Gianni Rodari – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Emilio Salgari, perché la tigre ruggisce ancora https://www.carmillaonline.com/2024/10/23/emilio-salgari-perche-la-tigre-e-ancora-viva/ Wed, 23 Oct 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84973 di Sandro Moiso

Paola Irene Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, pp. 432.

Inquadrato Salgari entro i suoi limiti stilistici, assolutamente evidenti, è doveroso riconoscergli un’influenza sul fantasticare giovanile – e non solo – che pochissimi suoi contemporanei hanno avuto. Quanto alla battaglia per la conoscenza, essa riguarda una domanda cruciale: ribalto in altra forma, volutamente provocatoria: qualcuno pensa che il più recente vincitore del Premio Strega soppravviverà al 2015, al 2025, al 2035? Mi permetto di dubitarne. [...]]]> di Sandro Moiso

Paola Irene Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, pp. 432.

Inquadrato Salgari entro i suoi limiti stilistici, assolutamente evidenti, è doveroso riconoscergli un’influenza sul fantasticare giovanile – e non solo – che pochissimi suoi contemporanei hanno avuto. Quanto alla battaglia per la conoscenza, essa riguarda una domanda cruciale: ribalto in altra forma, volutamente provocatoria: qualcuno pensa che il più recente vincitore del Premio Strega soppravviverà al 2015, al 2025, al 2035? Mi permetto di dubitarne. Invece l’effimero Salgari ci accompagna dalla fine dell’Ottocento e ancora non accenna a scomparire. Capirne il motivo dovrebbe importare a chiunque analizzi lo scrivere o scriva egli stesso. Attiene al motivo per cui, dall’alba dei tempi, gli esseri umani si raccontano storie e condividono l’immaginazione altrui. (Valerio Evangelisti, Perché Mompracem resiste ancora -2003)

Alla luce dell’analisi svolta da Paola Irene Galli Mastrodonato sull’opera complessiva di Emilio Salgari, il pur positivo giudizio espresso da Valerio Evangelisti potrebbe risultare ancora limitato e parziale. La studiosa, tutt’altro che nuova alla trattazione delle vicende letterarie e critiche ricollegabili alla figura del grande e, certamente, sottostimato autore di libri di avventure, nel monumentale saggio appena pubblicato in lingua inglese dalla Fairleigh Dickinson University Press riesce infatti ad attualizzare e a mettere in luce aspetti fino ad ora ignorati del lavoro, svolto spesso tra mille difficoltà ed angosce, non soltanto di carattere economico, dello scrittore nato a Verona nel 1862 e scomparso a Torino, per propria mano non ancora, cinquantenne nel 1911.

L’autrice ha conseguito un PhD presso la McGill University (Canada), in Letteratura Comparata, e ha trascorso gran parte della sua vita lavorativa presso l’Università della Tuscia (Viterbo) e quella di Potenza dove ha insegnato Lingua Inglese, Letteratura e traduzione in qualità di ricercatrice confermata. Ha pubblicato svariati libri, articoli e saggi sulla letteratura del XVIII secolo e del periodo rivoluzionario1. Inoltre ha pubblicato studi sulle letterature emergenti e l’inscrizione geografica dell’immaginario2.

“Salgariana di vecchia data”, come lei stessa si definisce, ha pubblicato inizialmente un saggio sulle due Indie di Salgari e Forster ( 1996) e ha proseguito con un saggio del 2001 sul “caso” Salgari, tradotto in francese e citato all’estero. Ha proseguito poi con la pubblicazione di svariati articoli e di due volumi collettanei3, perseguendo, con ferma volontà, il tentativo di inserire i romanzi avventurosi dell’autore italiano all’interno degli studi post-coloniali e sulle culture contemporanee. Prefiggendosi, come afferma ancora la stessa «l’obiettivo di inserire Salgari nel discorso critico e postcoloniale in inglese per colmare un vuoto di ricezione che dura da troppo tempo». Ritrovandosi così indirettamente dalla parte dello stesso Valerio Evangelisti, quando questi affermava che:

Emilio Salgari gode oggi di ampio interesse da parte della critica. Si tratta però, nella maggior parte dei casi, di un interesse tra il bonario e il divertito, teso a inquadrare il “fenomeno Salgari” – che si impone come tale in virtù della sua capacità di parlare a intere generazioni, spesso condizionandone l’immaginario – in una nicchia ai margini della storia della letteratura italiana. Magari si destruttura la prosa salgariana, si cercano i meccanismi della sua “magia”, ma quasi sempre si finisce per individuarne il cuore nel colorito e nel pittoresco. Secondo me c’è ben di più, ed è la connessione stretta tra l’opera di Salgari e l’intero universo della narrativa popolare, con la sua capacità di destare emozioni durature e di riproporle a dispetto del tempo trascorso4.

Anche se il discorso di Paola Irene Galli Mastrodonato si è di fatto approfondito e, in qualche modo radicalizzato, trovandosi anche a polemizzare, per alcuni versi, con un’altra studiosa del “Capitano”, Ann Lawson Lucas5, che per Einaudi ha curato il volume dei «Millenni» dedicato a Salgari: Romanzi di giungla e di mare (2001), che aveva definito Salgari come una “spugna” capace di assorbire influenze e nozioni provenienti da letture e impressioni giornalistiche senza riconoscergli, invece, la grande capacità di rielaborazione e invenzione riconducibili, entrambi, allo sforzo immane di ricerca di dati storici, sociali, antropologici e geografico-naturalistici così come di fonti originali di informazione che costituirono sempre la fitta rete strutturale che avrebbe retto ogni testo salgariano.

Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive! si articola intorno ad una introduzione, in cui si ripercorrono brevemente le vicende “personali” dello scrittore, e a cinque densi capitoli che ne affrontano ognuno qualche aspetto particolarmente significativo, accompagnati da una ricchissima bibliografia di quasi venti pagine che raccoglie una grande quantità di contributi dedicati al medesimo, sia in Italia che all’estero, oltre che da un elenco delle sue opere.

Il primo capitolo espone la dimensione planetaria delle avventure narrate da Salgari, mentre il secondo si sofferma sulla dimensione epica della resistenza contro l’imperialismo britannico contenuta all’interno del ciclo delle Tigri di Mompracem. Il terzo, che si ricollega direttamente al secondo, esplora la dimensione indiana dei Misteri della Giungla Nera collegandola alla rilettura italiana che giungerà fino ai film di Sollima con protagonista l’attore indiano Kabir Bedi e all’influenza della stessa su uno scrittore importante come Amitav Ghosh, che in alcuni suoi romanzi non solo ha chiamato direttamente in causa l’autore italiano e, in particolare, le “sue” Sunderbans, le foreste di mangrovie in cui le acque del Delta del Gange e di altri grandi fiumi si mescolano a quelle salmastre dell’Oceano, di cui parla proprio nel ciclo indiano, ma ne ha anche tratto ispirazione nella costruzione di un’epica moderna indiana in cui il ricordo del passato coloniale e la lotta anticoloniale si mescolano all’avventura con la A maiuscola6.

Il quarto capitolo è invece dedicato al Corsaro Nero e al ciclo caraibico di pirati, amore e vendetta. Ma è il quinto a costituire il boccone più succulento per quanto riguarda la revisione degli studi critici sull’opera di Salgari. Non a caso, quindi, è intitolato proprio all’eredità di Emilio e alla necessaria decostruzione non solo degli studi letterari a lui dedicati, ma anche della concezione, contenuta nella maggioranza degli stessi, che vede separati l’alto e il basso, il popolare e il colto nell’ambito dell’invenzione letteraria.

In quest’ultimo non soltanto si sottolinea con forza la continuità degli elementi antimperialisti, anticolonialisti e antirazzisti contenuti nei suoi romanzi, ma se ne scopre e difende la sostanziale modernità interpretativa degli elementi “realistici” e/o storici che fanno da sfondo o scenario dei fatti narrati. A partire da quella classica che, nel contesto degli studi letterari, si pone più spesso: «Chi è un autore popolare e cos’è un testo popolare?».

La ricezione del pubblico e la diffusione di un testo oppure la popolarità di un autore e dei suoi personaggi, fanno certo parte della risposta. Una risposta che, però, troppo spesso separa il sottotesto, il contesto e gli elementi di riflessione contenuti in un’opera o di un autore di “successo” da quelli riconosciuti come tali in un testo o in un autore “colto”. Il paragone che l’autrice stabilisce, per fare ciò, tra i romanzi salgariani e quella che ritiene l’opera letteraria popolare più celebre e diffusa di tutti i tempi – Rebecca di Daphne Du Maurier, pubblicata nel 1938 – e quello successivo di questa con La nausea di Jean Paul Sartre, si rivela subito molto interessante per comprendere come, troppo spesso (per non dire sempre), la critica accademica rifiuti di riconoscere nelle opere popolari le stesse valenze, sia a livello di contenuto che interpretative, di quelle ritenute “colte”. In questo caso l’esistenzialismo riconducibile ad entrambe, ma riconosciuto soltanto nella seconda.

L’autrice dello studio, nel difendere la modernità e la complessità dell’eredità letteraria di Salgari, afferma:

Mi si lasci iniziare [… ] rivedendo proprio ciò che è stato considerato il suo tallone di Achille, il suo stile letterario. Se noi consideriamo infatti la mimesis come “imitazione” o “convenzione” noi dobbiamo tutti concordare sul fatto che si allontana decisamente dal realismo mimetico (così come, ad esempio, fece Byron) sia per le sue trame esotiche che per le contaminazioni linguistiche contenute nelle stesse. Per questo motivo è profondamente antinaturalistico e antimimetico, sia positivista (per la sua visione enciclopedica planetaria) che anti-positivista (la trama dei Misteri della Giungla nera oppure la distopia delle Meraviglie del Duemila), mentre Alfredo Luzi ha accertato definitivamente l’originalità e la qualità della tecnica “post-moderna” di Salgari basata su ciò che Édouard Glissant ha definito come una “rete di riferimenti”, l’abilità di inserire “nuclei narrativi di finzione all’interno un tessuto di eventi reali”, un tratto distintivo della sua lingua meticcia e creola, irrispettosa delle regole”. Come ho dimostrato, sebbene in una forma ancora obbligatoriamente incompleta, la prosa di Emilio è allo stesso tempo “visuale” e “visionaria”, aperta ad un paesaggio “utopico”, l’eccezionale frutto di una scrupolosa riscrittura delle fonti consultate7.

Non potendo, però, per motivi di spazio e tempo indagare completamente la riflessione dell’autrice sui riferimenti della cultura pop, cinematografica e televisiva ai romanzi salgariani, preme a chi recensisce qui il testo sottolineare ancor alcuni elementi messi in risalto da Paola Irene Galli Mastrodonato.

Il primo, che si ricollega direttamente all’impianto antiimperialista dell’autore, è legato al primo kolossal del cinema italiano e forse mondiale: Cabiria di Mario Pastrone, realizzato nel 1914, tre anni dopo la scomparsa di Salgari. Tratto liberamente dal suo romanzo Cartagine in fiamme, ma la cui sceneggiatura attribuita a Gabriele D’Annunzio, cancellando l’autore originale, avrebbe completamente ribaltato l’impianto anti-romano e le caratteristiche dei personaggi principali.

