Gilbert Shelton – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. A volte (ri)emergono dal sottosuolo. Esperienze figurative underground dagli anni ’50 ad oggi https://www.carmillaonline.com/2022/09/09/estetiche-inquiete-a-volte-riemergono-dal-sottosuolo-esperienze-figurative-underground-dagli-anni-50-ad-oggi/ Fri, 09 Sep 2022 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73447 di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug [...]]]> di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug che ne possono compromettere il funzionamento.

Sull’onda delle celebri Vite vasariane, anche La guerra dei segni traccia il suo racconto dell’arte, in questo caso esclusivamente figurativa e realtivamente al solo suo underground side, a partire dalle vite dei singoli protagonisti. Se il volume cinquecentesco attorno alle biografie degli artisti sviluppava un’analisi delle modalità espressive succedutesi nell’arco di circa due secoli e mezzo, il libro di Teatro ricorre alle vite dei protagonisti tanto per verificarne ed esplicitarne l’appartenenza all’universo underground, quanto per individuarne i reciproci collegamenti nel tempo e nello spazio.

Ad essere ricostruito è l’ondivago percorso che nel corso del tempo e delle specifiche storie individuali ha visto questi protagonisti dell’universo underground oscillare tra il sistema dell’arte ufficiale e il rifiuto od il disinteresse di farne parte e tra le lusinghe, i respingimenti e le benevolenze ritardate del sistema stesso nei loro confronti.

Quello proposto da Teatro è un percorso reticolare in cui individualità o piccoli gruppi si sviluppano a macchia di leopardo salvo poi intrecciarsi con altre esperienze originatesi altrove per contaminazione o in maniera relativamente autonoma.

Il volume si apre nei garage californiani degli anni Cinquanta, tra decoratori e customizzatori di automobili e motociclette come Von Dutch (Kenneth Robert Howard) e Ed “Big Daddy” Roth che influenzano con le loro estetiche ambiti che vanno ben al di là di quelli motoristici, in un epoca segnata dalla guerra fredda che non manca di investire l’ambito artistico in quanto ingranaggio importante della macchina di costruzione dell’immaginario.

Uno snodo importante è rappresentato dalla scena controculturale e dall’universo psichedelico californiani da cui derivano grafiche innovative. Ad essere presi in esame sono illustratori come Wes Wilson, Stanley George Miller (Stanley Mouse), Alton Kelly, Rick Griffin, Victor Moscoso, Lee Conklin e Jim Franklin. Dal medesimo panorama culturale si sviluppa un’editoria underground, prende il via l’autoproduzione delle prime fanzine che contribuiscono a far circolare grafiche e fumetti di autori come Basil Wolverton, Robert Crumb, Gilbert Shelton, Ron Cobb, Spain Rodriguez, Trina Robbins, Steve Clay Wilson, Greg Irons, Robert Armstrong, Rory Hayes e Richard Corben.

Per quanto riguarda l’underground europeo il volume si sofferma su autori quali Hans Rudolf Giger, Martin Sharp e Alan Aldridge. Lo svizzero Giger, padre dei biomeccanoidi, ha prestato il suo estroso immaginario alla saga cinematografica Alien, oltre che ad aver contribuito, con un suo celebre inserto, a far mettere all’indice negli USA e in UK l’album Frankenchrist (1985) dei Dead Kenedys. Sharp è invece l’illustratore di origine australiana, poi trasferitosi a Londra, artefice dell’avventura inglese di «OZ» e di importanti collaborazioni con il mondo musicale dell’epoca, così come farà Aldridge.

In ambito italiano le origini dell’underground vengono fatte risalire nel volume verso la metà degli agli anni Sessanta attorno a «Mondo Beat», con i lavori di Matteo Guarnaccia, fondatore nel 1970 della rivista psichedelica «Insekten Skete» e del grafico Max Capa (Nino Armando Ceretti), autore nel corso degli anni Settanta di riviste come «Puzz», «Provocazione», «Apocalisse» e «Flashback».

