Giorgio Bocca – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/e-allora-hamas-la-violenza-degli-oppressi-e-i-dilemmi-della-sinistra-occidentale/ Fri, 02 Aug 2024 04:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83501 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.
Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza. Definire i palestinesi come “animali umani” (come ha fatto ultimamente il ministro della difesa israeliano Gallant) o “scarafaggi drogati dentro una bottiglia” (come fece nel 1983 dal capo di stato maggiore dell’esercito Eitan) rimanda immediatamente a stereotipi antisemiti importati in Medio Oriente. Questi “animali umani” che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione, inoltre, non possono che evocare la tragica lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia nel 1943. La parte più estremista dell’attuale governo di Netanyahu, in aggiunta, apprezza esplicitamente la formula di “spazio vitale” israeliano applicata all’intera Palestina storica. Un apprezzamento che dimentica come questo concetto nasce per opera dei pangermanisti che consideravano le frontiere stabilite dal diritto internazionale come pure astrazioni, rivelatrici di un pensiero disincarnato di marca ebraica. Infine, sono proprio gli antisemiti dichiarati di ieri ad essere i più pronti a denunciare il presunto razzismo antiebraico di chi si oppone al sionismo (salvo continuare a coltivare in segreto i loro vecchi e osceni sentimenti, come ha mostrato l’inchiesta di Fanpage).
Va bene, si dirà, queste sono sottigliezze intellettuali, mentre l’azione di Hamas è stata cosa ben più concreta. Si sarebbe trattato di un’azione terroristica, di più, di un pogrom, figlio di una concezione fondamentalista e, al fondo, antisemita dell’organizzazione palestinese. Di fronte a queste accuse, bisogna osservare che l’attacco di Hamas non può essere definito un pogrom, se le parole devono avere un significato determinato. Perché Hamas non è al potere in uno stato in cui gli ebrei sono una minoranza oppressa, come nella Russia zarista. È evidente che l’utilizzo del termine pogrom serve solo a marchiare l’organizzazione islamica con lo stigma dell’antisemitismo.
Ma si può parlare di terrorismo? Traverso sostiene di sì perché l’attacco di Hamas aveva l’esplicito intento di rovesciare sulla popolazione israeliana il terrore vissuto per decenni dai palestinesi. Per questo motivo non esita a condannare questa azione. Lo ripete più volte. L’oppressione subita non giustifica l’eccidio di civili innocenti così come “la profonda paura esistenziale” degli ebrei, che nasce dalla lunga storia dell’antisemitismo culminata nella Shoah, non rende Israele ontologicamente innocente. 

Eppure, non si può assolutamente parlare di ragioni opposte ed equivalenti. È vero che quelle dei palestinesi e degli israeliani, come sostiene Edward Said citato da Traverso, sono memorie incrociate che si ignorano e si negano a vicenda: la prima è incentrata su una vicenda storica fatta di espropriazione, sradicamento, espulsione dalla propria terra, occupazione e privazione dei propri diritti; la seconda sulla conquista dell’indipendenza, sulla riappropriazione di una terra cui si avrebbe diritto per decreto biblico e sul riscatto da parte di un popolo di vittime. Ma da queste memorie opposte nascono azioni che, ripetiamolo insieme allo storico italiano, non possono essere considerate equivalenti: l’esistenza di un esercito di occupazione è in sé condannabile, mentre le azioni della resistenza sono di per sé legittime, anche quando sono violente, salvo poter essere criticate per gli specifici mezzi che di volta in volta sono utilizzati.
Il fatto è che la questione della violenza degli oppressi e degli sfruttati è oramai diventata un tabù e fa bene Traverso a richiamarla in tutta la sua crudezza.

Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante.2

È falso pensare che i movimenti di liberazione e il terrorismo siano due fenomeni privi di relazioni. Per quanto deplorevole, sostiene Traverso, l’uccisione di civili è sempre stata l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche: questo è stato vero per il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, per i vietcong in Vietnam, per l’African National Congress di Mandela in Sud Africa, per l’OLP di Arafat prima degli accordi di Oslo e anche per l’organizzazione ebraica Irgun prima della nascita di Israele.
Marco Revelli, recensendo il testo di Traverso, ha negato l’analogia tra questi esempi storici e l’attacco di Hamas perché in quest’ultimo ci sarebbe qualcosa che va oltre il massacro di civili innocenti: c’è la ricerca consapevole della rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza, la deliberata provocazione del martirio di massa come strumento di propaganda e di proselitismo.3 La questione è certamente importante, ma nel testo di Traverso si risponde in anticipo a questa obiezione. L’autore di Gaza davanti alla storia cita infatti Giorgio Bocca il quale, affrontando il tema del terrorismo della lotta partigiana in Italia contro i nazi-fascisti, parla di “un atto di moralità rivoluzionaria” finalizzato a provocare e inasprire il terrorismo dell’occupante. Si tratta, sostiene ancora Bocca, di “autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E una pedagogia impietosa una lezione feroce”.4 

Insomma, è necessario abbandonare le ingenue illusioni in cui la sinistra occidentale si culla troppo facilmente:

La linea di demarcazione tra il terrorista e il combattente non è sempre chiara; le due figure si sovrappongono. L’immagine sublime del combattente come eroe immacolato è un mito; quella stereotipata del terrorista come bruto, fanatico, esaltato e crudele, inebriato dalla hybris della morte e del sangue, è altrettanto falsa.5

L’immagine di Hamas come un esercito di belve assetate di sangue contrapposto alla visione dello stato di Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo fa parte di un arsenale ideologico che attinge a piene mani all’orientalismo di cui ci parla Edward Said, sempre citato da Traverso. I suoi assiomi, storicamente essenziali per l’autodefinizione dell’Occidente in contrapposizione all’Oriente, sono rimasti i medesimi: civiltà contro barbarie, progresso contro arretratezza, illuminismo contro oscurantismo. La cosa singolare è che gli ebrei per secoli hanno rappresentato l’Oriente interno nel mondo Europeo. Con la fondazione dello stato di Israele hanno invece attraversato la “linea del colore”: sono diventati bianchi (compresi gli israeliani di provenienza non occidentale, di cui è stato di fatto cancellata la storia) in contrapposizione al mondo musulmano che, a seguito delle dinamiche migratorie, è diventato il nemico interno (oltre che esterno) per eccellenza, oggetto di razzismo sistemico. L’immaginaria dicotomia ontologica istituita dall’orientalismo, aggiunge però Traverso, oggi muta di segno: se nel XIX secolo l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste, oggi si sente una fortezza assediata. E per questo diventa più feroce, fino al punto di non farsi scrupolo di perpetrare un genocidio trasmesso in diretta attraverso la TV e i social. 