Fatto che rivela anche, come sottolinea ancora la ricercatrice, l’inconsistenza dell’accusa di “fascismo” rivolta ad un autore scomparso undici anni prima dell’avvento del regime mussoliniano, la cui unica colpa era, e per molti versi rimane, quella di essere stato uno degli autori italiani più letti, in Italia e all’estero, del Novecento. Periodo fascista incluso. Accusa che, se si pensa al peso successivamente attribuito ad autori per l’infanzia come Gianni Rodari (strettamente ricollegabile al periodo filo-sovietico e stalinista del PCI, ancora dopo la seconda guerra mondiale), appare francamente proditoria e ridicola.

L’ultimo punto che l’autore di queste insufficienti righe vorrebbe ancora sottolineare è quello del ruolo delle figure femminili nel contesto dell’opera salgariana. Tralasciando le figure di Marianna, Jolanda e molte altre eroine ancora, compresa la coraggiosa Capitana dello Yucatan, è dalle pianure del Far West che queste ricevono il massimo splendore, unendo un differente interpretazione del mito del West in chiave anti-razzista e anticoloniale a quella di donne rappresentate obbligatoriamente come deboli, indifese, destinate ad essere soltanto vittime, madri, sorelle e amanti fedeli. A differenza di Minnehaha e Yalla protagoniste della trilogia western: Sulle frontiere del Far West, La scotennatrice e Le selve ardenti.

Oltre ad anticipare gli spaghetti-western di sessant’anni dopo, con il coinvolgimento di giovani e avventurosi italiani nelle vicende narrate, la trilogia metterà al centro della vicenda la resistenza dei nativi al progressivo avanzare dei coloni bianchi e dei massacri perpetrati dagli stessi e dall’esercito degli Stati Uniti nei confronti degli abitatori originali delle grandi pianure dell’Ovest. Non a caso la vendetta della figlia di Nuvola Rossa si compirà soltanto con il massacro del Little Big Horn, dove il colonnello Custer e i suoi uomini pagheranno il prezzo delle angherie perpetrate precedentemente sulle tribù più indifese.

Ma non è soltanto il riconoscimento in anticipo della violenza subita dai popoli amerindi a colpire il lettore, poiché anche la forza delle figure di donne guerriere all’interno delle differenti tribù Apache, Sioux Oglala, Cheyenne o altre ancora è stata riscoperta e sottolineata nelle ricerche storiche e antropologiche al femminile condotte negli ultimi decenni. Ricerche che rivelano come l’importante ruolo delle donne sciamano e guerriere, esattamente come nelle tradizioni nordiche, appartenesse totalmente a società che troppo spesso sono state ridotte a primitive, barbare e maschiliste. Creando un modello femminile immaginario di cui, purtroppo, sembra ancora nutrirsi tanto femminismo perbenista in stile Me Too.

Come si è già detto, soltanto ragioni di spazio obbligano il recensore a fermare qui la sua ricapitolazione della ricchezza di osservazioni, riflessioni e riletture che il bellissimo e interessantissimo testo di Paola Irene Galli Mastrodonato avanza in quasi ogni pagina e non rimane che augurare che lo stesso testo trovi al più presto un editore per la sua pubblicazione anche qui in Italia, da troppo tempo adusa alla boria di una critica letteraria insufficiente e stantia, anche quando, e forse soprattutto, si pensa “progressista”.


  1. La rivolta della ragione, 1991; Storia della vita e tragica morte di Bianca Capello. Genesi di un racconto si successo del Settecento, 2009 e “Romans gothique anglais et traductions françaises: l’année 1797 et la migration des récits”, 1986, che è stato in seguito inserito nella Cambridge History of the Gothic nel 2020.  

  2. Ai confini dell’Impero. Letterature emergenti (1996) e Geo-Grafie: percorsi di frontiera attraverso le letterature (1999).  

  3. Il tesoro di Emilio: omaggio a Salgari (2008) e Riletture salgariane (2012).  

  4. V. Evangelisti, op. cit., p. 180.  

  5. A. Lawson Lucas, La ricerca dell’ignoto. I romanzi di avventura di Emilio Salgari, Leo S. Olschki, Firenze 2000.  

  6. Si vedano in particolare i romanzi della trilogia ruotante intorno alla Guerra dell’Oppio: Mare di papaveri, Neri Pozza Editore,Vicenza 2008; Il fiume dell’oppio, Neri Pozza, Vicenza 2011 e Diluvio di fuoco, Neri Pozza, Vicenza 2015.  

  7. P.I. Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, p. 380. Traduzione a cura del recensore.  

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I comunisti sono matti ? https://www.carmillaonline.com/2023/10/11/i-comunisti-sono-matti/ Wed, 11 Oct 2023 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79137 di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro [...]]]> di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli pubblicata nelle serie dedicata alla Storia della Sinistra comunista e della dissidenza in Italia di «Pagine Marxiste».

Figure che si muovono tutte tra prometeismo, visionarietà e giochi di equilibrio spericolati tra assurdità e tragedie personali. Un bel catalogo di vite frantumate e disperse, nel corso del XX secolo, da un modo di produzione, da un ambiente socio-culturale e politico e dalle sue mode che definire distruttivo e devastante, tanto per il singolo individuo quanto per i milioni di altri che lo circondano, è ancora eufemistico e dall’implacabile scorrere di eventi tra i più drammatici che la Storia possa annoverare nei suoi annali (dittature, guerre mondiali, uso dell’arma nucleare, asservimento degli ideali rivoluzionari agli interessi del Capitale, tanto ad Ovest quanto ad Est e molto, troppo altro ancora).

Eventi che hanno causato traumi collettivi e singoli, individuali e sociali, largamente conosciuti oppure del tutto sconosciuti, ma che hanno segnato donne, uomini e generazioni in profondità. Come avviene appunto per la vita del “ferroviere rosso” Isidoro Azzario, di cui i due ricercatori militanti, Pellegatta e Lunardelli, ricostruiscono le drammatiche vicende, a metà strada tra le prime storie di Georges Méliès, il tramonto del duo cinematografico composto da Stan Laurel e Oliver Hardy descritto nel romanzo Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano e la tragedia del proletariato mondiale schiacciato e sconfitto dall’azione di fascismo e stalinismo nel corso degli anni Trenta.

Isidoro Azzario, nato a Pinerolo il 20 maggio del 1884, figlio di un simpatizzante socialista da cui apprese, secondo le sue stesse parole «i primi rudimenti del socialismo», attraverserà i primi, drammatici cinquant’anni del XX secolo vivendo in prima persona molti degli eventi che li avevano caratterizzati. Non solo qui in Italia, ma anche all’estero. In Sud America, dove fu inviato come rappresentante dei Ferrovieri rossi, e in Russia, dove fu delegato del Pcd’I al IV Congresso dell’Internazionale Comunista e dell’esecutivo allargato della stessa.

Tra i fondatori del Partito comunista d’Italia al congresso di Livorno del 1921, Azzario era stato assunto in ferrovia nel 1904, portando con sé sul lavoro non soltanto la preparazione tecnica acquisita con la frequentazione delle scuole tecniche in provincia di Torino, ma anche le qualità oratorie dimostrate nei suoi improvvisati discorsi contro il colonialismo italiano e a favore di Gaetano Bresci che avevano stupito e scandalizzato i suoi insegnanti mentre spronava i suoi giovanissimi compagni di scuola negli anni di Crispi, Bava Beccaris e ancora in quelli successivi.

Chiamato da Bordiga nella commissione sulla tattica che avrebbe dovuto occuparsi del programma di lotta da applicare tra il proletariato italiano, avrebbe poi interpretato “al meglio” quello stravolgimento del corpo del partito seguito al convegno clandestino alla Capanna Mara del maggio 1924 e successivamente, in quanto ex-sinistro, venne scelto durante il congresso di Lione del 1926 per portare l’affondo più duro contro la direzione della Sinistra, con tanto di autocritica.

In America Latina, in seguito a un riconoscimento o a una delazione, fu arrestato a Cali e rispedito in Italia e, probabilmente, durante il viaggio di ritorno in nave fu a lungo torturato e seviziato dai fascisti, fin quasi a fargli perder la ragione, anche se questo non fu sufficiente a piegarlo del tutto. Successivamente, come era già successo dopo il primo licenziamento per motivi politici subito ancor prima del 1921, Azzario fu reintegrato nei ranghi delle ferrovie e nel secondo dopoguerra avrebbe svolto ancor per pochi mesi la funzione di Capostazione in quel di Luino. Ma tutto questo viene ricostruito a posteriori nel testo qui recensito, poiché la narrazione prende avvio da Mercoledì 26 novembre 1958, quando:

all’ospedale Luini -Confalonieri di Luino, viene ricoverato nel reparto Medicina un anziano signore: alto, visibilmente denutrito, il viso cianotico, lo sguardo perso; spicca sul mento un lungo e curato pizzo bianco. Le sue condizioni appaiono subito serie: aritmia, difficoltà di respirazione, scarso orientamento nel tempo e nello spazio. Al personale sanitario conferma di chiamarsi Isidoro Azzario […] Nella cartella clinica i medici aggiungono che le condizioni psichiche del paziente non consentono una corretta raccolta dei dati anamnestici: disturbo bipolare, precisano1.

Azzario è in pensione da 11 anni dopo aver fatto il Capostazione sulla sponda lombarda del lago Maggiore, dove era giunto come sfollato da Milano, durante la guerra, insieme alla figlia e al genero che di quella zona era originario. La moglie era morta nel 1937 e Isidoro è accompagnato dal dolore di non aver potuto nemmeno partecipare al suo funerale a causa di un ottuso funzionario fascista che gli aveva impedito di lasciare l’isola di Ponza, ove era confinato, per il tempo necessario per partecipare alle esequie.

Anche se a Luino e Germignaga, dove risiedeva, molti lo conoscevano, quando viene ricoverato in stato confusionale e denutrito, l’ex-ferroviere rosso vive da solo, o quasi, da diversi anni dopo che la figlia era morta nel 1948 e il genero nel 1957. Da anni. però, aveva ripreso a frequentare la sezione locale del PCI in cui testardamente e ostinatamente aveva ripreso a professare la critica del partito stalinizzato e del fasullo socialismo reale tipica della Sinistra comunista e di Bordiga, cui tornerà ad essere associato dalla direzione locale del partito. Direzione di cui faceva parte Gianni Rodari che in quegli anni sarebbe stato uno dei giudici più fermi e intransigenti di ogni forma di dissidenza interna, soprattutto se anche lontanamente riconducibile alle posizioni della Sinistra.

