Giorgio Almirante – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 27 Nov 2024 21:00:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gli scheletri nell’armadio di Giorgia Meloni https://www.carmillaonline.com/2024/08/19/gli-scheletri-nellarmadio-di-giorgia-meloni/ Mon, 19 Aug 2024 19:45:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83883 di Pietro Garbarino

Giorgia Meloni e gli esponenti di maggior spicco del suo partito (FdI) non vogliono dichiararsi apertamente antifascisti ma ogni tanto, in singole occasioni e per evidenti motivi di opportunità e convenienza, esprimono qualche sporadica condanna delle stragi neofasciste (dicono proprio così) degli anni ’70 dello scorso secolo.

Naturalmente lo fanno per cercare di prendere le distanze rispetto ad una stagione ritenuta lontana e passata (ma il Presidente La Russa era già grandicello e già ben attivo), tuttavia ancora qualcosa non quadra in quelle “spontanee” dichiarazioni precauzionali. Ma cosa?

Non vi è il minimo dubbio che il Movimento Sociale [...]]]> di Pietro Garbarino

Giorgia Meloni e gli esponenti di maggior spicco del suo partito (FdI) non vogliono dichiararsi apertamente antifascisti ma ogni tanto, in singole occasioni e per evidenti motivi di opportunità e convenienza, esprimono qualche sporadica condanna delle stragi neofasciste (dicono proprio così) degli anni ’70 dello scorso secolo.

Naturalmente lo fanno per cercare di prendere le distanze rispetto ad una stagione ritenuta lontana e passata (ma il Presidente La Russa era già grandicello e già ben attivo), tuttavia ancora qualcosa non quadra in quelle “spontanee” dichiarazioni precauzionali. Ma cosa?

Non vi è il minimo dubbio che il Movimento Sociale Italiano fosse un partito politico che al fascismo si ispirava. Ne fanno fede numerosissime dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, dalla fondazione di quella forza politica (avvenuta grazie al tanto esecrato regime democratico), sino al suo scioglimento, nel 1976, allorché esso si trasformò in “Alleanza Nazionale”, sotto la guida di Gian Franco Fini. Era quello un passaggio verso un partito certamente orientato a destra, ma definitivamente inserito nel sistema costituzionale e rispettoso dello stesso.

Il successivo passo, su impulso di Silvio Berlusconi, fu quello di una unificazione con il partito (azienda) fondato dall’ex Cavaliere, per dare luogo ad una nuova formazione politica, sempre rivolta a destra, ma ormai scevra da ogni sentimento nostalgico verso il passato regime mussoliniano. Però il “Popolo delle libertà” – così si chiamava la creatura politica sorta dall’incontro tra Forza Italia e A.N. – non durò a lungo per i contrasti ben presto insorti tra Berlusconi e Fini, e il loro divorzio diede luogo all’uscita di una consistente parte della componente già di A.N. (La Russa e Meloni compresi) che fondò il partito di FdI. Tale nuova formazione politica reintrodusse nel proprio simbolo la fiamma, che era stato da sempre l’emblema principale del MSI, e che rappresenta schematicamente l’odierna sepoltura di Benito Mussolini.

Ma, ciò che ha caratterizzato specificamente tale vicenda politica è stato il rifiuto, da parte dei fondatori, di proseguire un’esperienza politica certamente populista, ma di ispirazione politica neoliberale, e neo liberista in economia, sul modello di altri partiti della destra europea, quali i gollisti in Francia o i cristiano-democratici in Germania.
Il fatto è che tutti quei partiti, per collocandosi nella destra politica, si dichiarano apertamente antifascisti e antinazisti. Però, evidentemente i dirigenti di FdI non se la sono sentita di condividere quelle posizioni e per loro è stato indigeribile il fatto di schierarsi con coloro che hanno comunque combattuto, anche se da posizioni moderate e conservatrici.

Ma vi è di più.
Il Movimento sociale italiano è costantemente evocato e ricordato nelle manifestazioni politiche, interne, ma anche pubbliche di FdI. Nelle feste popolari di FdI viene sempre ricordato l’ex segretario del MSI Giorgio Almirante, brevemente omaggiato anche sul sito della presidenza del Consiglio di quest’anno, salvo poi avere cancellato l’encomio inopportuno.
Giova ricordare che Almirante ha sempre manifestato idee razziste, ha collaborato con la Repubblica fantoccio di Salò, ha definito la Repubblica democratica con l’appellativo di “bastarda”. Ma in FdI non ci si ferma ad Almirante.

Qualche tempo fa, a Brescia, è stata inaugurata una sede di FdI intitolata a Giuseppe Umberto Rauti, detto Pino.
Questi, anch’egli repubblichino, è da molte parti indicato come uno degli ispiratori dello stragismo neo fascista che dalla fine degli anni ’60, e per oltre un decennio, funestò l’Italia con sanguinosi attentati, provocazioni di ogni genere, e tentativi di stravolgere l’ordinamento costituzionale. Pino Rauti, fondatore nel 1956 di un gruppo estremistico di destra denominato “Ordine Nuovo”, fu collegato da sempre agli ambienti internazionali filo americani e atlantisti (cioè la NATO), organizzò per conto dei supremi comandi militari italiani convegni nei quali si teorizzavano le stragi di civili come strumento per combattere il “cancro della democrazia”, e scrisse, a pagamento, perfino un opuscolo per aizzare le forze armate a rivoltarsi contro lo stato democratico che dava libertà di agire ai partiti di sinistra.

Evidentemente Pino Rauti fingeva di ignorare che, se lui poteva svolgere la propria attività quasi indisturbato, lo doveva al fatto di avere e operava in uno stato democratico. Nel 1969 rientrò nel MSI, allorché ne divenne segretario Almirante, e ricoprì cariche importanti nel partito. Ma diverse indagini giudiziarie hanno appurato che non troncò mai i rapporti con O.N., di cui invece fu sempre di fatto il massimo dirigente, e tanto meno sconfessò mai le criminali operazioni di quel gruppo.

Ora, se nel partito di FdI si ricorda e onora la memoria di un simile personaggio, si deve altresì ritenere che la di lui attività è stimata e ritenuta esemplare. Allora si comprende bene il perché non si condanna il fascismo e non ci si dichiara avversi allo stesso. Ma vi è ancora di più. Se FdI rivendica una qualche continuità con l’MSI, deve rivendicare anche l’appartenenza a quel partito di personaggi, spesso con doppia appartenenza (al MSI e a O.N.), che hanno insanguinato l’Italia.

