Giorgio Bassani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gli uomini pesce, la resistenza quotidiana e una speranza che non finisce https://www.carmillaonline.com/2024/11/28/gli-uomini-pesce-la-resistenza-quotidiana-e-una-speranza-che-non-finisce/ Thu, 28 Nov 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85623 di Paolo Lago

Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, Torino, 2024, pp. 620, euro 21,00.

In Ufo 78 (2022) di Wu Ming avevamo incontrato l’“Autopesce”, la macchina di Guido e Adele, amici dell’ufofilo Jimmy, una Citroën DS (chiamata all’epoca anche “squalo” o “squalone”) “dipinta a squame gialle, rosse e blu”. Adesso, nel recente romanzo solista di Wu Ming 1, ci sono gli “uomini pesce” (che danno anche il titolo al romanzo), ricoperti di squame dorate non troppo dissimili, forse, da quelle dello “squalone”. Come quella Citroën DS pesce che, nel 1978, letteralmente appariva di fronte al negozio di dischi di Jimmy, [...]]]> di Paolo Lago

Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, Torino, 2024, pp. 620, euro 21,00.

In Ufo 78 (2022) di Wu Ming avevamo incontrato l’“Autopesce”, la macchina di Guido e Adele, amici dell’ufofilo Jimmy, una Citroën DS (chiamata all’epoca anche “squalo” o “squalone”) “dipinta a squame gialle, rosse e blu”. Adesso, nel recente romanzo solista di Wu Ming 1, ci sono gli “uomini pesce” (che danno anche il titolo al romanzo), ricoperti di squame dorate non troppo dissimili, forse, da quelle dello “squalone”. Come quella Citroën DS pesce che, nel 1978, letteralmente appariva di fronte al negozio di dischi di Jimmy, ad Aulla, così gli “uomini pesce” sono delle apparizioni, sorte da leggende e dicerie del Polesine, che accompagnano l’intera narrazione e l’intera vicenda di Gli uomini pesce, un romanzo davvero avvincente e ben congegnato, intriso di una narratività ipertrofica che non ti lascia scampo. Così è descritto l’uomo pesce, chiamato anche Homo Bracteatus, come compare in alcuni disegni e ritratti di Ilario Nevi, partigiano, artista, regista e intellettuale ferrarese dalla cui morte, nell’estate 2022, prende avvio la narrazione: “L’essere era vagamente antropomorfo, le sue posizioni erano più o meno quelle dell’uomo vitruviano, ma la testa, bianca e priva di collo, era quella di un pesce. Uno squalo. No. Un pesce inclassificabile, indescrivibile, che dava l’idea di uno squalo ma era altro. Gli occhi erano neri. Neri. Di un nero abissale. Pozzi profondi milioni di anni, profondi quanto il tempo, e nel lontanissimo fondo di quei pozzi dovevano ruotare gorghi che trascinavano ancora più in basso, ancora più indietro, più indietro del tempo stesso.”

Si tratta di un essere che appare nella notte (e, durante la lotta di liberazione, sembra schierarsi dalla parte dei partigiani attaccando i tedeschi), che appartiene a storie e leggende del territorio e che pare uscito da una “guida ai draghi e mostri in Italia” anni Ottanta della SugarCo. Ilario li aveva visti in notti terribili di agguati dei fascisti e di appostamenti, di fughe e di nascondigli; essi, infatti, appartengono profondamente al Delta del Po e fanno parte della sua arcana ed arcaica storia. Ne sono l’essenza, gli spiriti guida, i misteriosi e demonici custodi. Sembra che abbiano quasi la stessa funzione delle apparizioni degli Ufo nel già citato Ufo 78, di cui Wu Ming 1 è coautore: come qui afferma il personaggio dell’antropologa Milena Cravero, vedere gli oggetti volanti non identificati equivale a un desiderio di utopia, di “altrove”, “un altrove assoluto, un luogo che non c’è”, e ciò “significa non accontentarsi dell’esistente”. Probabilmente anche le apparizioni degli uomini pesce rappresentano un desiderio di utopia, di altrove, di un luogo che non c’è: forse un Delta del Po finalmente liberato dall’oppressione fascista e nazista.

Uno dei temi portanti del romanzo di Wu Ming 1 è infatti la continuità dell’oppressione da cui non ci si può liberare; allora, di fronte a questa continuità non si può fare altro che opporre l’immaginazione e l’immaginario che prendono le forme di una strenua resistenza da portare avanti giorno per giorno. Personaggi resistenti, in questo senso, sono Ilario, sua nipote Antonia Nevi, geografa dell’università di Padova e il marito di lei, Arne detto Sonic, un musicista statunitense di origine svedese. L’azione narrativa principale si ambienta, come già affermato, nel 2022, precisamente tra la fine di luglio e quella di agosto, mentre ulteriori finestre narrative si aprono sul 1969, sul 1973, sul 1943-45 e sul 1981. Antonia e Sonic, dopo la scomparsa del grande partigiano e intellettuale, si muovono tra Ferrara e il territorio del Delta quasi ridisegnandone la geografia e la cartografia, offrendo una inedita mappatura del territorio in funzione di Ilario, della sua lotta e della sua resistenza eletta a ragione di vita. In virtù di questo movimento dei personaggi che diviene incessante detection, lo scrittore riesce a “cantare la mappa”, come egli stesso scrive nella sua introduzione alla raccolta di racconti del collettivo Moira Dal Sito, Quando qui sarà tornato il mare, tutti ambientati nel basso ferrarese, cioè a raccontare un territorio “com’è, com’era e come sta per diventare”.

E così, il personaggio di Ilario Nevi, morto a novantanove anni, ha dovuto lottare e combattere contro l’oppressione nazifascista e la sua continuità: in primis con la continuità strisciante del fascismo nelle istituzioni repubblicane e poi con un cambiamento di faccia di quella stessa oppressione che non si cura di niente e nessuno, cioè il sistema capitalistico generatore di amministratori del territorio senza scrupoli che non fanno altro che cementificare e distruggere gli spazi naturali devastando la costa emiliano-romagnola, erigendo resort e alberghi a uso e consumo – sembra – degli oppressori di un tempo, i ricchi tedeschi che a partire dagli anni Sessanta scendevano a frotte in vacanza sul mare Adriatico. La persistenza del fascismo nella storia repubblicana appare d’altronde come un vero e proprio Leitmotiv del libro: ad esempio, in uno scorcio narrativo ambientato nel 1969, si pone l’accento su come Marcello Guida, già sotto il fascismo vicedirettore della colonia di confino politico di Ventotene, nel 1969 sia questore di Milano, nel momento in cui Giuseppe Pinelli ‘precipita’ da una finestra della questura pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana. Mentre, in un altro punto del libro – siamo adesso nel 1973 – Ilario e il suo amico Erminio, anch’egli partigiano, discutono proprio di questa continuità e, a proposito del tentato colpo di stato di Junio Valerio Borghese del 1970, così si esprimono: “- Se a fuss stà par nuàltar, uno come Borghese non era ancora in giro nel ’70. – Neanche nel ’50. – Lo avremmo fatto secco nel ’45, a dirla tutta”.

