Ginette Bertrand – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 Jan 2025 00:13:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Il valore del gioco nelle società non moderne https://www.carmillaonline.com/2024/03/26/sport-e-dintorni-il-valore-del-gioco-nelle-societa-non-moderne/ Tue, 26 Mar 2024 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81335 di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo [...]]]> di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo millennio, del fenomeno della “gamification”. Molto più semplicemente, si pensi a come alla spontaneità del calcio giocato dai bambini nelle strade e nei parchetti, con le giacche o gli zaini a fare da pali delle porte inesistenti, si stiano sostituendo le “scuole calcio” a cui i genitori iscrivono i figlioletti non appena sono capaci di stare in piedi con la malcelata speranza di rendere “produttivo” quello che dovrebbe essere il gratuito e spontaneo divertimento dei bambini.

Il soffocamento del gioco improduttivo ha però una lunga storia ed ha certamente a che fare con l’avvento dello sport moderno nato nelle scuole inglesi come dispositivo finalizzato alla creazione di élite e gerarchie che ha esacerbato lo spirito di squadra, il cameratismo e l’attitudine al comando, ossia tutto ciò che, come sostiene l’antropologo Philippe Descola nel volume-intervista Lo sport è un gioco?, «è necessario al buon funzionamento della solidarietà dei dominanti in una società di classi, e anche in una società di caste […] costituita da una molteplicità di strati sovrapposti che comunicano abbastanza poco tra loro… Solamente le grandi operazioni come la guerra o le celebrazioni sportive permettono di superare queste barriere di casta»1.

Nei primissimi anni Settanta, la studiosa Ulrike Prokop2, legata alla Scuola di Francoforte, intendendo demistificare la retorica olimpica a partire dall’ideologia pedagogico-sportiva del fondatore dei Giochi olimpici moderni, De Coubertin, evidenzia come il modello pedagogico di riferimento per il francese sia quello promosso a metà Ottocento dal reverendo Thomas Arnold che, per arginare le turbolenze degli allievi nel collegio da lui diretto, ricorre allo sport come a una «forma di “concorrenza regolata”, basata su criteri “oggettivi” che legittimano la formazione di gerarchie. Prestazioni valutate secondo criteri “neutrali” portano gli studenti ad accettare come “naturali” le posizioni di potere scaturite dalle competizioni. Ad una situazione caotica, che degenera in contrasti spesso violenti tra gli allievi, si sostituisce così una disciplina fondata sull’autocontrollo. […] Prokop vede nel modello della “concorrenza regolata” e della disciplina autoimposta desunta da Arnold il fondamento della concezione decoubertiniana dello sport, cardine di un progetto pedagogico di ispirazione positivista funzionale alla creazione di una società armonica nella quale gli individui sono portati a riconoscere l’autorità “oggettiva” della tecnocrazia». Insomma, secondo Prokop si tratterebbe di «un modello di democrazia “formale” che cela, dietro un’apparente uguaglianza, sostanziali stratificazioni sociali rappresentate come “leggi naturali”»3.

La preoccupazione di matrice positivistica per la coesione e la pace sociale di De Coubertin, secondo Prokop, è facilmente ravvisabile anche nei progetti pedagogici per le masse operaie (il “Ginnasio greco” e le “Università operaie”) che il francese elabora dopo la prima guerra mondiale con il fine, secondo la studiosa, di contenere i conflitti sociali e il potenziale rivoluzionario del proletariato.

All’interno del clima di generale messa in discussione della società che caratterizza il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta del Novecento, le critiche all’universo sportivo mosse da Prokop si affiancano ad altri interventi che, attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, mettono in discussione lo sport e la cultura del corpo della società capitalistica denunciando come l’invito alla pratica sportiva celi un intento educativo di stampo repressivo. Si possono vedere a tal proposito gli scritti Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm, usciti sulla rivista francese “Partisans” e pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione, e del sociologo tedesco di ispirazione francofortese Gerhard Vinnai, il cui saggio Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista viene pubblicato in Italia nel 1970. Si tratta di testi che, nella loro critica allo sport inserito nella dimensione dell’industria, del “campionismo”, dell’individualismo, della spettacolarizzazione e della ricerca del risultato ad ogni costo, hanno contribuito a formare una visione critica dello sport nell’associazionismo sportivo italiano di sinistra, come l’ Uisp, e di matrice cristiana, come il Csi, che, proprio in quegli anni, sviluppano una visione politica e sociale radicalmente alternativa dello sport, come attestano gli interventi che compaiono sulle rispettive riviste (“Il Discobolo” e “Stadium”) e nel saggio di Claudio Bucciarelli Lo sport come ideologia: alienazione o liberazione?, uscito nel 1974. Sebbene, letti a distanza di anni, tali saggi appaiono viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine riduttiva del fenomeno sportivo, rappresentano però i primi importanti tentativi di guardare criticamente allo sport prospettando una visione e una pratica di esso meno votata alla performance e più inclusiva4.