Carlo Cicuttini, uno dei responsabili della strage di Peteano del 1972 (3 carabinieri morti) era segretario di una locale sezione MSI del Friuli, così come Eno Pascoli. Entrambi verranno condannati per la strage.
Lo stesso segretario Almirante preannuncia la strage del treno Italicus (Agosto 1974) ma cerca di depistare le indagini, offrendo agli inquirenti una falsa pista di sinistra.
Carlo Maria Maggi, condannato per la strage di Piazza Loggia a Brescia, fu iscritto al MSI dal 1969, così come Gian Gastone Romani (che fu anche consigliere regionale del Veneto) nella cui casa ad Abano Terme si decise di fare la strage di Brescia.
Lo stesso Pino Rauti venne processato, ma poi assolto, per la strage di Piazza Fontana del Dicembre 1969, allorché era appena rientrato nel MSI.
Paolo Signorelli, fedelissimo di Rauti, e iscritto al MSI dal 1969 al 1796, fu condannato per appartenenza a banda armata (O.N.).
Ed infine una recente sentenza della Corte d’Appello di Bologna ha accertato che Mario Tedeschi, direttore del settimanale di estrema desta “Il Borghese” e senatore del MSI, fu uno dei mandanti della strage della stazione di Bologna dell’Agosto 1980, e percepì lauti finanziamenti da Lino Gelli, capo della Loggia massonica P2.

Ma anche sulle sentenze che hanno accertato le responsabilità per le stragi, gli esponenti dell’estrema destra, oggi al governo del paese, sono reticenti o anche nettamente negazionisti.
Marcello De Angelis, ex portavoce, poi rimosso dall’incarico, della Regione Lazio, ha dichiarato infondata la sentenza, definitiva, che ha stabilito la responsabilità dei fascisti nella strage di Bologna. L’On. Mollicone di FdI, parla di “teorema contro la destra”. La stessa Presidente del Consiglio, con gesto inconsueto e caduta di stile rispetto al suo ruolo, ha polemizzato fortemente con il Presidente dell’associazione delle vittime della strage di Bologna, che ha di recente ricordato le responsabilità di persone legate al MSI nel terribile ed efferato episodio.

In fin dei conti e in conclusione, le reticenze nel giudizio su quell’esperienza politica quando non gli apprezzamenti e le attestazioni di stima, rivelano chiaramente quali sono i motivi per cui non possiamo attenderci da Meloni e …… soci (ma ci starebbe meglio un altro appellativo) una netta dichiarazione di presa di distanza dal fascismo storico, ma anche dal neofascismo che ha operato in modo funesto in tempi più recenti.
Evidentemente, una eventuale e auspicabile apertura dell’armadio di famiglia, potrebbe fare uscire una eccessiva quantità di scheletri.

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La nonna di tutte le riforme https://www.carmillaonline.com/2023/12/12/la-nonna-di-tutte-le-riforme/ Mon, 11 Dec 2023 23:05:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80303 di Luca Baiada

 

L’idea di un’elezione presidenziale diretta è vecchia come il ghigno di Giorgio Almirante e gli appetiti della destra italiana. Nella versione Msi, Movimento sociale italiano, il presidente eletto era quello al Quirinale; stavolta si pensa a Palazzo Chigi.

Per inciso. Il presidente del consiglio, che presiede un organo collegiale, non è il «capo del governo». Quella era un’espressione corrente sotto il fascismo, ufficializzata dalla legge 2263 del 1925, «Attribuzioni e prerogative del capo del governo, primo ministro segretario di Stato»; fu una delle «leggi fascistissime» ed ebbe tre firme: il re, Mussolini e uno scriba leguleio. Invece la [...]]]> di Luca Baiada

 

L’idea di un’elezione presidenziale diretta è vecchia come il ghigno di Giorgio Almirante e gli appetiti della destra italiana. Nella versione Msi, Movimento sociale italiano, il presidente eletto era quello al Quirinale; stavolta si pensa a Palazzo Chigi.

Per inciso. Il presidente del consiglio, che presiede un organo collegiale, non è il «capo del governo». Quella era un’espressione corrente sotto il fascismo, ufficializzata dalla legge 2263 del 1925, «Attribuzioni e prerogative del capo del governo, primo ministro segretario di Stato»; fu una delle «leggi fascistissime» ed ebbe tre firme: il re, Mussolini e uno scriba leguleio. Invece la collegialità è da riattivare, perché è sbiadita da un pezzo, almeno dai tempi di un giocattolo di Bettino Craxi, il «consiglio di gabinetto», frutto bacato degli anni Ottanta, che già accentrava il potere a spese del Parlamento.

C’è da dubitare che la manovra presidenzialista, se riuscisse a imporsi sul governo, lascerebbe intatta la presidenza della Repubblica. A quel punto, comunque, il sistema sarebbe sbilanciato e finirebbe per non reggere: il Quirinale non potrebbe più scegliere il presidente del consiglio, e anche nella scelta dei ministri cambierebbero i rapporti di forza. Il titolare di Palazzo Chigi diventerebbe simile a un capo del governo e avrebbe dalla sua una designazione popolare, diversamente dal capo dello Stato, scelto con un sistema indiretto. Le due figure entrerebbero in conflitto: prevarrebbe quella elettiva o finirebbero per essere riunite. Un passo alla volta, l’esito è sempre quello.

Così si possono realizzare le ambizioni coltivate da almeno mezzo secolo. In fondo, simili a quelle cominciate prima, perché l’attacco alla Costituzione non aspettò neanche che si finisse di scriverla: risuonò nei colpi di mitraglia a Portella della Ginestra nel 1947. Seguirono gli anni Cinquanta, con l’Italia prigioniera di una cappa di piombo immobilista; l’Italia presa di mira, quando per paura di un cambiamento si tentò il colpo di mano, con la legge truffa del 1953. Un arnese quasi ingenuo, al confronto con altri più recenti, come la legge elettorale del 2005 con cui Berlusconi destabilizzò la legislatura seguente per tornare presto al potere.