L’utilizzo del concetto di genocidio è fonte di infinite polemiche, anche nella sinistra radicale. Traverso, sulla base della definizione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 e della sentenze della Corte internazionale di giustizia dello scorso gennaio, sostiene che è pienamente legittimo. Personalmente ritengo questo dibattito un po’ stucchevole, a maggior ragione dopo le ultime catastrofiche previsioni della rivista The Lancet (che ovviamente non possono essere prese in considerazione da Traverso): tenendo conto dei morti accertati fino all’inizio di luglio 2024 e delle immani e deliberate distruzioni di tutte le infrastrutture civili di Gaza, si può stimare, prudenzialmente, che ci saranno fino a 186.000 decessi dovuti direttamente e indirettamente alla guerra, pari al 7,9% della popolazione della Striscia.
Per evitare inutili polemiche si può aggiungere che 
lo sterminio dei palestinesi non è un obiettivo in sé per Israele perché il fine ultimo dello Stato ebraico è la pulizia etnica della Palestina storica. C’è dunque una differenza significativo rispetto a quanto avvenne agli ebrei sotto la Germania nazista. Ma, è questo il punto messo in evidenza da Traverso, occorre superare un immaginario popolare per il quale un genocidio “deve assomigliare all’Olocausto per meritare questo titolo”. Diversi possono essere i mezzi (proiettili, camere a gas, machete, carestie provocate o non contrastate, bombardamenti sistematici pianificati dall’intelligenza artificiale) e gli obiettivi (sterminio con motivazioni razziali, conquista e sottomissione, sostituzione di una popolazione autoctona). Nel caso specifico, non essendoci le condizioni concrete per un esodo di massa forzato della popolazione, sia per la resistenza palestinese sia per l’ovvia indisponibilità degli stati limitrofi, la pulizia etnica, se perseguita fino in fondo, tende inesorabilmente a trasformarsi in un genocidio.

Seppur ammettiamo la possibilità di un esito estremo delle azioni belliche di Israele, non dobbiamo comunque riconoscere che il massacro di Gaza è una guerra riparatrice di fronte all’improvvisa apparizione del male, alla fulminea esplosione di odio rappresentata dall’attacco del 7 ottobre? Insomma, per quanto terribile sia la risposta dello stato ebraico non siamo di fronte a una colpa che si configura al massimo come eccesso di difesa? La cattiva coscienza dell’Occidente qui si esprime qui alla massima potenza. Il 7 ottobre, qualsiasi cosa si pensi della legittimità dei mezzi utilizzati da Hamas,  è “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”6 ci dice Traverso snocciolando i dati di una triste contabilità che non può lasciare adito a dubbi: tra il 2008 e il 6 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha ucciso più di 6.300 palestinesi, di cui oltre 5.000 a Gaza, ferendone 158.440, mentre le vittime israeliane delle azioni di Hamas e altri gruppi palestinesi sono state 310 e i feriti 6.460; nel solo 2023, fino al 6 ottobre, Tsahal aveva ucciso aveva ucciso 248 palestinesi nei territori occupati e ne aveva arrestati 5.200.
E non è tutto. Ci sono altri numeri che smascherano l’ipocrisia di chi oggi, dopo anni di oblio, torna a parlare della soluzione a due stati per il cosiddetto conflitto israelo-palestinese: “Dopo l’annessione di Gerusalemme, in cui sono stati trasferiti almeno 200.000 coloni, l’insediamento di altri 500.000 in Cisgiordania e la distruzione di Gaza, l’ipotesi di due stati è diventata oggettivamente impossibile”.7 Questi dati testimoniano in modo incontrovertibile che Israele ha sistematicamente boicottato gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto portare alla creazione dello stato palestinese con l’obiettivo di affossare per sempre le rivendicazioni dei palestinesi. 

Ma quali sono queste rivendicazioni? From the river to the sea Palestine will be free recita uno dei più famosi slogan che i media mainstream si ostinano a considerare antisemita perché alluderebbe a una cacciata degli ebrei dal loro stato. E se il suo significato fosse completamente diverso? Se esso ci prospettasse l’idea di un unico stato laico e binazionale, in grado di garantire a tutti i cittadini ebrei e palestinesi uguali diritti, come sosteneva vent’anni fa Edward Said? Un’idea che certamente non era il solo a sostenere. 

Il progetto di uno stato federale binazionale è stato a lungo quello dell’OLP e di una corrente della sinistra israeliana antisionista, il Matspen. Prima della nascita di Israele, esso era al centro di un movimento allora conosciuto come ‘sionismo culturale’.8

Oggi questa prospettiva appare quanto mai lontana. Eppure, sostiene Traverso, rimane più credibile della ipotesi, strumentalmente resuscitata dai paesi occidentali, dei due stati che, a parte il suo esplicito rifiuto da parte di una recente risoluzione del parlamento israeliano, richiederebbe una pulizia etnica incrociata dei rispettivi territori. “La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi. A volte le tragedie servono ad aprire nuovi orizzonti”9, commenta Traverso facendo appello a una buona dose di ottimismo della volontà. 

Avviandoci alle conclusioni, bisogna ammettere senza ipocrisie che in mancanza dell’attacco del 7 ottobre il progetto di cancellare la questione palestinese dall’agenda internazionale attraverso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sarebbe andato avanti senza particolari ostacoli. Una circostanza che impedisce di sottovalutare il ruolo di Hamas, nonostante tutte le riserve che si possono avere nei confronti dell’organizzazione islamica.

Il massacro del 7 ottobre va condannato e l’ideologia fondamentalista dei suoi esecutori può certamente essere criticata, ma negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è serio ne utile.10

In sede di commento, bisogna notare che Hamas non è solo parte della resistenza. Come afferma perentoriamente Jodi Dean in un articolo che le è costato il sollevamento dai suoi compiti di insegnamento nei democratici Stati Uniti:La lotta per la liberazione palestinese oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamico — Hamas. Hamas è sostenuto dall’intera sinistra palestinese organizzata”.11 In realtà, per quanto se ne possa capire dall’esterno, la situazione della sinistra sembra più articolata. Quel che si può dire con ragionevole certezza e che, nell’ambito delle formazioni progressiste palestinesi, esiste una parte che “si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)”.12 Si tratta di una posizione che appare basata sulla convinzione che per competere con gli islamisti occorre farlo nella resistenza. Non chiamandosene fuori. E dunque insieme ad Hamas che oggi è l’organizzazione militarmente e politicamente più forte. Un ragionamento che potrebbe far pensare ai comunisti iraniani che nel 1979 parteciparono attivamente alla rivoluzione in Persia per poi essere massacrati dalle forze di Khomeini. Un precedente storico che non è destinato per necessità a ripetersi, ma che rappresenta un monito da tenere in dovuta considerazione.

Queste riflessioni sono veramente troppo parziali per ambire a chiudere il discorso. Vogliono piuttosto mettere in luce quali sono i problemi che abbiamo di fronte. E forse, da un punto di vista concettuale, il problema più grosso oggi è rappresentato dal fatto che la crisi dell’egemonia occidentale ci costringe a rivedere molte delle nostre posizioni. Il socialismo, la laicità, l’universalismo umanista ecc. entravano nelle lotte dei popoli colonizzati al seguito delle merci e ai capitali che invadevano le loro terre. Sembra che oramai l’Occidente abbia molto di meno da offrire sia sul piano delle idee che su quello materiale. Franz Fanon, in una fase storica molto diversa da quella attuale, ammoniva i popoli in lotta contro il colonialismo che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”.13 Possiamo ancora considerare attuale questo avvertimento? Di certo, se esso deve valere ancora oggi, abbiamo bisogno di un umanesimo e di una coscienza politico-sociale ben più articolate di quanto abbiamo pensato in passato, capaci di accogliere la complessità di un mondo che oramai presenta differenti e divergenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico.  Anche se questa complessità più che una forma di multipolarismo oggi produce una sorta di caos sistemico foriero di foschi scenari bellici.
E tutto quanto detto vale a maggior ragione in Palestina se vogliamo arrivare a una qualche soluzione che eviti esiti terrificanti come pulizia etnica e genocidio. La resistenza armata dei palestinesi è un passaggio ineludibile in questo processo. Ma non bisogna mai dimenticare che uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria.  


