluto replicare e diffondere, dichiaratamente fascista, a tal punto distintosi per ferocia nella “riconquista” della Cirenaica da meritarsi l’epiteto di “macellaio degli arabi”, dimostra come quella in Etiopia non avrebbe dovuto essere una piccola guerra coloniale, ma una grossa guerra fascista e poi nazionale e moderna.
Da grande guerra moderna fu il dispiegamento imponente di forze che tra soldati dell’esercito, reparti della MVSN – la cui presenza accentuava il tratto politico-ideologico dell’impresa – e ascari arrivò a circa 5/600.000 uomini: «[…] grosso modo 300 mila soldati regolari, 100 mila camicie nere, 100 mila lavoratori italiani militarizzati, 100 mila e più ascari (truppe indigene regolari)». (p. 87) «Non vi era stata nessuna precedente guerra coloniale che fosse costata un simile impegno alla potenza europea che l’aveva lanciata. L’unico possibile paragone può andare alla guerra sudafricana (1899-1902), o guerra angloboera […]. Ma in quel caso era in gioco una posta straordinaria per Londra: il più grande impero coloniale europeo, all’apice del suo potere […]». (p. 75)

Tutt’altra era la situazione italiana, che intraprendeva nel 1935 una guerra “anacronistica”, proprio nel momento in cui l’espansionismo coloniale europeo si era fermato, stava avvenendo il passaggio dalla conquista alla valorizzazione economica e dalla gestione militare a quella civile dei territori coloniali e i governi europei dimostravano qualche disponibilità alla concessione di limitate autonomie per fronteggiare la crescita dei movimenti nazionalisti ed indipendentisti delle colonie. Questa guerra “anacronistica” doveva essere anche “nazionale”, nel senso che doveva coinvolgere l’intera nazione e per questo fine si prodigò l’apparato propagandistico del regime totalitario fascista, che diede un fondamentale contributo alla attribuzione di caratteri e contenuti precipuamente fascisti al conflitto: «un’impostazione dichiaratamente razzista, un’accentuazione nazionalistica e classicistica (con le pretese di riallacciarsi all’antica Roma), un’intonazione populistica (le colonie come luogo dell’espansione del lavoro italiano)». (p. 61)

Una “guerra fascista”, quindi, di cui Labanca individua almeno sei tratti distintivi ed innanzi tutto il ruolo determinante ricoperto da Mussolini sia per quanto riguarda la progettazione e la decisione del conflitto sia per quel che concerne la sua conduzione, come le direttive inviate dal duce stesso a Lessona, Badoglio o Graziani e contenenti l’assenso all’uso massiccio di gas ed aggressivi chimici dimostrano. Il secondo tratto essenziale è individuato nel carattere “totalitario” di una guerra per combattere la quale il regime si era scontrato con la Società delle Nazioni, per quanto blande e sostanzialmente ininfluenti fossero state le sanzioni da questa imposte all’Italia, e con la quale «metteva in chiaro il proprio programma di politica estera: bellicista, revisionista, antipacifista, “antisocietario”, in guerra con il “wilsonismo democratico” e con il nazionalismo che stava emergendo dai paesi colonizzati. Più che di un conflitto coloniale si trattava, insomma, di una guerra altamente ideologica». (p. 85)

Il terzo punto rilevante è colto da Labanca nel razzismo che fa da denominatore comune a tutta la guerra, all’imponente campagna propagandistica che l’accompagnò e ai cinque anni di governo italiano del territorio. Un quarto elemento distintivo, conseguenza dei due precedenti – il “totalitarismo” della guerra e il disprezzo del nemico – consiste nella volontà di annientare l’impero del Negus, non solo abbattendo quest’ultimo, ma anche smantellando le strutture del paese: la classe dirigente, la chiesa, l’intellettualità, ecc. Il quinto tratto peculiare Labanca lo individua – come già spiegato prima – nell’impiego di un esercito e di mezzi da grande guerra moderna e non da limitata impresa coloniale; infine, il sesto elemento propriamente fascista della guerra d’Abissinia fu il tratto “popolare” che il regime voleva attribuire all’impresa, sia dal punto di vista del consenso che intendeva raccogliere attraverso propaganda e repressione, sia dal punto di vista della effettiva partecipazione “nazionale”, di “massa” alla spedizione: un paese, l’Italia, che contava circa 42 milioni di abitanti, ne inviava pressappoco 500 mila in Africa.

Dei vari argomenti Labanca tratta poi nei diversi capitoli del libro, come per esempio nel § 2, La propaganda e la questione del consenso, del cap. IV, oppure nel cap. VI, L’impero e le leggi razziste, 1936-1937 e nel cap. VII, I cicli operativi di grande polizia coloniale, 1936-1940.
Il discorso sull’allestimento della campagna propagandistica a sostegno della guerra non può prescindere dall’analisi della conosciutissima “giornata della fede” (18 dicembre 1935) e conseguente “dono dell’oro alla patria”. Anche in questo caso, come in quello del dispiegamento della forza militare, per estensione ed intensità lo sforzo propagandistico del regime fascista è da paragonarsi a quello sostenuto dalle maggiori potenze nei due conflitti mondiali più che alle politiche più modeste di mobilitazione dell’opinione pubblica a sostegno delle imprese coloniali di paesi quali la Francia o l’Inghilterra. Insomma il fascismo fece di tutto per forgiare una nuova mentalità che fosse capace di concepire il ruolo dell’Italia dal punto di visto del suo presunto nonché preteso “destino imperiale”.

