Gianni Celati – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Storia di una copertina. Da “Le copertine di Urania” di Michele Mari a “Navi nel deserto” https://www.carmillaonline.com/2023/10/08/storia-di-una-copertina-da-le-copertine-di-urania-di-michele-mari-a-navi-nel-deserto/ Sun, 08 Oct 2023 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79413 di Luigi Weber

Humboldt Books ha da poco pubblicato un volumetto, dall’elegante veste rossa aniconica (fig. 1), che ripropone ai lettori Le copertine di Urania, celebre racconto di Michele Mari contenuto nella sua raccolta forse più fortunata, Tu, sanguinosa infanzia (Einaudi, 1997), con in aggiunta una selezione di immagini di copertine da remoti e pionieristici numeri della collana editoriale mondadoriana che in Italia significa “fantascienza”. Appartengono, reliquie doc, alla collezione privata di Mari stesso. Anche senza l’ausilio dell’informazione paratestuale, chi conosca appena un poco Mari lo dedurrebbe, che erano i suoi, dal perfetto [...]]]> di Luigi Weber

Humboldt Books ha da poco pubblicato un volumetto, dall’elegante veste rossa aniconica (fig. 1), che ripropone ai lettori Le copertine di Urania, celebre racconto di Michele Mari contenuto nella sua raccolta forse più fortunata, Tu, sanguinosa infanzia (Einaudi, 1997), con in aggiunta una selezione di immagini di copertine da remoti e pionieristici numeri della collana editoriale mondadoriana che in Italia significa “fantascienza”. Appartengono, reliquie doc, alla collezione privata di Mari stesso. Anche senza l’ausilio dell’informazione paratestuale, chi conosca appena un poco Mari lo dedurrebbe, che erano i suoi, dal perfetto stato di conservazione di questi libretti: pocket stampati su carta povera, pensati per un consumo veloce, di uscita settimanale o quattordicinale, e vecchi in qualche caso di buoni settant’anni (la gallery si apre con il leggendario n.1, “Le sabbie di Marte” di Arthur C. Clarke, uscito il 10 ottobre del 1952), ma quasi del tutto privi di pieghe strappi e perfino consunzione dei bordi; senz’altro in migliori condizioni di quelli conservati alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, che si vedono invece riprodotti nel saggio in appendice, “L’egemonia del cerchio”, a firma di Luca Pitoni.

Non si tratta di una rarità per bibliofili né d’un furbo oggetto di marketing che sfrutta l’amore dei lettori per il vissuto, traumatico fantasmatico e feticista, del Mari scrittore e del Mari uomo; quest’ultimo avvinghiato al primo e indistinguibile come le serpi nella bolgia dantesca dei ladri; con Le copertine di Urania siamo sulla chiara via tracciata da Asterhusher. Autobiografia per feticci (Corraini, 2015 e 2019, con fotografie di Francesco Pernigo) e da Sogni, con i disegni di Gianfranco Baruchello, edito per la stessa Humboldt Books nel 2017. Con una differenza e un progresso: Asterhusher esplorava una casa e il suo contenuto oggettuale, due mondi reciprocamente implicati e landolfianamente da un lato ospiti, dall’altro produttori di incubi, possessioni, infestazioni e metamorfosi, tutti e tutte sempre scaricate ed espulse nel linguaggio, anzi nominate proprio perché innominabili, e dunque mostruosamente, difettosamente, irregolarmente nominate. Era un iconotesto paradossale, dove le immagini non servivano davvero, giacché al massimo potevano offrire l’ancoraggio di una realtà qualsiasi al mondo letterario che da essa si era sprigionato, e che rimaneva prioritario. Una forma di garanzia d’esistenza del reale, a ridosso di un corpus narrativo che del reale si è sempre disinteressato. Questo Le copertine di Urania adempie invece a un ulteriore compito: recupera l’invisibile, produce le prove, presentifica l’ecfrasi che fu, accompagna il turbinio di approssimazioni verbali del racconto con le autentiche copertine di Urania allora citate e assemblate. Con l’effetto di ri-produrre il percorso di Bildung del piccolo Michele (e giustificare, in prospettiva, con il senno di poi, la propria identità e vocazione di scrittore) dentro un molteplice tunnel popolato di orrori, infezioni, mutazioni, dannazioni, fino all’approdo più inafferrabile, e perciò più inquietante e desiderabile, del puro ineffabile. A far questo non serve null’altro – interessante chiosa, per un lettore e letterato così amante dei racconti come Mari – che il vizioso e virtuoso coniugio tra un’illustrazione, un nome autoriale e un titolo, cioè tra un disegno e un pugno di parole.
Peraltro la notoria disinvoltura con cui Urania maneggiava testi e titoli degli originali, tagliandoli, adattandoli, traducendoli in modo si dice non troppo rigoroso, trova nella vicenda qui narrata una brillante compensazione:

[…] la copertina più guardata di tutte era quella del n. 265, R. Silverberg, Il sogno del Tecnarca. A parte la meraviglia di questa parola arcana, «Tecnarca», che mi affascinava per il suo sentore arcaico e insieme tecnologico (dunque parola pregna di un’interna e tesa lontananza tra il passato e il futuro) c’era in quella copertina l’immagine stessa del mio contemplare […] (Michele Mari, Le copertine di Urania, Humboldt Books, 2023, p. 11)

Sì perché Il sogno del Tecnarca è farina del sacco dei traduttori italiani: il romanzo di Silverberg si intitolava più semplicemente Collision course. E lo stesso vale per quasi tutti quelli che più colpirono il bambino ipersensibile ai suoni e alle parole: Strisciava sulla sabbia di Hal Clement (in origine Needle), Gli uomini nei muri di William Tenn (Of men and monsters), o il memorabile Essi ci guardano dalle torri di J.G. Ballard (Passport to Eternity). Vengono in mente due racconti archetipici della formazione di illustri scrittori novecenteschi, Le parole di Sartre e Biffures di Michel Leiris; in entrambi la scoperta della propria vocazione per la letteratura avviene in corrispondenza con la percezione, aurorale, infantile, di un’inconciliabilità, quasi una faglia originaria, tra significanti e significati, e di una oscura predilezione per i primi. Lo stesso accade con il nostro Landolfi. Mentore di siffatta scoperta, pare, per Michelino fu l’insieme dei titoli e delle copertine di Urania, dove evidentemente si trattava con poco riguardo l’insieme del corpus fantascientifico tradotto, ma non si disdegnava di attingere a registri immaginosi e spesso ricercati almeno in sede di titolazione.

I libri sottostanti, quasi come quel Nuovo commento che Manganelli dichiarava necessario solo come piedestallo e sostegno alla copertina, non necessitano più, nemmeno occorrerebbe sfogliarli (e peraltro lo stesso fece Karel Thole, che di Urania ne illustrò oltre mille numeri senza, si dice, aprirne neanche uno; Mari li lesse, invece, senza dubbio, ma la fecondazione dell’immaginario avvenne già a libro chiuso, o almeno così il racconto narra). La pubblicazione offertaci da Humboldt Books, dunque, diventa uno strumento critico: permette di rileggere questa deliziosa short story, autentico logos di fondazione, mettendolo alla prova – se per caso non lo avesse già fatto qualcuno, agevolato dalla condizione di collezionista di Urania come Mari, dunque son semblable, son frère; ma sarebbe un caso eccezionale, una forma di affinità elettiva, diciamo – dei suoi materiali da costruzione, dei suoi molteplici architesti e palinsesti, delle sue fonti d’ispirazione, a un tempo dichiarate e taciute, sepolte dalla lupara bianca autoriale nel cemento in bianco e nero della pagina, e invece improvvisamente riemerse, ritrovate intatte, persino a colori. Scopriamo così che l’ecfrasi è sempre precisa e puntigliosa, e che non v’è spazio per l’improvvisazione o l’abborracciatura: ogni dato, linguistico o luministico o d’impaginazione che sia, è fedele all’originale. Un esempio per tutti può essere la descrizione della cover di Dimensioni vietate (L. Sprague De Camp e C. M. Kornbluth, Urania n. 334, 17 maggio del 1964, fig. 2):

[…] interno di una costruzione in legno (stalla? fienile?) prospettato dall’alto: da un uscio un uomo che osserva nascosto ciò che sta avvenendo: un pentacolo magico verniciato per terra: una vecchia che sollevandovi sopra il cadavere di una gallina nera ne fa gocciolare il sangue: un essere biancastro gommoso fumoso grinzoso che si materializza. Due i motivi di fascinazione: certe grinze dell’evocato, che non lasciavano capire se avesse una faccia, e l’espressione della vecchia, comprensiva e di stolidità e di un’agghiacciante fiducia. C’erano poi quei due fonosimboli, Sprague de Camp e Kornbluth, che suonavano a presagio di strage… (Michele Mari, Le copertine di Urania, Humboldt Books, 2023, p. 11)

Si saggia quanto persino una materia evanescente e fuggevole, contesta per la gran parte di suggestioni, emozioni, paure, ricordi in qualche modo scioccanti, si poggi, nella costruzione della mitobiografia di Mari, su un assoluto rispetto, filologico diremmo, della fonte (nonché del trauma o del piacere). I più ci sono arrivati grazie a Leggenda privata; qualcuno per i necessari passaggi preparatori di Verderame e dell’intro di Roderick Duddle; ma era già tutto bene in vista qui, in Tu, sanguinosa infanzia, senza travestimento – il travestimento, per intenderci, che era ancora necessario approntare all’altezza di Di bestia in bestia e di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti – il dialogo autobiografico del piccolo Michele con mostri e terrori.