Visto che l’Occidente ha imposto al resto del mondo – tra le altre cose – il suo modello di sport competitivo caratterizzato da individualismo, diseguaglianze e sentimenti nazionali esasperati, confrontarsi con l’idea di gioco propria di mondi altri, lontani e residuali può essere utile ad una riflessione sullo sport moderno. Quando, ad esempio, gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana osservati dall’antropologo Descola – come del resto avviene in altere società “non moderne” – affrontano una partita di calcio, ad essere importante per loro non è il prevalere sull’altra squadra ma il gioco in sé, consistente nel segnare evitando che la partita conduca a diseguaglianze.

“Gioco” è una nozione ampia di cui si sono occupati pionieristicamente Johan Huizinga,5 che ha insistito sulla sua natura pre-sociale e ne ha sottolineato l’importanza nella cultura europea, e Roger Caillois6, che ha proposto una classificazione del gioco in base al predominare della competizione (agon), del caso (alea), della mimica (mimicry) o della vertigine (ilinx). Interessanti riletture di questi testi pionieristici alla luce del contesto videoludico contemporaneo sono state prodotte da Alexander Lambrow7, che contesta l’enfasi con cui Huizinga insiste sull’autonomia del gioco, per quanto sottolinei come vada riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui è stata espressa, e Lars Kristensen insieme a Ulf Wilhelmsson8, che mettono in relazione l’improduttività del gioco, dunque il suo distinguersi dal lavoro, espressa da Caillois con la lettura del sistema capitalista proposta da Marx.

Consapevole di quanto sia difficile individuare una definizione generale di gioco, da parte sua Descola, a partire dalla sua conoscenze di antropologo, ritiene sia necessario «distinguere il gioco come attività di emulazione e apprendimento che viene praticata nell’infanzia e nell’adolescenza, che è universale e che va oltre le frontiere dell’umanità»9 – visto che è riscontrabile anche tra altre specie animali –, da un gioco più sistematico e regolamentato, praticato soprattutto dagli adulti, di natura rituale, consistente «nella cooperazione tra due gruppi di persone che sono generalmente molto ben definite: dei lignaggi distinti, dei gruppi di filiazione, dei rappresentanti di diversi villaggi ecc. L’idea di cooperazione è più importante di quella di competizione; si tratta di collaborare a un’azione comune, di mettere in atto un processo che va oltre la volontà individuale di tutti i partecipanti»10.

Tra gli achuar, ma in generale in tutta l’Amazzonia, sostiene Descola, «si fa ricorso al gioco come attività di svezzamento, di apprendimento di ciò che è utile per la vita e di assimilazione delle tecniche, caratteristica dell’infanzia e dell’adolescenza»11. Ad esempio si fanno giocare i bambini di cinque-sei anni con mini cerbottane in bambù con palline d’argilla affinché, divertendosi, apprendano un’abilità tecnica a cui faranno ricorso quando, un po’ più grandi, si confronteranno con cerbottane più grandi per la caccia da appostamento, dunque, una volta cresciuti, possano destreggiarsi con la versione per adulti.

In queste società la caccia non si risolve semplicemente nell’atto del colpire la preda, ma presuppone innanzitutto trovare l’animale e adottare il suo punto di vista per avere la meglio su di esso e questo, ricorda l’antropologo, è ciò che si fa anche quando si gioca, ad esempio, a scacchi. In questi casi è dunque possibile assimilare la caccia al gioco.

Nelle società animiste anche la guerra “a bassa intensità”, consistente in raid di vendetta e scontri tra un numero limitato di individui, è stata a lungo un’attività che, come la caccia, presuppone la capacità di mettersi nei panni dell’altro. «In un certo senso, si potrebbe pensare che, nell’animismo, il gioco inteso nel senso della seconda definizione, il gioco collettivo diciamo, viene sostituito da attività di questo tipo: la caccia, la guerra, la pesca, che sono attività di emulazione, di competizione, che presentano dei rischi – spesso ne risulta un’uccisione – che prendono il posto del gioco»12.

Se il gioco ha scarsa rilevanza nelle società riconducibili a una ontologia “animista”, sostiene l’antropologo, risulta invece importante nelle società basate su sistemi “analogisti” – come nel mondo andino, in Messico, in gran pare dell’Asia Centrale e in Africa – in cui ha una funzione rituale, oltre che propedeutica. Si tratta di giochi in cui si compiono operazioni mentali con degli oggetti, che spesso prevedono una sfida tra due persone o tra gruppi che si affrontano faccia a faccia, propedeutici nel senso che predispongono a rintracciare legami tra elementi disparati.