Ma la parte più interessante del discorso di Labanca riguarda il sintetico richiamo al dibattito storiografico sul problema del “consenso” alla guerra d’Etiopia, in particolare e al regime, più in generale, con il quale l’autore ridiscute la tanto dibattuta tesi defeliciana del 1975 (Intervista sul fascismo) della guerra in Abissinia come “capolavoro del consenso”, giudicato dallo storico reatino come crescente nell’arco temporale che andò dai Patti lateranensi alla guerra africana. In realtà, senza negare che vi sia stata nel 1935-’36 una «emozione grande e collettiva» (p. 115), cioè un coinvolgimento diffuso del popolo italiano nelle vicende belliche, le ricerche degli ultimi decenni dimostrano – sostiene Labanca – come la categoria del “consenso” debba essere applicata al caso abissino in particolare e più in generale al fascismo, come ad ogni altro totalitarismo, con estrema cautela ed in modo altrettanto articolato e critico. Occorre pertanto tener conto di alcuni fattori: la predisposizione degli italiani ad assorbire una propaganda filocoloniale (e razzista), resa possibile dalle precedenti campagne d’opinione già dell’Italia liberale a supporto delle imprese africane (da questo punto di vista il caso della guerra italo-turca per la Libia è il più emblematico); la diversificazione nel tempo e nello spazio e per classe sociale del consenso alla guerra abissina, che variò a seconda dei momenti tra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936, che fu differente da regione a regione e presso i diversi ceti o classi sociali; infine la consapevolezza che la misurazione della “spontaneità” del consenso in un regime totalitario, portato per sua natura a produrlo forzatamente, ad estorcerlo ed imporlo, è quanto mai complessa.

Di certo, però, anche la macchina della propaganda e del consenso predisposta dal fascismo per accompagnare la conquista dell’impero del Negus contribuì a costruire quella mentalità da “razza superiore”, quell’atteggiamento di disprezzo nei confronti della popolazione indigena che a sua volta fece da supporto alle efferatezze e ai crimini compiuti, sia a guerra in corso (ancora ricordiamo l’uso dei gas), sia dopo la guerra, con le “operazioni di polizia coloniale”, ossia la violentissima repressione della resistenza locale e con la legislazione razziale.

Finita la guerra di conquista con l’entrata ad Addis Abeba, ne cominciava (o continuava) un’altra contro l’insorgere di un movimento di resistenza abissino e, almeno inizialmente, il principale protagonista fu il generale Graziani, a cui Badoglio, rientrando in Italia, lasciava le cariche di viceré d’Etiopia e governatore generale dell’AOI. E «Graziani dette la caccia alle formazioni resistenti. Comandate da alcuni noti ras, queste disturbavano le comunicazioni, tenevano rapporti con le popolazioni, rendevano ancora presente a livello locale quel “vecchio ordine negussita” che il fascismo affermava di aver sradicato. Per ottenere i loro scopi le colonne italiane ebbero carta bianca: villaggi incendiati, raccolti distrutti, contro le formazioni di resistenti e contro le popolazioni fu condotto ogni genere di guerra regolare e irregolare. […] Quando non furono i fucili o le mitragliatrici delle esecuzioni sommarie, furono le carceri e i campi di internamento a lavorare. Fra questi, tristemente noto divenne quello di Danane, in Somalia, in cui si dice che abbiano perso la vita migliaia di internati». (p. 156)

L’episodio tanto più noto quanto più efferato fu certamente la mattanza scatenata dopo l’attentato a Graziani del 19 febbraio 1937 e conclusasi solo tre mesi dopo, a fine maggio, con un numero ancora incerto, ma di diverse migliaia, di vittime e che culminò nella strage di Debrà Libanos. [Oltre alle pagine del libro di Labanca, per la ricostruzione delle vicende legate a Debrà Libanos ci permettiamo di rimandare al nostro Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica] All’inizio del 1938, Mussolini, irritato per l’inefficacia della campagna di sradicamento della resistenza etiopica condotta da Graziani, decise di richiamarlo e di sostituirlo con un rappresentate della famiglia reale: il duca Amedeo di Savoia-Aosta. Con l’arrivo di quest’ultimo alcune cose cambiarono e migliorarono e alle «fucilazioni sommarie si sostituirono i processi, Danane fu lentamente svuotata, gran parte dei notabili deportati in Italia furono fatti tornare: si sperava che il tempo lavorasse per la solidità dell’impero». (p. 184) Non si può però tacere il fatto – osserva opportunamente Labanca – che fu proprio durante il periodo di governo del duca d’Aosta che la legislazione razziale fu messa in atto nell’AOI e che le operazioni di polizia coloniale continuarono, con le conseguenti violenze, in alcuni casi trasformatesi in strage, come in occasione della «feroce repressione condotta fra il 1° marzo e il 15 aprile 1939 di fronte a una grotta a Zeret, […], circa 200 chilometri a nord di Addis Abeba». (p. 193)