Nel 1953, per pochi voti, la legge truffa non ebbe effetto e De Gasperi tramontò. Ci vollero ancora anni per vedere aperture a sinistra: moderate, ma già troppe per la suscettibilità dei reazionari e dei fascisti. Cominciò la stagione delle trame e delle bombe nere, una fase in cui il Msi – il partito che Fratelli d’Italia ha per riferimento persino nel simbolo – ebbe i suoi tentacoli. L’atto terroristico che segna una svolta, in quella stagione, è a Milano, a piazza Fontana nel 1969; oggi è l’anniversario. All’epoca la loggia P2, col suo gran maestro Licio Gelli e coi suoi grandi bidelli, presidi e provveditori agli studi, senza volto o visibili sfocati, fu un’altra piovra coinvolta nelle strategie antidemocratiche.

A rileggere il progetto della P2 emerso all’inizio degli anni Ottanta, il «Piano di rinascita democratica» (c’erano già trucchi verbali e fascisti in maschera), si vedono lenti successi. Nel 1993 viene scardinato il sistema elettorale proporzionale, grazie a un brutto referendum. Nel 2020 di quel Piano, grazie alla propaganda populista e a un referendum bruttissimo, è realizzato un altro obiettivo, la riduzione del numero dei parlamentari, e in misura più grave del taglio voluto dalla P2. Un’altra modifica ad alto livello, quella dell’elezione diretta, che va persino oltre il Piano, si affaccia adesso: appunto, sulla presidenza del consiglio. Altro che viva la mamma, la patria e le riforme.

Bisogna ammettere che i confezionatori del Piano ci sapevano fare; a disegnare il futuro non erano certo i boia delle bombe, come quelle di piazza Fontana e sui treni e nelle stazioni. Non erano neanche i loro immediati mandanti e complici nella burocrazia securitaria e nel mondo militare. C’erano notabili manovratori, e alla lontana c’erano teste d’uovo danarose, con suggeritori cresciuti negli studi di psicologia sociale, di ingegneria politica e di manipolazione del consenso.

La trappola contro la democrazia era ben congegnata. Da un lato si riduce la rappresentanza: il voto non è più uguale per tutti; tutti quelli che votano hanno un voto che pesa di meno; diventano di meno quelli che vanno a votare. Dall’altro si crea l’illusione di un rapporto diretto con una persona sola. Quella sì, si prende cura di noi; quella sì, interpreta i bisogni del paese, anzi del popolo, anzi via: della nazione, della patria, meglio se scritta tutta in maiuscolo, come un tempo la parola duce.

Adesso si propone di dare una delega a chi promette, a chi strilla, a chi strabuzza gli occhi, a chi aguzza lo sguardo, a chi fa il sorrisone o gli occhiacci, a chi smania contro quelli lì e quelli là, a chi gonfia il gozzo e la prosopopea. A chi fabbrica meglio il suo passato, se occorre. Magari a chi assolda le migliori agenzie di comunicazione, perché anche se costano e bisogna far debiti, poi si pagano col denaro del padronato e dei settori sociali forti e organizzati. Un capo con l’applausometro è una garanzia, per chi è in alto.

Il lavoro è trattato sempre peggio: il rafforzamento dell’esecutivo favorirebbe i privilegi di classe tagliando le gambe alla mediazione; e direbbero che è meglio così, perché diversamente si fa il consociativismo. Lo sciopero e la democrazia sui luoghi di lavoro, già ora malmessi, potrebbero diventare cari ricordi. Quanto alle pensioni, sarebbero tutelate a seconda dei settori interessati, ma non in proporzione alla grandezza numerica né al peso del lavoro: i gruppi produttivi sono parcellizzati dalle nuove tecnologie, il resto è carne da sudore, indistinta; solo i gruppi uniti o in posizioni particolari fanno pacchetto elettorale, gli altri sono spinti nell’individualismo e nell’apatia. Un modello dal vago sapore medievale, percorso da consorterie e rivendicazioni confuse: una camera delle corporazioni frammentata nei social, col tumulto dei ciompi in videogioco. Coincidenza, nella presentazione del disegno di legge si parla di «democrazia di investitura»; proprio investitura, come per le cariche feudali o ecclesiastiche nell’età di mezzo, prima della modernità.

La sanità, sempre più importante con l’invecchiamento della popolazione, sarebbe in cima alle preoccupazioni governative: sì, ma la sanità frammentata, quella per i ricchi, o per i settori protetti, o per aree geografiche che garantiscono bacini elettorali.

L’ambiente, a un presidente eletto, sarebbe caro come i bilanci delle società estrattive e delle imprese di smaltimento rifiuti, perché chi controlla denaro e pacchetti elettorali, appunto, è ancora più decisivo, in una singolar tenzone, dove per una manciata di voti vinci tutto o perdi tutto.

Per la giustizia il capo scelto dal popolo sarebbe veleno. La mozione approvata dal congresso di Magistratura democratica del 2023 sottolinea sia il rischio di «riforme costituzionali che nel loro insieme consentirebbero a una maggioranza politica di erodere la separazione dei poteri», sia la «valenza contro-maggioritaria dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali». In una società incarognita, percorsa dalla polverizzazione dei lavori, da suscettibilità nervose e dalla conta delle identità, la maggioranza muscolare col tribuno è pericolosa: non è la maggioranza in democrazia, è folla sotto un balcone. Folla irritabile, pronta alla rissa spaccatutto, al piagnisteo purgativo, all’ovazione salvifica finale.

Sull’informazione, già ora l’industria televisiva e il servizio pubblico occupato dal governo fanno il tutto mio; col presidenzialismo ci sarebbe una sana, igienica, nazional-ginnica cinghia di trasmissione fra governo e popolo; sarebbe garantito un intrattenimento vivace, soccorrevole: una persuasione camuffata da ascolto, un altoparlante travestito da orecchio.

I numeri nelle Camere li hanno, grazie all’attuale andazzo elettorale del malanno e della malapasqua, ma non grossi come li vorrebbero. Quindi è possibile che si vada al referendum. Varrà per questo, come per le altre chiamate alle urne: non andare a votare non è il rimedio. C’è ancora chi crede di sì, perché ha capito il gioco, perché la sa lunga, perché sono tutti uguali, perché tanto peggio tanto meglio, perché col discredito che la casta si tira dietro, presto viene giù. In altri paesi, chi ha seguito queste suggestioni le ha consegnate intatte agli eredi, che adesso non sanno cosa farsene.

Se la proposta di presidenzialismo sarà coltivata sino in fondo, man mano che la discussione si scalderà sentiremo uno scilinguagno di argomenti, vedremo un fuoco d’artificio di parole, faremo scorpacciate di propaganda. Per chi ricorda il referendum del 1993 sarà un ritorno al passato, a quel clima di illusione di massa, tutto all’insegna della lotta alla partitocrazia e della fine della corruzione (che da allora corre più di prima), col sistema proporzionale messo al bando e quello maggioritario esaltato come chiave della modernità, in un pettegolaio ipnotico dall’esito disgraziato, su cui Silvio Berlusconi, un anno dopo, andò a sedersi in trono.