Ma il motivo per cui tutti ricordano Azzario, in quegli anni, non è tanto l’intransigenza politica nei confronti del Partito togliattiano e dello Stato sorto dalla Resistenza e delle sue alleanze internazionali, quanto piuttosto per i voli pindarici riguardanti la posizione dell’uomo nello spazio, le reali dimensioni della Luna e la sua reale distanza dalla Terra; la curvatura dello spazio che permette altresì che il satellite terrestre non sia null’altro che il riflesso della stessa, insieme all’attenzione per i primi voli spaziali (in particolare per il lancio della prima sonda lunare sovietica, Lunik, lanciata il 2 gennaio 1959, ma che non entrò nell’orbita della Luna per un errore di circa seimila chilometri) e la televisione che egli riteneva superata dal fatto che presto gli uomini avrebbero potuto telepaticamente ricevere una propria “televisione mentale” senza l’uso di elettrodomestici o altri marchingegni tecnologici. Tutte riflessioni che egli sottoponeva agli infermieri e ai pazienti dell’ospedale, ma che in precedenza aveva fatto circolare a voce e a stampa, in opuscoli stampati insieme al genero e poi distribuiti con lui a Milano. Uno avvolto in un mantello nero di sapore ottocentesco e l’altro in un saio verde.

Una storia di disagio psichico che però era già iniziata dopo la disavventura sudamericana del 1927 e le torture subite dai fascisti. Così che, dopo esser stato all’epoca consigliere comunale a Cuneo, membro di spicco della Camera del Lavoro locale, redattore di giornali comunisti e militanti quali «il Sindacato Rosso», schedato dalle prefetture come elemento estremamente pericoloso e definito da Gramsci come oratore formidabile, freddo, preciso e impeccabile, a Regina Coeli, dove era stato rinchiuso in attesa del processo, era stato riconosciuto a stento dai suoi compagni di partito e di carcere.

Bollato dalle perizie psichiatriche come individuo affetto da paranoia espansiva e delirio cronico progressivo, avrebbe iniziato il suo calvario tra i manicomi e, dopo di questi, quello del confino a Ponza e alle isole Tremiti. Durante il quale elaborò complesse teorie astronomiche, scrisse di Bimanità e Trimanità e si dichiarò figlio illegittimi di Nietzsche, di cui in gioventù aveva letto gli scritti insieme a quelli di Karl Marx.

Il testo di Pellegatta e Lunardelli, che a questo punto si lascia che sia il lettore ad esplorare fino in fondo, si avventura dunque in un territorio oscuro, sospeso tra dramma e paradosso, tra tragedia e sempre involontaria comicità, che, però, non costituisce l’unico caso nella storia del movimento operaio italiano. E nemmeno solo del movimento operaio, soprattutto nel guardare allo spazio come luogo di fuga e liberazione. Per la mente e, forse, anche per il corpo.

Basterebbe, allontanandoci per un momento dal contesto della lotta di classe, pensare a uno dei jazzisti afro-americani più innovativi e visionari: Sun Ra. Nato come Herman Poole Bloun a Birmingham in Alabama nel 1914, dotato di notevoli doto pianistiche e gusto musicale fin da giovane, a seguito dell’imprigionamento per renitenza alla leva e dei maltrattamenti subiti nel 1942-43 a causa della sua obiezione alla guerra e al servizio militare, dopo essere stato esaminato dagli psichiatri del campo dove avrebbe dovuto prestare servizio civile, venne dichiarato “personalità psicopatica” anche se altamente “erudita ed intelligente”, e quindi congedato a tempo indeterminato.
Dopo di che assunse il nome d’arte, e non solo, che ne avrebbe collegato opera musicale, pensiero e immagine pubblica allo spazio (in particolare a Saturno) e all’antico Egitto faraonico, di cui si reputava discendente e, in qualche modo, erede delle conoscenze esoteriche.

Una divagazione, quest’ultima, apparentemente fuori luogo, ma che ci rinvia alla necessità umana di sognare e di cui il comunismo, “demone” come già lo definì il giovane Marx, scienza o programma che sia, spesso ha rappresentato soprattutto un grande e liberatorio esempio, sia sul piano collettivo che sul piano individuale. Sogni di cui, come già profetizzava Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, l’essere umano ha bisogno come dell’aria per vivere e la cui repressione parziale o totale può portare alla morte, se non fisica almeno psichica.

Un vecchio compagno bordighista era solito ripetere che i comunisti, per resistere in condizioni sociali, politiche e culturali controrivoluzionarie decisamente avverse, oltre ad avere una pelle da rinoceronte dovevano essere per forza dei drop out. Effettivamente l’autore della presente recensione di drop out nell’ambiente comunista ne ha conosciuti davvero tanti. Si intenda bene, però, qui non si parla degli internati nei manicomi staliniani e sovietici per reprimere la dissidenza e nemmeno dei partigiani rinchiusi in manicomio dopo il secondo dopoguerra mentre il guardasigilli Togliatti apriva le porte delle carceri ai fascisti per farli uscire (e magari, in molti casi, per entrare nei ranghi del PCI e dell’amministrazione statale)2.

Se ne vogliono qui ricordare soltanto alcuni, spesso riconducibili all’area cosiddetta bordighista, come ad esempio quello che, all’epoca cinquantenne, tra il 1976 e il 1977 a Torino, bazzicava gli ambienti del canagliume giovanile “rivoluzionario” legato alle precedenti esperienze di Lotta Continua, Potere Operaio e Lotta Comunista, proponendo loro opuscoli, testi e giornali provenienti dall’area della Sinistra comunista. Spiegando, però, a tutti coloro che lo ascoltavano che non sarebbe stato necessario agire fino a quando i morti accumulati per le strade non avessero raggiunto il davanzale della sua finestra. Finestra che era di fatto un abbaino di una soffittta posta al quarto o quinto piano di un edificio umbertino del quartiere San Paolo. Per non dare adito a dubbi di qualsiasi genere va qui chiarito che Zombie di Romero sarebbe uscito soltanto nel 1978.

Oppure un giovane compagno che, ancor ventenne agli inizi degli anni Ottanta, si rifugiò in un mondo tutto suo, da cui non sarebbe mai più uscito, in cui la Terza guerra mondiale era già iniziata e le bombe atomiche avevano cominciato a piovere su un’umanità spenta e incredula. O, ancora, un vecchio compagno di una nota azienda di Ivrea in cui i comunisti di sinistra che componevano l’intero consiglio di fabbrica erano stati espulsi dal sindacato, per mano di Fausto Bertinotti, quando si erano rifiutati, insieme a tutti gli altri operai, di solidalizzare col Governo e i servi del capitale, non aderendo allo sciopero dichiarato dopo il rapimento o il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel 1978. Tale compagno dopo essersi ritirato in pensione manifestò sempre più i sintomi di un forte bipolarismo che spesso lo rendeva inviso ad amici, ex-compagni e famigliari.

Sono solo alcune delle storie che, per quanto piccole e apparentemente insignificanti, non andrebbero prese sottogamba e nemmeno ridotte a semplici curiosità aneddotiche, ma come testimonianza di sofferenze e drammi umani seguiti alla sconfitta (momentanea o sempiterna non tocca qui stabilirlo) del sogno più grande che il capitalismo, fin dalla scoperta delle sue irrisolvibili contraddizioni di classe, ha contribuito a produrre nella mente e nella speranza di chi dal basso gli si è contrapposto senza infingardaggini e senza compromessi.

Almeno per questo Isidoro Azzario e tutti gli altri sperduti compagni che in tanti modi diversi hanno seguito il suo percorso, meritano la riconoscenza di chi li ha conosciuti o di chi ne sente parlare soltanto ora per la prima volta.
Questa è la memoria che val la pena di preservare, molto più di quella delle rimembranze istituzionali e mummificate degli infiniti giorni e delle infinite iniziative ufficiali dedicate alla conservazione di una memoria a senso unico. Per questo Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli hanno fatto benissimo a ricordarcelo attraverso il loro lavoro di autentica, non blasonata e tanto meno patinata “storia dal basso”3. Storia di militanti che, come nel caso di Azzario, troppo spesso sono stati volontariamente rimossi dai gestori dell’ordine della memoria e dai loro partiti, anche quando, questi ultimi, per lungo tempo si son dichiarati “comunisti”.


  1. M. Lunardelli, A. Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, p. 11  

  2. In proposito si vedano: A. Peregalli, M. Mingardo, Togliatti Guardasigilli 1945-1946, Colibrì, Milano 1998 e M. Franzinelli, N. Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli, Milano 2015  

  3. Alessandro Pellegatta, oltre ad avere scritto già un altro testo su una figura dimenticata e contraddittoria dell’anarchismo, Infinita tristezza. Vita e morte di uno scalpellino anarchico (pagine Marxiste), ha anche curato, sempre per le stesse edizioni, due volumi sull’azione dei rivoluzionari in provincia di Varese e all’isola d’Elba nell’immediato secondo dopoguerra ed è tra i curatori del Dizionario biografico del movimento operaio, reperibile qui  

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Squid game, o vinci o sei nulla https://www.carmillaonline.com/2021/12/03/squid-game-o-vinci-o-sei-nulla/ Thu, 02 Dec 2021 23:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69454 di Fabio Ciabatti

Ho iniziato a vedere Squid game incuriosito dal fatto che questa serie è diventata un grandissimo successo tra gli adolescenti e i preadolescenti. In realtà questo prodotto televisivo sudcoreano, disponibile su Netflix, si inscrive in un filone di survival game o death game che conta già molti esempi provenienti dall’estremo oriente (p. es. Alice in Borderland), ma anche dagli Stati Uniti (si veda The wilds o Panic). Quello che però colpisce rispetto a Squid game è che non si tratta di un prodotto pensato per un pubblico di adolescenti a differenza degli altri esempi citati o, per menzionare [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ho iniziato a vedere Squid game incuriosito dal fatto che questa serie è diventata un grandissimo successo tra gli adolescenti e i preadolescenti. In realtà questo prodotto televisivo sudcoreano, disponibile su Netflix, si inscrive in un filone di survival game o death game che conta già molti esempi provenienti dall’estremo oriente (p. es. Alice in Borderland), ma anche dagli Stati Uniti (si veda The wilds o Panic). Quello che però colpisce rispetto a Squid game è che non si tratta di un prodotto pensato per un pubblico di adolescenti a differenza degli altri esempi citati o, per menzionare un grande successo cinematografico, della trilogia di Hunger games (attenzione il seguito dell’articolo contiene spoiler)

Il protagonista della serie sudcoreana è infatti Seong Gi-hun, un sottoproletario senza arte né parte di mezza età, indebitato con gli strozzini, lasciato dalla moglie, padre di una bambina nei confronti della quale non riesce a rappresentare una figura di riferimento. Aggiungiamo che vive ancora con l’anziana madre,  impossibilitata a curarsi da una grave malattia per mancanza di soldi, e il panorama delle disgrazie è completo. Si scoprirà nel corso della serie che le sciagure del protagonista nascono con il fallimento della fabbrica dove lavorava: per evitare il licenziamento collettivo si unisce agli altri operai nell’occupazione del posto di lavoro che viene sgomberato violentemente dalla polizia. Altri personaggi di rilievo della serie sono un rampante finanziere, amico d’infanzia di Seong Gi-hun, che ha truffato la sua stessa società, un anziano signore malato di tumore al cervello, una giovane borseggiatrice scappata dalla Corea del Nord in cerca di soldi per far uscire dall’orfanotrofio il fratellino fuggito con lei dal paese natale, un malvivente di mezza tacca violento e prepotente che i suoi complici vogliono uccidere, un immigrato clandestino pakistano.
Tutti questi personaggi fanno parte di un folto gruppo di reietti della società (in tutto 456) che partecipa ad un gioco di cui non sa alcunché salvo che la vittoria assicurerebbe una enorme vincita in denaro. Capiranno soltanto nel corso del primo gioco che chi perde viene ucciso: uomini in tuta rossa e volto coperto da una maschera sparano senza pietà ai poveri malcapitati. Dopo il primo massacro lo spettatore è inchiodato al teleschermo. Subito c’è un altro colpo di scena. Le regole del gioco prevedono che nessuno possa abbandonare individualmente la competizione, ma che la stessa si può interrompere solo se la maggioranza lo decide. Traumatizzati dall’eccidio cui sono appena scampati, ma ancora allettati dal montepremi, i giocatori superstiti si dividono sul da farsi. Prevale di un soffio il game over. Una volta tornati alle loro vite, però, i giocatori ripiombano nelle loro misere quotidianità prive di qualsiasi prospettiva. E quasi tutti decidono di rientrare. Mi fermo qua nella descrizione della trama per non rovinare il gusto della sorpresa. Aggiungo soltanto che le mortali competizioni cui assistiamo sono tutte basate su giochi per bambini. Si comincia con uno due tre stella e si finisce con il gioco del calamaro (squid game, appunto, vecchio passatempo dei bambini coreani a noi sconosciuto).