I personaggi, quindi, avvolti da una speranza che sembra non finire mai (e che Antonia riceve come un’eredità da suo zio Ilario), si battono incessantemente contro un’oppressione a sua volta infinita: prima il nazifascismo, poi la sua demoniaca continuità nelle istituzioni repubblicane, fra bombe e stragi, poi le devastazioni naturali, le cementificazioni che durano fino a oggi e preparano il terreno alle inondazioni e ai disastri del nostro tempo, fino alla malagestione dell’emergenza Covid, che ha provocato infiniti strascichi, incomprensioni e inimicizie. Per raccontarci questa resistenza continua Gli uomini pesce utilizza un modo narrativo dal carattere enciclopedico e si realizza in una tensione totalizzante che abbraccia diversi aspetti della società, della cultura e della politica. La narrazione assume un aspetto polifonico e si apre a una pluralità di voci nel testo e di stili e registri diversi (uno più narrativo, uno più poetico e uno più saggistico) che corrispondono alle voci dei diversi personaggi come, ad esempio, quando a parlare in prima persona è Antonia, quando è Ilario, quando invece è il mefistofelico dottor Stegagno, nel suo lungo racconto. D’altra parte, il romanzo possiede anche una inesausta intertestualità verso altre opere degli stessi Wu Ming e di altri autori: vi sono riferimenti, nella trama, al già citato Ufo 78, a un altro romanzo solista di Wu Ming 1, La macchina del vento e al suo più recente “oggetto narrativo non identificato”, La Q di Qomplotto nonché al Pendolo di Foucault di Umberto Eco, a L’Agnese va a morire di Renata Viganò e all’opera di Giorgio Bassani (che compare anche come personaggio). Dal momento che Ilario è stato un noto regista e documentarista, incontriamo numerosi riferimenti anche al cinema, non solo italiano e non solo coevo alla produzione di Ilario; protagonista, fra le citazioni cinefile del libro, è Sylvia Scarlett (1935) di George Cukor, distribuito in Italia col titolo Il diavolo è femmina, perché Antonia assomiglia molto a Katherine Hepburn interprete del film (così sappiamo più o meno come immaginarcela). Un lungo inserto narrativo è poi costituito dal memoriale di Ilario, presentato come un dattiloscritto ritrovato, pieno di parole cancellate e illeggibili, costituito da appunti numerati in cifre romane che lo fanno curiosamente assomigliare a Petrolio, il romanzo inedito e incompiuto di Pier Paolo Pasolini, composto da una congerie di “appunti” e edito dai filologi soltanto nel 1992, a diciassette anni dalla morte dell’autore.

La natura enciclopedica del libro abbraccia, come già accennato, anche temi di stringente attualità, come il cambiamento climatico e l’incapacità di saperlo affrontare (incapacità da cui nascono i disastri e le alluvioni che sono sotto gli occhi di tutti), o gli strascichi dell’emergenza Covid. Allora, sembra quasi che vengano mescidati sub specie narrationis diversi argomenti già trattati in forma saggistica negli articoli apparsi su “Giap”, il blog di Wu Ming, a firma dell’intero collettivo o dello stesso Wu Ming 1. L’emergenza climatica, ‘normalizzata’ dai media e resa inoffensiva e quasi ‘abituale’, si trasforma in apocalisse incombente nei pensieri di Antonia, nel momento in cui, in un ristorante, sta leggendo un giornale in cui si parla del caldo record di quell’estate. Allora – osserva il personaggio (e, con lei, l’“autore nascosto” Wu Ming 1) – “verità parziali come quelle dei meteorologi, una volta immesse nei media, diventavano fattoidi, riempitivi semiotici, infine spazzatura verbale: l’anticiclone delle Azzorre, l’anticiclone africano, El Niño, La Niña… Tutto era addomesticato, legato a contingenze, spiegato solo con fenomeni magari prolungati ma passeggeri”. Come Antonia, anche la narratrice-autrice Helen Macdonald, in Io e Mabel (H is for Hawk, 2014), trovandosi a sfogliare un giornale in un bar, si imbatte in notizie terribili sui cambiamenti climatici riferite come se niente fosse (i ghiacci artici che si stanno rapidamente sciogliendo, gli ecosistemi sull’orlo del tracollo) e la situazione quotidiana viene subito proiettata in una dimensione apocalittica ed ecodistopica.

Un pregio di Gli uomini pesce (d’altra parte già riscontrabile nell’opera collettiva Ufo 78) è senz’altro poi quello di riuscire a creare cortocircuiti fra realtà e fantasia: Ilario, Antonia e Sonic sono presentati alla stregua di personaggi reali tanto che viene la tentazione di andarli a cercare in rete. Anche i titoli dei film realizzati da Ilario sono talmente verisimili da far sorgere il dubbio se esistano veramente; lo stesso si può dire dei libri di Antonia o dei dischi di Sonic, corredati di un’accuratissima bibliografia fantastica. E vorrei chiudere proprio con questo magmatico cortocircuito fra realtà e fantasia, che Wu Ming 1 dispensa con maestria quasi ad ogni pagina e che, per poco, non mi coinvolge personalmente. Antonia Nevi – si dice nel romanzo – aveva presentato il 21 novembre 2019 alla Biblioteca Ariostea di Ferrara (Ilario era tra il pubblico) il suo saggio, in cui analizza la caccia al famigerato killer e bandito “Igor il russo” che nella primavera del 2017 si nascondeva nel Delta del Po (fatto reale), dal titolo geniale di Igor mortis. Ebbene, esattamente una settimana prima, il 14 novembre 2019, alla Biblioteca Ariostea, avevo presentato la bella traduzione delle Metamorfosi di Apuleio realizzata dall’amica Monica Longobardi, docente di Filologia romanza a Ferrara, e avevamo avviato una discussione sulle riletture contemporanee di Petronio e Apuleio. Peccato, davvero. Soltanto per una settimana non ci siamo incontrati con Antonia e Ilario e per un soffio i nostri destini non si sono incrociati.

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Palestina. Le verità confortevoli https://www.carmillaonline.com/2024/09/14/palestina-le-verita-confortevoli/ Fri, 13 Sep 2024 22:07:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84341 di Marco Sommariva

In questo periodo in cui si parla molto di Palestina e Israele, più volte mi sono chiesto cos’ho capito di questo conflitto. La prima risposta che mi son dato è stata “scrivine”, e questo perché non riesco a capire esattamente cos’ho in testa finché non la scrivo. La seconda risposta è stata più che altro una raccomandazione: fai attenzione a non essere l’eco di cose già dette, magari già echi a loro volta di qualcos’altro. In poche parole, ho ragionato sull’argomento con la stessa logica con cui ragiono su tutto, non in base a cosa mi si sta raccontando [...]]]> di Marco Sommariva

In questo periodo in cui si parla molto di Palestina e Israele, più volte mi sono chiesto cos’ho capito di questo conflitto. La prima risposta che mi son dato è stata “scrivine”, e questo perché non riesco a capire esattamente cos’ho in testa finché non la scrivo. La seconda risposta è stata più che altro una raccomandazione: fai attenzione a non essere l’eco di cose già dette, magari già echi a loro volta di qualcos’altro. In poche parole, ho ragionato sull’argomento con la stessa logica con cui ragiono su tutto, non in base a cosa mi si sta raccontando nel momento in cui i riflettori sono puntati sugli avvenimenti, ma in funzione di cosa mi hanno trasmesso e insegnato le mie letture passate, i miei libri; questo, anche perché sono convinto che, come ho letto da qualche parte, i libri sono in grado di tirarci fuori dai nostri bunker di verità confortevoli, da quel pozzo di fortuna che ogni tanto risaliamo e che ci permette di sbirciare nell’inferno degli altri senza mai sentire la puzza di morte, per poi tornare sul fondo da cui siamo emersi senza neppure uno schizzo di sangue sulla camicia perfettamente stirata. E questo sbirciare nell’inferno degli altri, per poi magari sentenziare sulla base di alcuni fotogrammi che da qualche parte s’è deciso di darci in pasto, è uno sport in cui si registrano sempre più partecipanti; forse perché, come ha scritto lo scrittore israeliano David Grossman in Caduto fuori dal tempo, “Che c’è di più eccitante dell’inferno degli altri, dimmi? E poi sarai d’accordo con me che un dolore di seconda mano è preferibile a uno di prima mano.”