Attenzione ai paragoni con altri modelli costituzionali, e non accontentarsi di sapere che un’elezione diretta del vertice dell’esecutivo, come quella che si propone, non c’è da nessuna parte. Il diritto comparato, nelle mani sbagliate, è un Arlecchino servitore di molti padroni. I modelli sono tanti, e anche solo limitandosi all’Europa c’è l’imbarazzo della scelta. Gli argomenti che tirano in ballo un paese o un altro sono come il caleidoscopio, che a girarlo ci vedi quello che ti vogliono far vedere.

Il sistema costituzionale italiano è frutto del lavoro di un’assemblea, finalmente uscita da elezioni vere, dopo vent’anni di dittatura con cinque guerre dentro. Anche dopo tanto tempo e alcune modifiche scriteriate, il testo ha pochi eguali per chiarezza, bilanciamenti, altezza di principi, bassissima dose di retorica e nessuna traccia di fanatismo o metafisica. Se la Carta fa perno sulla mediazione politica, anche quella faticosa, estenuante, e se sta alla larga dai decisionismi, dai carismi e dalle ovazioni, è perché allora certi ricordi erano freschi. Bastavano le macerie delle città, i lutti delle vedove e i cenci degli orfani, a spiegare come va a finire quando si grida che un capo ha sempre ragione.

Ma ecco due gonfiabili colorati. La governabilità: un jolly nella manica. La stabilità: una porta girevole. Ci sono stati decenni con governi brevi e uguali: stabilità marmorea. Con la riforma proposta, invece: effetto assurdo. Inamovibilità ufficializzata; e anche se – è il caso del governo Meloni – le promesse del programma svaniscono. Insieme, spinta al rovesciamento, perché la norma antiribaltone – l’hanno notato i costituzionalisti più attenti – suggerisce al secondo partito della coalizione vincente di colpire alla schiena il primo.

E poi, governabilità e stabilità non sono nella Costituzione. La parola governabilità, ancora decenni dopo la Carta, non era nei migliori vocabolari; poi c’è entrata, ma perché i linguisti prendono atto dell’uso. Parlamentabilità o regionabilità non sarebbero parole assurde? Adesso si vuole la governabilità nel testo. Non per estetica ma per sostanza, al letterato Pietro Pancrazi nel 1947 fu affidata la revisione linguistica della Costituzione (bei tempi). Il concetto di stabilità non va d’accordo con l’articolo 3: la Repubblica deve «rimuovere gli ostacoli» allo sviluppo della persona umana e alla partecipazione dei lavoratori alla vita della comunità. Piero Calamandrei diceva che di solito le costituzioni sono in polemica col passato, mentre la nostra lo è anche col presente. È una coraggiosa instabilità verso il meglio, che non esclude più governi nella stessa legislatura.

Occhi aperti. La voglia di padrone ha giuristi e politologi dalla sua, anche quelli che fanno i perplessi, gli equanimi, i tecnici. E sono tutt’altro che sprovveduti: per esempio, lo scriba del 1925, quello che firmò col re e Mussolini la legge fascistissima, si chiamava Alfredo Rocco, professore e codificatore e molto altro. Gli scribi di oggi sono intervistati e rispettati. La furbizia paga, e di storie furbe è pieno il passato, anche recente. Hanno voluto Camere rimpicciolite, invitando a ridurre il numero dei parlamentari prima e promettendo la legge elettorale per dopo; poi hanno riso di gusto sulla promessa, e adesso un Parlamento nato da elezioni con rappresentanza inadeguata, votato da una percentuale del corpo elettorale mai stata così bassa, mette mano alla Costituzione.

I progetti dei famigli del potere vantano un’antica araldica, perché libertà, partecipazione e condivisione danno fastidio da almeno due secoli. Si vuole spostare il baricentro verso gli abbienti e i clan immutabili, per fare degli altri una plebe vociante, ignorante, spaurita. Ben diverso, l’inno all’albero della libertà: «Già reso uguale e libero, ma suddito alla legge, è il popolo che regge, sovrano ei sol sarà»; e si cantava negli ultimi anni del Settecento.

Altro che la madre di tutte le riforme. Questa non è una riforma, è una restaurazione ed è decrepita come Plozia, quella dell’iscrizione funeraria che Marziale, venti secoli fa, consegnò all’epigramma Pyrrhae filia, Nestoris noverca… Sa di polvere e di sepolcreto. Eccola, Plozia, nella traduzione pepata di Guido Ceronetti:

Figlia di Pirra, di Nestore matrigna,

da Niobe verginetta

veduta già canuta,

da Laerte decrepito

nonna definita,

da Priamo balia,

suocera da Tieste,

a innumerevoli sopravvissuta

di cornacchie generazioni,

col suo calvo Melanzione

qui finalmente tumulata,

Plozia supplica ancora

cazzo.

Però, diciamolo. La vecchissima Plozia è simpatica, con la sua voglia di vivere che non si spegne neanche in fondo a una tomba. Il presidenzialismo, invece, è orrendo perché sotterra gli interessi popolari, la Repubblica fondata sul lavoro, la democrazia e quel che resta della giustizia sociale.

 

 

 

 

 

 

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L’Italia nera https://www.carmillaonline.com/2019/08/08/litalia-nera/ Thu, 08 Aug 2019 21:02:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54021 di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra [...]]]> di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra estrema italiana, oltre che a far comprendere quella particolare area politica, le sue idee, i suoi progetti ed il suo operato nel corso degli anni, possa contribuire anche ad approfondire in controluce momenti importanti della storia repubblicana. L’autore sceglie di limitare il più possibile il ricorso alle note e alle citazioni, in tal modo rendendo molto scorrevole ed agile la lettura del libro ed inserisce, distribuendolo in modo omogeneo nel corpo del testo, una sorta di glossario dei termini e dei concetti chiave necessari per la comprensione del fenomeno del neofascismo italiano.