Da quanto detto, però, si può capire come il mondo descritto sembri assai lontano da quello degli adolescenti occidentali. Metteteci anche un tipo di recitazione che è molto distante dai canoni hollywoodiani cui fin da tenera età siamo abituati e il mistero del successo di questa serie tra le giovani generazioni si infittisce. Certamente c’è l’elemento del gioco, per di più infantile, che ci porta in un universo narrativo vicino a quello dei videogame. Non bisogna poi sottovalutare il livello raggiunto dall’industria dell’audiovisivo in Corea del Sud e la potenza di fuoco di una piattaforma come Netflix che si può permettere di proporre anche una quota di prodotti al di fuori del mainstream americano. Ma tutto ciò non mi sembra sufficiente. Ci sono prodotti ben più smaliziati che possono candidarsi al ruolo di serie cult tra i giovanissimi.
Questo tipo di problemi non se li pone certo chi ha cominciato una nuova campagna allarmistica. Si moltiplicano notizie di bambini che, emulando i giochi di Squid game, finiscono per picchiare chi perde. Si ripetono le denunce nei confronti della serie perché indurrebbe comportamenti violenti. Da più parti è arrivata la richiesta di oscuramento del programma.

Mi viene in mente Gianni Rodari che nel 1980 su Rinascita scrive un articolo dal titolo Dalla parte di Goldrake. Sembra assurdo che qualcuno possa aver considerato nocivo per i bambini un cartone animato che, a quarant’anni di distanza, appare una roba completamente innocua. Eppure è proprio così. Al di là della benefica relativizzazione del nostro punto di vista che questo esempio sollecita, alcune cose scritte da Rodari ci possono essere ancora utili. Egli sosteneva che vedere la televisione, anche per i bambini, non è mai un atto così passivo come si potrebbe pensare. C’è sempre un’attività di decodifica, di interpretazione, di coordinamento di immagini, suoni, rumori e voci. Il senso della storia non è dato in anticipo, va ricostruito. “I bambini si riappropriano dei materiali fantastici che la televisione ha offerto loro (e noi diciamo: li condizionano, li costringono, ecc.) e ne fanno quello che vogliono loro. La drammatizzazione è una riappropriazione spontanea: i bambini giocano a fare Goldrake perché non vogliono subire Goldrake, ma lo vogliono usare per sé stessi”. Invece di polemizzare con questo e altri simili prodotti televisivi, sostiene ancora Rodari, “Bisognerebbe chiedersi il perché del loro successo, studiare un sistema di domande da rivolgere ai bambini per sapere le loro opinioni vere, non per suggerire a loro delle opinioni”. Non deve certo sfuggire la differenza tra un prodotto televisivo come Goldrake e una serie Tv alla Squid Game. Né si può sottovalutare la differenza tra la socializzazione dei più giovani di quarant’anni fa e quelli di oggi. Ai giorni nostri l’insieme dei messaggi che arrivano attraverso gli schermi delle televisioni, dei computer, degli smartphone e delle playstation sono molto più pervasivi di quanto fosse la TV ai tempi di Goldrake. Eppure rimane il fatto che la fruizione di tutti questi media non è meramente passiva. Rimane il fatto che occorre interrogarsi più che condannare.

E allora torniamo a bomba. Perché un prodotto sudcoreano pensato per un pubblico adulto ha così successo tra giovani e giovanissimi del mondo occidentale? Sia ben chiaro, risposte definitive non ne ho. Ho solo un’ipotesi che mi piacerebbe fosse approfondita ben più di quanto io sia in grado di fare. Quello che Squid game drammatizza attraverso il meccanismo narrativo del death game è la traiettoria esistenziale che le giovani generazioni, magari confusamente, percepisco gli sia toccata in sorte: o vinci o muori. O diventi come Steve Jobs o sei destinato a consegnare pizze per pochi euro per tutta la tua vita. O eccelli o sei nulla. All or nothing, per utilizzare il titolo di una serie di documentari in tema sportivo. 
Cosa trasmette un genitore al proprio figlio quando non può accettare che abbia preso un brutto voto e se la prende immancabilmente con l’insegnante? Quale lezione può trarre un ragazzino quando un genitore si scaglia pesantemente contro l’allenatore che l’ha messo tra le riserve? Quale ansia da performance si trasmette a un bambino quando il suo tempo è riempito, sin dalla tenera età, con mille attività e corsi predisposti da genitori con cipiglio quasi manageriale? Quale messaggio arriva dall’eccessiva medicalizzazione di comportamenti di bambini in età scolare che, in molti casi, hanno solo il difetto di essere poco performanti? L’insuccesso è inaccettabile, non essere tra i primi è un dramma, migliorarsi in continuazione è una necessità vitale, non impegnarsi al massimo è patologico.
Di esempi se ne potrebbe fare ancora molti, ma a questo punto preferisco concedermi una breve parentesi autobiografica. Quando, molti anni fa, decisi di iscrivermi a una facoltà umanistica sapevo benissimo che da un punto di vista degli sbocchi lavorativi la mia scelta avrebbe potuto essere penalizzante. Pensavo però, con una certa incoscienza, che se non fossi riuscito a raggiungere il mio obiettivo primario, un piano B lo avrei escogitato. Un posto come impiegato l’avrei comunque trovato, magari attraverso qualche concorso pubblico del cavolo. Quanti giovani al giorno d’oggi potrebbero fare una scelta vocazionale con altrettanta leggerezza? I percorsi professionali devono essere pianificati in anticipo. Guai a non avere le idee chiare sin da subito. Intendiamoci, la mia non è un’invettiva contro i giovani privi di valori o di coraggio. È il nostro mondo ad essere cambiato in peggio. Precarietà diffusa, condizioni di lavoro oppressive, diritti sociali in via di liquefazione, distribuzione sperequata delle ricchezze e dei redditi, frammentazione sociale configurano una società ferocemente atomizzata e, al tempo stesso, polarizzata tra una minoranza sempre più esigua che ce la può fare e una maggioranza sempre più estesa che rischia di rimane esclusa da una vita decente. 

Se quanto detto fin qui ha un senso, non dovrebbe sorprendere il successo di una serie come Squid Game. Il tutto sta a capire come un certo tipo di contenuto viene interpretato e vissuto. Ci si limita a fare il tifo per il protagonista identificandosi con lui senza mettere in questione il meccanismo in cui è immerso? O la proiezione al di fuori di sé di un dispositivo ansiogeno che è stato introiettato può preludere a un suo possibile rigetto? Come ci si pone di fronte alla scelta del protagonista che a un certo punto deve decidere se sacrificare il suo amico d’infanzia è un prezzo che si può pagare per raggiungere la vittoria? Una risposta definitiva a queste domande suonerebbe a questo punto vuotamente retorica o moraleggiante. Mi limito a un’osservazione che può mantenere viva la speranza: le giovani generazioni, attraverso il tema della crisi climatica, stanno scoprendo che non ci si può salvare da soli. Di strada bisognerà farne ancora tanta. Enormi sono le forze in campo che spingono verso una strumentalizzazione e una neutralizzazione di questa protesta. Ancora deboli le voci di chi non si accontenta del solito bla bla bla. Ma un primo passo è stato fatto. Forse non siamo condannati a uccidere tutti i nostri concorrenti per non soccombere nella gara della vita.

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I fotoromanzi del consenso. Il racconto illustrato nella propaganda del dopoguerra https://www.carmillaonline.com/2019/06/03/i-fotoromanzi-del-consenso-il-racconto-illustrato-nella-propaganda-del-dopoguerra/ Mon, 03 Jun 2019 21:30:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52643 di Gioacchino Toni

Quando si pensa al fotoromanzo si è portati a pensare ad una narrazione incentrata su banali storie d’amore a lieto fine, eppure questo tipo di pubblicazione popolare ha svolto un ruolo non da sottovalutare nell’evoluzione culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Di ciò si occupa il recente volume di Silvana Turzio Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, 2019). L’autrice, dopo aver ricostruito il panorama nazionale di tale tipo di riviste illustrate ed aver tratteggiando le modalità con cui viene realizzato il fotoromanzo, analizza il trattamento riservato ai racconti illustrati da parte delle grandi compagini sociopolitiche che nel [...]]]> di Gioacchino Toni

Quando si pensa al fotoromanzo si è portati a pensare ad una narrazione incentrata su banali storie d’amore a lieto fine, eppure questo tipo di pubblicazione popolare ha svolto un ruolo non da sottovalutare nell’evoluzione culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Di ciò si occupa il recente volume di Silvana Turzio Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, 2019). L’autrice, dopo aver ricostruito il panorama nazionale di tale tipo di riviste illustrate ed aver tratteggiando le modalità con cui viene realizzato il fotoromanzo, analizza il trattamento riservato ai racconti illustrati da parte delle grandi compagini sociopolitiche che nel dopoguerra si contendono il consenso popolare. Il capitolo finale del libro è invece dedicato ai “fotoromanzi della controinformazione” degli anni Settanta ed Ottanta. A questa ultima parte sarà dedicato un successivo scritto.

In Italia il fotoromanzo – per diverso tempo definito “fumetto” – è stato a lungo guardato con sospetto tanto dalla sinistra quanto dal mondo cattolico, come se si trattasse di un’intrusione americana nella cultura nazionale, non tenendo conto del fatto che le origini del “romanzo d’amore a fotogrammi” sono in realtà italiane. Nonostante le trincee ideologiche, dimostra il volume, «il fotoromanzo si è insinuato negli interstizi delle barricate comuniste e cattoliche per emergere infine per mano dei suoi stessi detrattori. Le vicende del fotoromanzo politico gettano luce non solo su un periodo congelato dalla Guerra fredda e da una classe politica chiusa alla comunicazione, ma anche sull’emersione impellente delle questioni civili» (pp. 9-10).