Intitolando questo pezzo Storia di una copertina avevo in mente il saggio-racconto omonimo che Mario Soldati scrisse nel 1976, rammemorando la genesi della princeps di America, primo amore (Bemporad, 1935), e in particolare il dipinto – la memorabile donna-demonio tentatrice dietro la quale si innalza lo skyline di New York e il profilo degli USA, in una sorta di nuvola violacea (fig. 3) – realizzato per lui da Carlo Levi, il quale poi nel 1954 aveva già dato la sua versione dei fatti, significativamente non identica a quella di Soldati, con un breve scritto: La copertina dell’America; ora tutto si legge nell’edizione Sellerio curata da Salvatore Silvano Nigro. Pubblicare con l’ebreo Bemporad, e con una copertina di Levi, nel 1935, per di più un libro sull’America, seppur resoconto di una delusione, significava una scelta di campo chiaramente antifascista. Non era solo una “bella” copertina, era una copertina coraggiosa. E, soprattutto, costituiva un elemento integrante dell’opera di Soldati, il quale, come è sempre bene ricordare, lasciò l’Italia nel 1929 anche e soprattutto in rotta con il regime.

Con il mio Navi nel deserto, uscito all’inizio di quest’anno per i tipi romani de Il ramo e la foglia, ho avuto una fortuna simile a quella di Soldati, cioè potermi avvalere dello sguardo e del talento di un amico artista, riminese come me. Il paragone non vuol essere immodesto, così come quello con Mari, ma soltanto finalizzato a un ragionamento su quale sia, o possa essere effettivamente, il punto ultimo di elaborazione di un libro, quando anche la sua copertina diventa parte integrante dell’operazione creativa, anzi la corona. Samuele Grassi ha creato una porta d’ingresso (e una mappa, come nei classici fantasy) per la vicenda che avevo scritto carsicamente nel corso di trenta lunghi anni. E questa immagine – del tutto coerente con la poetica di Grassi, che come il sottoscritto è stato un amante di fumetto e cinema fantastico e fantascientifico, di «Metal Hurlant» e di anime, del Conan di Miyazaki e di Arzach – vive in una dimensione di esplicita parentela con le copertine di Urania, almeno con quelle della stagione del cerchio, dominate dal segno pittorico di Thole e dalle soluzioni compositive ideate da Anita Klinz, art director della Mondadori, che si affermano a partire dalla metà degli anni Sessanta (estate del ’64, per la precisione).
Ma l’immagine in questione – un oblò, inconfondibile, dal quale però l’occhio si affaccia non su una distesa marina bensì su un paesaggio sabbioso, forse alieno, con al centro una città fortificata eretta su alcune vertiginose rupi (fig. 4) – è stata solo il punto di arrivo di una ricerca nella quale anche le tappe intermedie, le ipotesi scartate, presentano interesse e significato.

Una ricerca iniziata a partire da un’ipotesi di lavoro ai miei occhi adeguata e che invece mia moglie Claudia mi aiutò a comprendere quanto fosse fallimentare; e lo specifico perché ogni creazione cresce in primo luogo, lo si ammetta o no, nel confronto con chi ci è compagno di vita e con gli amici di cui si ha stima e fiducia. Avevo inizialmente pensato, infatti, alle immagini fotografiche di un disastro ambientale che ha colpito, nella seconda metà del Novecento, una vasta regione dell’allora URSS: il progressivo svanire del Lago Aral, oramai mutatosi in una desolata landa infestata spettralmente da centinaia di carcasse di navi in secca. Non era ancora uscito Absolutely nothing di Giorgio Vasta, ma la seduzione era la medesima, per intenderci. Non il vero vuoto, il terreno lunare, il mai toccato da mani umane (è il titolo di un altro membro della grande famiglia: Robert Sheckley, Urania 285, luglio 1962), bensì l’abbandonato, il residuale, ciò che fu affollato e vitale ed ora è silenzioso e sgombro.