Facendo riferimento alla sua esperienza tra gli achuar amazzonici, Descola ricorda che se un tempo tali giochi rituali erano ancora trasposti nella guerra e nella caccia, successivamente, poco a poco, le cose sono cambiate anche per l’introduzione nella loro società, da parte dello Stato nazionale ecuadoriano, del calcio e dell’Ecuavolley (una variante della pallavolo che si gioca in tre). In entrambi i casi, ha notato l’antropologo, gli achuar giocano senza porsi lo scopo della vittoria di una squadra sull’altra. Nel gioco del calcio da loro praticato tutti corrono dietro al pallone, portieri compresi, e le squadre hanno un numero di partecipanti variabile e non regolamentato; «ciò che conta, in fondo, è il gioco, prendere palla e segnare un gol»13, non farne uno in più dell’altra squadra. Ciò era già stato rilevato da Lévi-Strauss nei giochi con la palla arrivati tra i gahuku-gama in Nuova Guinea e lo stesso accade nel cricket praticato nelle isole Trobriand al largo della stessa nazione. Si tratta evidentemente di un’idea di gioco che privilegia l’attività ludica rispetto al risultato.

Lo sport, così come lo conosciamo e pratichiamo nelle società moderne ed ipermoderne, tende a rivelarsi un’attività di gioco particolare visto che presenta una serie di regole codificate e prevede competizioni orientate a uno specifico obiettivo: avere la meglio su altri partecipanti. Pur trattandosi di un’idea di gioco esclusiva al mondo moderno, è però all’interno di quest’ultimo che più marcatamente il conseguimento del risultato tende a soffocare l’attività meramente ludica.

«Mettere a confronto lo sport moderno con il gioco presso gli achuar o gli aztechi», scrive Stefano Allovio nella Prefazione al volume Lo sport è un gioco?,

ha la forza, per opposizione, di rendere chiara la stretta connessione fra la competizione sportiva e una specifica concezione dell’individuo emerso nella modernità: un individuo proprietario del proprio corpo e focolaio non solo della propria emancipazione e della propria libertà, ma anche [come afferma Descola nel libro] “focolaio di una competizione per acquisire beni, prestigio ecc.”. L’individualismo moderno “è racchiuso in maniera evidente e in modo permanente in quei dispositivi di competizione che consistono nell’acquisire dei vantaggi rispetto ad altri […]. Lo sport è la quintessenza intinta di bellezza di questo meccanismo. Ed è in questo che lo sport è diverso dal gioco”14.

Confrontarsi con «logiche differenti, sistemi di relazioni diversi e schemi collettivi altri, concernenti anche i contesti in cui si sviluppano e assumono senso le attitudini motorie» – sottolinea Allovio –, «permette di cogliere meglio le logiche e le epistemologie in cui ci troviamo e in relazione alle quali assistiamo storicamente all’affermarsi dello sport moderno»15.

Riflettendo su come si è evoluto lo sport in termini sempre più competitivi, mediatizzati e mondializzati allontanandosi dalla sfera del gioco, Descola ricorda come nei sistemi totalitari del Ventesimo secolo lo sport sia «stato considerato come un elemento di fierezza e di identificazione con degli eroi»16 e come, sin dagli anni Trenta, sia stato piegato alle ideologie nazionali o identitarie.

Quello che è cambiato, penso, da una ventina d’anni a questa parte – e non sono il solo a riscontrarlo –, è l’espansione, l’irruzione del capitale finanziario nello sport e il fatto che la selezione passi, in particolar modo per le grandi squadre di calcio, dal denaro e dalla capacità di attirare dei giocatori di eccezione. Lo sport così si ritrova in un certo senso spaccato a metà tra la pratica che ciascuno di noi può sperimentare all’interno di federazioni, grazie a un sistema che funziona relativamente bene, che è relativamente democratico, e poi una sorta di microsocietà d’élite nella quale questi stessi meccanismi, tutto d’un tratto, non funzionano più. A livello locale dei club sportivi, la maggior parte delle federazioni funziona bene ma, quando si giunge a quel livello in cui si gestiscono somme ingenti di denaro, i criteri, in particolare quelli morali, elementari, propri della vita civica, della vita comunitaria, scompaiono. È chiaro che le squadre finaliste, nel calcio, sono le squadre più ricche. La cosa va da sé17.

Descola si sofferma anche su come, in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato dal trionfo dell’individualismo e da un certo modello di competizione sportiva, lo stadio risulti, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, comunque uno dei pochi luoghi pubblici che permette agli individui di fuoriuscire dalla loro sfera privata e di socializzare, di passare «dal dominio di interesse a loro proprio, per proiettarsi verso un progetto comune che è quello della loro squadra di calcio» sancendo un momento di rottura «con l’attitudine del consumatore esclusivo»18. Alla luce dei rischi di identificazione identitaria costruita per contrapposizione – basti pesare a quanta nefasta retorica nazionalista si possa creare attorno a tali fenomeni con i media che, spesso, non si “limitano” a fare da grancassa –, nulla di cui compiacersi a cuor leggero, aggiunge l’antropologo, ma la frequentazione dello stadio resta una delle rare occasioni per uscire da se stessi.