La legislazione razziale, appunto, introdotta con r.d.l del 19 aprile 1937, di seguito tradotto in legge il 30 dicembre 1937, e recante il titolo: Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi. Labanca, facendo riferimento a suoi precedenti studi in materia come a quelli di Enzo Collotti e Michele Sarfatti, osserva come la legislazione razzista in AOI, non solo abbia introdotto un odioso regime di apartheid, del tutto simile a quello sudafricano, non solo abbia perseguito l’intento di impedire il meticciato, la mescolanza per via sessuale e coniugale tra italiani ed africani, non solo abbia applicato i principi del peggior razzismo biologico, ma abbia anche fatto da presupposto teorico e pratico al successivo r.d.l del 17 novembre 1938, cioè ai Provvedimenti per la difesa della razza italiana e al conseguente antisemitismo. Aspetto, quest’ultimo, di fondamentale rilevanza in sede di analisi della genesi e dello sviluppo del razzismo e dell’antisemitismo fascisti, in quanto consente di ostacolare le tesi “riduzionistiche” che vorrebbero leggere l’antisemitismo italiano come conseguenza di una imposizione o dettatura da parte dell’alleato tedesco.

Per concludere, come dimostra il libro qui proposto di Labanca, un’opera che in relativamente pochi capitoli e pagine riesce a trattare con grande ampiezza di prospettiva, ricchezza di temi ed aspetti trattati, profondità di analisi una questione storica così complessa come la guerra italiana contro l’Etiopia, lo stato di avanzamento degli studi su questo argomento è ormai molto avanzato e sicuramente si arricchirà ulteriormente nei prossimi anni; ma, allora, ancor più grave e problematica risulta la sostanziale ignoranza collettiva e pubblica di queste pagine di storia italiana. Infatti, scrive l’autore, «mentre l’opinione pubblica e gli italiani appaiono sempre più distanti e meno informati, gli studiosi hanno invece riscoperto la dimensione coloniale della storia d’Italia». (p. 242)
A questa divergenza sempre più profonda e non certo positiva tra ricerca storica e coscienza storica collettiva si aggiunge poi un fenomeno recente che Labanca registra in conclusione del suo lavoro e che è da ritenersi preoccupante, anche alla luce della situazione politica internazionale attuale e cioè il fatto che «in questi ultimi anni si è diffuso nelle opinioni pubbliche europee degli stati già potenze coloniali un sentimento vagamente ma corposamente nostalgico nei confronti dell’ormai lontano passato imperiale. Attraverso la “nostalgia coloniale, la “colonial-algia”, l’Europa ricorda così quando in effetti era potente e dominava il mondo, cosa che non avviene più oggi». (p.243)

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Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica https://www.carmillaonline.com/2015/09/23/chi-ricorda-debra-libanos-come-un-falso-mito-cancella-la-memoria-storica/ Wed, 23 Sep 2015 21:30:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25059 di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità [...]]]> di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità dell’accaduto, prendevano una decisione di fatto non più differibile, visti i cospicui risultati raccolti nel frattempo dalla ricerca storica nonostante i numerosi ostacoli incontrati e, spesso, da quelle stesse istituzioni frapposti, e abbandonavano, quindi, quell’imbarazzante atteggiamento omertoso che aveva contribuito in modo decisivo a censurare e ad allontanare dall’orizzonte della memoria collettiva italiana i crimini coloniali ed in particolare quelli commessi in A.O.I. (Africa Orientale Italiana). Ben tre interpellanze parlamentari e il lungo ed aspro, nonché noto, confronto polemico, consumatosi a mezzo stampa, tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli avevano finalmente acceso e puntato i riflettori di una parte almeno dell’opinione pubblica sul passato coloniale italiano, su pagine di “storia patria” in buona sostanza sconosciute o quasi a molti italiani. Il successore alla Difesa di Domenico Corcione, cioè Beniamino Andreatta, ministro del primo governo Prodi, si trovò ad affrontare nel 1997 lo scandalo dei crimini commessi dai soldati italiani in Somalia durante la missione ONU nota come Restore Hope, a cui l’Italia partecipò con un impiego di uomini, denominato Missione Ibis, inferiore solo a quello statunitense e con cui non si lasciò sfuggire l’occasione né di rimettere piede in una sua ex colonia del Corno d’Africa, né di macchiarsi di violenze e crimini contro civili, come già accaduto in epoca fascista.

2Si potrebbe pertanto supporre che a partire da queste vicende della metà dagli anni ’90, ricostruite ed analizzate nel dettaglio anche da Simone Belladonna nel suo libro, sia andato via via aumentando l’interesse per l’imperialismo italiano e soprattutto per gli aspetti peggiori e criminali di esso (o “più criminali”, si potrebbe dire, essendo un’aggressione coloniale già in quanto tale definibile, oggi, come un crimine contro l’umanità, se si applica l’art.7 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998) e che all’infaticabile e meritorio lavoro di ricerca storica di Angelo Del Boca innanzi tutto, che già a metà degli anni ’60 faceva uscire il suo primo libro sulla guerra d’Abissinia, e di Giorgio Rochat in secondo luogo, si siano aggiunti gli sforzi di altri storici e ricercatori. Ed in parte è quanto è accaduto, poiché al maggior africanista italiano e all’esperto studioso di storia militare sopra citati si sono affiancati, sia prima sia dopo le ammissioni governative del 1996, altri storici che con i loro lavori hanno di molto ampliato ed arricchito, per quantità e qualità, la conoscenza sia della guerra d’Etiopia e dell’uso di gas e armi chimiche in particolare, sia, più in generale, di altre pagine cupe della nostra storia recente: l’imperialismo italiano nel suo complesso e i crimini dalle nostre truppe commessi non solo in Abissinia, ma anche in Libia, oppure nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale; i campi di internamento per civili su suolo italiano o nelle zone di occupazione militare, ecc. Per citarne alcuni, con la consapevolezza di, involontariamente, dimenticarne altri, si possono ricordare i lavori di: A. Aruffo, L. Borgomaneri, D. Bidussa, A. Burgio, I. Campbell, S. Capogreco, M. Dominioni, F. Focardi, N. Labanca, G. Oliva, D. Rodogno, E. Salerno ed anche S. Belladonna, il cui libro da poco dato alle stampe costituisce l’occasione per la stesura di queste riflessioni.