E così, cercando di non farmi influenzare troppo da immagini, video e resoconti dove regnano dolore, sangue e lacrime, in cui s’incontrano solo cadaveri e mai un sorriso, faccio mente locale e cerco nella mia memoria un aiuto per fare un minimo di ordine su questo conflitto.

Non ci metto molto a raggranellare qualche titolo letto in passato che, in un modo o nell’altro, sia in grado di darmi elementi su cui soffermarmi un po’; per l’esattezza, sono tre i libri che mi sono venuti in mente. Ma prima di parlarne, ho bisogno d’inchiodare sulla pagina una frase che già mi ronza in testa, riportata in Giuda da un altro scrittore israeliano, Amoz Oz: “Chaim Weizmann ha detto una volta, per disperazione, che uno stato ebraico non sarebbe mai potuto sorgere perché sarebbe stata una contraddizione: se fosse sorto uno stato, non sarebbe stato ebraico, e se fosse stato ebraico non sarebbe potuto essere uno stato.”

Si tenga conto che, fra le altre cose, di Chaim Weizmann la Treccani riporta: “Partecipò attivamente al movimento sionistico: durante la prima guerra mondiale indusse il governo britannico a sostenere il programma del sionismo, ottenendo (1917) da A. J. Balfour […] la dichiarazione in favore dell’insediamento degli Ebrei in Palestina; fu poi presidente dell’organizzazione sionistica (1920) […]. È stato presidente dello Stato di Israele (1948-52).” (https://www.treccani.it/enciclopedia/chaim-weizmann/)

Fissato quanto sopra, procedo.

Il primo libro che mi viene in mente è del 1962, s’intitola Il giardino dei Finzi-Contini ed è un romanzo di Giorgio Bassani, da cui Vittorio De Sica trasse un film che nel 1972 vinse l’Oscar come miglior film straniero e alla cui sceneggiatura lavorò lo stesso Bassani.

L’io narrante è un ebreo di famiglia borghese, che ci guida fra i suoi ricordi di quando incontrava i due figli dei Finzi-Contini – l’introverso Alberto e la sfuggente Micol – resi quasi irraggiungibili dal divario sociale: i ragazzi appartengono a una ricchissima famiglia ebrea che non si rapporta granché con gli altri israeliti della comunità di Ferrara. Saranno le leggi razziali fasciste emanate in Italia dal 1938 in poi, ad avvicinare i tre giovani che, spesso, s’incontreranno nei dieci ettari del magnifico giardino di casa Finzi-Contini. Di questo romanzo mi piace ricordare due passaggi in particolare: il primo, è quello dove si tirano le orecchie a governi europei un poco distratti, perché ritengo che una discreta voluta “distrazione”, se così si può chiamare, caratterizzi anche alcuni governi europei di oggi: “[…] soltanto la Russia aveva capito fin dall’inizio chi fossero il Duce e il Fuhrer, lei sola aveva previsto con chiarezza l’inevitabile intesa dei due, e agito per tempo di conseguenza. Le destre francesi e inglesi, al contrario, sovversive dell’ordine democratico come tutte le destre di tutti i paesi e di tutti i tempi, avevano sempre guardato all’Italia fascista e alla Germania nazista con malcelata simpatia. Ai reazionari di Francia e d’Inghilterra il Duce e il Fuhrer potevano sembrare dei tipi certo un po’ scomodi, un tantino maleducati e eccessivi, però da preferirsi sotto ogni aspetto a Stalin, giacché Stalin, si sa, era sempre stato il diavolo”; il secondo, è quello in cui si citano alcune misure pratiche applicate contro gli ebrei, fra cui l’esclusione di ogni giovane da tutte le scuole statali di qualsivoglia ordine e grado, perché mi sono venuti in mente tutti gli edifici scolastici rasi al suolo a Gaza in questi ultimi mesi, che impediranno a bambini e ragazzi palestinesi di frequentare la scuola, d’incontrarsi, relazionarsi, fare amicizia, che saranno esclusi dalla cultura, dalla crescita interiore, che saranno costretti a sopportare la disperazione come unica compagna di banco e l’esplosione delle bombe a scandire le ore di lezione al posto della consueta campanella: “lo scorso 22 settembre, dopo il primo annuncio ufficiale del 9, tutti i giornali avevano pubblicato quella tale circolare aggiuntiva del Segretario del Partito che parlava di varie ‘misure pratiche’ di cui le Federazioni provinciali avrebbero dovuto curare l’immediata applicazione nei nostri riguardi. In futuro, ‘fermi restando il divieto dei matrimoni misti, l’esclusione di ogni giovane, riconosciuto come appartenente alla razza ebraica, da tutte le scuole statali di qualsivoglia ordine e grado’, nonché la dispensa, per gli stessi, dall’obbligo ‘altamente onorifico’ del servizio militare, noi ‘giudei’ non avremmo potuto inserire necrologi nei quotidiani, figurare nel libro dei telefoni, tenere domestiche di razza ariana, frequentare ‘circoli ricreativi’ di nessun genere”.

Mi piace ricordare che Bassani nacque a Bologna nel 1916, da una benestante famiglia ebraica originaria di Ferrara e che è sepolto proprio a Ferrara, nel cimitero ebraico, per sua esplicita volontà testamentaria.

Il secondo libro che mi viene in mente è del 1971, s’intitola L’amico ritrovato ed è il romanzo di Fred Uhlman ambientato nel 1933 in Germania, in cui si narra di una bella amicizia fra due sedicenni – uno figlio di un medico ebreo, l’altro di una ricca famiglia aristocratica – che frequentano la stessa scuola esclusiva. Nonostante i numerosi passaggi interessanti, come per il romanzo di Bassani mi limito a riportarne soltanto due: il primo, è quello dove un ebreo ironizza sull’insensata idea che un italiano dell’epoca potesse rivendicare diritti sulla Germania perché un tempo era stata occupata dai Romani e, anche se so che rischio di offendere la vostra intelligenza, spiego che la scelta di questo stralcio è avvenuta ripensando a dove hanno origine certe pretese di alcuni israeliani: “Ricordo ancora un’accanita discussione tra mio padre e un sionista incaricato di raccogliere fondi per Israele. Mio padre detestava il sionismo, che giudicava pura follia. La pretesa di riprendersi la Palestina dopo duemila anni gli sembrava altrettanto insensata che se gli italiani avessero accampato dei diritti sulla Germania perché un tempo era stata occupata dai romani. Era un proposito che avrebbe provocato solo immani spargimenti di sangue, perché gli ebrei si sarebbero scontrati con tutto il mondo arabo”; il secondo, è quello in cui lo stesso personaggio idealista di prima afferma che il nazismo e i suoi orrori non sono altro che una malattia passeggera e che nessuno si lascerà abbindolare da certe sciocchezze, che è un po’ quello che mi è parso di capire in questi ultimi mesi quando, in certe esternazioni, non si negano totalmente orrori perpetrati da ottobre dell’anno scorso sui territori palestinesi aggiungendo che, al momento, non c’è altra scelta, ma che il tutto terminerà quando il governo del Signor Netanyahu avrà raggiunto il proprio obiettivo, insomma, che è una situazione passeggera, benché a me sia parso di cogliere una leggerissima differenza, quella che di abbindolati da certe sciocchezze, oggi, se ne vedano in giro un bel po’: “Quando il sionista accennò ad Hitler, chiedendogli se il nazismo non gli facesse paura, mio padre rispose: Per niente. Conosco la mia Germania. Non è che una malattia passeggera, qualcosa di simile al morbillo, che passerà non appena la situazione economica accennerà a migliorare. Lei crede che i compatrioti di Goethe e di Schiller, di Kant e di Beethoven si lasceranno abbindolare da queste sciocchezze? Come osa offendere la memoria dei dodicimila ebrei che hanno dato la vita per questo paese?”