Un rapido cenno è dedicato all’esperienza underground in Unione Sovietica portata avanti da autori come Aleksandr Melamind e Vitalij Komar alle prese con un controllo repressivo difficilmente eludibile.

Il libro passa poi ad indagare una serie di esperienze tra Stati Uniti ed Europa. Primo tra tutti il disegnatore Vanughn Bodé, che non manca di schierare i suoi ramarri contro l’intervento militare statunitense in Vietnam per poi evolvere la sua produzione verso una contaminazione tra fumetto underground e writing. Dunque è la volta di Eric Orr, realizzatore di grafiche per la scena hip hop da cui deriva negli anni Ottanta una fortunata serie di fumetti.

Una sezione importante è poi dedicata alla grafica e all’estetica punk con relativi manifesti, locandine, cover di dischi e punkzine. Tra gli autori trattati nel volume vi sono Jamie Reid, autore delle celebri cover dell’album Never Mind the Bollocks (1977) e del singolo God Save the Queen (1977) dei Sex Pistols, Raymond Pettibon, adottato dall’universo punk tanto da essere impiegato nelle cover dei dischi Six Pack (1981) e Police Story (1981) dei Black Flak, Winston Smith, creatore del logo dei Dead Kennedys e della copertina del loro album In God We Trust (1981), oltre che di Insomniac (1995) dei Green Days. Non poteva mancare uno spazio dedicato a Gee Vaucher a cui si devono le grafiche dei radicali e coerenti Crass. Con John Holmstrom e i fratelli Hernandez si giunge poi all’incontro del fumetto con il punk.

Il volume si occupa anche dell’arrivo (ritardato) in Italia delle grafiche e dei fumetti underground statunitensi. Ed a proposito del panorama italiano viene riservato spazio a una serie di autori – Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scòzzari, Massimo Mattioli ed Andrea Pazienza – che si intrecciano, a vario titolo, con la vita di riviste come «Combinazioni», «Cannibale», «Re Nudo», «Il Male» e «Frigidare».

Dunque è la volta dell’ambito sudamericano di fumettisti e illustratori, come Héctor Germán Oesterheld, Alberto Breccia e José Muñoz e di autori americani o europei che non disdegnano di operare ricorrendo al détournement di matrice situazionista o, ancora, personalità come Joe Coleman, Keith Haring, Carlos Rodriguez (Mare 139), Jean-Michel Basquiat, A-One (Anthony Clark) e Professor Bad Trip.

Un poderoso capitolo è riservato all’Arte di strada, dal writing alla scoperta dei graffiti da parte del mercato artistico. Per la scena americana vengono approfonditi Cornbread, Phase 2, Super Kool 223, T-KID, Chaz Bojorquez e Twist (Barry McGee), mentre per quella europea si approfondiscono le produzioni di Ateier Populaire, Don Leicht, John Fekner, Futura 2000, Blek le Rat, Speedy Graphito, Miss Tic, Jef Aérosol, LOKISS, Mode 2, Les Nuklé-Art, Banlieu-BanlieuThierry Noir, oltre a quelle proposte dalla scene di Amsterdam e del muro berlinese. Per quanto riguarda il contesto italiano vengono indagati gli ambiti della stencil art, dei serigraffiti, dell’Open Art Studio con Atomo, Swarz, Shah, e, ancora, Giacomo Spazio, Francesco Garbelli, Pao, DeeMO, CK8 e Pea Brain.

Un capitolo è dedicato all’arte di fine millennio con l’underground che conquista le gallerie (e viceversa), esempi di giornalismo illustrato, individualità artistiche e festival organizzati come HIU (dal 1993) nell’ambito dei Centri sociali milanesi e Crack! del Forte Prenestino romano.