Nel dopoguerra, all’interno del Pci ci si interroga sul successo di pubblicazioni come «Grand Hotel» tra le donne e tra le militanti. Se una parte del partito palesa una condanna senza appello nei confronti di tali periodici non mancano però posizioni più sfumate. Enrico Berlinguer tra il 1948 e il 1955 interviene più volte sulla preoccupazione diffusa nel partito di non lasciare i giovani in balia del modello di vita americano mostrando, nei confronti del fotoromanzo, una maggiore comprensione. In particolare nel 1949 scrive: «Non è davvero nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassionarsi ad avventure o a vicende d’amore. Vorremmo soltanto aiutarle a comprendere che, alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie d’amore, vi è l’intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi, di unirci, di operare per rimuovere insieme gli ostacoli che impediscono a tante ragazze di conquistarsi un loro avvenire, di portare a compimento il loro sogno d’amore, di avere tutte la loro famiglia e di raggiungere la loro felicità in una società che più non conosca per i pochi, il privilegio, il lusso, il capriccio e, per i molti, l’umiliazione, lo scherno, la miseria. Vogliamo, soprattutto, indicare alle ragazze che sono stati scritti altri libri, che esistono altre letture che sanno rispecchiare – anch’essi – i loro sogni e le loro aspirazioni, che sanno essere anch’essi appassionanti, perché parlano della più grande delle avventure, che è la nostra vita di ogni giorno, perché esprimono il più grande dei sogni che è quello di una società giusta di liberi e di uguali, perché infondono fiducia e mostrano, nella lotta, una via che non tradisce, che non delude e che tutti i sogni può trasformare in realtà. Sono le opere dei comunisti, dense di umanità, ricche di una vita vera e vissuta da milioni di uomini e di donne, di una passione che non conosce ostacoli, di una fede grande ed invincibile» (pp. 74-75).

Dopo la sconfitta elettorale del 1948 lo stesso Palmiro Togliatti, inizialmente meno intransigente nei confronti della letteratura popolare, mostra maggiore risolutezza nel condannare quella che viene vista come una pericolosa ingerenza ideologica americana. La commissione culturale del partito, all’epoca diretta da Emilio Sereni, intraprende una vera e propria campagna in favore di una cultura popolare alternativa a quella d’importazione americana sull’onda del cinema neorealista nazionale, osteggiato invece dalla Dc.
In un clima di ostilità diffusa nei confronti delle storie illustrate sia tra le fila della sinistra che tra quelle cattoliche, nel 1951 si arriva ad una proposta di legge democristiana per l’istituzione di una Commissione parlamentare di Vigilanza e Controllo della stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza.

La difficoltà che la politica incontra nell’affrontare la narrazione visiva è palese anche sulle pagine di «Rinascita», ove Nilde Iotti muove una condanna senza appello nei confronti del “fumetto” che «non si legge ma si guarda. E questo provoca un grave danno poiché il solo guardare le immagini mina la capacità di riflessione insita nella lettura portando alla brutalità e alla violenza istintive. L’agent provocateur è in questo caso il gruppo editoriale Hearst […] che dagli Stati Uniti – secondo la Iotti “terra di aspetti negativi, repellenti” – invade l’Europa attraverso i “fumetti”» (p. 77). Dunque, secondo la dirigente comunista, l’eventuale controllo attuato tramite la commissione proposta dalle fila democristiane risulterebbe del tutto inutile in quanto questa «sarebbe formata da persone che lascerebbero circolare i “fumetti”, persino quelli realizzati dalle organizzazioni cattoliche». Da interventi come questo emerge, sostiene Silvana Turzio, «quanto le problematiche che sorgono intorno alla questione siano uno strumento per demonizzare sia gli Stati Uniti che le organizzazioni cattoliche, surrettiziamente assimilate ai pericolosi “yankee” nell’utilizzo del “fumetto”» (p. 77).

Gianni Rodari, in una lettera a «Rinascita», pur dicendosi anch’esso contrario alla proposta democristiana, intende differenziarsi dalla Iotti evitando di estendere il giudizio negativo al “fumetto” come genere, sottolineando invece come sia possibile ricorrere a tale modo di espressione per realizzare prodotti differenti da quelli americani per forme, contenuti e spirito. Inoltre, Rodari pone l’accento su come l’avvento del cinema abbia creato un “bisogno di vedere” del tutto assimilabile al “bisogno di cultura”.
Palmiro Togliatti, all’epoca direttore di «Rinascita», condanna le illustrazioni americane ma al tempo stesso mostra maggior disponibilità nei confronti delle immagini popolari di Épinal. Nel ragionamento del leader comunista, sostiene Turzio, si ravvisa come la maggior benevolenza per le immagini di Épinal, antesignane del “fumetto”, derivi in parte dalla loro origine europea. Si tratterebbe dunque, secondo la studiosa, di una difesa della cultura europea minacciata da quella americana: ciò che realmente preoccupa è il fascino esercitato dagli Stati Uniti.

Nell’ambito della discussione che attraversa il Pci attorno alla metà degli anni Cinquanta sul come arrivare a quell’elettorato femminile scarsamente alfabetizzato che frequenta malvolentieri i comizi e fatica a leggere «l’Unità», interviene anche la palermitana Giuliana Saladino, dalle pagine del «Quaderno dell’attivista» sostenendo che di fronte all’incapacità delle donne meno acculturare di affrontare il quotidiano del partito o «Noi Donne», «affinché possano diventare consapevoli della loro ingiusta condizione», sia auspicabile vedere «in mano alle donne siciliane degli albums a fumetti con i celebri romanzi d’amore e di lotte in cui viene esaltata la giustizia e condannata questa società, i suoi mali e i suoi torti, fumetti che trattino problemi attuali, sulla base di una trama semplice, di una storia vera […] che esalti la lotta del popolo per la terra, la lotta contro il costume ancora feudale». Dunque, afferma Saladino, in polemica con Nilde Iotti, «non possiamo noi, in Sicilia, così semplicemente scartare il fumetto, letto da milioni di donne, come mezzo di propaganda» (p. 82) ed a sostegno della sua tesi la palermitana cita l’esempio dei fumetti cinesi che, dal 1949, raccontano a disegni l’epopea di Mao.

Negli anni seguenti il Pci, pur continuando ad osteggiare le produzioni illustrate di tono sentimentale, decide di pubblicare i racconti a disegni sulla vita di Antonio Gramsci (s.d.) e di Giuseppe Di Vittorio (1958). «Espunti dai periodici e dai quotidiani, denigrati sugli organi di stampa ufficiali, una decina di fotoromanzi riescono tuttavia a forzare lo sbarramento ed escono allo scoperto per pochi anni. Stampati prevalentemente in occasione delle campagne elettorali amministrative (1956) e politiche (1953-’58-’63-’68) come pubblicazioni a sé, distribuiti porta a porta, svolgono una funzione di propaganda e rimangono limitati al periodo e ai temi elettorali, sottolineando soprattutto i problemi sociali più urgenti […] Non è una lettura di “svago”, ma una porta che apre prospettive per il raggiungimento di condizioni di vita migliori attraverso l’adesione alla lotta comune. Le storie vertono su temi scottanti, come la presa di coscienza dei diritti civili: la garanzia di un lavoro sicuro in patria, il rispetto della donna lavoratrice, il diritto di sciopero e il diritto alla casa, il predominio maschile sul lavoro e in casa, le difficoltà di progettare un futuro per le giovani coppie, la mancanza di asili nido e la tutela degli anziani. Problematiche impellenti ma sepolte in una nebbiosa inconsapevolezza dei propri diritti e quindi poco condivise dalle persone meno colte e più isolate socialmente e geograficamente. In questa prospettiva il fotoromanzo “politico” si pone come uno specchio fedele della realtà e individua le necessità dei lettori aiutandoli quindi a capirne la portata e la legittimità. Il lieto fine sentimentale è la scusa formale per introdurre il vero finale: l’“invito al voto comunista” che marca il distacco dal melodramma dei fotoromanzi classici. Il protagonista glorioso, sottotraccia sino alla risoluzione finale, è il Partito che interviene per proporre soluzioni concrete ai problemi del singolo inglobandoli e rafforzandoli in quelli collettivi» (p. 86-87).

Non è facile rintracciare tutti i fotoromanzi pubblicati su indicazione delle commissioni culturali dal Pci e diffusi porta a porta dalle militanti, tra questi si possono citare Più forte del destino e La vita cambierà. Il primo esce a disegni nel 1956 ed a fotografie nel 1958. Nella prima versione, realizzata alla vigilia delle amministrative di Bologna, la narrazione, che ruota attorno alle vicende di due fidanzati, si concentra soprattutto sui contratti capestro che regolano il lavoro femminile. Nell’edizione del 1956 «ci sono tutti gli ingredienti narrativi di una vita misera, raccontata secondo gli stilemi del fotoromanzo classico. Nonostante tutto, i due protagonisti resistono alle prove del destino sino a quando un anziano li esorta a votare per il Partito [ed] Il lieto fine annuncia la decisione dei due giovani di “votare per chi ci difende e ci protegge”» (p. 89). Nella versione fotografica, pubblicata alla vigilia delle elezioni politiche del 1958, i protagonisti non appartengono più alla classe operaia ma sono due giovani di buona famiglia che, sottoposti alle angherie del conformismo famigliare, troveranno nel Partito una promessa di un futuro migliore.
Il fotoromanzo La vita cambierà, probabilmente ambientato nell’imminenza delle politiche del 1968, attraverso una trattazione più corale, affronta invece una questione presente anche in molti fotoromanzi meno politicizzati: il problema dell’emigrazione verso la Svizzera e la Germania e le difficoltà delle famiglie che restano in Italia.

«L’utilizzo del fotoromanzo per costruire narrazioni educative non ha però superato l’esame da parte dei quadri, malgrado il successo confermato dalle donne più aperte e attente. Invece di vederne e sfruttarne il potenziale visivo, ci si è fermati alla distribuzione più spicciola e immediata, a mo’ di volantinaggio, limitata nello spazio e nel tempo. È tuttavia innegabile che i fotoromanzi, pur limitati nel tempo e nella quantità, hanno svolto un ruolo importante al momento delle campagne elettorali» (p. 97).
Nonostante il ricorso al fotoromanzo da parte del Pci svolga una funzione educativa politico-sociale e sperimenti un modo nuovo di cercare il consenso soprattutto tra l’elettorato femminile, la componetene più tradizionalista del partito fatica a riconoscere dignità ai racconti per immagini.

Particolare è il caso della rivista «Noi Donne» – dal 1944 pubblicazione ufficiale dell’Unione Donne Italiane – per il suo tentativo di coniugare l’impegno politico con i modelli dei periodici illustrati, soprattutto quelli rivolti alle donne. La rivista dell’Udi deve confrontarsi «sia con il disprezzo per la cultura dei rotocalchi femminili, diffuso tra i quadri dei partiti di sinistra, sia con una misoginia classista presente in alcune lettrici e redattrici» (p. 99).