Ancora una cosa, dall’introduzione di Arthur Koestler a L’amico ritrovato: “Centinaia di grossi volumi sono stati scritti sul tempo in cui i corpi venivano trasformati in sapone per mantenere pura la razza ariana, tuttavia credo sinceramente che questo smilzo volumetto troverà una sua collocazione duratura negli scaffali delle librerie”. Mi piace ricordare che Uhlman nacque a Stoccarda nel 1901, da una prospera famiglia ebrea.

Il terzo libro che mi viene in mente è del 2006, s’intitola Ogni mattina a Jenin ed è stato scritto da Susan Abulhawa; l’autrice ci racconta la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza patria”, a iniziare dall’abbandono delle case di ‘Ain Hod nel 1948, per il campo profughi di Jenin. Come per i precedenti titoli, mi limito a riportare soltanto due passaggi: il primo, è quello dove si fa la conta di quante generazioni di palestinesi vengono spazzate via a partire dal 1948 – anno in cui ebbe inizio l’esodo forzato dei palestinesi, conosciuto come Nakba, letteralmente “catastrofe” – perché a quelle generazioni, bisognerà sommare quelle di oggi: “Fu così che, otto secoli dopo la sua fondazione ad opera di un generale dell’esercito del Saladino, nel 1189 d.C., a ‘Ain Hod non si videro più bambini palestinesi. Yehya cercò di calcolare il numero di generazioni che erano vissute e morte nel villaggio e arrivò a quaranta. […] quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto libero e l’avrebbe proclamato – con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino – retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo”. Il secondo, è quello in cui si spiega che alcuni piatti tradizionali ebraici non sono ebraici, che alcune antiche dimore ebraiche non sono ebraiche, che antichi manufatti ebraici non sono ebraici, che persino alcuni frutti che hanno reso famosi gli ebrei, storicamente, non appartengono a loro, ma stavolta la vostra intelligenza non la offenderò perché mi pare si colga facilmente la volontà di riscrivere un po’ tutto, soprattutto la Storia: “Guardò in silenzio le prove di quello che gli israeliani sapevano già, e cioè che la loro storia era sorta sulle ossa e sulle tradizioni dei palestinesi. Quegli uomini arrivati dall’Europa non conoscevano né l’hummus né i falafel, ma li proclamarono ‘piatti tradizionali ebraici’. Rivendicarono le ville di Qatamon come ‘antiche dimore ebraiche’. Non avevano vecchie fotografie o disegni dei loro avi che vivevano su quella terra, amandola e coltivandola. Arrivarono da nazioni straniere e dissotterrarono dal suolo palestinese monete dei cananei, dei romani, degli ottomani che poi vendettero come se fossero ‘antichi manufatti ebraici’. Vennero a Giaffa e trovarono arance grosse come angurie, e dissero: ‘Guardate! Gli ebrei sono famosi per le loro arance’. Ma quelle arance erano il risultato di secoli e secoli durante i quali i contadini palestinesi avevano perfezionato l’arte di coltivare gli agrumi”. Chiedo scusa se non mantengo la parola data e aggiungo un terzo passaggio del libro, questo: “i palestinesi avevano pagato il prezzo dell’Olocausto ebreo”.

Mi piace ricordare che Abulhawa è nata nel 1970, da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967, e che è un’attivista per i diritti umani.

Chiuderei citando un altro estratto, secondo me molto toccante, del libro Caduto fuori dal tempo di David Grossman che, ricordando suo figlio ventenne ucciso in guerra da un missile anticarro, scrive: “mio figlio è morto, riconosco la verità di queste parole. È morto, è morto. Ma la sua morte, la sua morte non è morta.” Ma il pezzo non lo chiuderei esattamente qui; mi permetterei di dire che, prendendo spunto dalla frase di prima, riconosco la verità di numeri, immagini e notiziari che mi arrivano dalle fonti più diverse per informarmi che gli oltre quarantamila palestinesi uccisi dai bombardamenti israeliani, di cui oltre tredicimila bambini, sono senza dubbio morti, ma sottolineando il fatto che anche in questo caso la loro morte non è morta, e io temo che, a tanti, forse troppi, siano sfuggite le conseguenze che porterà, appunto, il ricordo di questa strage.

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Non è ver che sia lo spettro https://www.carmillaonline.com/2024/07/26/non-e-ver-che-sia-lo-spettro/ Fri, 26 Jul 2024 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83581 di Franco Pezzini

Fabio Camilletti, Spettri familiari. Letteratura e metapsichica nel secondo Novecento italiano, Unicopli, Trezzano sul Naviglio MI 2024.

Un affresco sacro scrostato, poi un vicolo di notte: sul fondo, lenzuola appese ai fili tra gli opposti edifici e auto posteggiate, a suggerire che si parla di una realtà moderna. Una giovane donna corre nella nostra direzione, sbircia indietro – evidentemente per esser certa che qualcuno la segua, che non si perda – e trattiene il lungo scialle perché non scivoli via nella corsa: una donna, ci accorgiamo, bellissima, dall’ampia chioma riccia, con un abito che qualcuno dirà “un po’ [...]]]> di Franco Pezzini

Fabio Camilletti, Spettri familiari. Letteratura e metapsichica nel secondo Novecento italiano, Unicopli, Trezzano sul Naviglio MI 2024.

Un affresco sacro scrostato, poi un vicolo di notte: sul fondo, lenzuola appese ai fili tra gli opposti edifici e auto posteggiate, a suggerire che si parla di una realtà moderna. Una giovane donna corre nella nostra direzione, sbircia indietro – evidentemente per esser certa che qualcuno la segua, che non si perda – e trattiene il lungo scialle perché non scivoli via nella corsa: una donna, ci accorgiamo, bellissima, dall’ampia chioma riccia, con un abito che qualcuno dirà “un po’ da zingara”, ma solo perché non è consueto a chi non sia frequentatore abituale delle stampe di Bartolomeo Pinelli. Corre verso di noi, ma intanto è partita una musica che pure punta a noi. A noi che quella scena in bianco e nero l’abbiamo vista magari mille volte, che conosciamo la melodia perfettamente e mille volte inseguiamo Lucia – perché il fatto che corra nella nostra direzione non ci rende più capaci di trovarla di quanto sia in grado chi la sta inseguendo.

Infatti, il titolo è appena apparso in sovraimpressione – con i caratteri sobri di un altro tempo della storia del piccolo schermo – ed ecco che Lucia sparisce sulla sinistra del video. Subito dopo compare di corsa il giovane che la insegue, e i titoli di testa prendono a scorrere. Via via riusciremo a vedere meglio i volti dei due nel dedalo dei vicoli – l’ironia vagamente malinconica di lei, l’ansia di lui – finché Lucia non sbuca in una piazza, continuando a guardare indietro (alle nostre spalle, potremmo ora dire) e abbozza un gesto col viso, un “Seguimi” muto che vorremmo fosse diretto a noi. E forse stavolta lo è.