Il volume si chiude con una sezione dedicata alla Street Art a partire dalle sue origini, passando per la scena di Bristol, dunque a quella internazionale fino all’Urban art con il nuovo muralismo e la propensione al gigantismo. In questi casi la rassegna avviene a “vernice ancora fresca”, nel pieno di un dibattito ancora acceso. [Su Carmilla:  1  2  3  4]

In conclusione, la grandezza e la forza dell’underground pare oscillare tra due miti estremi: da un lato il suo ostinato perpetuarsi tale in contrapposizione o in sottrazione al mainstream e dall’altro il volersi mantenere alternativa ad esso soltanto a tempo determinato mirando ad anticipare ed incidere sul mainstream e con esso su un ambito sociale e culturale più allargato.

Sospeso tra la volontà di essere un mezzo e quella di essere un fine, di certo l’universo underground, con tutte le sue contraddizioni, nasce da una oggettiva necessità espressiva, una necessità che ha attraversato il secondo Novecento ed è giunta fino ai nostri giorni che ha trovato nel do it yourself – ben da prima che il punk lo esprimesse con consapevolezza – la sua parola d’ordine che ovviamente non risolve, non potendo farlo, le contraddizioni di un sistema da cui non sembra possibile emanciparsi per sottrazione.

È forse nel dare a necessità immediate un soddisfacimento altrettanto immediato che va individuata la portata politica eversiva dell’underground e La guerra dei segni, nel suo tratteggiare un’altra storia dell’arte – non a caso a partire dalle vite dei suoi protagonisti – ne offre una panoramica preziosa.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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Il graphic novel tra Maus, Jimmy Corrigan, Sandman e Zerocalcare https://www.carmillaonline.com/2017/10/18/graphic-novel-maus-jimmy-corrigan-sandman-zerocalcare/ Tue, 17 Oct 2017 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39863 di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre [...]]]> di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre a muoversi in ambiti creativi e forme estetiche assai differenti, esso può riutilizzare format discorsivi quali la biografia, l’autobiografia, l’indagine giornalistica e il reportage storico-cronachistico, il cosiddetto graphic-journalism» (p. 8).

Nel saggio di Calabrese e Zagaglia vengono passati in rassegna gli elementi semiotici che distinguono il graphic novel tanto dalle immagini fisse che dalle narrazioni verbali, visto che questo particolare linguaggio verbovisivo si presenta come un sistema semiotico caratterizzato dalla multimodalità (parole/immagini) e dalla simultaneità (con il tempo codificato secondo un “sistema spazio-topico”). Dal momento che su questa parte del volume ci siamo soffermati in un intervento pubblicato recentemente dalla rivista «Il Pickwick» [qua], dedichiamo questo scritto alla parte del saggio di Calabrese e Zagaglia che ripercorre, sin dalla nascita, alcune tappe importanti della storia della narrazione grafica con particolare attenzione ad alcuni rilevanti case study.

Il termine graphic novel viene introdotto sia per indicare una modalità testuale diversa rispetto a quella del fumetto che per presentare il prodotto come forma letteraria complessa indirizzata ad un lettore tendenzialmente adulto. I confini delineati da questa etichetta restano decisamente incerti: si tratta di un libro figurativo che racconta una storia lunga o diverse storie brevi, che ricorre ad una modalità seriale o autoconclusa, che generalmente rispetta le convenzioni tipiche del fumetto o veicola istanze autobiografiche, storiche, giornalistiche ecc. Secondo alcuni studiosi il termine viene coniato da Richard Kyle attorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento per divenire d’uso alla fine del decennio successivo, ma è a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che il termine ha iniziato ad indicare una tipologia testuale precisa e non più esperimenti editoriali frammentati ed estemporanei.

Inevitabilmente occorre partire dal fumetto, che secondo diversi studiosi prende vita negli anni Trenta dell’Ottocento e si sviluppa con la pubblicazione delle vignette nelle edizioni domenicali dei quotidiani americani. È soltanto a partire dagli anni Trenta del Novecento che i comic books permettono ai fumetti di essere commercializzati e distribuiti al di fuori dei quotidiani, prima per pubblicizzare altri prodotti, poi in maniera del tutto autonoma con protagonisti eroi e supereroi. «Con i supereroi degli anni Trenta e Quaranta, in inquietante simultaneità con l’imporsi delle dittature in alcuni paesi occidentali, il fumetto conosce grande fortuna e si espande sia come numero di lettori, sia per elaborazione di sottogeneri narrativi, sino a divenire un simbolo della nascente potenza culturale degli Stati Uniti» (p. 13).