Sport e dintorni


  1. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, p. 37. 

  2. Ulrike Prokop, Soziologie der Olympischen Spiele. Sport und Kapitalismus, 1971. Il saggio viene pubblicato in traduzione italiana alla vigilia dell’apertura delle Olimpiadi di Monaco con il titolo Olimpiadi dello spreco e dell’inganno, Guaraldi, Bologna, 1972. 

  3. Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 119-120. 

  4. Per una disamina di tale fenomeno si rimanda al saggio: Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica, cit. 

  5. Johan Huizinga, Homo ludens. Proeve eener bepaling van het spel-element der cultuur, H.D. Tjeenk Willink, Haarlem 1938; tr. it. Homo ludens, Einaudi, Milano, 2002. 

  6. Roger Caillois, Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1958, tr. it. I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Giunti, Firenze, 2017. 

  7. Alexander Lambrow, Prendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica, in Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 73-98. 

  8. Lars Kristensen, Ulf Wilhelmsson, Roger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies, in Matteo Bittanti, Reset, cit., pp. 79-133. 

  9. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 12. 

  10. Ivi, p. 13. 

  11. Ivi, p. 15. 

  12. Ivi., p. 20. 

  13. Ivi., p. 24. 

  14. Stefano Allovio, Prefazione a Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. XX. 

  15. Ivi, p. XXII. 

  16. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 50. 

  17. Ivi, pp. 50-51. 

  18. Ivi, p. 56. 

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Sport e dintorni – I Mondiali di calcio nell’età della globalizzazione, della spettacolarizzazione e della finanziarizzazione dei club https://www.carmillaonline.com/2018/09/30/sport-e-dintorni-i-mondiali-di-calcio-nelleta-della-globalizzazione-della-spettacolarizzazione-e-della-finanziarizzazione-dei-club/ Sat, 29 Sep 2018 22:45:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48382 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Redazione di Info-Aut, Solo un gioco? Una contro-storia dei Mondiali di Calcio, ebook liberamente scaricabile (*)

A ridosso della recente edizione russa dei Campionati del mondo di calcio, la redazione di Info-Aut ha pubblicato in formato ebook una ricostruzione critica della storia dei Mondiali in cui vengono evidenziati gli interessi economici e politici ruotanti attorno all’organizzazione di una competizione che continua ad appassionare milioni di uomini e donne in tutto il mondo. L’ebook comprende anche due interviste, a Darwin Pastorin, giornalista sportivo sensibile alle [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Redazione di Info-Aut, Solo un gioco? Una contro-storia dei Mondiali di Calcio, ebook liberamente scaricabile (*)

A ridosso della recente edizione russa dei Campionati del mondo di calcio, la redazione di Info-Aut ha pubblicato in formato ebook una ricostruzione critica della storia dei Mondiali in cui vengono evidenziati gli interessi economici e politici ruotanti attorno all’organizzazione di una competizione che continua ad appassionare milioni di uomini e donne in tutto il mondo. L’ebook comprende anche due interviste, a Darwin Pastorin, giornalista sportivo sensibile alle tematiche politiche e sociali, e al collettivo che cura il blog Minuto Settantotto.
Partendo da un breve riferimento alle origini della letteratura critica sullo sport, in questa sede ci soffermiamo in particolare su alcune considerazioni della redazione di Info-Aut contenute nell’Introduzione.

Sulla scia della temperie del Sessantotto, nei primi anni Settanta escono le traduzioni italiane di alcuni saggi di taglio sociologico che sviluppano una critica radicale nei confronti del sistema, della mentalità e delle logiche dominanti in campo sportivo: il testo di Gerhard Vinnai Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista (Guaraldi, 1970), gli scritti di Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm raccolti in un volume intitolato Sport e repressione (Samonà e Savelli, 1971), il libro di Ulrike Prokop Olimpiadi dello spreco e dell’inganno (Guaraldi, 1972). Ricorrendo a categorie marxiste, all’approccio della scuola di Francoforte e alla psicoanalisi, gli autori si propongono in generale di demistificare la retorica sportiva, svelando come dietro all’esaltazione della neutralità dello sport si celi una volontà disciplinatrice e propagandistica, e di mostrare i nessi che legano i fenomeni sportivi e le dinamiche del sistema capitalistico.

Nella maggior parte degli ambienti sportivi e in particolare nel panorama giornalistico italiano dell’epoca questi interventi vengono ignorati o suscitano polemiche dai toni stizziti. Salvo qualche eccezione, di fronte a categorie e ragionamenti critici le reazioni sono volte a difendere ostinatamente la presunta apoliticità, neutralità e separatezza dello spazio sportivo. Al di là delle prevedibili prese di distanza politico-ideologiche, ciò che colpisce è lo spaesamento che sembra investire i giornalisti, costretti a misurarsi con prospettive che mettono in discussione i loro tradizionali e tranquillizzanti punti di riferimento.