“[…] probabilmente il più importante sceneggiato della storia della Rai”: così il sito Rai Play definisce Il segno del comando, che nel 1971 per cinque settimane – dal 16 maggio al 13 giugno – inchioda gli spettatori davanti al video. Eppure non è solo per la magnetica presa della storia (una trama incalzante, il fascino del mistero, una sfida a capire) che in un’Italia tanto diversa da quella di oggi Il segno del comando si guadagna tale riconoscimento. I motivi sono parecchi, e il loro sapiente dosaggio permette un’alchimia dai risultati mai più raggiunti con tanta efficacia.

E partiamo da qui, da quest’opera su cui si chiudeva il pionieristico Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto di Fabio Camilletti (Lang, 2018) per presentare questo ideale sequel, o ampliamento per focus, persino migliore – anche se il precedente costituiva un’introduzione ricca e necessaria allo studio dell’occultura in Italia. Un paese che ha visto – come altri d’occidente, va detto, ma con connotazioni molto particolari – il rapporto tra modernità (boom economico, con scienza e tecnologia relativi) e spettri scandito in base al loro rapporto con le agenzie di certezza pubbliche, Chiesa cattolica e magistero Pci: e quanto negli anni Sessanta, per il loro controllo incrociato, era rimasto sotto il pelo di una pubblica attenzione se non ad opera di eccezionali eccentrici (si pensi a Buzzati, a Fellini) nei Settanta esploderà a fenomeno di massa come Grande Revival magico per conoscere una contrazione, come altre utopie, all’alba del decennio successivo.

Anche Spettri familiari parla a un certo punto del Segno del comando, e inevitabilmente: laddove affronta l’opera di un autore che deve ben aver ispirato gli sceneggiatori, Giorgio Vigolo, con le sue storie – in particolare Le notti romane, 1960 – su una “Roma fuor di sesto” (come s’intitola il cap. 3). Storie di time-slip, che dal capezzale di Ernesto de Martino intento a offrire alla giornalista ventiseienne Fausta Leoni un’ultima intervista, sconcertante, sul rapporto tra tempo e paranormale (1965), tra speculazioni parascientifiche e letterarie in tema di “compresenza dei tempi”, si dipana a constatare come in Roma le diverse epoche coabitino e si compenetrino rivelando pieghe paradossali. Ciò che nello sceneggiato emergeva non solo dalla vertigine temporale di un minuetto di reincarnazioni, ma dall’effetto straniante di chiavi diverse della trama, compenetrate a forza durante la lavorazione (a un’originaria soluzione razionalista se n’era sovrascritta una sovrannaturalistica, senza che l’una cancellasse in toto le tracce dell’altra, a perdere lo spettatore almeno quanto l’attonito protagonista Forster): ma insieme “un tempo finito improvvisamente ‘fuor di sesto’, soggetto a un ‘andamento a singhiozzo’: un fenomeno che investe la sfera intra-diegetica quanto quella extra-diegetica, finendo per riverberarsi sull’atmosfera stessa del set”. Con il teatro di una città dei morti come Purgatorio a-teologico, a richiamare quell’aldilà popolare che di cattolico presenta solo alcuni elementi ma assomiglia maggiormente a un Ade pagano.

Si è detto che il volume rappresenta una sorta di sequel a Italia lunare nel senso di riprenderne il filo di ricerca e alcune provocazioni tematiche (Il Segno del comando, appunto): ma non un sequel in senso cronologico, perché il discorso non parte dagli anni Sessanta, ma da molto prima. Dopo una bella introduzione sui fantasmi della nostalgia, Spettri di Nonna Speranza, tra Nilla Pizzi, Nunzio Filogamo e Gozzano, infatti, il capitolo 1, Dispacci dall’oltretomba, riguarda Gli scritti medianici di Pitigrilli, a partire dal 1940 e con molte informazioni retrospettive. Dove il rapporto tra messaggi del tavolino di fantasmi eccellenti – narratori, poeti… – e scritture imitative del losco informatore dell’Ovra (“scrittore-spia e spia-scrittore”, secondo Lussu), nonché superficialotto alla deriva di se stesso, dice parecchio del suo patetico tentativo di sfuggire alle colpe rifugiandosi in un cenacolo immaginoso e consolatorio.

Segue (cap. 2) Il gran teatro delle anime in pena, sui fantasmi di Eduardo, in particolare su Questi fantasmi! (1946), lo spiritismo napoletano dalla Belle Époque in avanti, Lombroso e gli Spiriti inquilini, il nesso tra munaciello/Poltergeist e charivari nello stigmatizzare unioni problematiche, la dimensione fantasmatica del teatro. Mentre alla parte su Vigolo segue Caramelle al cimitero (cap. 4) sulle scampagnate medianiche narrate da Dino Buzzati, in particolare sul dimesso medium trevisano Lava: ma ci sono anche il torinese Rol e il romano Fulvio Rendhell.

Può interessarci poco che Rol sia stato anzitutto un grande mentalista, forse convinto di dover combattere coi suoi prodigi – non parlava di spiriti – il materialismo in anni di crisi delle tradizionali istanze religiose, o forse rimasto prigioniero del proprio garbatissimo personaggio (che Piero Angela, si noti, non volle mai disturbare). Chi scrive, ragazzo negli anni Settanta ed entusiasta di storie strane, aveva cercato d’incontrarlo con il sistema poco medianico d’una telefonata: non avevo detto che tra i suoi frequentatori c’era un amico dei miei nonni, e mi ero sentito rispondere da un gentilissimo maggiordomo che Rol non era disponibile a un incontro. Sospetto in realtà che il presunto maggiordomo fosse Rol stesso, e ci penso spesso passando davanti alla targa affissa sulla facciata della casa di via Silvio Pellico dove abitava. Mentre di Rendhell leggevo con avidità le avventure parapsichiche pubblicate su un rotocalco comprato da mia madre (doveva essere la testata Grazia): ghost story bellissime – almeno così le ricordo, l’autenticità non importa –, che meriterebbero senz’altro una ripubblicazione in volume.

La conclusione, Una tavoletta ouija a Villa Finzi-Contini, sul filo di Bassani, le Storie di spettri di Mario Soldati e le voci dei parapsicologi (Talamonti, Dèttore…) evoca – verbo quanto mai proprio – i fasti del bicchierino (o della tazzina, come si usava allora tra ragazzi) a porre il problema di “Cosa sono gli ‘spiriti’ che intervengono alle sedute?”. La risposta, in questo bellissimo libro di storia della cultura e di letteratura italiana (con pagine altissime), non la offrono la parapsicologia né tantomeno lo spiritismo: quegli spiriti riguardano noi e la realtà del tempo in cui siamo immessi, le dimensioni della vita e della morte che ci interpellano in modo più pressante man mano che gli anni passano, le nostre nostalgie e malinconie e le stesse urgenze della scrittura. Un tema non certo derubricabile a vuota sciocchezza, per le infinite e graffianti consonanze a ciò che siamo, alla fictio della letteratura e all’autofiction (autoinganni compresi) suggeritaci da una società, al rondò di sentimenti, emozioni, paure, contraddizioni che viviamo ma a volte tenendoli sotto il tappeto. E accidentalmente su quel tappeto posa un tavolino a tre gambe. Qualche volta, danza nell’aria.