Nel 1947 su «Noi Donne» viene pubblicato “Il nuovo romanzo d’amore illustrato”, Una donna si ribella, con disegni ad acquerello stampati a mezzatinta ad effetto fotografico di Vittorio Cossio e i testi di Grazia Gini – ispirato al romanzo Portrait of a Rebel (1930) di Netta Syrett – incentrato su una donna che, superati gli ostacoli sociali e famigliari, giunge a conquistare un’identità professionale e la libertà sentimentale. La tematica affrontata deve essere contestualizzata all’interno della campagna elettorale del 1948 che vede il Pci impegnato sul diritto al lavoro per le mogli e le madri. Con la presenza del romanzo illustrato, sotto alla direzione di Dina Rinaldi, la rivista passa dalle 40 mila alle 130-150 mila copie vendute grazie anche al capillare lavoro delle diffonditrici della pubblicazione, attività utile anche per comprendere le preferenze delle lettrici. Insieme al successo nelle vendite, però, arrivano anche le critiche da parte di alcune lettrici che, nel pieno della campagna antiamericana del 1948 contro i “fumetti” portata avanti dai vertici del Pci, si dicono contrarie alla loro pubblicazione sulla rivista dell’Udi.

In una delle prime scene del film Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, Silvana Mangano ha tra le mani una copia particolarmente “vissuta” di «Grand Hotel», probabilmente ad indicarne una lettura smaniosa e ripetuta. Poco prima dell’uscita nelle sale del film su «Noi Donne» Riso amaro compare nella versione a cinefotoromanzo realizzato con fotogrammi e fotografie tratte dal set ottenendo un enorme riscontro di vendite.

La direzione della rivista dell’Udi a partire dal 1950 passa a Maria Antonietta Macciocchi e la linea editoriale cambia: «i cineromanzi assumono un’aria dimessa, impaginati a scomparti fissi di sei fotografie orizzontali per pagina, ridotti a due sole pagine e accompagnati da didascalie redatte in modo neutro. I romanzi illustrati a disegni scompaiono e così le seppur rare vignette a “fumetti” dei mesi precedenti […] Con la nuova direzione il fotoromanzo viene additato come veicolo di un immaginario femminile sconveniente che ammicca pericolosamente dalle fotografie dove la donna “è rappresentata come un essere stupido, ridicolo, insignificante”» (p. 111).

Si apre così una stagione di attacchi diretti contro «Grand Hotel», «Bolero Film», «Luna Park», «Sogno», «Tipo», «Hollywood», pubblicazioni che la rivista dell’Udi «scova nei luoghi meno “colti”: dal parrucchiere, in treno, in tram, alla cassa del droghiere e del farmacista e sempre in mano a giovani donne» (p. 111). La nuova direzione di «Noi Donne» se la prende con quel «pubblico piccolo borghese che “smania” per occhieggiare come un voyeur i grandi alberghi e le donne procaci e discinte esibite in “questa volgare e ridicola illustrazione della sessualità”» (p. 111) ma soprattutto denuncia come le ingenue lettrici vengano, proprio attraverso i fotoromanzi, educate «al razzismo più bieco poiché i negri, i cinesi e gli indiani presenti nei racconti sono sempre ladri, traditori, spie, losche figure in contrasto con il bellimbusto americano e la sua indomita innamorata» (p. 112).

Sul finire del 1951 in un suo intervento pubblicato su «Noi Donne», l’onorevole Camilla Ravera accusa il fotoromanzo di sviare i lettori dai problemi reali e dalla lotta indirizzandoli verso un mondo fittizio. Il fotoromanzo, sostiene Ravera, «è luciferino per i ragazzi: favorisce la pigrizia mentale e ne atrofizza a lungo andare le facoltà intellettive, insegna la tecnica del delitto, alimenta l’odio di razza, indirizza a una concezione falsa della realtà» (p. 112).
Nonostante tutto i i cineromanzi continuano ad essere ospitati sulle pagine della rivista dell’Udi, pur ridotti alla doppia pagina ed accuratamente scelti su basi ideologiche, con un’impaginazione frema ai modelli delle prime pubblicazioni popolari degli anni Venti e Trenta oramai non più al passo coi tempi.

«Noi Donne», sostiene Silvana Turzio, «è un esempio non solo delle diverse e spesso opposte posizioni nei confronti delle dispense popolari a fumetti ma soprattutto della perplessità paralizzante nei confronti delle immagini e, in fondo, anche di una paradossale e poco consapevole misoginia che si manifesta anche nelle fautrici di un nuovo femminismo. Il problema emerge infatti quando le immagini mostrano troppo esplicitamente gli emblemi che scatenano il desiderio – “passioni d’amore, uomini, natiche e seni…” –, immagini pericolose perché offerte all’infanzia, intesa in senso letterale, della donna italiana» (p. 113).

Anche sul fronte cattolico alcune riviste decidono di ospitare fotoromanzi, tra queste «Famiglia Cristiana», pubblicazione che da una tiratura alla nascita nel 1931 di circa 300 mila copie, passa poi alle 750 mila nel 1956, alle 900 mila nel 1959, al milione nel 1961 fino a toccare i 2 milioni di copie a fine 1971 divenendo, nel corso degli anni Settanta, il settimanale più venduto in Italia. Per quanto riguarda la qualità dei servizi fotografici e della stampa, la rivista paolina rivaleggia con i periodici di maggior successo dell’epoca.

Il rapporto della Chiesa con le novità tecnologiche dei mezzi di comunicazione è notoriamente problematico: se da un lato viene incoraggiato il loro uso per «Portare Cristo oggi, con i mezzi di oggi» – si pensi alla produzione di cortometraggi, documentari e film della Sampaolofilm –, dall’altro però si avverte la necessità di istituire sistemi censori volti a preservare il pubblico da eventuali messaggi diseducativi e contrari alla morale cristiana.

Sebbene inizialmente ad essere trattate dai fotoromanzi pubblicati sul periodico cattolico siano storie di santi e religiosi, col passare del tempo prendono piede sia le riduzioni dei classici della letteratura, altrimenti sconosciuti al grande pubblico, che a vicende a sfondo sociale. In tutti i modi si tratta di produzioni votate alla catechizzazione in linea con l’impostazione paolina.
Nel 1959 su «Famiglia Cristiana» viene pubblicato Non posso amarti, la storia a fotoromanzo di Sant’Agnese, mentre l’anno successivo la rivista ricorre al racconto per immagini con didascalie, sulla falsariga dei cineromanzi degli anni Quaranta, per un servizio sul matrimonio e per uno sui grandi miracoli.
Sangue sulla palude (1960) rappresenta invece un tipo di fotoromanzo socio-educativo incentrato sulla vicenda di Maria Goretti. Nel giro di un quarto di secolo i fotoromanzi pubblicati su «Famiglia Cristiana» sono circa una cinquantina e, fino a metà degli anni Sessanta, sono prodotti internamente alla rivista

«Da un punto di vista formale il fotoromanzo cattolico è nei primi anni poco innovativo. Gli attori sono quasi sempre gli stessi, la pagina è densa di immagini collocate secondo la struttura classica del fotoromanzo: sei o otto fotografie per pagina, distribuite in una gabbia a crescere, le piccole in alto, le grandi in basso a sinistra, i testi invece sono collocati ai bordi superiori o inferiori, le vignette si sovrappongono a volte maldestramente alle immagini, che non sembrano essere realizzate in rapporto con il testo. La sequenza narrativa è chiusa sul presente, raramente con flashback o salti temporali» (p. 119). Le storie narrate riguardano soprattutto biografie edificanti di religiosi e figure femminili che hanno saputo compiere scelte coraggiose guidate da cristallini principi cristiani.

Dalla metà degli anni Sessanta le storie illustrate iniziano a preferire l’attualità ai racconti storici e agiografici e le modalità narrative si fanno più accurate, grazie al ricorso a professionisti del genere e soprattutto, segnala Silvana Turzio, si mostrano funzionali «ai cambiamenti dell’ultimo momento che possono essere sollecitati dalle reazioni dei lettori o da eventi di cronaca avvenuti tra una puntata e l’altra, secondo la collaudata tecnica del romanzo d’appendice, successivamente adottata dalle soap opera televisive. A volte emerge il meccanismo contrario: la rivista propone nel fotoromanzo scene o svolgimenti narrativi provocatori per suscitare nei lettori reazioni indignate, il che permette di riprendere il tema in articoli a latere o nelle rubriche dei lettori nei numeri successivi. Le pubblicità sono a loro volta articolate in funzione delle questioni che si vogliono affrontare nel corpo centrale della rivista. Gli interventi collaterali sembrano quindi essere costruiti consapevolmente come apparati di controllo e di deviazione del racconto in funzione di una precisa strategia comunicativa» (p. 120).

Nel periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, il mondo cattolico è toccato dalle turbolenze che attraversano l’intera società dell’epoca. All’interno del nuovo clima che si respira tra i cattolici, soprattutto tra i più giovani, i fotoromanzi pubblicati dalla rivista paolina «sembrano svolgere il ruolo di “messa in scena” dell’argomento per proporne una soluzione negli articoli o nelle rubriche di cronaca, dimostrando un uso congiunto del fotoromanzo e del paratesto di carattere propedeutico. Lungi dall’essere demonizzato, il fotoromanzo viene invece accolto come un contenitore capace di veicolare informazioni e indicazioni di vita e di pensiero» (p. 121).

Nel volume vengono dettagliatamente presi in esame un paio di fotoromanzi che affrontano il tema del celibato e dell’impegno sociale: La miniera del miracolo (1967) ed Il rifiuto (1967). Nel primo si narra del coinvolgimento di un prete nel mondo dei minatori, con annesse tragedie sul lavoro, e del problema del celibato sacerdotale, mentre nel secondo è di scena la questine dello scontro generazionale, in linea con il tentativo della Chiesa di «proporre un equilibrio tra gli effetti del boom economico e le lotte operaie e sindacali che si profilavano all’orizzonte» (pp. 129-130).