La tesi che Vercelli espone fin da subito nell’Introduzione è che la storia della destra radicale e neofascista italiana sia il “reciproco inverso” della storia della Repubblica, cioè della democrazia nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Paradossalmente il neofascismo italiano, dopo la sconfitta del 1945, trova la sua ragion d’essere nel proprio opposto, ovverosia nella natura parlamentare, democratica, pluralista ed antifascista delle nuove istituzioni repubblicane, che prendono in mano la guida di quel paese che era stato la culla del fascismo. Pertanto, riflette Vercelli, nonostante le diverse forme assunte dal neofascismo italiano, dal 1945 – quando prevalgono ancora nostalgia per il passato prossimo e rancore contro i nemici – fino ad oggi – quando le formazioni dell’estrema destra più seguite, come Casa Pound, parlano di “fascismo del terzo millennio” – la «radice comune è la posizione antisistemica, ossia l’intenzione di mutare […] il “sistema” istituzionale, politico e finanche culturale della democrazia contemporanea. Negandone la radice egualitaria, che il neofascismo denuncia come una perversione dell’ordine naturale delle cose» (p. 9).

Nonostante la sconfitta nella guerra ed il crollo subiti tra il 1943 e il 1945, il fascismo ha continuato ad essere un soggetto politico presente nel nostro paese per tre ragioni fondamentali: in primo luogo, un’esperienza politica e poi un regime così duraturi come quelli mussoliniani non potevano scomparire improvvisamente, poiché troppo profondo era stato il loro radicamento nel paese. In secondo luogo, dopo il ’45 ciò che rimaneva del fascismo attira le attenzioni di quelle componenti conservatrici della società italiana che fasciste non sono, ma che coi reduci del fascismo intendono formare un “blocco d’ordine” capace di arginare i cambiamenti in atto nel paese. Infine, la contrapposizione tra i due blocchi della guerra fredda e la volontà, interna ed esterna al paese, di evitare lo spostamento italiano su posizioni apertamente filocomuniste, produce l’effetto della mancata epurazione e – come insegna Pavone – della netta prevalenza della “continuità” politico-istituzionale dello Stato rispetto al “cambiamento” auspicato dalle forze resistenziali partigiane. A questo si aggiunga che, come cent’anni fa, ancora oggi il neofascismo pretende di essere riconosciuto come forza politica rivoluzionaria: una rivoluzione che assume la forma della “reazione”, o meglio, si potrebbe dire, quella del “ritorno”, del “recupero” di un passato puro (in realtà mitico ed astorico) e di un presunto stato “naturale” sconvolto dalla corruzione della modernità, che avrebbe prodotto la democrazia, l’egualitarismo, il cosmopolitismo, considerati disvalori e perversioni della società. Al materialismo, al pragmatismo utilitaristico, all’economicismo, alla quantità equivalente della democrazia devono contrapporsi la qualità elitaria dell’aristocraticismo, lo spiritualismo, l’eroismo disinteressato del guerriero, la tradizione, il radicamento. Insomma una politica fatta più di evocazione suggestiva del mito e di estetica del gesto e dello stile esistenziale che di analisi razionale della realtà materiale, storica e sociale.

Nella prima parte del libro vengono considerati i primi anni dopo il crollo della Repubblica sociale e l’avvento della Repubblica e della democrazia. Per i fascisti italiani è il tempo del disorientamento, della difficoltà – per i più coinvolti con il regime di Salò – di nascondersi, di scappare, di cambiare identità o anche solo di passare inosservati, aspettando l’evoluzione della situazione interna al paese. Ma è anche il tempo della rivendicazione delle proprie convinzioni e dei primi tentativi di riorganizzazione, così come della accusa di codardia verso i “traditori” del 25 luglio e della elaborazione della figura del “proscritto”, cioè di colui che viene, ma soprattutto vuole, essere messo al margine della nuova società democratica ed antifascista che disprezza. La condizione del proscritto, rivendicata come segno distintivo ed elettivo, è quella che maggiormente accomuna i reduci di Salò e che ne rinserra le file. Figure di riferimento di quel primo periodo sono innanzi tutto Pino Romualdi, collaboratore di Pavolini e vicesegretario del Partito repubblicano fascista, che fin da subito cerca di stabilire contatti con i servizi segreti americani in funzione anticomunista e il “principe nero”, Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas. Il luogo dove il neofascismo inizia ad organizzarsi è Roma, in cui la presenza di un clero disposto ad aiutarli e a nasconderli, permette ai reduci di Salò di sfuggire alla cattura. Le prime azioni sono soprattutto atti velleitari e dimostrativi, che intendono recuperare lo spirito dell’arditismo e delle provocazioni squadriste in stile futurista del fascismo delle origini. Ma poco dopo comincia ad emergere anche un altro atteggiamento, quello che non disdegna l’idea dell’avvicinamento ai partiti conservatori del nuovo arco costituzionale e alla Democrazia cristiana in particolare; indirizzo che poi sfocerà nella fondazione del partito neofascista legalitario, il Movimento sociale italiano (MSI).

Il neofascismo italiano nasce in ogni caso dal trauma della sconfitta, che impone un processo di metabolizzazione e di ripensamento complessivo dell’esperienza del regime, che conduce i neofascisti a giudicare il fascismo regime come una “rivoluzione mancata”, soprattutto a causa delle componenti conservatrici della società italiana, che avrebbero usato solo strumentalmente il fascismo; oppure come “terza via” tra collettivismo comunista e liberismo capitalista; oppure, infine, come “rivolta” contro la modernità. Nel secondo e nel terzo caso c’è evidentemente la volontà di smarcare il fascismo dal suo passato per dargli la possibilità di rappresentare un’opzione politica per il futuro.  Tra il 1945 e il ’46 i neofascisti più disposti ad imboccare la via legalitaria individuano nell’anticomunismo la merce di scambio da offrire alle forze conservatrici in cambio di un allentamento dei provvedimenti penali e punitivi contro gli ex repubblichini. Spiega di seguito Vercelli come gli eventi del giugno 1946, il referendum istituzionale e il varo dell’amnistia Togliatti, mettano i neofascisti nella condizione di tornare ad agire più scopertamente rispetto ai mesi precedenti, separandosi definitivamente dai monarchici (che fondano un loro partito) e avvalendosi della scarcerazione di molti militanti che tornano a fare attivismo politico e si impegnano nella fondazione dell’MSI del dicembre del 1946.