3Ma se dall’ambito ristretto degli addetti ai lavori, degli storici e dei lettori interessati al passato coloniale italiano otto-novecentesco ci spostiamo in direzione dell’opinione pubblica, da intendersi in questo caso come consapevolezza e conoscenza diffuse dell’imperialismo italiano, delle sue guerre e delle sue politiche di repressione e occupazione, allora lo scenario cambia bruscamente e si delinea un quadro di sostanziale ignoranza, formatasi nel corso degli ultimi settant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla perdita dell’impero; insipienza che va addirittura oltre l’amnesia o il ricordo sfocato e impreciso di un passato che inevitabilmente si allontana sempre più, perché consiste in una sostanziale non conoscenza di quel passato, cioè di un pezzo della nostra storia lungo una sessantina d’anni, quelli che separano l’Italia di Depretis da quella di Mussolini e del secondo conflitto mondiale, in quanto fu a partire dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla guerra d’Etiopia e conseguente proclamazione dell’impero del 1935/’36 che l’Italia interpretò a più riprese una politica imperialistica di conquista coloniale dell’agognato “posto al sole” in terra d’Africa.
E non si trattò, come la vulgata più diffusa vorrebbe, di un colonialismo minore, più proclamato che praticato, ovvero, addirittura, bonario e benevolo, nonché – come ogni colonialismo occidentale ha sempre preteso di essere – civilizzatore. Per ambizioni e finalità, non ebbe molto da invidiare a quello di altre potenze europee del tempo e il suo carattere “tardivo” fu motivato dall’altrettanto tarda unificazione nazionale, un po’ come accadde all’imperialismo tedesco, bismarckiano prima e guglielmino poi. Prese le mosse, la conquista italiana di un “posto al sole”, negli anni ’80 dell’Ottocento e conobbe un momento apicale con la guerra italo-turca per la Libia del 1911/’12 e, quindi, nella sua fase “liberale” e non ancora fascista, si sviluppò negli stessi decenni in cui, per fare qualche esempio, la Francia si impossessò di Tunisia, Indocina, Marocco e l’Inghilterra prese il controllo di Suez e dell’Egitto, tasselli essenziali e strategici dei rispettivi imperi. Certamente i risultati italiani furono di ben minore portata, ma questo lo si dovette soprattutto a rapporti di forza nello scacchiere internazionale ed africano nei quali l’Italia era la parte debole, non certo alle intenzioni dei governi italiani, della classe dirigente liberale e dei settori del mondo economico coinvolti, soprattutto dai tempi di Crispi in poi. Per farsi largo tra le potenze del tempo, l’Italia intraprese due grandi guerre coloniali, che aggiunsero ulteriori elementi di criticità ai già incrinati e logori rapporti dei rispettivi scenari internazionali, che, pochi anni dopo l’una e l’altra guerra italiana, avrebbero condotto ai due conflitti mondiali: si tratta della già citata guerra di Libia e, ovviamente, di quella d’Etiopia. Ma il numero delle guerre potrebbe raddoppiare se si considera che tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, l’Italia – già fascista – fu impegnata nella riconquista di Tripolitania e Cirenaica e che quella del 1935/’36 fu, in realtà, la seconda guerra per l’Abissinia, preceduta da quella crispina, conclusasi con la disfatta di Adua del 1896, che costò più vittime di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. La mussoliniana aggressione dell’impero etiope, poi, fu realizzata con un dispiegamento di uomini, mezzi, forze mai visto prima in una guerra africana o coloniale, tanto che, come ricorda Belladonna (S. Belladonna, cit, p.19) sulla scorta delle analisi di G. Rochat, si deve parlare di una guerra “nazionale”, non solo coloniale. «Guerra coloniale voleva dire un corpo di spedizione piccolo con molte truppe africane, obiettivi limitati e tempi lunghi, poca pubblicità e scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica (come la riconquista della Libia). Mandare centinaia di migliaia di soldati invece voleva dire toccare direttamente tutti gli ambienti: ogni rione, ogni parrocchia, ogni villaggio avrebbe avuto i suoi “ragazzi di leva”. Voleva dire mobilitare la grande macchina propagandistica del regime, tutti i giornali, le scuole, i parroci, le industrie. Appunto una guerra “nazionale” […]» (G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, pp.25-26).