  1. Cfr. Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 64-65. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia,
    https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia. 

  4. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 135. 

  5. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit. p. 70. 

  6. Ivi, p. 13. 

  7. Ivi. p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 88-89. 

  9. Ivi, p. 88. 

  10. Ivi, p. 72. 

  11. Jodi Dean, Palestine speaks for everyone,
    https://www.versobooks.com/blogs/news/palestine-speaks-for-everyone.  

  12. Abdaljawad Omar, La questione di Hamas e la sinistra
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/28323-algamica-la-questione-palestinese-oggi-e-la-crisi-della-sinistra-occidentale.html

  13. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.137. 

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L’attualità del Vajont https://www.carmillaonline.com/2015/10/14/linfinito-vajont/ Wed, 14 Oct 2015 06:50:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25996 di Alexik

lapide_paiolaluiginoIl 9 ottobre è passato, e con lui il 52° anniversario della strage del Vajont, quasi assente quest’anno dai telegiornali e dai quotidiani nazionali. Come era prevedibile, una volta spenti i riflettori del cinquantennale, il silenzio ha ricoperto ciò che era già stato sepolto dal fango. Fango materiale, ma anche morale e politico.

Devo dire che a volte è meglio il silenzio piuttosto che la retorica. Se non altro quest’anno ci siamo risparmiati (ad esclusione di una rapida sortita della Serracchiani) il mantra del “Che non succeda mai più !”, [...]]]> di Alexik

lapide_paiolaluiginoIl 9 ottobre è passato, e con lui il 52° anniversario della strage del Vajont, quasi assente quest’anno dai telegiornali e dai quotidiani nazionali. Come era prevedibile, una volta spenti i riflettori del cinquantennale, il silenzio ha ricoperto ciò che era già stato sepolto dal fango. Fango materiale, ma anche morale e politico.

Devo dire che a volte è meglio il silenzio piuttosto che la retorica. Se non altro quest’anno ci siamo risparmiati (ad esclusione di una rapida sortita della Serracchiani) il mantra del “Che non succeda mai più !”, recitato dagli stessi soggetti che nemmeno un anno fa hanno deciso, col decreto ‘sblocca Italia’, un salto in avanti nella devastazione dei territori.

Ci siamo risparmiati le commemorazioni edulcorate, che rievocano ‘l’immane tragedia del Vajont’ dopo averla asetticamente ripulita da una serie di dettagli: la complicità fra potere politico e industriale, le violenze contro le popolazioni, la connivenza dei media e dei ceti accademici con i monopoli dell’energia, la corruzione degli organi di controllo, i conflitti di interesse, la privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite1. Dettagli su cui è meglio sorvolare, casomai risvegliassero analogie col presente. Con la storia, per esempio, di un’altra valle, dove la devastazione è imposta per legge e difesa manu militari.

L’attualità del Vajont

Giorgio Dal PiazOggi come allora, lo Stato fa muro attorno alla grande opera. Esimi scienziati la difendono, come è successo ad un convegno della Società Geologica Italiana, dove si è decretato che la produzione di 300.000 metri cubi di detriti contenenti amianto, prevista per la perforazione del tunnel in Val di Susa, non costituisce un problema per la salute pubblica2. Era il 2006, ma sembrava di tornare ai bei tempi di Giorgio dal Piaz, il luminare della geologia le cui perizie diedero ‘rigore scientifico’ al progetto della diga del Vajont3. Del resto al convegno di Torino relazionava anche suo nipote, Giorgio Vittorio Dal Piaz, responsabile degli studi geologici di base per il Traforo del Brennero (perché la grande opera è una passione di famiglia).

Oggi come allora, si usano i tribunali per far tacere gli oppositori alla grande opera, come successe a Tina Merlin, inquisita per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Oggi come allora, i media decantano la grande opera, con la stessa subalternità e servilismo dimostrati all’indomani della strage del Vajont, quando sfoderarono le più grandi firme del giornalismo nazionale per assolverne d’ufficio i responsabili e tacciare di sciacallaggio chi ne indicava i nomi:

Dino BuzzatiUn sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può … dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento e del coraggio umano… Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle” (Dino Buzzati, Corriere della Sera, 11 ottobre 1963).

Giorgio Bocca“… si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. Non c’era niente da fare, non ci sono colpevoli” (Giorgio Bocca, Il Giorno, 11 ottobre 1963).

“… nella vita delle Nazioni ci sono anche le tragedia spaventose, le carestie, pestilenze, i cicloni, i terremoti. Ciò che conta è di saperle affrontare con coraggio, senza farne pretesto di odi e di divisioni interne … Se certe reazioni sbagliate venissero dai poveri sopravvissuti che nella catastrofe hanno perso tutta la loro famiglia, non dico che le approverei, ma le comprenderei e giustificherei. MontanelliMa qui vengono invece dagli sciacalli che il partito comunista ha sguinzagliato, dai mestatori, dai fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all’abominio e al disprezzo di tutti i galantuomini italiani” (Indro Montanelli, La Domenica del Corriere, novembre 1963).

Di certo gli sciacalli c’erano, ma non quelli indicati da lui. Dopo la strage strani individui cominciarono a circolare a caccia di sopravvissuti. Erano gli avvocati del ‘Consorzio dei danneggiati del Vajont’, un organismo creato dalla stessa Enel per dissuadere i superstiti dall’intento di costituirsi parte civile. Un’operazione decisa dai vertici dello Stato, che vedeva coinvolti alti esponenti della DC e del Partito Socialista4. “A voi superstiti non spetta niente” dicevano gli avvocati. Del resto a chi chiedere i danni se è colpa della natura, come dicono anche Buzzati, Bocca, e Montanelli ? “Vi conviene accettare quello che ora vi viene offerto, altrimenti non avrete niente». In cambio l’Enel offriva una transazione sulla base di un tariffario predefinito: 3 milioni per un coniuge, 2 milioni per un figlio unico, 800.000 lire per un fratello …

Al massimo 33.000,00 euro, ai valori attuali.  Più o meno quanto offerto due anni fa dalla Marzotto in cambio del ritiro dal contenzioso giudiziario delle famiglie degli operai morti alla Marlane di Praia a Mare. Un’altra analogia con il presente: i prezzi della carne umana un tanto al chilo, da allora, non sono cambiati di molto, né le pressioni sulle parti lese nei processi che coinvolgono il potere industriale, come si evince da questo servizio della RAI:

Anche l’epilogo giudiziario del Vajont ha forti affinità coi giorni nostri, con quell’impunità ribadita l’anno scorso dalla sentenza di Cassazione del processo Eternit. Lievissime furono le condanne e colpirono solo i livelli tecnici. Indenni, nemmeno inquisiti, la proprietà della Sade5 (il conte Vittorio Cini) i vertici dell’Enel, ed i padrini politici della ‘diga più alta del mondo’. Dal resto l’Enel/Sade aveva ottimi avvocati.