Con gli anni Cinquanta e l’inizio della Guerra Fredda i supereroi risultano inadatti a “risolvere” la mutata situazione ed il clima politico-culturale nordamericano tende ad indicare nel fumetto uno strumento di corruzione morale, oltre che di scarso rilievo culturale. Nel 1954 in America entra in vigore il Comix Code, un vero e proprio codice di censura che proibisce, tra le altre cose, la rappresentazione della violenza e del sesso, la presenza di alcolici e tabacco e, soprattutto, vieta di criticare o irridere le autorità. Ad essere preso di mira, sottolineano Calabrese e Zagaglia, è specialmente il codice iconico, per la sua immediatezza ed a fare le spese di questa regolamentazione sono soprattutto le narrazioni gialle o horror anche se, nonostante le censure, negli anni Cinquanta non mancano produzioni interessanti, come nel caso della rivista satirico-demenziale “Mad” creata nel 1952 dal fumettista Harvey Kurtzman o di Master Race di Bernie Krigstein che nel 1955 affronta il tema dei campi di sterminio.

Nei primi anni Sessanta rinascono i fumetti di supereroi uscendo dal mero ambito adolescenziale e venendo a contatto con il mondo della pop art. Con il 1968 nasce anche il fumetto underground ed autori come Robert Crumb, Eric Stanton e Gilbert Shelton non mancano di realizzare opere satiriche, sessualmente più audaci, con riferimenti autobiografici e con una smaccata presenza di critica politica. Tali trasformazioni contribuiscono all’avvicinano del fumetto alla narrativa romanzesca.

Anche in Europa si danno importanti novità: sul finire degli anni Sessanta escono in Italia opere come Una ballata del mare salato (1967) di Hugo Pratt e Poema a fumetti (1969) di Dino Buzzati, mentre in Francia e in Belgio si pubblicano riviste destinate a restare nella storia come “Pilote” (dal 1959) e “Á Suivre” (dal 1978). Se l’ondata innovativa degli anni Sessanta tende a perdere slancio verso l’inzio degli anni Ottanta, insieme all’assopirsi delle spinte controculturali nel clima genereale del rappel à l’ordre, occorre evidenziare che si aprono comunque nuove strade soprattutto grazie a pratiche di autoproduzione.

È in questo periodo che le nuove narrazioni visive iniziano ad essere indicate come illustrated novel, graphic album, comic novel e graphic novel. Tra i primi autori del nuovo genere debbono essere ricordati illustratori inglesi come Alan Moore, Neil Gaiman, Warren Ellis e Grant Morrison. I due studiosi sottolineano anche l’importanza della rivista “Raw”, fondata nel 1980 da Art Spiegelman e Françoise Mouly, che nel corso di un decennio lancia in ambito statunitense autori come Charles Burns, Robert Crumb e Chris Ware. Nel corso degli anni Novanta il graphic novel definisce meglio alcune sue caratteristiche che lo differenziano sempre più dal fumetto tradizionale, e conquista un suo spazio editoriale e distributivo.