I contributi dei sociologi francesi e tedeschi rappresentano i primi tentativi di suggerire piste di ricerca e interpretazioni non convenzionali dello sport, capaci di arricchire il dibattito su una molteplicità di temi: i nessi tra sport e logiche di mercato, la mercificazione e la spettacolarizzazione dell’attività sportiva, la cultura del corpo veicolata dalla ricerca ossessiva della performance, la strumentalizzazione delle manifestazioni sportive in chiave di propaganda politica.
Letti a distanza di anni, questi saggi appaiono però per diversi aspetti viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine unilaterale e riduttiva del fenomeno sportivo. Un limite del loro approccio consiste nell’avere trascurato il fatto che anche l’immaginario (sportivo in questo caso) è terreno di rinegoziazione e di conflitto e che dunque non si esaurisce nelle sole logiche impositive del potere. Un atteggiamento critico nei confronti del sistema sportivo non dovrebbe inoltre perdere di vista l’aspetto emozionale e le passioni ludiche che lo sport, esattamente come il cinema, la musica o qualsiasi forma d’arte, è in grado di trasmettere a prescindere dal sistema politico-economico che lo condiziona. Di questo sono consapevoli gli autori di Solo un gioco? che infatti scrivono: «Il calcio e lo sport, per quanto costretti nelle pastoie di un sistema capitalistico che li ha trasformati in macchine di profitti, hanno sempre in sé la tensione, in ogni partita, corsa, gara a ritornare all’originaria forma d’arte in cui consistono» (p. 10).

Su questo aspetto insiste Darwin Pastorin: «Non esiste confine tra calcio e arte. Tra sport e arte. D’altra parte, quando noi parliamo del football brasiliano sottolineiamo la bellezza e l’innocenza di un’emozione che ha, indubbiamente, a che fare con la musica e la letteratura. Jorge Amado mi disse, nel 1993, nel corso di una intervista per “Tuttosport”: “Sono realmente un appassionato di calcio. Il calcio è qualcosa di più che un semplice sport: è, allo stesso tempo, arte. Una buona partita di football rappresenta uno spettacolo straordinario di danza, con la caratteristica di trattarsi di una danza improvvisata in ogni suo momento da ventidue ballerini. Accade, a volte, che uno di questi ballerini abbia il virtuosismo di Pelé o di Garrincha, di Didi o di Nilton Santos, di Domingos da Guia o di suo figlio Ademir: e così lo spettacolo diventa incomparabile”» (p. 40).

Anche il collettivo Minuto Settantotto, in un’altra intervista riportata in Solo un gioco?, sottolinea la componente emotiva-passionale del calcio che prescinde dall’uso che di esso fanno i poteri economici e politici: «Il pallone è passione popolare e questo non ce lo potrà rubare nessuna pay tv, nessun presidente criminale, nessun Daspo. Possiamo criticare il calcio attuale quanto vogliamo, ma un gol allo scadere della nostra squadra del cuore ci farà esultare come pazzi sempre e comunque… c’è una scena meravigliosa nel film Il mio amico Eric di Ken Loach in cui un tifoso deluso del Manchester United, che ormai segue solo lo United of Manchester (la squadra fondata dai fan critici dei red devils) e non entra al pub con gli amici quando giocano “gli altri”, sente il rumore di un gol in una partita importante e non riesce a resistere. L’essenza del rapporto tra appassionato e calcio è tutta qui» (p. 79).

Nell’Introduzione a Solo un Gioco? gli autori dell’ebook sostengono che l’affermazione degli Stati-nazione dopo la fine delle grandi istituzioni sovranazionali, la risistemazione geopolitica globale al termine della Seconda guerra mondiale e i processi di decolonizzazione creano le condizioni per le grandi manifestazioni sportive internazionali moderne come la Coppa del mondo di calcio.
A partire dagli anni Sessanta, lo sviluppo della tecnologia televisiva, la crescente commercializzazione degli eventi sportivi e l’affermazione della Fédération Internationale de Football Association (FIFA) come “macchina da soldi” capace di svolgere un ruolo politico extrasportivo rilevante sullo scacchiere geopolitco (si pensi alle logiche sottese all’assegnazione delle kermesse sportive) determinano una trasformazione dei Mondiali che li porta a divenire quell’istituzione sportiva globale che conosciamo oggi.