Qualche giorno dopo la strage, mentre i sopravvissuti scavavano nel fango, scese dall’elicottero il Presidente del Consiglio Giovanni Leone, promettendogli giustizia.

Scaduto il suo mandato di governo, l’avvocato Giovanni Leone Oliviero Zanni - Leone - Vajontandò a presiedere il collegio di difesa dell’Enel, contro quegli stessi superstiti a cui aveva promesso giustizia. Pare sia stato lui a scovare, nel codice civile, il cavillo della ‘commorienza’, cioè quel meccanismo per cui se muoiono contemporaneamente i nonni e i genitori, i nipoti perdono ogni diritto ai risarcimenti per la vita dei nonni. Grazie alla ‘commorienza’, Leone riuscì a far risparmiare all’Enel una bella fetta di risarcimenti agli orfani del Vajont. Poi lo fecero Presidente della Repubblica.

Più di recente anche i vertici di Marzotto, Solvay, Thyssenkrupp, Eternit, inquisiti per disastri ambientali e morti operaie, si sono avvalsi dei migliori legali sulla piazza. Che ora capisco, non accettavano l’incarico per soldi: puntavano al Quirinale !

Ottobre 1963: muore Longarone, nasce il Nord Est

Quello della ‘commorienza’ fu solo uno degli innumerevoli oltraggi subiti dai superstiti del Vajont. Ce ne furono altri:  il processo tenuto a l’Aquila per ostacolarne la partecipazione. Il trasferimento forzato dei sopravvissuti di Erto e Casso a Vajont – un paese anonimo creato per l’occasione – che ha determinato la perdita, per questa gente, dei propri luoghi e punti di riferimento, in aggiunta a quella dei propri cari6. La sparizione dei fondi delle donazioni private. I sussidi da fame, insufficienti per gente che ha perso ogni cosa, e tali da indurla ad accettare l’offerta di transazione dell’Enel. L’assenza di qualsiasi supporto psicologico dopo un trauma così profondo. L’adozione degli orfani da parte di famiglie che avevano il solo scopo di incassarne i sussidi, senza nessun controllo da parte di un giudice tutelare. L’interruzione delle ricerche dei corpi (centinaia mancano all’appello). La costruzione (con i contributi della Legge Vajont) di un salumificio in un’area del comune di Erto sotto la quale, probabilmente, giacciono ancora delle vittime.

Renzi a Longarone2Fino all’ultimo insulto del 2004: la ‘ristrutturazione’ (costata 4 milioni di euro) ad opera dell’ex sindaco De Cesero, del cimitero di Fortogna, che raccoglieva i resti ritrovati di quei poveri corpi. La rimozione delle croci, delle foto, delle lapidi con le iscrizioni poste dai parenti, distrutte in parte dalle ruspe e sostituite da cippi di Stato, tutti uguali, ai quali non si può aggiungere una foto o porre un fiore, e che non coincidono più con la posizione dei corpi 7. La creazione di una sorta di sacrario istituzionale, che cancella la memoria viva dei sopravvissuti per sostituirla con una memoria fittizia, come la commozione dei politici che l’usano, di tanto in tanto, come passerella. Nuovo dolore per gente che non ha più nemmeno una tomba su cui piangere (nella foto in alto una lapide del cimitero originario).

Ma uno degli oltraggi più abnormi fu certamente la gestione del fiume di denaro della cd ‘Legge Vajont’. Un massiccio trasferimento di ricchezza sottratta all’assistenza ai sopravvissuti a favore del capitale privato.

Col pretesto della strage, la Democrazia Cristiana ha provveduto a nutrire la propria rete clientelare del Triveneto, finanziando con una massiccia iniezione di denaro pubblico quell’imprenditoria nordestina che stentava ad agganciarsi al ‘miracolo economico’. Alla faccia del mito del Nord Est e del suo sviluppo nato dall’operosità ! Di quelli che ‘si son fatti da soli’, senza l’aiuto dello Stato, che esecrano l’assistenzialismo meridionale ! Qui se non interveniva Roma ladrona con gli schei se lo scordavano il mito! E a proposito di ladroni: bella figura fottere i propri vicini vittime di una strage ! Perché andò esattamente così la nascita di un modello fondato sul cinismo.

L'onda lungaLa ‘Legge Vajont’ (n. 357/1964) – emanata dal governo di centrosinistra presieduto da Aldo Moro – prevedeva per la ricostruzione o l’ampliamento delle attività distrutte dalla catastrofe, finanziamenti pubblici a fondo perduto e prestiti a tasso agevolato praticamente illimitati, oltre a forti agevolazioni fiscali. La legge non obbligava, per ottenere i benefici, a ricostruire lo stesso tipo di attività, né a farlo a Longarone e dintorni. L’azienda poteva essere ricollocata in qualsiasi parte delle provincie di Belluno, Udine e limitrofe … vale a dire Trento Bolzano, Gorizia, Vicenza, Treviso e Trieste … praticamente mezzo Triveneto. Dulcis in fundo, i diritti acquisiti con la legge Vajont erano cedibili, assieme alle licenze,  a terzi, sia che fossero persone fisiche o giuridiche.

Così recita un’informativa della Polizia tributaria: “Di queste disposizione approfittarono diverse persone le quali providero a rintracciare e avvicinare i sopravvissuti già titolari di licenze per l’esercizio di qualsiasi impresa o eredi di questi, facendosi nominare ‘procuratori speciali’ per la cessione dei diritti dietro compenso di somme esigue… Una volta in possesso della procura, tali persone, per la maggior parte liberi professionisti, proponevano a grossi complessi industriali, a commercianti che volevano ampliare le proprie aziende o a persone facoltose che avessero intenzione di far sorgere una qualsiasi attività, l’acquisto dei diritti dei quali erano venuti in possesso”.8