Calabrese e Zagaglia sottolineano come tale tipo di grafica narrativa abbia uno sviluppo internazionale che tocca, oltre gli Stati Uniti, anche il Sudamerica, l’Europa e l’Estremo Oriente. In Giappone, ad esempio, soprattutto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, Osamu Tezuka realizza un vero e proprio “cinema di carta” che conduce allo story manga, un racconto a fumetti autoconcluso rivolto ad un pubblico di bambini ed adolescenti.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta, in Giappone, un gruppo di nuovi autori inizia a proporre akahon ispirati all’hard boiled e rivolti ad un pubblico adulto che aprono le porte al movimento gegicka, diffuso da riviste come «Kage» e «Machi», che abbandona le semplificazioni e le deformazioni dei manga in favore di uno stile molto più realistico. Se in un primo momento il gegika ha successo tra i giovani lavoratori delle grandi aree industriali scarsamente acculturati, successivamente, a partire dagli anni Sessanta, alcune produzioni gegika si prestano a dare voce alle proteste ed alla critica sociale di studenti, intellettuali ed attivisti politici.

Attorno alla metà degli anni Ottanta il mondo dei fumetti vede l’uscita di alcune opere che ne cambiano la fisionomia. Se per quanto riguarda l’universo dei supereroi la svolta può essere individuata nell’uscita di Watchman (1986-87) di Alan Moore e Dave Gibbson e Batman. Il ritorno del cavaliere oscuro (1986) di Frank Miller, è con Maus (1986) di Art Spiegelman che si assiste alla canonizzazione del genere graphic novel ed alla sua ascesa nell’ambito della cultura letteraria, tanto che nel 1992 l’opera di Spiegelman riceve una menzione speciale da parte del Comitato del Premio Pulitzer.

Maus, comparso la prima volta nel 1972 come short story in un’antologia, poi pubblicato in maniera frammentata da «Raw», viene poi pubblicato in due volumi distribuiti da Pantheon. Il lavoro di Spiegelman è incentrato attorno alla questione della Shoah e presenta due storie che si intrecciano: in una Vladek Spiegelman racconta al figlio, Art Spiegelman stesso, la sua esperienza dell’Olocausto in Polonia, mentre nell’altra storia si narra del rapporto problematico tra i due.

Il primo volume, Mio padre sanguina storia (A Survivor’s Tale. My Father Bleeds History) narra le vicende dei genitori di Art fino alla loro deportazione ad Auschwitz ed introduce i problemi tra padre e figlio. Il secondo volume, intitolato E qui sono cominciati i miei guai (And Here My Troubles Began) narra invece la vita dei genitori di Art all’interno del campo di sterminio e i loro tentativi, una volta sopravvissuti, di ricostruirsi una vita prima in Svezia, poi in America, fino ad un brusco ritorno al presente narrativo.

Secondo Calabrese e Zagaglia la «prima ragione della notorietà di Maus è la complessità del suo impianto narratologico, in grado di mixare simultaneamente più livelli diegetici, moltiplicando il potenziale semantico ed espressivo di ciascuno di essi» (p. 19). In Maus la narrazione comprende due diversi piani temporali e ricorre a due narratori: «gli eventi della Seconda guerra mondiale in Polonia vissuti dal padre si dipanano fianco a fianco, a riquadri alternati, con quelli del 1980 vissuti dal figlio a New York, e la narrazione si sposta in avanti e indietro, con improvvise analessi e prolessi tra la storia intradiegetica della sopravvivenza di Vladek alla persecuzione nazista e i suoi racconti extradiegetici al figlio Art, metanarratore che sutura le due storie e crea Maus. Così il lettore entra in un labirinto degno di un racconto di Borges: Vladek è un narratore verbale intradiegetico, Art agisce sia come narratore extradiegetico del plot all’altezza cronologica del 1980, sia come narratore visivo che assume le narrazioni extra- e intradiegetiche in un blend di potente fascino» (pp. 30-31).

Gli studiosi sottolineano come la narrazione in Maus risulti decisamente complessa ed aperta ad interpretazioni differenti, sulla falsariga dei romanzi modernisti e postmodernisti. «Il metanarratore Art opera su diversi livelli […] e questo raffinato cocktail dei suggerimenti di un narratore onnisciente con le conoscenze del tutto limitate e anguste del personaggio (controfigura del lettore reale) influisce sulla nostra capacità di orientamento […] Questa multimodalità permette ancora una volta la giustapposizione della rappresentazione oggettiva e soggettiva, dell’eterodiegesi e dell’omodiegesi, del passato e del presente, del discorso tra i personaggi e del discorso “interiore” di un personaggio» (p. 31). Inoltre, il confine tra il livello narrativo di Vladek che riguarda la storia della Shoah ed il livello narrativo post-testimoniale di Art, riferito al problema della memoria storica, è offuscato da metalessi visive in cui si miscelano passato e presente.