Sul futuro della competizione rimangono aperti diversi interrogativi legati anzitutto alla polarità e al nesso nazionale/globale. Se, da un lato, il torneo mondiale rimane fondato sull’idea di rappresentanza nazionale e continua a suscitare pulsioni e sentimenti identitari, dall’altro la dimensione del calcio, sempre più globalizzata sul piano sportivo e politico-economico, si configura come una complessa rete di interessi e poteri che travalicano i confini degli Stati-nazione.
In una contemporaneità in cui i confini statali oscillano tra chiusure identitarie e protezionistiche e aperture dettate dai processi di globalizzazione e dai fenomeni migratori, mentre le squadre nazionali rimandano all’idea di Stato-nazione i maggiori club calcistici sono diventati vere e proprie imprese transnazionali al pari di quelle industriali e finanziarie e attorno a loro ruotano i principali giri d’affari del mondo del calcio. Nello stesso tempo gli organismi calcistici nazionali «cercano in tutti i modi di sfruttare a livello economico l’indotto che queste grandi squadre generano: non a caso l’amministrazione della Liga spagnola si è esposta numerose volte sulla questione indipendentista catalana affermando che al di là dell’esito del processo politico, il Barcellona senza la Liga e la Liga senza il Barcellona sono assolutamente impensabili. Questione di profitti, che scavalcano le contrapposizioni politiche» (p. 7).

In questo contesto maturano le contraddizioni tra la dimensione calcistica nazionale e le logiche dei grandi club-multinazionali, tali sia per capitali che per composizione delle squadre. Quando, ad esempio, un club è nelle mani di un fondo d’investimento internazionale si configura come una compagine che non è riducibile esclusivamente al campionato nazionale al quale partecipa. D’altra parte, da tempo si parla di una sorta di supercampionato europeo di calcio sostanzialmente riservato alle squadre-imprese che permettono il maggior ritorno economico; le partite di un campionato di tale tipo potrebbero essere giocate ovunque, anzi, per certi versi non è difficile immaginare che possano essere disputate in Asia, in India o in qualche Emirato arabo, come già avviene per diverse finali tra squadre europee e, presto, magari anche per partite di campionato particolarmente seguite (Barcellona-Real Madrid, Liverpool-Manchester United ecc.). È di questi giorni la notizia dell’interessamento della Liga spagnola per fare giocare il prossimo anno incontri di campionato del Real Madrid e del Barcellona negli Stati Uniti e in Cina con l’obbiettivo di aumentare gli introiti grazie ad un pubblico sempre più internazionale.

Gli autori di Solo un gioco? si propongono quindi di offrire motivi di riflessione per chi è impegnato, su vari fronti, a valorizzare il significato sociale e la passione per lo sport rispetto a chi invece è interessato esclusivamente a trarne profitto. In questa prospettiva, le critiche alla spettacolarizzazione televisiva del calcio, sempre più dipendente dalle pay tv e dal marketing, le proteste nei confronti delle derive del calcio moderno da parte di settori delle tifoserie e la crescita di «squadre di calcio popolare, palestre autorganizzate, esperienze di giornalismo e letteratura critica sui temi sportivi» (p. 9) possono contribuire alla trasformazione del discorso sullo sport e della pratica sportiva in una direzione auspicata anche da Pastorin: «Il calcio, e lo sport in generale, devono ritornare ad avere un valore pedagogico. Bisogna ripartire dalla scuola e dalla famiglia, da una “cultura della sconfitta”, dal gioco inteso in quanto tale, cioè “gioco” appunto, senza esasperazioni. Basta con i genitori manager, con il culto del dio denaro, e diamo, di nuovo, più importanza al dribbling che al marketing» (p. 43).

(*) ebook liberamente scaricabile fotocopiabile, condivisibile, con la solo richiesta di citare la fonte. Attribution ‐ NonCommercial ‐ NoDerivatives 4.0 International


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Il conflitto nello spazio dello sport. Storie di sport e politica 1968-1978 https://www.carmillaonline.com/2018/05/27/45696/ Sun, 27 May 2018 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45696 di Alberto Molinari – Gioacchino Toni

Alberto Molinari – Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 284, € 20,00

[Si riporta un estratto dall’Introduzione al volume ringraziando l’editore per la gentile concessione]

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Con l’indiscutibile capacità di intervenire con una frase ad effetto, un vero e proprio coup de théâtre, nel ridondante sottofondo che accompagna le partite di calcio, l’allenatore José Mourinho riesce [...]]]> di Alberto Molinari – Gioacchino Toni

Alberto Molinari – Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 284, € 20,00

[Si riporta un estratto dall’Introduzione al volume ringraziando l’editore per la gentile concessione]

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«Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio»
José Mourinho