Poteva quindi accadere che il sig. Giuseppe Corona, artigiano e ambulante, cedesse i suoi diritti per meno di trecentomila lire alla Arredamenti Morena Spa. di Gemona, che ne avrebbe ricavato quasi 503 milioni (dell’epoca) fra finanziamenti a fondo perduto e mutuo agevolato. Al lordo, si intende, della parcella di 21 milioni al mediatore, tal rag. Aldo Romanet (Romanet diventerà famoso, per aver – in concorso con altri – sottratto e convogliato in conti svizzeri, un miliardo e duecento milioni dai fondi destinati alla ricostruzione). La Zanussi Mel, fabbrica di compressori del gruppo Zanussi, ricevette più di sei miliardi di finanziamenti e prestiti agevolati grazie all’acquisto delle licenze dagli eredi di un commerciante di calzature di Longarone, di un rivenditore di elettrodomestici e di un oste. La Indel Spa di Ospitale di Cadore ottenne tre miliardi e 222 milioni comprando le licenze di un geometra e di un fotografo. La Filatura del Vajont, comprando la licenza di una segheria, ricavò tre miliardi e 190 milioni. La Confezioni SanRemo Spa, una delle aziende italiane del tessile più grandi dell’epoca, beccò 2 miliardi e 300 milioni, comprando la licenza di un falegname. Ottenne anche forti agevolazioni IGE (poi IVA), e grazie alla Legge Vajont costruì uno stabilimento e un magazzino centrale a Belluno. Stesso discorso per le Industrie meccaniche di Alano di Piave (un miliardo e 125 milioni grazie alla licenza di un commerciante di legname), per le Ceramiche Dolomite (un miliardo e 200 milioni per le licenze di una sarta e di una carpenteria), per le Industrie San Marco Spa (4 miliardi con la licenza di un albergo e di un impiantista idraulico). Per capire pienamente il valore di tali cifre, relative a stanziamenti degli anni ’60-’70, bisogna riparametrarle ai valori attuali, moltiplicandole anche fino a venti volte, a seconda dell’anno di erogazione.

Centinaia di aziende ottennero contributi (circa trecento solo nel bellunese), in zone che non c’entravano nulla con i luoghi della strage, e quelle dei sopravvissuti erano un’esigua minoranza9. Che fine han fatto queste attività?

Alcune chiusero subito. “Nel 1968 ero una sindacalista, capo della Commissione interna di una fabbrica di manifattura nata con i soldi dei morti e finita male, come molte altre aziende che hanno chiuso non appena sono cessate le sponsorizzazioni per il Vajont10.

Italian Wanbao - ACCLa Filatura del Vajont ha chiuso dopo aver campato per anni solo grazie ai finanziamenti pubblici. Nel ’75 veniva segnalata da un’interrogazione parlamentare perché non pagava gli stipendi11. La San Remo ha chiuso definitivamente nel 2004. La Ceramica Dolomite è stata acquisita dal fondo americano Bain Capital, che le ha riversato addosso i suoi debiti, e l’anno scorso lo stabilimento di Trichiana ha rischiato la chiusura. La Zanussi Mel è stata da poco acquistata dal colosso cinese dei compressori «Wanbao», acquisizione che ha evitato la chiusura dello stabilimento ma con 142 dipendenti in meno. A Ospitale di Cadore, nello spazio della vecchia Indel, la Società Italiana Centrali Elettrotermiche (SICET), pensa di costruire un nuovo inceneritore.

C’è caso che della Legge Vajont ci rimanga soltanto il fango.


  1. Per i dettagli: Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Milano, La Pietra, 1983. Marco Paolini, Vajont, 1993, visibile qui. Renzo Martinelli, Vajont – La diga del disonore, 2001. 

  2. Due convegni su «Amianto e Uranio in Val di Susa». Il contributo della Società Geologica Italiana ad un tema di grande rilevanza sociale, Rend. Soc. Geol. It., 3 (2006), Nuova Serie, 5-8. 

  3. A Giorgio dal Piaz sono tuttora dedicati istituti scolastici e un premio della Società Geologica Italiana. 

  4. Camera dei Deputati, Seduta del 19 gennaio 1968, Interrogazione parlamentare dell’On Busetto

  5. Società Adriatica di Elettricità, fondata dall’industriale Giuseppe Volpi. Fu la Sade a costruire la diga, prima di venire acquisita dall’Enel nell’ambito delle nazionalizzazioni del ’62. 

  6. Officine Tolau, #Ondalunga12 – “Deportati” a Vajont (video). 

  7. Officine Tolau, #Ondalunga17 – Il cimitero di Fortogna è un falso storico (video). 

  8. Lucia Vastano, L’onda lunga, Sinbad Press, 2013, p. 81/82 

  9. Ibidem, pp. 85/93 

  10. Ibidem, p. 179. Testimonianza di Nives Fontanella. 

  11. Camera dei Deputati, VI Legislatura, seduta del 15 gennaio 1975, Interrogazione dell’Onorevole Moro Dino.  

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Orientalismo all’italiana. Una genealogia del razzismo antimeridionale al tempo della crisi – II parte https://www.carmillaonline.com/2013/07/01/orientalismo-allitaliana-una-genealogia-del-razzismo-antimeridionale-al-tempo-della-crisi-ii-parte/ Mon, 01 Jul 2013 21:45:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6850 di Francesco Festa cyopekaf_2009_10-785x588

La prima parte è stata pubblicata qui

…la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo. F. De André, Un giudice

4. Tentiamo di applicare quanto fin qui detto al caso del Mezzogiorno italiano. Occorre anzitutto superare la boa di quei “discorsi biologico-razzisti” incarnati negli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo [...]]]> di Francesco Festa cyopekaf_2009_10-785x588

La prima parte è stata pubblicata qui

…la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo,
fino a dire che un nano è una carogna di sicuro,
perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo.
F. De André, Un giudice

4. Tentiamo di applicare quanto fin qui detto al caso del Mezzogiorno italiano. Occorre anzitutto superare la boa di quei “discorsi biologico-razzisti” incarnati negli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo allievo Alfredo Niceforo. Entrambi situavano la differenza psicologica tra i caratteri delle popolazioni italiane in “due razze”: una del Nord e una del Sud, gli “arii” e i “mediterranei”. La “decadenza” dell’Italia era causata da questa differenza razziale. Dunque la società meridionale non poteva che essere “atavica”, incline al “delitto passionale”, al brigantaggio, alla mafia, alla camorra, ovvero quelle tipiche forme di “delinquenza selvaggia e primitiva”. Invece il carattere antropologico faceva loro buon gioco per la spiegazione del perché nel Sud non esistesse “un’organizzazione del partito socialista”: i mediterranei erano profondamente individualisti, mentre nell’Italia settentrionale, il senso civico e il “sentimento di organizzazione sociale” della “razza degli arii” consentivano il radicamento socialista (Petraccone 2000, pp. 166-173).