Ma accanto alle iniziative politicamente legali, Vercelli richiama l’attenzione su una miriade di opuscoli, giornali, riviste, semplici fogli, pubblicazioni di ogni genere e tipo, inizialmente clandestini, a cui si aggiungono gruppi, altrettanto illegali, come l’Esercito Clandestino Anticomunista (ECA) o i FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), fondati da Romualdi stesso.  La prolificità editoriale dell’estrema destra neofascista, che si affianca a quella dei gruppi dell’attivismo politico militante, è un tratto costante del neofascismo italiano, dalle sue origini fino ad oggi, anche nei momenti di oggettivo e netto svantaggio, quantitativo e qualitativo, politico, culturale e sociale rispetto alla sinistra parlamentare ed extraparlamentare e attesta la presenza e la permanenza nel nostro paese di un’area politica, di un pezzo di società e di una parte dell’opinione pubblica inequivocabilmente fascisti, che, pur assumendo forme parzialmente diverse a seconda del mutare dei tempi e del contesto sociale, tengono fermo il riferimento al fascismo storico e ai suoi principi fondamentali.

Fin da subito, la prima distinzione interna alla destra estrema si sviluppa sull’alternativa tra l’accettazione «almeno formale e di circostanza, del parlamentarismo e delle istituzioni repubblicane» (p. 43), salvo prefiggersi lo scopo ultimo di sovvertirle se e quando possibile e la scelta eversiva della lotta senza quartiere ed esclusione di colpi contro l’assetto democratico della Repubblica italiana. La distinzione tra “eversione” e “legalità” va poi ulteriormente dettagliandosi, anche all’interno dello stesso partito ammesso alla legalità parlamentare, per esempio nelle posizioni dei reduci veri e propri, dei nostalgici del regime e della repubblica di Salò, i quali andranno via via perdendo posizioni, sia per evidenti ragioni generazionali sia per la passività e l’inconcludenza della posizione sul piano politico. Segue poi la posizione dei sostenitori della sola via legale, che si concretizza nel partito il quale però è chiamato ad affrontare fin da subito evidenti contraddizioni: i suoi dirigenti sono prevalentemente settentrionali e reduci di Salò, mentre l’elettorato è di gran lunga più consistente al Sud e legato al ricordo del «fascismo di regime, quello dai connotati notabiliari, fortemente conservatori» (p. 57). Sul piano ideologico poi, la “sinistra”, che recupera il programma di “socializzazione” di Salò, la suggestione della “terza via” e che si colloca su posizioni “antiamericane”, si scontra con le posizioni moderate aperte all’”atlantismo”, che sfoceranno più tardi nel collateralismo alla DC. Infine si configura anche la posizione, sostanzialmente eversiva, degli “spiritualisti”, ovverosia di coloro per i quali il fascismo come “idea” trascende le sue manifestazioni storiche particolari e si presenta come una “visione del mondo” che valorizza l’aspetto “spirituale” dell’uomo di contro a quello “economico-materiale” e pertanto individua i propri principi fondamentali nella “tradizione”, nella “comunità” e nella “identità” – vale a dire nella “razza” – nel “nazionalismo”, nella “gerarchia” come ”ordine naturale” che si regge sulla “disciplina”, nel rifiuto della modernità e dell’intero suo portato politico e culturale. Si tratta di quella parte dell’estrema destra neofascista che ha gravitato per molto tempo attorno a Julius Evola e che ancora oggi continua a richiamarsi a quel bagaglio di idee e che individua l’essenza e l’eccentricità del fascismo nella figura estetico-esistenziale del “legionario”, cioè del militante disciplinato, virile e combattivo che è «pronto a trasformare la propria esistenza in una continua impresa indirizzata al combattimento» (p. 47). È il “soldato politico”, parte di una élite aristocratica che si distingue dalla massa per destino, prima ancora che per volontà.

Ai suoi esordi il programma dell’MSI si concentra sull’anticomunismo, sul nazionalismo, sul richiamo ai progetti sociali della RSI, sull’idea di Stato forte e sul rifiuto della democrazia. Dopo pochi mesi di segreteria di Giacinto Trevisonno, durante la fase di gestione collegiale del partito e non potendo Romualdi assumere incarichi per ragioni giudiziarie, è Giorgio Almirante che dal giugno del ‘47 ricopre la carica di segretario della giunta esecutiva e di seguito quella di segretario del partito. Almirante intende mantenere un forte legame con l’esperienza della RSI e ripropone i temi dell’anticapitalismo e dell’antiamericanismo. Gli ultimi anni ’40 sono quelli dell’assestamento per l’MSI e nel frattempo i governi democristiani chiudono definitivamente la fase delle comunque blandissime epurazioni. Con la fine della segreteria Almirante (gennaio 1950), che viene sostituito da De Marsanich, è la parte moderata del partito a prevalere, per poi stabilizzarsi definitivamente con la scelta della linea del collateralismo nei confronti della DC, operata tanto dallo stesso De Marsanich, fino al 1954, quanto da Michelini, che guida il partito per ben quindici anni, fino al 1969. Neppure l’ingresso e l’assunzione di incarichi nel partito da parte di Rodolfo Graziani e di Junio Valerio Borghese, salutati con speranze sia dalla sinistra sociale dell’MSI sia dalla destra tradizionalista e spiritualista evoliana, producono un cambiamento della rotta politica moderata, ed è in questo contesto che nel 1956, Pino Rauti, su posizioni di tradizionalismo evoliano, esce dal partito e fonda l’associazione politico-culturale Centro Studi Ordine Nuovo (CSON).

Per Rauti – spiega Vercelli – «si trattava di trovare nuovi riferimenti alla tradizione culturale, ai simbolismi e alla mitografia neofascista. Ne derivarono alcuni risultati, destinati a lasciare un lungo segno. Il primo fu la piena e definitiva nobilitazione dell’impostazione evoliana, quella sospesa tra aristocraticismo, tradizionalismo, ed esoterismo» (p. 75). Il materialismo, l’edonismo, il consumismo, che trovano il loro equivalente giuridico-politico nel parlamentarismo democratico, devono essere combattuti attraverso forme di militanza politica che si richiamano ai movimenti legionari di estrema destra, come quello della Guardia di Ferro di Codreanu, nella Romania degli anni Trenta e Quaranta. Per superare la logica dell’alternativa tra Oriente e Occidente, viene elaborata la teoria dell’”Europa Nazione”, che – fa notare Vercelli – riprendendo l’idea nazista della “Fortezza Europa”, sfocia in una sorta di “europeismo suprematista”, che declina l’idea nazionalistica sul piano continentale europeo. Quando nel 1969, con il ritorno di Almirante alla segreteria del Movimento sociale, Rauti decide di rientrare nel partito, la componente più intransigente di Ordine Nuovo non sposa questa scelta rautiana e fonda il Movimento Politico Ordine Nuovo (MPON). Complessivamente l’esperienza di Ordine Nuovo, riflette Vercelli, costituisce «una pietra miliare nella storia della destra estrema italiana» (p. 75), sia perché molte delle sue idee sopravvivono all’organizzazione stessa e ricompaiono in altre formazioni e gruppi del neofascismo italiano fino ad oggi, sia perché «la sua traiettoria operativa s’incrociò più volte con lo strutturarsi di quel livello parallelo e non ufficiale di attività militare, lo Stay-behind, che in Italia già dal 1956 implicò la nascita dell’organizzazione Gladio» (pp. 78-79). Pertanto Ordine Nuovo è stato parte essenziale ed attore tra i principali di quella “strategia della tensione” che si è poi concretizzata nello “stragismo”, in stretta collaborazione con servizi segreti deviati ed appartati occulti dello Stato, tra gli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, da piazza Fontana alla Stazione di Bologna.