Visto che il padre di Art racconta un frammento reale della storia della Shoah, Maus potrebbe essere pensato come visual life-narrative, storia orale-grafica; non a caso il primo volume è stato premiato come “biografia”. «In realtà, Maus è domiciliato in uno spazio intergenerico e intersemiotico e la sua stessa ricchezza espressiva dipende radicalmente da questa ontologica, immanente interstizialità: la voce di Vladek domina il testo e, come in ogni storia orale del folklore, solo attraverso la storia personale di Vladek il lettore può comprendere gli eventi storici descritti. L’universale è nel particolare, tanto quanto l’autobiografia si dissolve in una biografia» (p. 32).

Circa il ricorso semiotico agli animali presente in Maus, gli studiosi sottolineano come questo non abbia soltanto lo scopo di teriomorfizzare una società cinica e corrotta ma anche, in modo opposto, di «antropomorfizzare una violenza senza volto e senza ragionevolezza» (p. 34). Se la presenza di uomini teriomorfizzati palesa che ogni rappresentazione visiva è una finzione, ciò, suggeriscono Calabrese e Zagaglia, frantuma «il dogma formale del realismo operando, con gli strumenti semplici di un graphic novel, la complessiva “desantificazione dell’Olocausto” […] Le metafore animali funzionano proprio in virtù delle loro profonde incongruenze, dove i conti semantici sembrano non tornare mai: il lettore tende a dare un’interpretazione generalista di topi come persone, piuttosto che degli ebrei come topi, e ciò accade in quanto uno dei segni distintivi della tradizione animale nei fumetti sembra essere la “curiosa indifferenza verso la natura animale dei personaggi”» (p. 35). Nei fumetti meno dettagliata è la raffigurazione di un personaggio, più ci si apre all’universalità ed all’identificazione empatica dei lettori; la semplicità dei disegni in Maus contribuisce dunque alla “universalizzazione” dei topi.

Con la pubblicazione di Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla terra (Jimmy Corrigan, the Smatest Kid on Earth), uscito prima come serial fiction (1993-2000), poi nella versione one-shot (2000), Franklin Christenson Ware, più noto come Chris Ware, si rivolge direttamente ad un pubblico che egli stesso definisce nell’introduzione al volume del 2000, dotato di sufficienti «mezzi per intrattenere un dialogo semantico soddisfacente con il teatro pittografico ivi offerto» (Ware, p. 3, trad. it.).

Il racconto grafico di Ware si presenta indubbiamente di lettura complessa, con un tipo di impaginazione degerarchizzata e labirintica, strutturato secondo un «double plot a sviluppo elicoidale ove si rincorrono due storie ambientate in epoche diverse» (p. 60). La prima storia, ambientata negli anni Ottanta del Novecento, racconta del solitario trentaseienne Jimmi Corrigan che si trova inaspettatamente a dover incontrare il padre mai conosciuto prima, la seconda, ambientata a fine Ottocento, narra invece del rapporto tra il nonno ed il bisnonno di Jimmi. In entrambi i casi si tratta di storie che affrontano il difficile rapporto padre-figlio, «con i padri [che] giocano sempre un ruolo negativo [mentre] i figli incassano passivamente i colpi inferti dal contesto sociale e al tempo stesso vi si mostrano resilienti» (p. 62).