Con l’indiscutibile capacità di intervenire con una frase ad effetto, un vero e proprio coup de théâtre, nel ridondante sottofondo che accompagna le partite di calcio, l’allenatore José Mourinho riesce spesso a conquistare il centro della scena sportiva. «Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio» è una di quelle battute in grado di catturare l’attenzione e di distinguersi nel discorso pubblico sportivo. La frase dell’allenatore portoghese sembra richiamare l’affermazione «What do they know of cricket who only cricket know?» contenuta in Beyond a Boundary di Cyril Lionel Robert James – una pietra miliare degli studi post-coloniali, pubblicata nel 1963 – che, a sua volta, fa il verso a un passo contenuto in English Flag (1891) di Rudyard Kipling: «What should they know of England who only England know?». Grande appassionato di cricket, in Beyond a Boundary James esplora la psicologia e l’estetica del gioco, la sua funzione nelle politiche imperialistiche inglesi e nelle dinamiche di decolonizzazione, le questioni di classe, sociali e razziali che attraversano la dimensione sportiva, mostrando come sia impossibile tenere separato lo sport da ciò che lo circonda. Il binomio sport e politica, insomma, come chiave di lettura della realtà sportiva in una prospettiva capace di coniugare passione per il piacere e la bellezza dello sport e sguardo critico attento alle sue implicazioni storico-sociali. […]

In tutto il mondo il ’68 apre una stagione di conflitti animata da una molteplicità di attori che esprimono una richiesta di partecipazione e di allargamento degli spazi di democrazia, rivendicano diritti, rifiutano i sistemi autoritari, criticano le strutture politiche e sociali dominanti, si ispirano a ideali di emancipazione e di liberazione umana. La conflittualità si riverbera anche nell’universo dello sport, facendo emergere le contraddizioni inscritte in uno dei più importanti fenomeni di massa e mettendo in discussione la sua presunta neutralità e separatezza. Nella dimensione mondiale dello sport nascono movimenti di protesta che irrompono nelle competizioni, investono gli organismi istituzionali e gli equilibri politico-sportivi internazionali. Scontrandosi con culture e assetti consolidati, queste dinamiche generano fratture e resistenze, trasformazioni e chiusure conservatrici.

Considerati tradizionalmente luoghi chiusi, neutri e pacificati […] gli spazi dello sport vengono riconfigurati, simbolicamente o materialmente, come spazi aperti, fluidi e contesi. Alimentata da un’esposizione mediatica sempre più ampia e pervasiva, la risignificazione degli spazi sportivi e della loro valenza simbolica avviene attraverso gesti e azioni eclatanti di immediata risonanza planetaria […], nelle mobilitazioni del “maggio” francese dello sport, nella “primavera di Praga” degli sportivi cecoslovacchi, nei boicottaggi delle competizioni che prevedono la presenza di paesi razzisti come il Sudafrica.

D’altra parte, l’utilizzo dello spazio sportivo globale per dare visibilità a rivendicazioni politiche e sociali contribuisce ad acuire la crisi di legittimazione delle istituzioni sportive internazionali, a partire da quelle olimpiche, investite da critiche radicali e incapaci di riformarsi. A fronte delle grandi manifestazioni sportive sempre più spettacolarizzate affette da “gigantismo” e condizionate dalle logiche di mercato, perde di credibilità la retorica dello sport come disciplina “pura” e “disinteressata”, “zona franca” al riparo dalla realtà “esterna”. […]

Dalla temperie del ’68 scaturisce una serie di riflessioni critiche sullo sport, contenute in tre ricerche commentate e presentate in forma antologica nella seconda sezione del volume. A ridosso del “maggio” francese la rivista «Partisans», vicina all’estrema gauche, raccoglie una serie di interventi di giovani impegnati nella ricerca teorica e nella militanza politica (Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm), pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione. Attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, e richiamandosi alle istanze emerse dal movimento studentesco i saggi propongono uno studio critico sullo sport e sulla cultura del corpo nella società capitalistica e denunciano come sotto il pressante invito a “fare sport” da parte della “cultura borghese” si celi un intento educativo di stampo repressivo.

Nel 1970 esce in Italia Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista del sociologo tedesco Gerhard Vinnai. L’autore, che si ispira alla Scuola di Francoforte […], intende svelare il carattere mistificante dell’ideologia […] che pervade anche il mondo dello sport e in particolare il calcio, denuncia la sua mercificazione e individua i nessi che lo legano ai processi di socializzazione e alle dinamiche psicologiche dell’aggressività e del narcisismo. Il terzo saggio, pubblicato in Italia alla vigilia delle Olimpiadi di Monaco, è Olimpiadi dello spreco e dell’inganno di Ulrike Prokop. Il filo conduttore […] è lo svelamento della retorica olimpica, a partire dall’ideologia pedagogico-sportiva del fondatore dei Giochi olimpici moderni, Pierre de Frédy, barone di Coubertin. […]

Letti a distanza di anni, questi saggi appaiono per diversi aspetti viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine unilaterale e riduttiva del fenomeno sportivo. Da un punto di vista storico, rappresentano però i primi tentativi di suggerire piste di ricerca e interpretazioni non convenzionali dello sport, capaci di influenzare e arricchire anche il dibattito italiano su una molteplicità di temi: i nessi tra sport e logiche di mercato, la mercificazione e la spettacolarizzazione dell’attività sportiva, la cultura del corpo veicolata dalla ricerca ossessiva della performance, la strumentalizzazione delle manifestazioni sportive in chiave di propaganda politica.