Gli anni Sessanta della destra eversiva italiana si aprono con la fondazione di una nuova organizzazione – Avanguardia nazionale – ad opera, tra gli altri, di un rautiano già coinvolto nelle attività di CSON: Stefano Delle Chiaie. Osserva Vercelli che «Avanguardia nazionale si rifaceva alla RSI come a diversi aspetti del nazionalsocialismo, giudicando fattibile una battaglia contro la democrazia solo attraverso la formazione di militanti tanto disciplinati quanto animati da un fideismo totale, nello “stile legionario” che doveva contraddistinguere le avanguardie della “rivoluzione nazionale”» (pp. 82-83). L’organizzazione di Delle Chiaie e poi di Adriano Tilgher è apertamente favorevole a soluzioni golpiste ed intrattiene rapporti coi regimi militari dell’America latina, di Spagna, Portogallo e soprattutto Grecia. Si impegna negli scontri di piazza e all’interno del mondo studentesco e universitario; il suo coinvolgimento nelle trame eversive e terroristiche di quegli anni è tale che nel 1976 viene dichiarata fuori legge. Altri eventi rilevanti di quel decennio sono il cosiddetto “piano Solo”, ovvero il tentato colpo di Stato ordito dal comandante dell’Arma dei Carabinieri, il generale Giovani de Lorenzo; l’uscita dall’MSI di Junio Valerio Borghese (1968), che dà vita al Fronte Nazionale, che due anni dopo sarà in prima fila nell’organizzazione del cosiddetto “golpe Borghese”. Una formazione politica dai progetti velleitari – tanto quanto il tentativo fallito di sovvertimento dell’ordine costituito – che, osserva Vercelli, ripropone vecchi cliché politici, che non vanno al di là della nostalgia del fascismo storico, proprio in un momento in cui, anche nell’area dell’estremismo di destra, sorgono nuovi fermenti e soprattutto l’esigenza di ripensare la militanza politica neofascista in modo indipendente dal passato.

Proprio per queste ragioni, in quegli anni hanno successo anche in Italia le idee di Jean-Francǫis Thiriart, fondatore nel 1962 di Jeune Europe, teorizzatore del “comunitarismo”, vale a dire di una confusa visione politica che intende proporsi come sintesi e quindi superamento dell’opposizione fascismo-comunismo, che riprende e corrobora l’idea di Europa Nazione, come “terza via” possibile nel mondo della contrapposizione tra blocchi, che, assumendo posizioni di antiamericanismo ed antisionismo, intende tanto opporsi al neoimperialismo, appoggiando i paesi non allineati o simpatizzando per il “guevarismo”, quanto rifiutare il materialismo edonistico ed il meticciato privo di radici, rappresentati dal modello statunitense. Idee che attraggono i giovani italiani cresciuti nell’area della destra radicale, in cerca di idee alternative tanto a quelle del conservatorismo legalitario dell’MSI, quanto a quelle del golpismo vecchio stampo. È da qui che iniziano a dipanarsi i fili di un percorso politico di lungo periodo, che ancora oggi è chiaramente presente nelle posizioni “rosso-brune” variamente espresse di volta in volta da Forza Nuova o da Casa Pound.

Il decennio 1969-1979, che Vercelli definisce “La stagione delle bombe”, è contraddistinto dai tentativi sempre più evidenti della destra estrema italiana di tagliare il cordone ombelicale col fascismo storico vissuto in modo nostalgico, perché «paralizzante rispetto a qualsiasi concreta azione politica» (p. 103). Da queste premesse prendono il via diverse linee di sviluppo politico: una è quella che si rifà al nazionalsocialismo e ad altre forme di fascismo di movimento e di militanza legionaria come le già ricordate Guardie di Ferro rumene o le Croci Frecciate ungheresi, perché ritenuto più capace di fornire una visione globale ed organica del mondo, il primo, e un modello valido di militanza, di fatto molto simile a quello evoliano del “soldato politico”, le seconde. Si tratta di idee che sostanziano le posizioni radicalmente eversive di Franco Freda, che con il suo “La disintegrazione del sistema”, ricorda Vercelli, diviene una figura carismatica di primissimo piano per il mondo dell’ultra destra italiana. Il passaggio successivo è quello della costituzione di nuove formazioni eversive, che prendano il posto delle ormai tramontate formazioni storiche (Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), che rompano definitivamente – almeno nelle dichiarazioni – con l’MSI, considerato ormai come un partito di delatori, rinnegati, traditori compromessi col sistema che dovrebbero combattere e infine che, anche nel tentativo di competere con la forza superiore delle organizzazioni della lotta armata comunista, intraprendano la via dell’eversione terroristica, da interpretare nel modo più violento e duro possibile. Da queste premesse nascono sia Terza Posizione, di Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri, sia i Nuclei Armati Rivoluzionari, gruppo eversivo esclusivamente terroristico che in Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti trova l’esponente più rappresentativo della sua essenza criminale.