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La “malinconia senza rimedio” di Valerio Zurlini https://www.carmillaonline.com/2024/05/06/la-malinconia-senza-rimedio-di-valerio-zurlini/ Mon, 06 May 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82459 di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto [...]]]> di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto degli eroi dei noir francesi), rivolge alla sua allieva Vanina (Sonia Petrova). Una “malinconia senza rimedio” è anche quella che, al pari della ragazza, prova il professore, è quella che promana da ogni singola inquadratura del film, ambientato in una livida Rimini invernale, fatta di gelide albe e tramonti, di giorni di pioggia che rintoccano nella quotidiana tristezza della provincia, di notti passate a bere e a giocare a carte, di mare in tempesta e di vento incessante, di strade alberate piene di foglie cadute. E, grazie al recente saggio di Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio, che proprio dalla battuta di Delon trae il titolo, adesso sappiamo che è anche quella di Valerio Zurlini, regista del film. Un grande autore per lungo tempo ingiustamente dimenticato, ‘riabilitato’ e riscoperto, se così si può dire, soltanto molti anni dopo la sua prematura scomparsa avvenuta nel 1982. Grazie al lavoro della studiosa, riusciamo infatti a scoprire molti lati della vita e dell’attività artistica di Zurlini poco noti al grande pubblico, non da ultime le delusioni e le malinconie derivate dall’impossibilità di realizzare diversi progetti, dal vedere sfumare all’improvviso dei film che erano sul punto di essere realizzati e che avrebbero potuto facilmente essere dei capolavori. Quando l’arte si inzacchera nel fango dell’economia, dei tornaconti delle produzioni e dell’universo aziendalistico della macchina-cinema (spietato oggi come negli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta), le stesse realizzazioni artistiche spesso si bloccano perché sono lontane dai compromessi e dai favoritismi. Zurlini è stato un cineasta libero come pochi: come sostiene anche Fioroni, se un progetto, frutto o meno di un compromesso, non gli andava a genio, era impossibile farglielo realizzare.

Eppure, insieme a molti progetti non realizzati a causa di forza maggiore, il regista bolognese ci ha lasciato diversi capolavori. È il caso, ad esempio, della cosiddetta “trilogia della Romagna” o “trilogia adriatica”, composta da tre film girati sulla riviera romagnola – Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961) e, appunto, La prima notte di quiete (1972) – alla quale Fioroni dedica largo spazio. L’ambientazione adriatica, secondo la studiosa, “più che un elemento decorativo facilmente identificabile, è un paesaggio dell’anima, una metafora della condizione umana”. Infatti, “Zurlini è il cineasta dei paesaggi come stati d’animo, ossia in tutti i suoi film l’ambientazione è sempre lo specchio della realtà interiore dei personaggi”. Sembra che la riviera adriatica, più che quella tirrenica, trasudi di malinconia: siamo lontani, in effetti, dall’atmosfera scanzonata della Castiglioncello de Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Si tratta di un paesaggio forse più ‘nordico’ e glaciale rispetto all’altro versante, che ha molto da dire anche nei momenti di fine estate o, addirittura, invernali, dalle toccanti descrizioni della spiaggia in settembre, quando il mare comincia a ingrossarsi e a cambiare colore, che incontriamo ne Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani (1958) fino alle malinconiche tonalità con le quali Pier Vittorio Tondelli lo descrive nell’articolo Fuori stagione (1985), appartenente alla raccolta Rimini come Hollywood e dedicato alla riviera in inverno, quando emerge la “vita segreta delle cose e degli oggetti”. Né bisogna dimenticare che lo stesso Zurlini, come leggiamo nel saggio, d’inverno amava ritirarsi in un albergo di Riccione a lavorare e a scrivere in solitario, assaporando di quel mondo i suoi aspetti più malinconici.

In tutti i film della trilogia (l’unico ambientato in estate è, ça va sans dire, Estate violenta) si narrano amori impossibili portati avanti da personaggi maschili che ridisegnano una nuova concezione di eroe: “un uomo trasognato, sensibile, vicino all’universo femminile con cui vuole entrare in contatto profondo, e ineluttabilmente destinato al fallimento”. La malinconia appare perciò come “un rifiuto consapevole del machismo e di una virilità grossolana, che sfocia in una rappresentazione queer cioè non normativa né tantomeno canonica della mascolinità”. Carlo Caremoli (Jean-Louis Trintignant), in Estate violenta, si innamora di Roberta (Eleonora Rossi Drago), ma sarà un amore impossibile a causa dei disastri della guerra e delle convenzioni sociali come impossibili saranno anche quelli che vedono coinvolti Lorenzo (Jacques Perrin) e Aida (Claudia Cardinale) ne La ragazza con la valigia e i già ricordati Daniele e Vanina ne La prima notte di quiete.

Nel libro di Federica Fioroni incontriamo però un’accurata analisi anche degli altri film di Zurlini, vale a dire Le ragazze di San Frediano (1955), Cronaca familiare (1962), entrambi tratti da romanzi di Vasco Pratolini, Le soldatesse (1965), Seduto alla sua destra (1968), Il deserto dei Tartari (1976), dal romanzo di Dino Buzzati. Sono film, tra l’altro, come Cronaca familiare in special modo, intrisi di fitti rimandi all’arte pittorica: di essa, Zurlini era un esperto ed un appassionato e allora, nel lungometraggio tratto da Pratolini, la fotografia si arricchisce di rimandi all’opera di Ottone Rosai come La prima notte di quiete ci offre un “momento di sospensione diegetica” (allo stesso modo di Nostalghia di Tarkovskij) dedicato alle inquadrature della “Madonna del Parto” di Piero della Francesca. Anche ne Il deserto dei Tartari la macchina da presa indugia spesso sui quadri appesi alle pareti instaurando altri momenti di pittura diegetica. Quest’ultima è presente altresì in Estate violenta, nel momento in cui Carlo e Roberta, nella casa del primo, ballano volteggiando vicino a un quadro di Carlo Carrà, Atleti in riposo (1935) e ad “un affresco che rappresenta la famiglia alla maniera di Picasso”.

È necessario ricordare che, oltre che da una bella prefazione di Marco Bertozzi, il libro è corredato da una interessante intervista a Francesco Zurlini, figlio di Valerio, il quale ci rivela – insieme ad altri episodi e aneddoti della vita del padre – che il cappotto cammello indossato da Delon ne La prima notte di quiete era del regista ed è stato successivamente indossato a lungo anche dal figlio Francesco. Come già accennato, il saggio, oltre che un rigoroso percorso di analisi attraverso l’opera del regista bolognese, è anche un prezioso e discreto avvicinamento al travaglio esistenziale dell’autore e, al pari dei film realizzati, vengono passati sotto setaccio anche i diversi ‘sogni infranti’ di Zurlini, cioè i progetti non realizzati. Se ne possono ricordare alcuni: un film su Arthur Rimbaud; un’opera dal titolo La zattera della Medusa, in cui il rimando al celebre dipinto di Géricault doveva tratteggiare metaforicamente l’esistenza di un gruppo di intellettuali americani che aveva ritrovato a Roma una “zattera di salvezza”; un altro film dal titolo Verso Damasco, incentrato su un’inchiesta sulla morte di Cristo realizzata da Saulo di Tarso (poi San Paolo), un progetto che sarà ripreso da Damiano Damiani nel 1986 con L’inchiesta.