E pertanto non solo per aspirazioni ed obiettivi politici o per mezzi ed uomini impiegati quello italiano non fu un colonialismo “minore”, ma anche per coinvolgimento, via propagandistica, dell’opinione pubblica e dell’intero paese. Se il caso etiope, sopra ricordato da Rochat, è il più evidente, poiché architettato e messo in opera dalla macchina della propaganda di un regime totalitario, per sua natura avvezzo al modellamento coercitivo del pensare collettivo e pubblico, non meno importante fu il caso della sbornia nazional-colonialistica degli anni attorno alla guerra di Libia, che forgiò i capisaldi dell’ideologia nazionalistica che poi traslò nell’interventismo del 1914/’15, e di seguito nel fascismo e che ripropose, sostanzialmente immutate, le sue parole d’ordine anche nel 1935/’36.

Sulla scorta di queste, seppur sbrigative, considerazioni, verrebbe da chiedersi perché allora quello italiano sia dagli italiani stessi considerato un colonialismo di rango inferiore e magari un po’ “straccione” o perché, peggio ancora, esso sia così poco ricordato e conosciuto.
Se poi si apre il capitolo dei crimini coloniali italiani le cose peggiorano ulteriormente e una spessa coltre di nubi sopraggiunge ed avvolgendoli nasconde i fatti più incresciosi e i comportamenti più violenti e criminali di cui si sono rese responsabili le forze armate italiane nelle colonie. E’ come se un fitto ed impenetrabile muro di nebbia impedisse alla coscienza collettiva degli italiani di vedere il proprio passato e le permettesse di vivere pacificata nella serena ignoranza della propria storia rimossa. A tal proposito basta gettare uno sguardo all’editoria scolastica, per rendersi conto come dei crimini di guerra italiani, dei gas in Etiopia, e prima ancora dei campi di concentramento libici in cui fu deportato il 50% della popolazione della Cirenaica, della brutale repressione contro la resistenza prima libica poi abissina, dei campi di internamento nei Balcani aggrediti e occupati insieme all’alleato nazista, ecc quasi non ci sia traccia. Pochi i manuali di storia che dedicano più di qualche riga o paragrafo a questi argomenti e quasi mai entrando nelle questioni con sufficiente profondità di prospettiva e accuratezza di analisi.

4E le cose non migliorano se passiamo dalla manualistica scolastica ad altri mezzi e prodotti culturali e di informazione: giornali, televisione, produzione documentaristica e cinematografica.
E allora gli studenti e gli italiani in generale conoscono qualcosa – sempre troppo poco, certo, ma comunque qualcosa – di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine, ma ignorano per lo più la strage di Debrà Libanòs, in cui la furia di fascisti e soldati italiani si scatenò in una rappresaglia che fu una vera e propria mattanza, per punire l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il generale Graziani, viceré di Etiopia dopo il rientro di Badoglio a Roma a guerra conclusa: prima venne la popolazione civile di Addis Abeba, che subì un pogrom squadrista che durò tre giorni; poi i notabili dell’etnia amhara, fucilati o deportati nei campi di concentramento, in particolare a Nocra in Eritrea e a Danane in Somalia; poi i cantastorie e gli indovini, accusati di propagare notizie anti italiane di villaggio in villaggio, che vennero arrestati e uccisi ed infine i monaci, i docenti di teologia, gli studenti del convento copto di Debrà Libanòs, considerato il centro nevralgico della resistenza abissina ed anche il luogo in cui gli attentatori fuggiaschi avrebbero trovato rifugio ed aiuto. [Per i fatti di Debrà Libanòs si veda, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005]

Se ci limitiamo anche solo all’episodio culminante del monastero, il numero delle vittime va da un minimo di 1400 circa a un massimo di 2000 circa, eliminate secondo modalità e logiche che non presentano sostanziali differenze da quelle delle cosiddette “eliminazioni caotiche” degli Einsatzkommandos nazisti sul fronte orientale e contro gli ebrei sovietici, o da quelle delle rappresaglie stragiste dagli stessi tedeschi utilizzate per reprimere la resistenza partigiana nell’Europa occupata ed anche in Italia. Questa la sequenza delle fasi principali dello sterminio: controllo militare del luogo, rastrellamento e concentramento delle vittime, trasporto con camion delle stesse in un luogo prescelto per l’esecuzione di massa, la piana di Laga Wolde non lontana dal monastero, uccisione tramite fucilazione e ammassamento dei cadaveri in fosse comuni. E non solo il modus operandi, ma anche la logica e le finalità che mossero i fascisti e i soldati italiani in Etiopia non differivano da quelle che avrebbero mosso i nazisti qualche anno dopo: repressione vendicativa della popolazione civile rea di collaborazione con i resistenti, rottura dei collegamenti tra partigiani e civili, governo e controllo del territorio tramite il terrore, dimostrazione di forza brutale.
E ancora, risulta difficile rilevare essenziali differenze tra gli ordini impartiti, tra gli altri, dal colonnello Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine e le decisioni prese dal governatore del Regno del Montenegro, generale Alessandro Pirzio Biroli, che nel giugno del 1943, come rappresaglia per l’uccisione presso Podgorica da parte dei partigiani di 9 italiani del 383° reggimento di fanteria, fece fucilare 180 ostaggi, secondo una proporzione di 1 a 20, il doppio di quella applicata a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo1944. Ma di queste “Fosse Ardeatine jugoslave”, che ci vedono coinvolti in qualità di carnefici e non di vittime, non c’è memoria. [Per la repressione italiana della resistenza partigiana in Jugoslavia si vedano, tra gli altri: A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit; G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2003]

E, per aggiungere un altro ed ultimo esempio tra i tanti possibili di questa sperequazione della memoria storica, è grosso modo noto a tutti gli italiani, anche grazie alla ricca ed ottima produzione cinematografica americana, l’uso massiccio da parte statunitense di defoglianti durante la guerra del Vietnam, ma pochi in Italia sanno che una trentina di anni prima il Regio Esercito italiano avvelenò la popolazione, gli animali e la vegetazione dell’Etiopia con tonnellate di ordigni caricati con iprite o arsina.