Sul piano ideologico Terza posizione ripropone la prospettiva “nazionalrivoluzionaria” e mescola idee vecchie e nuove del fascismo e del neofascismo italiani: allo “Stato organico” come superamento dei conflitti di classe, al fascismo come “terza via” e al “socialismo nazionale”, alla difesa della “tradizione”, al ruolo politico delle “avanguardie consapevoli”, si aggiungono la teoria dell’Europa Nazione, il rifiuto dell’atlantismo missino, il coinvolgimento popolare nella lotta rivoluzionaria, l’attenzione per le marginalità sociali e per il mondo giovanile e di conseguenza il radicamento nel territorio e nei quartieri con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione e protesta, il sostegno alle lotte di liberazione nazionale, ma in quanto interpretate come movimenti di salvaguardia delle tradizioni dei popoli. Delle due anime dell’organizzazione, una – precisa Vercelli – più spontaneista e una invece (quella di Fiore e Adinolfi) che ritiene «indispensabile dotarsi di una filiera gerarchica e paramilitare per garantire la continuità organizzativa» (p. 131), è la seconda a prevalere nettamente, mentre lo spontaneismo armato e violento trova nei NAR le condizioni ideologiche e pratiche per la sua realizzazione compiuta. «I NAR, quindi, si svilupparono da subito, di contro all’esperienza di Terza Posizione, come una struttura aperta e acefala, una sorta di sigla-brand sotto la quale potevano riconoscersi soggetti anche molto diversi, ma accomunati dall’identità fascista e dalla disposizione al ricorso alle armi» (p. 134). Fioravanti, la Mambro e tutti gli altri si rifanno, aggiornandola ed adattandola al contesto degli anni in cui i NAR sono operativi (1977-1982), alla tradizionale idea fascista del primato della prassi sulla riflessione, dell’azione che fonda e giustifica se stessa, della violenza come mezzo di lotta politica non solo lecito, ma assolutamente necessario, in quanto atto che permette l’affermazione della forza guerriera degli individui superiori e che pertanto ristabilisce il naturale ordine della disuguaglianza. L’esaltazione della violenza, del ricorso necessario alle armi, della spontaneità autogiustificante dell’atto di forza, da un lato e la debolezza e la labilità ideologiche, dall’altro, conducono i NAR ad intrattenere relazioni sempre più strette con organizzazioni della malavita comune, come la banda della Magliana o la mala del Brenta. Insomma, spiega Vercelli, l’esperienza politico-terroristica dei NAR si sviluppa in direzione di un nichilismo individualistico destinato a concretizzarsi in un bagno di sangue privo di alcun senso, cioè del tutto fine a se stesso. E ancora una volta sono suggestioni evoliane, quelle dell’ultima fase della riflessione del filosofo fascista, che impregnano e supportano l’agire della più violenta tra le formazioni dell’estrema destra eversiva italiana.

In quegli stessi anni, nell’area dell’estrema destra legale e in collegamento con il partito, si sviluppano però anche altre iniziative, che, di fronte alle difficoltà di conseguire concreti risultati politici, spostano l’asse della loro azione sul piano sociale e soprattutto culturale, cioè “metapolitico”, secondo l’espressione usata a destra e in questo contesto rientrano le esperienze dei tre Campi Hobbit (1977, 1978, 1980), che per la prima volta promuovono il fenomeno della musica e dei gruppi musicali di destra, oppure di esperienze e sperimentazioni artistiche, grafiche e comunicative che possano rappresentare forme nuove di aggregazione e mobilitazione per i giovani dell’estrema destra, stanchi delle modalità tradizionali missine e che in qualche modo possano emulare le forme aggregative dell’estrema sinistra, per competere con esse.

Con il passaggio al decennio successivo, in un quadro complessivo di riflusso e declino generalizzato della partecipazione e della militanza politiche, è proprio il piano “metapolitico” quello su cui a destra si lavora con più convinzione, attraverso un consistente numero di iniziative editoriali, spesso di bassissima tiratura e di effimera durata, ma che dimostrano in ogni caso una certa vivacità dell’area politica del neofascismo italiano, che si avvale anche delle idee della cosiddetta Nuova Destra di Alain de Benoist, che dalla Francia approdano in Italia. Il bagaglio ideologico rimane sostanzialmente sempre lo stesso degli anni e dei decenni precedenti, ma si lavora soprattutto sul piano “metapolitico” e “culturale”, anche attraverso il filtro della letteratura e dell’immaginario del genere fantasy e con il fine ultimo di conquistare una posizione di “egemonia culturale”, «intesa come capacità di influenzare in maniera decisiva l’opinione pubblica, orientandone gli atteggiamenti, le preferenze e, in immediato riflesso, le scelte» (p. 156).

L’ultima parte dell’interessante saggio di Vercelli è dedicata al periodo 1992-2019, dalla fine della prima Repubblica ad oggi, in cui va profilandosi lo scenario di un nuovo neofascismo, con la diffusione innanzi tutto del fenomeno dei gruppi skinhead (Azione Skinhead, Circolo Ideogramma, Veneto Fronte Skinhead, ecc) e con la loro capacità di infiltrazione delle tifoserie calcistiche ultras e poi con l’attivismo via via crescente delle due formazioni politiche più dinamiche in questi anni: Forza Nuova e Casa Pound Italia. La prima, nota Vercelli, è più evidentemente legata all’ex militanza e all’esperienza politica di Terza Posizione di Fiore ed Adinolfi e mantiene un’impostazione ideologica decisamente più dogmatica ed ortodossa che si incentra su tradizionalismo, vetero cattolicesimo, antisemitismo, omofobia, identitarismo, sovranismo, avversione per lo straniero e rifiuto del meticciato, antimondialismo, anticapitalismo, ma da intendersi non tanto come messa in discussione delle strutture del modo di produzione capitalistico, quanto piuttosto come avversione nei confronti del sistema bancario e finanziario internazionale (associato al sionismo). La seconda, seppur il suo armamentario ideologico non si discosti poi più di tanto e in modo sostanziale da quello di Forza Nuova, si propone come una formazione politica meno rigida e dogmatica, più capace di muoversi sul piano “metapolitico” e su quello del radicamento nel territorio e nei quartieri, con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione sociale. Nonostante che sul piano elettorale nazionale, entrambe le formazioni politiche abbiano raccolto esiti del tutto irrilevanti (diverso è il discorso riguardante le aree tradizionalmente di maggior radicamento), anche grazie alle recenti e sempre più frequenti relazioni di Casa Pound con la Lega di Salvini, gli obiettivi dei neofascisti di ottenere una posizione di maggiore visibilità e rilevanza e di “occupare” un’area dell’opinione pubblica e dell’immaginario diffuso con alcune delle idee fondamentali dell’estrema destra, sembrano purtroppo essere stati conseguiti. Ma questo è un discorso che merita maggiori approfondimenti e più accurate analisi, essendo una pagina ancora aperta e in fieri della storia “nera” italiana che dura esattamente da un secolo.

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