Scopriamo perciò come i film di Zurlini rappresentino tante tappe autobiografiche del suo personale tormento, “un oscuro fardello che lo accompagna fin dalla sua nascita, una macchia di nera malinconia che si allarga sempre di più fino a inghiottire lo splendore di una vita destinata al successo, processo di cui lui stesso è lucidamente consapevole”. Ecco perché quella “malinconia senza rimedio” da cui siamo partiti – e da cui il saggio di Fioroni trae il titolo – non è soltanto quella di Vanina, o di Daniele, o degli altri personaggi zurliniani. Essa appare radicata nel profondo del suo cinema, nelle scelte artistiche ed estetiche, e trova il suo corrispettivo più riuscito nel paesaggio di Rimini e della riviera adriatica in inverno. Come Vanina, i personaggi zurliniani (e probabilmente lo stesso autore), immersi nella solitudine degli inverni sul mare, per esprimere la loro malinconia potrebbero usare anacronisticamente le parole de Il mare d’inverno, la canzone di Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone portata al successo da Loredana Bertè nel 1983, un anno dopo la morte di Zurlini: “Mare mare / qui non viene mai nessuno a trascinarmi via / Mare, mare / qui non viene mai nessuno a farci compagnia”.

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Clima e letteratura: è finita l’età dell’innocenza https://www.carmillaonline.com/2023/10/24/clima-e-letteratura-e-finita-leta-dellinnocenza/ Tue, 24 Oct 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79669 di Paolo Lago

La società attuale lacera gli ultimi brandelli di innocenza rimasti a qualsiasi espressione culturale; ormai è stato definitivamente strappato anche il sottile velo che avvolgeva la letteratura. Lo chiarisce in modo esemplare Maurizio Bettini all’inizio del suo saggio Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, quando afferma che oggi non possiamo più leggere i versi del libro I dell’Eneide relativi al naufragio di Enea e compagni nel canale di Sicilia analizzandone stile e figure retoriche, come faceva lui quando era studente universitario. Se allora pareva ovvio e normale sondarli soltanto attraverso la lente della filologia, oggi, che in [...]]]> di Paolo Lago

La società attuale lacera gli ultimi brandelli di innocenza rimasti a qualsiasi espressione culturale; ormai è stato definitivamente strappato anche il sottile velo che avvolgeva la letteratura. Lo chiarisce in modo esemplare Maurizio Bettini all’inizio del suo saggio Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, quando afferma che oggi non possiamo più leggere i versi del libro I dell’Eneide relativi al naufragio di Enea e compagni nel canale di Sicilia analizzandone stile e figure retoriche, come faceva lui quando era studente universitario. Se allora pareva ovvio e normale sondarli soltanto attraverso la lente della filologia, oggi, che in quello stesso luogo trovano la morte innumerevoli nuovi profughi in fuga da guerre e distruzioni, non è più possibile. Come scrive Bettini, “inevitabilmente leggendo le parole di Ilioneo il pensiero corre ai nuovi profughi che, come i Troiani dell’Eneide, cercano di varcare il canale di Sicilia per raggiungere (come allora) l’Italia, fuggendo da morte e distruzione; e come i Troiani sono vittime di un naufragio. Ci sono troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a mezz’acqua perché quei versi si possano ancora leggere solo come poesia. Sono diventati cronaca. Gli orrori del Mediterraneo hanno tolto all’Eneide qualsiasi innocenza letteraria”1.

Penso che le osservazioni di Bettini riguardo alla perdita dell’innocenza della letteratura possano valere – mutatis mutandis – anche per il clima. Qui non si tratta, come nel caso analizzato dallo studioso, di letteratura classica che, inevitabilmente, si trasforma in “cronaca”. Si tratta, comunque, sempre di cambiamento di prospettiva di lettura. Mi spiego: oggi – in un momento in cui il clima, a causa delle emissioni inquinanti, sta mutando nella direzione di un surriscaldamento globale e in cui molte stagioni intermedie, come l’autunno, stanno sparendo – non possiamo più leggere poesie o brani di racconti o romanzi del passato (anche i cosiddetti classici), dedicati al susseguirsi ‘tradizionale’ delle stagioni, con la stessa ottica di trenta o quarant’anni fa. Se, leggendoli, non rileveremmo le differenze fra allora e oggi, saremmo colpevoli. Colpevoli di ignorare i cambiamenti climatici e non provarne dolore. Quelle poesie e quei brani che parlano di un susseguirsi ‘normale’ delle stagioni sono ormai separati da noi da uno spazio temporale incolmabile. Uno spazio in cui i cambiamenti avvenuti, provocati dal cinismo meccanico e autoreferenziale del capitale, hanno fatto perdere ad essi qualsiasi possibilità di essere rivissuti. Per cui, non li possiamo più studiare ed analizzare, anche in ambito scolastico o universitario, senza porre l’accento sul fatto che quei testi ci parlano ormai di un altro tempo, di un’altra era.

Dal momento che stiamo vivendo un ottobre caldissimo, con trenta gradi in molte località italiane durate almeno fino alla metà del mese, vorrei concentrarmi soprattutto su come l’autunno e l’inverno sono stati cantati, con un’innocenza che ormai ci dobbiamo dimenticare, in alcune poesie e romanzi del passato. E ci dobbiamo dimenticare anche delle stagioni delineate in queste poesie e in questi romanzi, o dobbiamo ricordarle come qualcosa che mai più rivedremo. Mi viene subito in mente, però, non un esempio letterario ma uno tratto dal cinema, il quale potrebbe apparire emblematico del mutamento del clima avvenuto anche in tempi relativamente recenti. Il film La prima notte di quiete (1972), di Valerio Zurlini, racconta l’arrivo del professore di Lettere Daniele Dominici, interpretato da Alain Delon, in una Rimini livida e invernale. Come spesso succede, il film, distribuito in vari paesi europei, ha subito, nelle traduzioni, un vero e proprio stravolgimento del titolo. Ad esempio, in Francia venne rititolato Le professeur mentre in Germania Oktober in Rimini (anche se il film venne girato in febbraio). Ebbene, l’immaginario tedesco del 1972 associava al mese di ottobre un paesaggio della riviera adriatica malinconico e gelido, con i personaggi del film perennemente avvolti in sciarpe e cappotti. Si tratta di un abbaglio? Forse i tedeschi hanno pensato a una Rimini ottobrina più vicina al loro clima continentale o forse nel 1972 le condizioni climatiche erano tali che, in alcuni giorni, potevano avvicinarsi a temperature prettamente invernali. Fra le due ipotesi propenderei di più per la seconda, anche tenendo conto del fatto che due anni dopo, nel 1974, dati alla mano, si ebbe un ottobre freddissimo. Di sicuro, sarebbe impensabile un titolo del genere per la prima metà dell’ottobre 2023 (e, diciamocela tutta, anche per questi giorni): altro che cappotti e gelo invernale, a Rimini le spiagge saranno state ancora affollate come ad agosto. Il film di Zurlini ci può portare direttamente anche ad un esempio letterario. Ne Gli occhiali d’oro (1958), Giorgio Bassani racconta il mutamento stagionale dall’estate alle prime avvisaglie d’autunno proprio sulla riviera adriatica: lo scrittore descrive come, ai primi di settembre, il mare comincia a cambiare colore, divenendo più cupo e agitato e annunciando così il mutamento di stagione. L’Oktober in Rimini dell’immaginario tedesco assomigliava molto di più a un ciclo stagionale non ancora stravolto dal riscaldamento globale. E comunque, già nel 1958, ma ancora di più nel 1972, l’Antropocene2 stava già gettando solide basi per il surriscaldamento del clima.