5Ma quali sono allora le cause e i motivi di questa sperequazione della memoria, come poco sopra è stata definita, che porta la coscienza collettiva di un popolo, quello italiano, a conoscere e commemorare, come è doveroso e fondamentale, i crimini di guerra subiti, ma ad allontanare dal piano del proprio orizzonte visivo quelli compiuti?
Che cosa, dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, ha impedito e continua ad impedirci di impostare un rapporto con il nostro passato recente che sulla base di una verità storica seriamente ricostruita permetta di fare di quel passato stesso, per quanto scomodo o spiacevole possa essere, un tassello, un mattone per costruire un’identità storica collettiva consapevole e critica?
La ricerca storica procede nel suo lavoro di scavo e di ricostruzione, di indagine, di spiegazione e comprensione, ma non riesce a fare breccia nella coscienza collettiva, non è capace di sedimentarsi in essa perché si scontra con l’ostruzionismo pervicace di un mito collettivo, di una leggenda a cui, consciamente o inconsciamente, teniamo più che ad ogni altra immagine di noi stessi: la leggenda del “buon italiano”, degli “italiani, brava gente”. [Si vedano a tal riguardo, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit.; S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004]

Si tratta di una rappresentazione collettiva ampiamente auto assolutoria e rassicurante secondo la quale l’italiano – per indole, carattere o storia – non sarebbe capace di atti efferati, di crudeltà e crimini e, pertanto, anche in tempo di guerra, sarebbe mite, bonario e tollerante, sempre ben disposto anche nei confronti del nemico, se non addirittura sentimentale e comunque sempre umano. Uno stereotipo in piena regola, costruito su misura come un abito sartoriale, tagliato e cucito da mani esperte per le migliori occasioni e per le foto in posa.
Un’autorappresentazione fantasiosa, tanto deformata quanto a sua volta deformante – di cui in seguito verranno indicate per sommi capi genesi e ragioni – che dal dopoguerra è andata progressivamente radicandosi, innervandosi per divenire infine contenuto e forma essenziali dell’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso.
Da simili premesse, quali conseguenze? Numerose e tutte venefiche, in quanto travisano la realtà e producono, nell’ordine, falsità, oblio ed ignoranza. E pertanto il colonialismo italiano sarebbe stato un “colonialismo umanitario”, che costruiva ponti, pozzi e strade, quasi più missionario che conquistatore, che esportava – non violava – civiltà. Proprio come vuole il più inattaccabile degli stereotipi a supporto dell’ideologia imperialistica, quello della missione civilizzatrice, del “fardello dell’uomo bianco”, che nelle sue varianti ha resistito, e resiste, ben oltre l’età storica del colonialismo. Sullo sfondo di una visione così edulcorata della presenza italiana in Africa non c’è posto per crimini, violenze o stragi, che risultano conseguentemente minimizzati, quando non totalmente rimossi. E il paradigma di pensiero si sposta facilmente dall’Africa all’Europa, ai Balcani o al fronte russo, dove, ancora una volta i crimini compiuti vengono dimenticati o addirittura – è il caso dell’ARMIR – responsabilità e ruoli vengono capovolti e i soldati italiani da “invasori” diventano “vittime”. [Si veda a tal proposito Th. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009]

Storture e travisamenti diventano riduzionismo e sfiorano il negazionismo quando si tocca la delicata questione del razzismo, che non riguarderebbe, se non limitatamente e in forme sempre blande, l’indole italiana, senza che di questa edulcorata lettura del fenomeno si possano trovare riscontri, dati e fatti comprovanti e a fronte, invece, delle Leggi razziali e antisemite del ’38 e dei provvedimenti legislativi segregazionisti e razzisti introdotti in A.O.I nel 1936 e 1937, che non solo mostrano come l’atteggiamento degli italiani in Etiopia fosse tutt’altro che fraterno e benevolo nei confronti della popolazione africana, ma anche dimostrano, scavalcando e confutando facilmente le interpretazioni minimaliste del razzismo italiano che immancabilmente lo vorrebbero spiegare come diretta emanazione e imposizione di Berlino su Roma, che esso conobbe invece una genesi e sviluppi propri e complessivamente autonomi dall’antisemitismo tedesco e collocabili per l’appunto in terra africana. [Si consulti E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2003]