A fondamento dei “discorsi biologico-razzisti” vi è una logica dicotomica e binaria dell’orientalismo, che potrebbe essere archiviata dentro una stagione specifica della storia italiana: l’Ottocento delle nazioni e dei nazionalismi, l’Ottocento del “razzismo teorico” che nei crani dei sardi scoprì un “enorme numero di anomalie” e nel teschio del lucano Giovanni Passannante, la ragione della sua anarchia e le cause dell’attentato a Umberto I. Eppure la scorciatoia dell’orientalismo e delle letture pregiudiziali se non apertamente razzistiche è un’opportunità sempre facile da percorrere, fatta di interpretazioni lineari, dicotomiche rappresentazioni dove alla devianza si frappone la normalità, al passatismo la modernità, al sottosviluppo lo sviluppo, dove la bilancia pende su uno dei due termini o a causa del contesto storico e geografico che condiziona la psicologia, comportamenti e condotte di coloro che lo vivono oppure è lo stigma di stratificazioni storiche tradotte in un pot-pourri di osservazioni scontate, di descrizioni paesaggistiche vecchie addirittura di secoli, di luoghi comuni più volte lavorati. «Gli abitanti dell’Italia settentrionale sarebbero profondamente diversi da quelli dell’Italia meridionale» non è l’affermazione di Giuseppe Sergi, antropologo e autore, nel 1900,  de La decadenza delle nazioni latine, bensì del filosofo Gianfranco Miglio, anche noto come l’“ideologo della Lega”: «I primi avrebbero il senso della società, della collettività, dell’interesse pubblico; i secondi, come le altre popolazioni del Mediterraneo, sarebbero individualisti, privi di senso civico, tenderebbero all’ozio. Convinto di tali diversità – osserva Vito Teti – già segnalate dai positivisti, Miglio, come dichiara a molti giornalisti […] è impegnato in un’opera di preparazione e scrittura della Costituzione delle popolazioni dell’Italia meridionale, adatta al loro temperamento e alle loro caratteristiche culturali» (Teti 2011, p. 14). “El profesùr” lombardo esternava queste idee senza alcuna distanza dai positivisti di fine Ottocento, peraltro trovando attento riscontro in molti giornalisti e opinionisti che hanno diffuso il suo credo senza alcun commento critico. Insomma siamo di fronte a un “passato che non passa”? Oppure, con più disincanto, abbiamo a che fare con quell’intreccio di saperi e poteri di cui è composto l’orientalismo come strumento sempre pronto per il controllo e il dominio delle popolazioni.

Qui non c’è alcuna difesa d’ufficio verso una causa meridionalistica, quanto piuttosto l’indagine di cosa si nasconda dietro questo archivio di rappresentazioni corroborate da studi pluridecorati quando non prodotti di inchieste o scoop di noti giornalisti. Se volgiamo lo sguardo agli anni Cinquanta del secolo scorso, possiamo incrociare alcune ricerche finanziate dall’Università di Harvard sull’arretratezza del Sud d’Italia. Una strana attenzione verso una regione d’Europa che desta non pochi sospetti sulle ragioni che muovono gli allievi del sociologo Talcott Parsons a condurre lunghi periodi di ricerca in sperduti paesini dell’entroterra contadino del Mezzogiorno. Lo struttural-funzionalismo fu l’approccio metodologico: vale a dire, l’individuazione della struttura di fondo della società, mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Nel 1958 Edward Banfield diede alle stampe The Moral Basic of a Backward Society, una ricerca condotta a Chiaromonte, un paesino della Basilicata, in cui propose l’ipotesi di una diretta connessione tra il sottosviluppo economico (secondo misure relative all’incapacità industriale, alla produttività lavorativa e agli standard di vita) e la propensione degli abitanti all’associazione, alla cooperazione e all’azione coordinata per il bene comune. Da questa miscela di dati formulò il celebre concetto del “familismo amorale”, ovvero l’assenza di un etica pubblica in luogo di una difesa di interessi particolaristici o prosaicamente familistici, per «massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo» (Banfield 1958, p. 83). La ricezione di questo studio nella classe dirigente americana fu dirompente: in piena guerra fredda, regioni sottosviluppate, dove la riforma del latifondo aveva sì dato la terra ai contadini, ma senza il necessario capitale fisso per lavorarla, significava lasciare una prateria nelle mani del Partito comunista. La visione meccanica del rapporto tra campi di enunciazione e pratiche di potere riproduce quindi quella retorica paternalistica quando non dicotomica dell’Occidente che per costruire un impero e per realizzarlo, necessita «dell’idea di avere un impero» (Said 1993, p. 36), convinta di essere la parte “buona”, il nord, che protegge la parte debole, “cattiva”, il sud, invadendola della propria idea di sviluppo e civiltà. La compenetrazione del sapere scientifico – infarcito di abbondanti stereotipi e luoghi comuni – con il potere suscita gli effetti desiderati: «La morale di base di una società arretrata di Banfield ha contribuito a convincere i circoli politici nell’America della guerra fredda dell’urgenza di sviluppare e così trasformare l’Italia meridionale» (Schneider 1998, p. 6).

cyopekaf_2010_02-785x588 Quindici anni dopo, nel 1993, un altro scienziato politico americano sempre dell’Università di Harvard, Robert D. Putman, produce una nuova ricerca per interpretare l’arretratezza del Sud d’Italia, Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy. Le fonti dello studio sono le osservazioni delle “performance” di sei amministrazioni regionali distribuite su tutta la penisola. Indubbiamente il lavoro di Putman è molto più poderoso, sistematico e comprensivo del suo predecessore; muove da una sostanziale opposizione tra Nord e Sud della penisola; nei governi regionali del Nord riscontra una considerevole abilità all’esecutività e all’implementazione politica rispetto ai governi del Sud, localizzando l’efficienza dei primi in una “tradizione civica” risalente alla storia dei comuni che “da Roma alle Alpi” ne ha segnato il Medio Evo, mentre l’arretratezza dei secondi alligna sempre in quell’epoca e dai secoli successivi contraddistinti da regimi feudali e assolutistici (Putman 1993, p. 123). Il drastico contrasto e la genesi del dualismo fanno leva proprio sul dispositivo binario: un set di suggestioni dove il concetto di “collaborazione orizzontale” collima con quello di “verticalismo gerarchico”. Alla pari della stessa lettura storica, polarizzata su una struttura essenzialista: «dall’inizio del XIV secolo, l’Italia ha prodotto due» (e solo due!) differenti «modelli di governo», due differenti «stili di vita». Con schema adamantino, Putman fa piazza pulita di sette secoli: «Nel Nord, il popolo erano cittadini; nel Sud erano sudditi […] nel Nord la determinante sociale, politica e perfino la lealtà religiosa e le relazioni erano orizzontali, mentre quelle nel Sud erano verticali. Collaborazione, mutua assistenza, obbligazioni civiche […] erano distinguibili caratteristiche nel Nord. La principale virtù nel Sud, per contrasto, era l’imposizione della gerarchia e dell’ordine su una latente anarchia» (Ivi, p. 130). Vale la pena seguire Putman poiché è un sano esercizio di osservazione non tanto dell’assemblaggio quanto della cristallizzazione storica di uno stereotipo, della «stessa modalità con cui il capitale costruisce la sua Storia» (Mezzadra 2008, p. 37): «essa mobilita la massa dei fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto» (Benjamin 1997, p. 80). Qualche secolo dopo, al collasso delle repubbliche comunali e la loro rifeudalizzazione, il Nord anche soccombe al cattivo governo. «Nondimeno, nel Nord erede della tradizione comunale, i regnanti non governavano con autorità ma accettando le responsabilità civiche», invece nel Sud, gli spagnoli, gli Asburgo e i Borbone, «sistematicamente promossero il conflitto tra i loro sudditi, distruggendo le reti di solidarietà con lo scopo di mantenere il verticalismo monarchico, la dipendenza e lo sfruttamento». Alla prova dell’unificazione italiana, il Nord avrebbe giovato di questo lascito, a conferma delle tesi di Putman, la sua industrializzazione è stata il prodotto delle “pratiche di reciprocità”, del “pragmatismo”, della “cooperazione”, della “mutua assistenza”, dell’«associazionismo nel rafforzamento della loro cultura civica». Insomma di tutto quel serbatoio civico custodito per secoli e che al momento giusto aveva dato le proprie fortune. Al contrario, al Sud, dove le “reti di patronato e di clientela” persistevano “come primarie strutture di potere” perfino dopo “la comparsa dei partiti di massa”, i cittadini vivono «l’antica cultura della diffidenza e l’assenza di pratiche di mutua assistenza contrastano i progetti di sviluppo economico, malgrado questi vengano finanziati» (Putman 1993, pp. 135-6).