L’impaginazione proposta da Ware risulta decisamente innovativa; la forte regolarità geometrica, infranta dall’introduzione di microvarianti, conferisce alla pagina un aspetto che Calabrese e Zagaglia definiscono «quasi carcerario, claustrale almeno quanto la vita del protagonista […] La direzione abituale di lettura […] è smentita, o almeno sottoposta a forti turbolenze, poiché ciascuna planche si presenta come una combinazione di blocchi quadrangolari, dove l’immagine di grandi dimensioni costituisce un blocco unitario, mentre un mosaico di quattro, sei, otto, dodici piccoli panels ne costituisce un altro» (p. 63). Altra caratteristica importante segnalata dagli studiosi è l’uso della simmetria che viene utilizzata da Ware per enfatizzare le «opposizioni binarie che strutturano l’evoluzione spazio-temporale della storia, come ad esempio interno/esterno, passato/presente, giorno/notte» (p. 63).

Particolarmente interessante risulta l’approfondimento che Calabrese e Zagaglia dedicano al rapporto di Ware con i supereroi della sua infanzia. Secondo i due autori è possibile cogliere un parallelismo parodico tra la figura del supereroe e quella del padre assente; per certi versi Ware ha bisogno di eliminare una volte per tutte la figura del supereroe, propria dei fumetti, per poter dar vita al graphic novel. Si tratterebbe di una rottura necessaria con il mondo dell’infanzia (con i fumetti e con la figura del padre, pur se padre-assente) al fine di poter divenire adulti (dunque, artisticamente, poter entrare nel mondo del graphic novel). Ware, nella sua narrazione grafica, mette in scena il suicidio di un supereroe nell’indifferenza generale con tanto di titolone sul giornale. «Periodizzando i supereroi, il graphic novel diventa […] lo specchio critico del contesto storico-sociale» (p. 66). A questo punto gli studiosi individuano nel kidult il particolare tipo di lettore capace di specchiarsi in tale «labirintica parodia” del fumetto più mainstream» (p. 66).

In effetti, stando alle indagini effettuate in diversi paesi europei, mente il lettore-tipo di romanzi è soprattutto di genere femminile e di età compresa tra i trenta ed i cinquantaquattro anni, quello di graphic novel è invece in maggioranza di genere maschile e di età compresa tra i quattordici ed i ventiquattro anni. Si tratta dunque un soggetto «in fase di formazione permanente, che alimenta la propria Bildung attraverso porzioni massicce di visual storytelling. Proprio come la ricezione del romanzo settecentesco rifletteva le ansie del ceto medio, i graphic novel rivelano oggi i bisogni dei kidults e le loro ansie predittive circa un futuro sempre più impredicabile, irretito solamente da progetti a tempo determinato: narrazioni adatte ai tempi labili e a spazi empatici, fatte per rappresentare individualità uniche, ciò che spiega l’ambientazione realistica degli intrecci, l’attualità dei temi e la loro rilevanza storica […] Le peripezie vissute dai protagonisti diventano agli occhi dei kidults una parabola, un momento di passaggio da cui si esce trasformati, dove il fatto eccezionale di cui l’intreccio parla diventerà il momento in cui prende corpo una nuova identità” (p. 93). Non è un caso, fanno notare i due studiosi, che l’eroe del graphic novel non si trovi mai alla fine della storia nella medesima condizione esistenziale del punto di partenza.

Eliminati dalle storie i supereroi tradizionali, i protagonisti di graphic novel come Jimmy Corrigan errano alla ricerca di una collocazione all’interno di un mondo instabile e precario «in cui lo stato di crisi sembra essere il centro propulsivo dell’esistenza» (p. 67). È dunque con tale retorica del fallimento che il graphic novel, secondo Calabrese e Zagaglia, ha surclassato, almeno dal punto di vista qualitativo, il fumetto e, soprattutto, pare essersi conquistato un futuro tutto da scrivere e disegnare.

The Sandman (1988-96) di Neil Gaiman è da molti considerato una pietra miliare nella costituzione del graphic novel; si tratta di una delle pubblicazioni degli anni Novanta del Novecento che maggiormente ha contribuito a trasformare il formato della pubblicazione e l’estetica della narrazione grafica allontanandola dal fumetto tradizionale.