E allora anche il ricorso ai campi di concentramento non rientrerebbe nelle modalità propriamente italiane di esercitare il potere, reprimere e combattere i nemici, nonostante la costruzione di campi, per condizioni di internamento terribili, in Libia prima ancora che sul territorio nazionale o nelle zone di occupazione in Jugoslavia. Il lager diventa quindi una esclusiva dei nazisti, che, per bilanciamento complementare del mito del “buon italiano”, assurgono a mito negativo, quello del “tedesco malvagio”, per indole o per tratto etnico-nazionale. [Si consultino, tra gli altri, E. Collotti, L. Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia in guerra, Ediesse, Roma, 1996; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, Roma-Bari, 2013]

6-1Di fronte ad un così ben articolato armamentario di distorsioni e banalizzazioni storiche, i tentativi non tanto di fare luce sui crimini coloniali italiani, da questo punto di vista un cospicuo lavoro è già stato e continua ad essere svolto, ma piuttosto quelli di divulgare i risultati della ricerca, affinché possano divenire parte essenziale di una autocoscienza storica nazionale consapevole e critica, sembrano quasi sempre destinati alla sconfitta. Tale è la resistenza opposta dal meccanismo di rimozione censoria del “buon italiano”. Ovviamente quello italiano non è l’unico caso di memoria storica collettiva di problematica incubazione e di distorta e gravemente parziale formazione: ne sono un esempio le memorie conflittuali che in Spagna si confrontano davanti al passato franchista e ai crimini dai nazionalisti compiuti, e poi negati, durante la guerra civile ed immediatamente dopo, in un paese in cui la fine del regime si è associata alla continuità istituzionale per mezzo della monarchia. Ma il confronto più significativo va fatto con la Germania, che, pur avendo dovuto fare i conti subito dopo la fine della guerra con il macigno dell’allora recente passato nazista e dei suoi crimini contro l’umanità, aveva mantenuto e coltivato per decenni un proprio mito, anch’esso auto assolutorio e rassicurante, quello del “blasone immacolato” della Wehrmacht. A partire dall’immediato dopoguerra era stata ripetutamente proposta la teoria secondo cui l’esercito si sarebbe comportato onorevolmente e sarebbe uscito “pulito” dal secondo conflitto mondiale e, soprattutto, dal nazismo. Esso non avrebbe fatto altro che adempiere al proprio dovere e non si sarebbe sostanzialmente macchiato di crimini o di atrocità, che, pertanto, sarebbero stati compiuti solo da SS e Waffen-SS, dalla Gestapo e dal partito. In questo modo un’istituzione forte dello stato – l’esercito – e il grosso della popolazione tedesca coscritta e inviata sui fronti a combattere erano privi di colpe particolari e venivano sottratti al sospetto di aver commesso atti efferati, mentre l’esclusiva dell’orrore veniva attribuita al regime, al partito e ai corpi di polizia da esso dipendenti. [Tra gli altri, si consultino F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli editore, Roma, 1997]

Fu una mostra sui crimini della Wehrmacht organizzata dal Hamburger Institut für Sozialforschung tra il 1995 e il 1999 (Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944 – Guerra di sterminio. Crimini della Wehrmacht dal 1941 al 1944) e poi dal 2001 al 2004 (Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941–1944 – I crimini della Wehrmacht. Le dimensioni della guerra di sterminio 1941-1944) a creare scompiglio e a mettere in discussione l’assunto di fondo della leggenda del “buon soldato tedesco”. La prima mostra attraversò 33 città in Germania ed Austria per un totale di 800.000 visitatori e la seconda fu portata in 11 città tedesche, a Vienna e in Lussemburgo e raccolse 420.000 visitatori. [Sito ufficiale della mostra]
Le dimensioni e il successo di pubblico della Wehrmachtsausstellung e il dibattito e le polemiche che ne scaturirono evidenziano come fosse difficile per molti tedeschi misurarsi con un’immagine di sé diversa da quella fino a quel momento coltivata, come fosse impegnativo dover rinunciare all’idea di un esercito complessivamente estraneo alle inumane pratiche del regime e del partito e dover ampliare considerevolmente l’area del coinvolgimento attivo nei crimini del nazionalsocialismo fino a farvi rientrare, appunto, l’esercito nel suo complesso. Coinvolgimento generalizzato del popolo, dello stato, dell’intera società, degli apparati economici nella costruzione e realizzazione del regime e nelle sue imprese, dalla guerra alla Shoah, che la ricerca storica aveva già ampiamente appurato e dimostrato, sempre più abbandonando letture “hitleriste” e, dagli anni Settanta in poi, virando verso approcci di tipo strutturalista, ma nell’opinione pubblica il mito della “Wehrmacht pulita” aveva resistito ben più a lungo.