Dinanzi al linguaggio dicotomico ed essenzialista è buona regola scavare più a fondo indagando il contesto da cui proviene. In questo caso l’orientalismo non lascia attenuanti se non la continuazione di un contesto egemonico e dominante. D’altronde, negli anni di Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy, l’attività regionale era oggetto di attenzione per l’introduzione di misure finanziarie internazioni, così che lo studio di Putman diviene sapere a disposizione di “policy-making circles” di vari governi, tanto italiani ed europei quanto americani, e probabilmente anche di agenzie finanziarie internazionali (Tarrow 1996, p. 389; Schneider 1998, p. 7). Senza dubbio, in questa ricerca sociologica va intravista la situazione presente in Italia, il peso politico dell’Italia nel rapporto con gli altri paesi europei, in anni cruciali per l’integrazione monetaria, e innanzitutto le relazioni Europa – Stati Uniti dinanzi alla prova dell’euro contro il dollaro. Il libro di Putman s’inscrive appunto in questo quadro internazionale tanto articolato quanto difforme negli equilibri economici e politici. I ministri delle finanze dei paesi del Nord d’Europa, diffidenti verso l’area mediterranea, dubitavano della stabilità del governo italiano e della sua capacità di abbassare il debito pubblico. Il refrain di tale pessimismo veniva segnalato proprio dal “New York Times” nel 1996: La divisione Nord-Sud in Italia, un problema anche per l’Europa, titolava un articolo del 1996. La corrispondente Celestine Bolen faceva riferimento alla divisione tra il ricco Nord e il passivo e dipendente Sud, come “conseguenza dell’unità italiana”, mettendo in guardia che la rottura era nell’aria “per l’Italia intera”, nel momento in cui quest’ultima avesse tentato “di mettere in ordine i suoi bilanci finanziari” e di entrare a far parte dell’unione monetaria europea (Ivi, p. 8).

Si badi che l’orientalismo è una scorciatoia imboccata con estrema facilità anche da ricercatori e giornalisti navigati. Anche in Italia ci sono degli esempi celebri. Giorgio Bocca, già nel 1990, non esitò a partire lancia in resta contro le regioni meridionali infestate dalle mafie: la divaricazione tra Nord e Sud dei risultati elettorali, spinse il giornalista dell’Espresso a ricondurre le cause alla classe politica trasformista e corrotta, con radici ben solide nella società meridionale, incapace di comprendere il senso della modernità, ma pronta a concedere tutto al proprio pessimo elettorato in cambio di sostegno. Soltanto il titolo del libro, L’Inferno, è saturo di allusioni storiche, rinviando al più famoso adagio, ripreso da Benedetto Croce nel 1923, che ricordava come il Mezzogiorno fosse sì un paradiso, ma popolato da diavoli. A suo dire, Bocca non ha alcuna intenzione di mostrare un atteggiamento antimeridionale o addirittura razzista, anche se la sua inchiesta sul Mezzogiorno è pregna di descrizioni scontate, di cliché, di descrizioni paesaggistiche vecchie di secoli. Insomma tutti stereotipi per sostenere la tesi che la tradizionale classe politica, delegittimata al Nord, al Sud invece aveva ancora acqua in cui nuotare e riprodurre il proprio consenso; e allo stesso tempo, il giornalista navigato voleva riscuotere un senso di indipendenza nel suo giudizio, nonché essere leva morale per risvegliare la società meridionale e “scardinare un sistema politico foriero di tante nequizie” (De Francesco 2012, p. 225). Ritorna nuovamente quella dimensione dicotomica e binaria già osservata in Putman e Banfield: da una parte, gli onesti, i buoni, i capaci, coloro che sono proiettati verso la modernità; dall’altra, le nequizie,  la cattiveria, l’inettitudine; e in questa dialettica, la funzione responsabile dei primi, gli unici in grado di traghettare i diavoli verso il paradiso.

Nondimeno, nell’auspicio che da Nord giungesse a Sud una nuova resistenza, che il secessionismo nordista alleato di una politica del rinascimento meridionale scardinasse la corruzione, la criminalità e le condotte “putrescenti”, Bocca intravedeva un rischio: in questi meccanismi interattivi, come vasi comunicanti, il Mezzogiorno avrebbe potuto infettare il resto dello “stivale” con l’illegalità e l’immoralità. Nel 2006, in Napoli siamo noi, «la sua lettura del Mezzogiorno si faceva ancor più sconfortata, perché l’infezione dell’illegalità gli sembrava avere ormai risalito la penisola e il degrado meridionale, anziché eccezione nel panorama nazionale, gli pareva la mostruosa raffigurazione di una linea di tendenza ormai generalizzata» (Ivi, p. 226).

5. Quelli in cui scriveva Bocca erano gli anni delle rivolte campane contro la gestione commissariale dei rifiuti (la costruzione dell’inceneritore e l’apertura di nuove discariche). Parecchie decine di migliaia di persone, si calcola, in tempi e luoghi diversi, si sollevarono, puntellando di comitati popolari la geografia politica della regione, ove la democrazia autoritaria dell’emergenza divenne variabile radicalmente capovolta per una decisionalità che muoveva dal basso verso l’alto.

In quegli anni, le ragioni della protesta (la questione rifiuti) non avevano molto senso rispetto alla profondità della natura dei manifestanti. I nemici dello stato, da trattare come problema criminogeno e con rimedi militari, divennero i comitati spontanei di cittadini sorti per contestare le scelte del Commissariato straordinario per l’emergenza rifiuti. I comitati spontanei che erano contro l’“interesse generale”. D’altro canto, una volta attivato il dispositivo morale, tramite una prepotente comunicazione (“senso di responsabilità”, “senso dello Stato”, “rispetto delle istituzioni”), il passaggio fu subito fatto verso la riesumazione di stereotipi e modelli inferiorizzanti. Con Antonello Petrillo e il suo gruppo di ricerca, autori di Biopolitica di un rifiuto, rileviamo come l’orientalismo abbia funzionato con una simmetria e un tempismo impeccabili: alle ragioni della protesta vengono contrapposte la naturalizzazione e l’essenzializzazione dei manifestanti mentre alla modernità delle soluzioni l’arretratezza culturale, il passatismo e il localismo. «I fini appaiono anch’essi del tutto differenti da quelli dichiarati (rifiuto della contaminazione, rivendicazione del diritto al controllo del territorio e di ciò che – in forma legale o illegale – viene sversato in esso), ma sono da ricercarsi, piuttosto, nell’oscuro intrico di connivenze e relazioni con interessi speculativi e criminali (i manifestanti occulterebbero le ‘vere’ finalità dell’opposizione, per esempio le mire speculative sulle aree in questione da parte di palazzinari e camorristi)» (Petrillo 2009, p. 19).