Ad essere ripreso in questo caso è proprio un supereroe, seppur minore, degli anni Quaranta del Novecento, dotato della facoltà di entrare nei sogni degli individui per poi proteggere i bambini dagli incubi. Gaiman trasforma il personaggio totalmente; il suo «Sandman viola le regole relativamente a ciò che rende un personaggio popolare nel settore dei fumetti dominato dai supereroi. Invece di criminali da combattere e vite da salvare, la preoccupazione del protagonista è quella di mantenere “The Dreaming”, ossia l’infinito orizzonte psichico in costante cambiamento che visitiamo ogni notte durante il sonno […] Tutto ruota intorno alla lenta trasformazione psicologica del protagonista: Sandman è la personificazione dei sogni e delle storie, un essere metafisico che ha pieno governo sulla vita dell’umanità. Egli è originariamente presente come un essere immortale: lui e i suoi fratelli creature divine immortali che si chiamano Destino, Morte, Distruzione, Desiderio, Disperazione e Delirio – sono i sette Eterni che incarnano e regolano l’esistenza umana» (p. 85).

In Sandman si rintracciano due livelli narrativi: uno è riconducibile alle diverse storie indipendenti derivate dalle pubblicazioni mensili, e l’altro sembra ricombinare le diverse storie in un unico grande affresco del personaggio. Si tratta comunque di una narrazione non lineare che salta avanti e indietro nel tempo a velocità diverse. «Tematicamente, Sandman si focalizza sull’idea di cambiamento e dell’inevitabile necessità di adattarsi alle trasformazioni dai contesti storico-ambientali, tanto che le arcature narrative della prima serie muovono da un Sandman riluttante alla metamorfosi e bisognoso di apprendere l’arte dell’adattamento; passo dopo passo si trova di fronte a esperienze che sconvolgono le sue certezze e lo conducono a rompere le sue abitudini, sino a mettere in discussione le proprie decisioni passate e le proprie credenze» (pp. 86-87).

Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi tempi nell’ambito della narrazione grafica è sicuramente quello di Zerocalcare (Michele Rech), autore che, formatosi nell’ambito dell’autoproduzione grafica, nell’ambiente dei centri sociali romani, nel 2012 pubblica prima l’albo La profezia dell’armadillo, poi il graphic novel Un polpo alla gola, ottenendo, in entrambi i casi, un notevole successo.

«Zerocalcare può essere definito il primo fenomeno di una cultura giovanile italiana degli anni Dieci del nuovo millennio, capace di raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo ricorrendo ad un linguaggio inventato, uno slang giovanile romanesco postdialettale, che ricorda la lingua meticcia anglo-polacca di Vladek in Maus. Manifesto di una cultura pop che sa rappresentare un’ampia fascia di lettori e lettrici, l’abilità di Zerocalcare è quella di fotografare la condizione giovanile in cui i lettori si immedesimano totalmente: nelle storie di Zerocalcare è rappresentata la quotidianità di un trentenne contemporaneo, disoccupato, nevrotico e cinico, che viene messo alla prova e fallisce regolarmente affidandosi però a una coscienza ironica» (p. 132). Il protagonista di questi graphic novel è lo stesso Zerocalcare che si presenta, sostengono i due studiosi, come una sorta di hikikimori nostrano ed il punto di forza dell’autore sarebbe da ricercarsi soprattutto nel forte rapporto con i lettori.

Kobane Calling si proietta al vertice delle classifiche dei libri di fiction più venduti «anche se paradossalmente ciò avviene con un testo di graphic journalism declinato in prima persona e a focalizzazione interna, per cui la realtà di Kobane è restituita attraverso gli occhi, le nevrosi, i dubbi e le difficoltà oggettive del protagonista-autore. Per questo, il graphic reportage alterna vignette dal realismo quasi documentario a passaggi “cartoonati” per rendere al meglio l’iperrealismo della situazione» (pp. 132-133).

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