Anche in Italia, il mito degli “italiani, brava gente” trovò terreno fertile in cui attecchire nell’immediato dopoguerra, perché lo vollero un po’ tutti. Agli ex fascisti, che intendevano a tutti i costi evitare di dover rendere conto dei crimini compiuti, risultava utile far passare l’immagine buonista del soldato italiano, che, associata alle censure capillari operate dal regime negli anni precedenti su argomenti quali, per esempio, i gas in Etiopia di cui ovviamente non c’era traccia nella cospicua memorialistica coloniale, gettava fumo negli occhi e contribuiva ad avvalorare il teorema innocentista ed auto assolutorio. Tutto questo però, si badi bene, al costo di un tanto paradossale quanto totale capovolgimento dell’immagine dell’Uomo Nuovo fascista che il regime aveva teorizzato, propagandato e costruito per vent’anni. Di quell’idealtipo fascista l’esempio più fulgido era stato proprio Rodolfo Graziani, il “macellaio degli arabi” – secondo la definizione che ne avevano dato i libici – non certo l’immagine auto denigratoria e derisoria confezionata ad hoc di un soldato italiano forse un po’ bislacco e pasticcione, magari non efficiente come altri nel combattere, ma che compensa tali deficienze marziali con cameratismo, umanità e compassione anche verso il nemico.
Ma interessava anche al maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, che si proponeva di conseguire il fine della riconciliazione popolare, della armonizzazione nazionale, attraverso un rapporto col recente passato che privilegiasse più la continuità che la rottura ed evitando l’epurazione della classe dirigente e militare precedente. A tal fine era quanto mai utile costruire una rappresentazione “vittimistica”, quindi assolutoria, di un popolo italiano interamente e sostanzialmente buono, che aveva subito e non voluto o condiviso il fascismo, corpo estraneo o parentesi malata, per dirla con Croce, nella storia del paese.
Ma anche ai partiti della sinistra e in particolare al Partito comunista la favola del buon italiano tornava comoda. Attraverso di essa era possibile sottolineare ed amplificare i meriti dell’Italia partigiana e di quella forza politica che più delle altre antifasciste l’aveva combattuta, il Pci appunto, contrapponendo un popolo buono ad un regime feroce. Si poteva impostare l’equazione, politicamente legittimante lo stesso partito, tra Resistenza e popolo italiano, il cui risultato sarebbe stato quello di un partito comunista parte integrante della nazione e forza politica nazionale, anche a costo di rinunciare alla necessaria epurazione e alla doverosa punizione dei maggiorenti e dei criminali del precedente regime. Il tutto culminò, come è noto, nell’amnistia da Togliatti stesso voluta per il conseguimento – per dirla con le parole del segretario del Pci – “della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani”.
E diedero il loro contributo a questa mitopoiesi postbellica anche gli Alleati, per i quali l’Italia, paese strategico e confinante con la “cortina di ferro” e da governarsi più in continuità con il passato che attraverso traumatiche rotture, era così importante da meritare un trattamento diverso da quello dei suoi alleati del Patto Tripartito, con i quali aveva scatenato e combattuto la seconda guerra mondiale e così non vennero mai istruite una “Norimberga italiana” o una “Tokio italiana”. I criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia, dalla Grecia o dalle ex colonie africane non furono mai consegnati e le pene inflitte da tribunali italiani furono poche, lievi e incommensurabilmente inadeguate ai crimini perpetrati.

Ma se tutto questo spiega il passato, perché ancora oggi, quando ci separano dalla guerra di Etiopia ottant’anni esatti, quando le ragioni del dopoguerra sono ormai soltanto analisi storica, parlare dei gas in Abissinia e di altre atrocità continua a suscitare come automatica reazione la riproposizione della formula magica del “buon italiano”?
Possibile che quelle motivazioni, così strettamente legate al periodo fascista e coloniale, alla sua fine e alla problematica costruzione di una nuova identità nazionale, in un paese prima aggressore e poi aggredito, prima nemico degli Alleati poi in parte cobelligerante, spaccato in due territorialmente e politicamente, attraversato dalla lotta partigiana e dalla guerra civile, tessera fondamentale nel nuovo mosaico europeo della guerra fredda, ecc, possibile – ci si chiedeva – che ancora oggi mantengano un senso?
O dobbiamo forse, più semplicemente, rassegnarci ad ammettere che, al di là di tutte le considerazioni di ordine storico e politico sopra abbozzate ed indipendentemente da esse, a noi italiani piacciono questi panni? Ci sentiamo bene in essi? Ci rassicura l’immagine un po’ da commedia e un po’ da tragedia di un italiano sempre succube degli eventi della Grande Storia che lo sovrastano, ma capace anche di ricostruirsi un proprio piccolo mondo privato, nella famiglia, nel borgo o quartiere, con gli amici o i commilitoni, dove è in grado di conservare e coltivare quel lato umano che lo caratterizzerebbe comunque e sempre e che gli consente, quando poi dalla Grande Storia è chiamato alla guerra, di combattere con onore, ma mai con brutalità e talvolta di fraternizzare pure col nemico e di fare all’amore con le donne dei paesi invasi, mai, ovviamente, di violentarle?
Qualunque sia la spiegazione, è certo che tale falsa e sciocca, menzognera e meschina autorappresentazione collettiva è così radicata in noi che riemerge ad ogni occasione buona e contribuisce, oggi come in passato, a mantenere umido e pronto il terreno per la semina dei più nefasti revisionismi e giustificazionismi, atti a riabilitare un passato vergognoso attraverso il potente fertilizzante dell’ignoranza della storia.
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Immagini, in ordine dall’alto al basso:
– manifesto della R.S.I, Vogliamo essere comandati dai negri? Giammai! Italia, 1944
– copertina di A. Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-41, Feltrinelli, Milano, I edizione, 1965.
– copertina di S. Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015
Gruppo di militari italiani intorno a una bomba C.500.T caricata a iprite
– cartolina coloniale, Armamenti, 1935-‘36
La raccolta dei cadaveri della rappresaglia fascista, Addis Abeba, febbraio 1937

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