Ad essere affrontate sono anche la procreazione extramatrimoniale, l’identità femminile al di fuori della famiglia e l’imposizione parentale sulla scelta lavorativa o affettiva delle donne, tematiche trattate all’epoca anche dai fotoromanzi delle testate non cattoliche, «Noi Donne» compresa.
Se nelle produzioni “laiche” si assiste ad un evidente miglioramento della qualità fotografica, che adotta il colore, «Famiglia Cristiana» si ostina al bianco e nero evitando di curare l’aspetto fotografico ritenendolo esclusivamente funzionale alla narrazione scritta. La stagione del fotoromanzo sulla rivista cattolica può dirsi terminare attorno alla metà degli anni Settanta.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 65 https://www.carmillaonline.com/2014/12/18/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-65/ Thu, 18 Dec 2014 22:00:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19183 di Dziga Cacace

Signori, io mi scuso con tutti voi, ma questa fiction è veramente tremenda (René Ferretti)

ddv6501717 – Finché dura, Lost – Terza serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2006 L’impressione forte è che gli sceneggiatori mi stiano pigliando pesantemente per il culo, accumulando materiale narrativo, inghippi e probabili sòle che chissà se poi avranno un esito coerente. Però sto al gioco anche se – e già di mio – sono nel pallone più totale. Mettiamoci poi che la seconda serie l’ho vista due anni fa, non dormo da un quadrimestre e la memoria è quella [...]]]> di Dziga Cacace

Signori, io mi scuso con tutti voi, ma questa fiction è veramente tremenda (René Ferretti)

ddv6501717 – Finché dura, Lost – Terza serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2006
L’impressione forte è che gli sceneggiatori mi stiano pigliando pesantemente per il culo, accumulando materiale narrativo, inghippi e probabili sòle che chissà se poi avranno un esito coerente. Però sto al gioco anche se – e già di mio – sono nel pallone più totale. Mettiamoci poi che la seconda serie l’ho vista due anni fa, non dormo da un quadrimestre e la memoria è quella che è. Fatto sta che all’inizio di questa terza serie non capisco veramente una beneamata minchia e ricevo informazioni come un pugile suonato all’angolo piglia cazzotti. Però il fascino c’è tutto, la trama – a differenza che nella seconda stagione che mi era parsa più loffietta – presenta molti colpi di scena, analessi ambigue e tanta azione, le facce sono sempre più iconiche e cariche di significati (che attribuisci TU, probabilmente sbagliando, ma TU ormai fai parte della narrazione, con le tue ipotesi, i tuoi gusti che influenzano le share televisive e il lavoro degli autori). (Comunque ho scritto “analessi” e rileggendo il pezzo tre mesi dopo non so cosa significhi, se non che sono uno sbulaccone impunito). E sei trascinato fino alla fine di questa serie senza poterti ribellare o provare a razionalizzare e capire, come succede col disorientante e grandioso colpo di genio dell’ultima puntata. Perlomeno questo succede a Barbara e me, che indugiamo in un moderatissimo binge watching vedendo due episodi a sera; se vedessimo la serie con cadenza settimanale avremmo il tempo per provare a mettere le cose in fila. E non servirebbe fottutamente a niente. (Dvd; settembre ‘08)

ddv6502719 – La cafonata Romanzo criminale di Michele Placido, Italia/Francia/Gran Bretagna 2005
Aho, famo er Goodfellas de noantri! E cosa ti viene fuori? Un film così cosà, che ti passa perché molto ritmato e montato con la velocità da racconto di mala all’americana. Ma che della classe di uno Scorsese non ha neanche un’unghia: tutta la ricchezza esibita nel film – che si vede eccome – sembra un collanone d’oro al collo di un macellaio burino. Insomma, senti che c’è la vanga e da Placido non m’aspettavo diversamente. L’audio fa un po’ schifo (tanto per cambiare, è come una tara del cinema italiano) e col romanesco strascicato si rischia di non capirci nulla, però gli attori sono generalmente con facce azzeccate e ruoli giusti. A parte uno: quando Stefano Accorsi irrompe nel racconto tu spettatore sei catapultato in una nuova dimensione spazio-temporale… Ti fai forza, ti dici che non puoi essere cagacazzo su tutto tutto e accetti la faccia, pensando che sia adeguata al ruolo (ma se hai letto il romanzo, in realtà, no); insomma: te lo fai passare, ‘sto Accorsi che s’innervosisce se gli ricordano gli esordi col Maxibon. Però poi il “du gust” apre bocca e ha la voce chioccia e l’intonazione perennemente sbagliata. Ho pensato che ormai nessuno riesca neanche a dirglielo e voglio immaginare l’imbarazzo sul set o le bestemmie in montaggio. Un po’ come capita con la statuaria Monica Bellucci, che sembra che declami con una patata in bocca, sovrapponendo le sillabe con l’intensità tragica di un marmo di Fidia. Però, qui, Monica non c’è. C’è solo l’eterea Anna Mouglalis, che è uno splendore anche lei, ma quanto a recitazione è dalle parti di Lory del Santo, epoca Drive In: ci manca giusto che ammicchi guardando in camera… Ah, non sapevo che dopo il sequestro Moro (1978) Mao fosse ancora vivo: questi Rulli e Petraglia sanno sempre come sorprenderti. Comunque, filmetto. (Dvd; 21 e 22/9/08)

ddv6503720 – L’era glaciale 2 – Il disgelo, scongelato da Carlos Saldanha, USA 2006
Causa sua congiuntivite, mi rendo ridicolo regalando due Dvd a Sofia pur di riuscire a metterle il collirio. Ovviamente la piccina ha calcisticamente capito che fare sceneggiate ricattatorie paga e io ci casco in pieno come un arbitro con la Juventus. Il film non le dispiace ma è inferiore al primo episodio (che era più lineare, con personaggi meglio caratterizzati e scene più incisive). E per quanto alcuni critici abbiano ululato al capolavoro, superiore al capostipite, ho come sempre ragione io perché non è vero: ci son diverse idea, alcune buone battute e uno sviluppo narrativo non troppo fluido, per quanto semplice. Il film cresce molto nella seconda parte con due belle sequenze di animazione (Sid acclamato da una tribù di piccoli bradipi e la canzone degli avvoltoi, omaggio a Busby Berkeley, beccatevi questa) e un finale concitato tipico della Disney. Interessante il sottinteso sessuale per niente occulto: per garantire la sopravvivenza alla specie il mammut Mannie dovrebbe ciularsi la mammutona Ellie che fa la finta tonta. Poi, alla fine, arriva un branco di elefanti pelosi e la mastodontica trombata, puf, sfuma. Sennonché i due rimangono assieme comunque e lo faranno per amore e non per dovere. E con quelle zanne, vorrei proprio vedere come. (Dvd; 2/10/08)

ddv6504721 – E.R. Season 6 di Michael Crichton e altri geni, USA 1999/2000
È una serie, la sesta, interlocutoria: abbastanza triste, con nascite e morti, anche se sappiamo già che l’evento luttuoso definitivo è nell’ottava stagione, per cui facciamo finta di niente. Tran tran quotidiano lavorativo e affettivo, nuove unioni e separazioni, disgrazie e miracoli, qualche scena madre un po’ farlocca (la morte del padre di Green – Ciccio per gli italofoni –; Carol che raggiunge Doug – George Clooney – a Seattle) e un buon ricambio di personaggi e pesi nei ruoli (con il dottor Romano che diventa decisamente più simpatico). Al pronto soccorso c’è un nuovo pediatra, Luka Kovac, che viene dai balcani martoriati ed è, ‘anvedi, croato, come gli alleati più puri – e fascisti – che gli USA avevano nella regione (e chissà il croato cosa tiene in serbo… ah ah, sono anni che voglio scriverla. Scusate); e poi c’è la studentessa Abby che, personalmente mi fa prudere le mani tanto è stupida. Il mio fraterno amico Pier Paolo la ama e non so che farci. Vabbeh. Inoltre tante guest star come Alan Alda e Rebecca De Mornay (che ha un supposto nudo integrale in controluce: grottesco perché si vedono delle mutande color carne e due cerottoni sui capezzoli). Detto tutto ciò, comunque, siamo sempre dalle parti del capolavoro: anche nella Divina Commedia c’è il Paradiso che è un po’ una pallata, dài. (Dvd; ottobre ‘08)

ddv6505722 – Robin Hood del pauperistico Wolfgang Reitherman, USA 1973
Suntino animalesco della leggenda di Robin Hood, con abbondanza di balli, cazzottoni, anacronismi e inseguimenti, ricalcando letteralmente da vecchi film Disney alcuni personaggi (Little John e Sir Bis da Baloo e Ka del Libro della giungla) o alcune scene (quella dei jazzisti da Gli Aristogatti). Però ne viene fuori un film estremamente gradevole, coloratissimo, sempliciotto e tutto sommato adatto a Sofia, che ne è molto contenta e canticchia senza ritegno le canzoni del film. Gli sfondi sono curati e tutti gli animali della vicenda mi fanno simpatia, specialmente il pavido re Giovanni Senza Terra che si ciuccia il ditone piagnucolando. Il Dvd soffre del consueto sfregio Disney: una “edizione speciale” con un 16:9 artificiale, mozzando sopra e sotto il quadro d’origine in 4:3. Io sarò fanatico ma loro stronzi, scusate: una cosa così, per me è come l’antimateria, inspiegabile. (Dvd; 11/10/08)

??????????????723 – King Arthur di un farabutto, USA/Irlanda 2004
Polpettone con pretese storiche che fa di Artù un soldato romano di origine sarmata che durante la caduta dell’Impero deve affrontare i terribili sassoni, stringendo amicizia con i bretoni (o picti o angli, non ci mettevo troppa attenzione), ponendo così le basi per il popolo britannico, errore imperdonabile. King Arthur, è – senza tanti giri di parole – una paurosa menata di cazzo, che ha un po’ d’azione solo in due scene di battaglia girate con roboante tecnica manierista dal sedicente regista Antoine Fuqua. Primi piani in abbondanza, verbosi dialoghi da ricovero che abbondano di filosofia d’accatto e piagnistei sulla libertà degni di un leghista con la terza elementare: tutto sommato la cosa più realistica del film. Clive Owen è gonfio da shock anafilattico e Keira Knightley è inopinatamente truccata di blu come un puffo, con scucchia e petto concavo (nei manifesti però gonfiato). Fotografia bluastra, citazioni ad minchiam, lunghissimo. Una perdita di tempo esiziale che vedo fino in fondo solo per poterne parlare malissimo. Missione compiuta, spero. (Diretta tv su Italia1, 15/10/08)

ddv6507724 – Jamme! Pino Daniele live @ RTSI di Onesto Ignoto, Svizzera 1983
Questo curioso prodotto fa parte di una serie di Dvd, realizzati dalla tivù svizzera italiana, che hanno invaso i negozi di dischi qualche anno fa. Adesso sono malinconicamente svenduti a prezzi irrisori e allora mi son fatto tentare da questo Pino d’annata, in concerto precisamente il 26 marzo 1983. Musicalmente l’esibizione è molto interessante, prima della sbornia jazz che verrà e che trovo un po’ pesante. Daniele è accompagnata da una band eccezionale e si può rimproverare solo il gusto sartoriale per cui – a parte Tullio De Piscopo e Tony Esposito, atleticamente policromatici – sono tutti vestiti di bianco come dei gelatai. Pino addirittura presenta pantaloni altissimi alla caviglia ed espadrillas. Però suona la sua Les Paul nera con un gusto raro e le versioni dei pezzi non sono per nulla dei calchi di quelle incise su disco. L’ignota regia è decisamente anonima ma anche funzionale, senza stacchi superflui o le frenesie che avrebbero poi reso insopportabile la videomusica negli anni a venire. Inoltre il composto pubblico non è mostruoso, come di solito capita rivedendo una testimonianza di 25 anni prima, e si limita elveticamente a ritmare “Pino, Pino”. Visione piacevole e fin troppo veloce (64 min.). (Dvd; 13/11/08)

ddv6508Onanismo critico
Ormai è come se vedessi solo cinema porno: è tutto proibito. Vedo poco, male e ci manca che usi anche l’avanzamento veloce.
Non so se vedo meno film perché il tempo è letteralmente svanito nel nulla oppure se rifiuto di farlo perché poi dovrei scrivere anche qualcosa per non sentirmi in colpa. Ma per chi, poi? Non lo devo a nessuno, ormai, se non a me stesso, perché sento che la memoria sfugge. Rileggo vecchi pareri e mi chiedo: ma io ho visto questo film? Era veramente questa cagata? Non dovrei forse ridargli un’opportunità? Seee: ci mancherebbe la seconda visione, con revisione critica, che ancor più rimetterebbe in discussione tutto. Perché il problema è anche che non riesco più a digerire come un tempo, in tutti i sensi. Ricordo certi pomeriggi universitari indolenti: nessuno in casa, bustone di patatine surgelate da 250 grammi da friggere, fuoco vivace e finestre della cucina aperte per nascondere il puzzo dell’olio. E poi spaparanzato sul divano con la conca di frites in grembo e un bel sovietico nel vhs.
Nessun cellulare che suonava, nessuna mail da controllare, poco da studiare perché era tutto programmato, con le giornate libere che amministravo con sapienza poltrona, tra revisioni della tesi, testi da consultare (ma solo in biblioteca), sessioni minimali sul primo computer e qualche lavoretto per tirar su due lire. Niente di cui preoccuparsi, insomma.
Ma ora, che devo vivere da adulto, da professionista e da papà, dov’è finito il tempo? Devo affidarmi a Chi l’ha visto?