Il particolarismo del tipo NIMBY (Not In My Back Yard), stigma attaccato plasticamente dalla stampa ufficiale ai movimenti in difesa dei territori e dei beni comuni esemplarmente incarnati nel No-Tav, viene rapidamente recuperato dentro un ordine discorsivo distinto. Stampa ufficiale e larghe intese destra-sinistra convengono tutti con i caratteri più squisitamente antimeridionali, cui lo stesso Bocca fa da sponda, a conferma che le rivolte sono la prova di una differenza, di una dicotomia presente in Italia: sensatezza/insensatezza, moderno/pre-moderni – ma, più spesso, anti-moderni – trovano spiegazione  in «quello sterile ribellismo capace ogni volta di opporsi alla più benevola e autoevidente delle ragioni».

cyopekaf_2008_19-785x588 La “delegittimazione politica” delle rivolte campane si è avvalsa di un serbatoio di cliché straordinariamente ricco, consolidatosi sui piani lunghi della storia intorno alle “plebi” meridionali. «La ricerca di spiegazioni non economiche, non sociologiche e non politiche delle vicende del Sud Italia costituisce una pratica tanto antica quanto viva presso una parte significativa dell’opinione pubblica nazionale (ivi inclusa quella meridionale), dalla quale non sono affatto esclusi economisti, sociologi e politologi» (Ivi, p. 20). Modelli di fine Ottocento, riemersi e rinnovati in nuove forme di razzismo (il meridionale “inferiore”, “delinquente”, inabile al “self government”), viene affiancata la figura del riottoso, dell’“individualista” e del “fuorilegge”. Essenzializzazione e naturalizzazione senza limite che foraggia l’ordine discorsivo di stampa e alleanze senza colore politico per contrastare a quanto pare l’autolesionismo dei rivoltosi: nella narrazione ufficiale, il “pericolo diossina” sembra provenire essenzialmente dai cumuli d’immondizia dati alle fiamme, non dalla gestione in-controllata dello smaltimento di rifiuti tossici.

Militarizzazione di paesi e di quartieri metropolitani, gestione securitaria della popolazione, tecnologie di controllo del territorio insieme alla aggressiva comunicazione, alla campagna diffamatoria e delegittimante l’azione dei comitati, una sovrapposizione di dispositivi adoperati dalla politica, volti esclusivamente alla difesa dell’interesse generale, alla modernità contro l’arretratezza, all’affermazione della ragion di stato contro lo stato di natura, incarnato da gruppi di cittadini «eterodiretti dalla criminalità organizzata, ignoranti, egoisti, retrogradi, primitivi». Al binomio e alla dicotonomia dell’orientalismo, quei gruppi di cittadini operano un esercizio di reversibilità proprio dei dispositivi dell’ordine discorsivo dominante. Vale a dire che alla modernità e all’“interesse generale” rappresentati dall’inceneritore o dalle discariche si oppongono attraverso una mossa di sottrazione, non solo di resistenza, individuando cioè una o più vie di fuga: un’altra modernità e un altro modello di sviluppo tradotti in un altro tipo di gestione della raccolta dei rifiuti; l’esodo dalla gestione commissariale tramite forme non convenzionali, atti radicali, la resistenza dei corpi, che al contempo diviene produzione di comune: «nel senso di singolarità che si legano in termini biopolitici e danno vita a nuovi legami organizzativi, fondati sulla prossimità e sul fare comunità» (Caruso 2008, pp. 134-149).

Non c’è una scelta della governance straordinaria di localizzazione di un qualsivoglia tipo di impianto per lo smaltimento dei rifiuti che non abbia incontrato le proteste delle popolazioni locali. In ogni paese e quartiere individuato è sorto spontaneamente un comitato popolare che si è opposto all’irrazionalità del governo d’emergenza. La reversibilità dell’orientalismo è stata proprio quella di smontare il dispositivo di rappresentazione, curvandone il senso e segnalando altre scelte di gestione di interessi comuni e di organizzazione dello spazio pubblico. La partecipazione diretta è stata il metodo dell’autorganizzazione e della cooperazione nel “fare comunità” come «tradizione dello spirito pubblico meridionale» (Piperno 1997). Il “divenire-comunità” nel corso delle rivolte (occupazione del Comune, assemblee cittadine, presidi territoriali, blocchi stradali, occupazione dei terreni per la discarica) ha prodotto un senso di appartenenza, di nuova comunità, che non ha nulla a che vedere con il localismo o con l’identità nei termini nazionalistici o razzistici. Mentre la stampa ufficiale, la classe politica, il Commissariato straordinario evocavano l’“effetto NIMBY” per licenziare le istanze dei comitati all’interno della cornice dell’egoismo e dell’individualismo, i comitati si trovavano un passo in avanti, giungendo alla critica complessiva della governance dei rifiuti, del commissariato straordinario, e della politica delle discariche. Il punto teorico e programmatico cui sono giunti i comitati è “Basta discarica. Né qui né altrove”.

Sono micro e macro modelli di sottrazione all’orientalismo, tanto individuali quanto comunitari. Laddove le autorità locali o nazionali decidano sulla vita delle popolazioni con “poteri centralizzati” e “normalizzatori”, tali modelli acquistano forza, in una narrazione che affrancatasi dall’immagine di jacquerie o insorgenza improduttiva assume la dimensione di un’altra politica, di un “fare comunità” sgrossato dai frame del antimeridionalismo (ad es.: il movimento contro la costruzione della centrale biogas nell’alto casertano; i comitati di cittadini per un altro modello di sviluppo per Taranto; il movimento No Mous in Sicilia). Non vi è dubbio che oltre a un esercizio contro-discorsivo è indispensabile la produzione di una proposta politica nei termini di soggettivazione all’altezza dei dispositivi di assoggettamento e di dominio. Quanto avvenuto nella stagione delle rivolte contro la governance autoritaria dei rifiuti è stata una resistenza ferma alle misure militari e alla decretazione speciale, ma allo stesso tempo sono stati attivati anche processi di soggettivazione e di inversione degli stessi dispositivi di dominio, tramite l’individuazione di proposte alternative di soluzione all’emergenza rifiuti e soprattutto tramite la partecipazione e la cooperazione dei comitati popolari e dei singoli cittadini. La classe politica, l’autorità commissariale e la stampa ufficiale, una volta disarmati dell’orientalismo, hanno visto sgonfiarsi il potere deliberativo e le competenze dell’“autoevidenza”. Mentre il potere costituente delle popolazioni insorte si è dispiegato sul piano dell’immanenza, costituendo altre forme di governo del territorio e dei corpi, altri modi di vivere il Sud, producendo spazi di autonomia, partecipazione e cooperazione, con buona pace di Putman e Banfield

Le immagini di questo testo sono di due artisti di strada napoletani, Cyop e Kaf, impegnati nelle lotte ambientali e attivi nelle periferie metropolitane. Il loro sito è www.cyopekaf.org

Bibliografia

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• E. C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, Glencoe 1958.
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• W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Torino 1997 (1966).
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