Facciamo adesso un salto indietro nel tempo e andiamo, in pieno Romanticismo, a leggere l’Ode al vento occidentale di Percy Bisshe Shelley che venne scritta in un bosco sulle rive dell’Arno, vicino a Firenze, il 25 ottobre del 1819. Shelley descrive il “Vento selvaggio occidentale” come “alito della vita d’Autunno” mentre le foglie, con accenti romantici, diventano “spettri in fuga da un mago incantatore”. Il vento è anche colui che guida “i semi alati ai loro letti oscuri / dell’inverno”. La poesia riecheggia di tonalità cupe venate però di una speranza, il ritorno della Primavera; il finale, infatti, così suona: “Oh, Vento, / se viene l’Inverno, potrà la Primavera esser lontana?”3. Il poeta, all’arrivo del vento occidentale che porta l’autunno, rimpiange la primavera e il calore dell’estate. Lo stesso rimpianto lo incontriamo nel Canto d’autunno, appartenente ai Fiori del Male (1857) di Charles Baudelaire, il cui incipit è questo: “Ancora un poco e c’immergeremo nelle fredde tenebre, / e, allora, addio viva luce di un’estate troppo breve!”4. Estate troppo breve? Forse nel 1857 ma non davvero ai giorni nostri: almeno personalmente, non vedo l’ora che il caldo anomalo cessi per dare l’avvio a temperature più consone al mese di ottobre, senza magari provocare nubifragi forieri di danni (e bisogna dire che in questo caso, l’operato umano, con le sue cementificazioni indiscriminate, aiuta tantissimo i fenomeni metereologici estremi a provocare danni e tragedie). La stessa malinconia e lo stesso rimpianto per l’estate li incontriamo anche nella Canzone d’autunno di Paul Verlaine, appartenente alla raccolta Poèmes Saturniens del 1866, in cui, di fronte ai “singhiozzi lunghi / dei violini / dell’autunno” il poeta ricorda “gli antichi giorni” e piange5.

Anche Giovanni Pascoli, in Novembre, appartenente alla raccolta Myricae (1891) ricorda l’estate e la primavera con malinconia mettendo in scena l’illusione della breve “estate di San Martino”. La poesia è incentrata sui falsi segnali che farebbero pensare a una nuova primavera: il sole è così splendente e il cielo è così chiaro da far credere che ci possano essere gli albicocchi in fiore da qualche parte (ma è solo un’illusione, non c’è nessuna fioritura fuori stagione come oggi), mentre invece ci sono solo rami spogli e tutto d’intorno campeggia uno scenario invernale. La chiusa è cupa come un tetro suggello: è solo “l’estate, / fredda, dei morti”6. Vincenzo Cardarelli, addirittura, nella sua poesia Autunno, appartenente alla raccolta Giorni in piena del 1934, scrive che “già lo sentimmo venire nel vento d’agosto, / nelle piogge di settembre / torrenziali e piangenti”7. Certo, al giorno d’oggi non possiamo dire la stessa cosa. Come già accennato, se fino a trenta o quarant’anni fa questi testi potevano essere letti senza ulteriori precisazioni dal momento che conservavano intatta la loro innocenza, oggi sarebbe opportuno fermarci un attimo e riflettere che nella contemporaneità il clima non è più quello che hanno vissuto questi poeti. Potremmo anche chiederci se ai giorni nostri i poeti proverebbero la stessa malinconia per l’estate oppure, dal momento che quest’ultima sembra protrarsi all’infinito, non cambierebbero le carte in tavola dicendo: “dolce autunno sospirato, quando arriverai?”. In questo caso, esso non rappresenterebbe più una cupa immagine di morte ma il tanto agognato refrigerio dopo un’estate troppo lunga.

Se poi dall’autunno ci spostiamo all’inverno, potremmo chiederci se, con la drastica riduzione delle nevicate invernali, molte pagine potrebbero ancora essere state scritte. Pensiamo alla celebre, intensa nevicata (che ha comunque anche un significativo valore metaforico) sulla Dublino del primo Novecento nel racconto I morti, appartenente a Gente di Dublino (1914) di James Joyce oppure, in tempi e in spazi più vicini a noi, a La città smarrita nella neve, racconto di Italo Calvino incluso in Marcovaldo (1963) o alla Torino rivisitata fantasticamente da Furio Jesi ne L’ultima notte (1962-1970, edito postumo nel 1987), rappresa in un freddo e nevoso inverno e attaccata dai vampiri. Forse, fra qualche generazione di narratori, anche la neve in città diventerà un elemento narrativo fantastico alla stessa stregua dei vampiri. Eppure, ci sono diversi scrittori che, anche in passato, non si sono davvero adagiati nell’innocenza della letteratura in fatto di clima: lo stesso Calvino ne è un esempio, il quale, insieme a Pasolini e Bianciardi (ma si potrebbero ricordare altri nomi), ha denunciato l’edilizia selvaggia degli anni cinquanta e l’inquinamento spregiudicato sorto in Italia con il boom economico.

Se non possiamo leggere con la stessa innocenza del passato questi autori ‘classici’ (e, al solito, se ne potrebbero aggiungere altri), è anche vero che potremmo leggere, disincantati e dopo aver buttato via gli ultimi rimasugli di innocenza, molti autori contemporanei che pongono in primo piano le stringenti problematiche legate al cambiamento climatico. Non è necessario che questi autori scrivano per forza testi distopici o popolati di “ibridi, mutanti, teriomorfi, simbionti, megafauna, alieni, materie instabili”8 (come, secondo Matteo Meschiari, dovrebbero presentarsi i romanzi dell’Antropocene) ma basta che rappresentino, anche all’interno di scene quotidiane, un autunno non più autunno, caratterizzato da un caldo anomalo (o un’estate e una primavera eccessivamente calde) come, ad esempio, Sesso più, sesso meno (2021) di Mario Fillioley o La meravigliosa lampada di Paolo Lunare (2019) di Cristò, la cui azione si svolge in ottobri e novembri ancora caldi e quasi estivi. L’ipercontemporaneità di un autore la si percepisce anche da come rappresenta il clima delle stagioni nella sua narrazione. Leggiamo gli autori contemporanei allora, ma leggiamo anche i classici cercando di uscire dall’aura incantata dell’età dell’innocenza che essi hanno vissuto in tema di clima. Altrimenti resteremmo intrappolati in vuoti involucri schematici come se ci trovassimo rinchiusi nei quadri del ciclo delle stagioni di Pieter Brueghel il Vecchio. Constatiamo quindi che la letteratura ha ormai perduto l’innocenza anche in fatto di clima non senza un pizzico di nostalgia, però, per quei (bei) tempi in cui l’espressione “autunno caldo” aveva un significato completamente diverso, e non certo legato al clima meteorologico.


  1. M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino, 2019, p. 4. 

  2. Termine che dobbiamo al biologo Eugene Stoermer e al premio Nobel per la chimica Paul Crutzen e che indica un’epoca in cui la presenza umana sta inesorabilmente mutando il pianeta. 

  3. La poesia è tratta da P.B. Shelley, Poesie, a cura di R. Sanesi, Einaudi, Torino, 1983. 

  4. La poesia è tratta da C. Baudelaire, I fiori del male e tutte le poesie, a cura di C. Rendina, Newton Compton, 1991. 

  5. La poesia è tratta da P. Verlaine, Poesie, a cura di L. Frezza, Rizzoli, Milano, 1986. 

  6. La poesia è tratta da G. Pascoli, Myricae, a cura di F. Melotti, Rizzoli, Milano, 1981. 

  7. La poesia è tratta da V. Cardarelli, Opere, Mondadori, Milano, 1990. 

  8. M. Meschiari, Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo, Armillaria, Milano, 2020, p. 27. 

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