ddv6509725 – Guizzante, La sirenetta di Ron Clements e John Musker, USA 1989
Stracult di Sofia e delle sue coetanee: intuisco il potenziale sedativo del Dvd e lo acquisto subito, guadagnandomi la pace per diverse sere. A me non entusiasma, ma capisco perché piaccia: rimuove il finale sanguinoso di Andersen – alla faccia della cattiva che qui sembra Mara Maionchi – e ci mette un bel “e tutti vissero felici e contenti” (sì: nonostante la puzza di pesce che si porta dietro la ex sirenetta Ariel, tanfo di cui si accorgerà presto il principe, la prima notte di matrimonio). È un filmetto classicamente ben animato, tradizionale, con qualche scena molto riuscita (il granchio che scappa al cuoco francese) e numeri musicali memorabili e memorizzabili, tanto che in ufficio più di una persona mi ha chiesto se ero impazzito a canticchiare “In fondo al maaaar…”. Alla fin fine, film divertente che vedo ripetutamente dormicchiando (se ho sempre capito Stalin, adesso che Elena non ci fa dormire da mesi, comprendo pure Erode). (Dvd; 1/12/08)

ddv6510726 – Sleuth – Gli insospettabili dell’ineffabile Kenneth Branagh, USA 2007
Remake di un film di Mankiewicz che ho visto almeno due secoli fa e che ricordo piacevole anche se lunghetto. Il cagnaccio Branagh, regista amato dal pubblico midcult e dalla critica beonaci rifila invece un’atroce trafilatura al bronzo di coglioni di neanche novanta minuti, freddissima e punto divertente. Michael Caine recita da gigione nel ruolo che fu di Laurence Olivier, mentre quello che interpretava lui se lo prende Jude Law, compiaciutissimo della sua bellezza. Giusto per scrivere due righe, eccovi tosto due cenni al plot tratto da un’opera teatrale di Anthony Shaffer: un vecchio scrittore riceve la visita di un baldo giovane, attore, che gli tromba allegramente la moglie. I due si confrontano in un estenuante gioco a chi è più furbo e chi ucciderà chi. Da spettatore auguro morte dolorosa ad ambedue e al regista maledetto che li ha diretti. Film inutile, presuntuoso e godibile come un herpes sulla cappella, maledizione. (Diretta Sky; 5/12/08)

ddv6511727 – Ortone e il mondo dei Chi di Jimmy Hayward e Steve Martino, USA 2008
Visto a metà al cinema con Sofia, la primavera scorsa non c’era sembrato niente di che. Errore. Eravamo usciti perché la piccina moriva di sonno e io non ci avevo neanche patito troppo. Il Dvd ricevuto a Natale rende giustizia alla proiezione discutibile del cinema Ducale e al sonoro cartonato e rimbombante che ci aveva infastidito e ora posso dire che in effetti Ortone è un film caruccio, zeppo di idee, animato perfettamente, con personaggi splendidi. Morale, se vogliamo, dolciastra, ma cosa vogliamo far vedere ai bimbi, Pulp Fiction? Rimane la nota dolorosa della voce di Ortone, doppiato da Christian De Sica. Che nessuno sia stato sfiorato dall’idea che fosse un’immensa cazzata far parlare un elefante del bosco di Nullo con l’accento romano e le parole apocopate da pelandrone, è indicativo di come il cinema italiano sia in mano a dei miserabili. (Dvd; 26/12/08)

ddv6512728 – La Gabbianella e il Gatto di Enzo D’Alò, Italia 1998
Reduci da febbri altissime le bimbe – con Elena che viene soprannominata “il tizzone” a causa di una temperatura corporea da altoforno –, spezzato dal mal di schiena io, anche Barbara accetta che spinga un altro Dvd nel lettore. La Gabbianella è un film gradevole che conquista Sofia alla prima visione e la commuove come mai successo prima. La volatile è orfana causa inquinamento e si fa adottare da un gattone pelandrone, che la educa e la difende assieme ai suoi amici. Molti messaggi positivi, Sepulveda che si dipinge immodestamente come un gran poeta, colonna sonora rock fracassona e pure Ivana Spagna che canta. Doppiano Carlo Verdone e Antonio Albanese, assolutamente irriconoscibili, e la principessa Melba Ruffo di Calabria, personaggio dignitosamente scomparso dalle scene televisive. Come tutti i film per bambini, si fa vedere, anche se glassato di messaggi zuccherosi. È stato uno degli ultimi colpi riusciti a quel gran genio di Cecchi Gori, che immagino durante la visione del film mentre stringe gli occhi per concentrarsi e capire la trama. O più probabilmente il merito dell’operazione è dell’allora moglie, Rita Rusic, prima che si desse al rock da balera. (Dvd; 28/12/08)

ddv6513729 – Il pirotecnico Aladdin di Ron Clements e John Musker, USA 1992
Casa nostra sembra ormai un sanatorio, a causa di ricadute di febbre australiana a ripetizione. Si dorme pressoché nulla, con Sofia squassata da un’asinina tosse secca ed Elena che controlla praticamente ad ogni ora se siamo tutti svegli. Siccome non c’è possibilità alcuna di far prendere una boccata d’aria alle bimbe ammalate, bisogna inventarsi ogni giorno qualcosa per tirare fino a sera. E Santo Dvd, verso le 19 Sofia pretende il suo boccone di narrativa animata che pronto io le servo a video. La vicenda di Aladdin l’abbiamo letta tutta l’estate nel classico libro illustrato Disney (sì, lo confesso, se non è già evidente: sono sequestrato dalla multinazionale del divertimento infantile). Sofia non vedeva l’ora di assaporare il film e ne è rimasta conquistata, direi a ragione, perché è disegnato e animato magistralmente, con una sceneggiatura varia e dal ritmo notevole e con un Genio che continua a riservarci trovate gustose. Ovviamente Sofia si perde il lato parodistico dell’invenzione, ma a tre anni e mezzo tutto quello che si muove, piace. E anche alla mia età: Aladdin l’avevo già visto 8 anni fa e non me lo ricordavo per nulla. Non male. Forse sto allentando troppo le difese, tanto che – dato lo stato mentale in cui sono precipitato – mi ritrovo pure a fare pensieri sconci sulla conturbante Jasmine. Mah! (Dvd; 30/12/08)

ddv6514730 – Il capolavoro Boris di Luca Vendruscolo, Italia 2007
Il set di una soap italiana, con tutto quello che ne consegue. Questa è Boris, la “fuori” serie invisibile sulle reti generaliste perché rivelerebbe sfacciatamente come si facciano le cose nella televisione del Belpaese, cioè, come più volte ripetuto, alla cazzo di cane. Tra parolacce e umorismo acre, si sorride e si ride, ma – per me – è come se l’operazione metatelevisiva talvolta smorzasse l’ilarità. Provo un retrogusto amaro: gli equivoci, le cattiverie incrociate, la disperazione, la stanchezza sono raccontati con la precisione di chi c’è passato. Ipotizzo gli autori (Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo), che si pigliano qualche rivincita, e sicuramente io spettatore che – circa 1999/2000 – ho sputato sangue con della gentaglia che mi trattava da schiavo (il vostro Spartacus s’è liberato senza finire crocifisso dopo qualche mese e da allora se la cava, ma gli stronzi di un tempo continuano a fare gli stronzi nei peggiori programmi tivù che possiate immaginare). Boris è un esperimento riuscito e se ripenso al set de Gli occhi del cuore 2, alla sigla di Elio, alle follie di Stanis, alla canissima Corinna, a Biascica e allo splendido regista cazzaro René Ferretti che sa che andrà all’inferno ma è anche capace di girare un corto poetico su una formica rossa (!), allora perdono anche quelle piccole imperfezioni che fanno tanto “italiano” e che ogni tanto noto perché son cagacazzi di natura. Ci sono anche alcune interessanti variazioni sulla classica scrittura di un seriale: il cast è molto variabile e solo nella visione continua viene fuori il vero protagonista principale, René, quando all’inizio lo sembrava lo stagista Alessandro, punto di vista privilegiato dalla narrazione. E poi manca una UST esplicita, una unresolved sexual tension (ma quanto vi compiaccio con queste uscite da cialtrone, eh?) che ci incuriosisca per sapere come va a finire. E parlo parlo parlo, quando basterebbe sintetizzare che ho adorato Boris perché è un capolavoro e basta. (Dvd; gennaio ‘09)

ddv6515731 – Più volte La freccia azzurra di Enzo D’Alò, Italia/Lussemburgo 1996
Sofia in montagna per nove giorni con la nonna, noi soli con la belvetta che non dorme. Nei momenti di veglia mi piglia ‘na botta di malinconia e compro un Dvd da regalare alla primogenita al ritorno. Sì, la stravizio, è vero, ma fatevi un po’ i cazzi vostri, eh. E poi non sono ancora giunto al livello di guardarmi il film da solo, aspettandola. Giuro. Ma la sera stessa che Sofia fa ritorno, subito ci droghiamo felicemente assieme davanti al televisore. Tratto da una fiaba di Gianni Rodari, La freccia azzurra ricorda in certe parti Toy Story ma se là ci sono la sapienza narrativa e la computerizzata arte nord americana, qui troviamo molta semplicità e l’evocativo talento artistico nostrano musicato da Paolo Conte. Cose che evidentemente funzionano, almeno a livello infantile: Sofia apprezza le visioni ripetute, io perlopiù sonnecchio (ma per stanchezza). Carino. (Dvd; 17/1/09)

(Continua – 65)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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