La terza sezione del volume si concentra sul caso italiano. Nella prima parte viene analizzata l’evoluzione dell’associazionismo sportivo […] e la nascita di nuove esperienze di base che raccolgono le istanze di partecipazione e di cambiamento del mondo giovanile. Anche sulla scia del ’68 e delle teorie critiche di taglio sociologico, l’associazionismo italiano avvia un percorso di profondo rinnovamento teorico e pratico, elabora concezioni dello sport alternative rispetto a quella dominante, promuove forme di socializzazione e pratiche sportive inclusive, si batte per il diritto allo sport inteso come dimensione che, al di là dello svago e della ricerca della prestazione, deve fornire strumenti di emancipazione e di crescita sul piano individuale e sociale. A questi temi si mostra sensibile anche la “nuova sinistra” che, sia pure in modo discontinuo, apre le pagine dei suoi quotidiani a riflessioni sui risvolti politici e sociali dello sport.

Il percorso prosegue con il capitolo “Sport e contestazione”. […] Tra il 1968 e i primi anni Settanta manifestazioni, occupazioni di spazi dello sport, contestazioni di competizioni punteggiano l’universo sportivo italiano in diverse città. Negli anni successivi le mobilitazioni si intensificano e si connotano soprattutto nel segno dell’antifascismo e dell’antirazzismo. […] Nel 1974 gli organismi sportivi democratici e i movimenti “terzomondisti”, appoggiati dalla stampa di sinistra, chiedono, senza successo, di boicottare la semifinale di Coppa Davis Sudafrica-Italia. Poco dopo un ampio fronte di opposizione riesce a bloccare la trasferta italiana degli Springboks, la nazionale sudafricana di rugby composta da soli bianchi, simbolo dell’apartheid nello sport. L’anno successivo le polemiche investono la partita di calcio Lazio-Barcellona, prevista all’indomani dell’ultimo efferato episodio di repressione delle opposizioni messo in atto dal regime di Francisco Franco. Il 1976 è l’anno della contestazione di una nuova trasferta della nazionale di tennis, questa volta per la finale di Davis nel Cile di Pinochet. […] Con le campagne contro i mondiali di calcio organizzati nel giugno 1978 in Argentina dal regime di Videla si esaurisce l’“onda lunga” del Sessantotto nello sport. […]

L’ultima parte del volume è dedicata al dibattito sulla violenza nel mondo del calcio, sul tifo e sul fenomeno degli “ultras”. Tra gli anni Sessanta e Settanta si assiste ad un’impennata dei comportamenti violenti che tendono a trasferirsi dall’interno all’esterno degli stadi. Sulle pagine della stampa italiana emerge una forte preoccupazione per la crescita di fenomeni analoghi alle forme di “teppismo” sportivo diffuse in altri paesi […]. Nel giugno del 1970 il dibattito sul tifo si sposta su un terreno molto diverso. Nei mondiali di calcio in Messico l’Italia batte in semifinale la Germania Ovest con un rocambolesco 4 a 3. Quando termina l’incontro, in tutto il paese una folla esultante si riversa per le strade. Questa inedita esplosione di nazionalismo sportivo colpisce gli opinionisti della stampa che si cimentano in diverse interpretazioni del fenomeno. Poco dopo l’attenzione si sposta sulla nuova fisionomia assunta dallo scenario degli stadi: sugli spalti compaiono coreografie e strumenti del tifo fino ad allora sconosciuti […] e diventano sempre più frequenti gli scontri tra opposte fazioni di tifosi, durante e dopo le partite. […]

Il libro ricostruisce le vicende e i temi sin qui sommariamente richiamati attraverso il prisma della stampa, con l’intento di fare emergere tanto le dinamiche politiche e sociali che caratterizzarono l’universo sportivo quanto le rappresentazioni che ne furono date e le riflessioni e i dibattiti che suscitarono nel contesto italiano. Eventi e processi di quella stagione vengono quindi contestualizzati storicamente e commentati in un percorso antologico basato su fonti a stampa di diverso tipo (grandi quotidiani di opinione e sportivi, riviste, organi dei partiti di sinistra e della “nuova sinistra”, periodici dell’associazionismo sportivo). […]

Nella temperie di quella stagione emergono diversi temi ancora attuali che offrono spunti di riflessione sulle trasformazioni e le involuzioni dello sport, attraversato dalle contraddizioni di un mondo sempre più globalizzato. Tra finanziarizzazione delle grandi società e grave sofferenza delle piccole, sport-spettacolo ed esperienze alternative di base, fenomeni di razzismo e pratiche inclusive, l’universo dello sport continua a misurarsi con problemi e scelte di fondo che rimandano alla dimensione politica.

 

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