Peraltro, quelli del morto bacino tra Uzbekistan e Kazakistan erano scatti facili da reperire sui motori di ricerca del web; avevano un forte impatto emotivo, come ogni relitto, specie navale; erano del tutto coerenti con l’ambientazione del mio romanzo (un esempio eloquente: fig. 5), che si svolge in un continente spopolato e desertificato. Nondimeno, l’effetto comunicativo di una copertina che inalberasse uno di questi scafi arrugginiti e insabbiati, più che evocare un ormai abusato immaginario alla Mad Max, avrebbe piuttosto suggerito un libro-reportage, un racconto di viaggio nelle vastità postsovietiche. Ma il mio romanzo non lo era, né aveva, almeno in origine, la denuncia dell’imminente disastro ambientale tra i suoi obiettivi. Guardandosi intorno, ci si rendeva conto che la strategia era sbagliata. L’editore trentino Keller, per esempio, che da alcuni anni sta pubblicando un catalogo molto orientato verso la narrativa di viaggio, e l’esplorazione di quella peculiare plaga neoweird da realismo magico postsovietico che è il grande mondo all’Est orfano del comunismo e dell’ex Unione Sovietica, stampa titoli magnifici con cover assai creative, e si guarda bene dal ricorrere a soluzioni simili. Perfino le opere postesotiche di Antoine Volodine non hanno mai avuto, nelle traduzioni italiane, prima per Clichy, poi per L’orma, fino a 66thand2nd, una veste tanto banale.

Nei primi anni Novanta il giovane me, lettore avido di Urania, aveva conservato nel proprio inconscio visivo-visionario soprattutto tre suggestioni potenti. La prima era la cosiddetta “tetralogia degli elementi” di James Graham Ballard (Vento dal nulla, Deserto d’acqua, Terra bruciata, Foresta di cristallo, fig. 6), dove meno contavano le motivazioni e persino le forme della catastrofe ambientale, e ben di più la reazione sgomenta, straniata, attonita, dei pochi sopravvissuti; era la nascita di una fantascienza psicologica, dove le esplorazioni degli spazi siderali lasciavano il posto agli abissi della psiche, e naturalmente lì si davano la mano Ballard con il Dick dei romanzi marziani. La scelta del mar d’Aral sarebbe stata estetizzante: Ballard e Dick mi avevano insegnato che la vera catastrofe era sempre interiore.

La seconda fonte, sempre di provenienza ballardiana, era il meno famoso ma per me assai impressionante – proprio nel senso dell’impressione fotografica – Ultime notizie dall’America (Urania 908, gennaio 1981; in originale Hello America, di cui esistono due edizioni in lingua originale con delle copertine perfette anche per Navi nel deserto, figg. 7-8), probabilmente il suo ultimo lavoro di SF pura, con una spedizione archeologica che si muove per un Nordamerica inaridito e derelitto da moltissimo tempo. Navi nel deserto inizia in un luogo a modo suo iconico, ossia un deposito di rottami, e per la precisione di auto abbandonate, i cumuli delle quali emergono appena dalla superficie di sabbia. Discariche più desertificazione erano già un topos, specie nel cinema americano, e tuttavia il tempo a venire si sarebbe incaricato di renderlo sempre meno figurale e sempre più concreto. Non potevo certo supporlo, nel ’92, quando iniziai Navi, ma pochi anni dopo Don DeLillo avrebbe dedicato uno dei suoi capolavori al paesaggio più drammaticamente attuale dell’Antropocene, il mondo in continua crescita dei rifiuti (parlo di Underworld, ovviamente).

Ha scritto di recente Matteo Meschiari, nel suo Neogeografia (Milieu, 2019): «I segnali della fine sono leggibili in tutte le coste che vengono sommerse, nell’acqua marina che s’infiltra nei campi coltivati, nel permafrost che si scioglie e gonfia di metano l’Artico e l’atmosfera, e nella gente, che migra dalle guerre della fame e della siccità. Segnali solo per gli altri: “per ora non tocca a me”. Invece Amitav Ghosh si chiede come sia possibile che il mondo in dissoluzione e il collasso imminente restino fuori anche da un’altra società, così incapace di pensarli, quella degli scrittori. Romanzi di città, di famiglie, di malattie, di idee morali, di borghesie tacitate e refrattarie… ma quanti di questi romanzi includono in sé il collasso, l’apocalisse in atto, la sete che verrà, i deserti che ci attendono?»
C’era infine, terzo ingrediente, l’opera di uno scrittore francese estremamente dotato, Serge Brussolo, di cui la collana mondadoriana pubblicò sei titoli, tutti notevolissimi, tra il 1987 e il 1990; era Sonno di sangue (Sommeil de sang, 1982, Urania n. 1104, fig. 9; qui, si noti, Thole è stato già sostituito da Vicente Segrelles, il creatore del Mercenario, un fumetto che segnò la nascita e l’estetica, in Italia, de «L’Eternauta») e mi regalò l’ambientazione, vagamente esotica e arabeggiante, di città fortificate costruite su rupi in mezzo al deserto, che si adagiava elegante sulla mia lettura delle novelle persiane.

Una fotografia, dunque, per quanto potente, non era la soluzione. Si poneva un problema serio di atmosfera. Claudia, di nuovo, mi suggerì la direzione giusta. Ci voleva un pittore, e uno in particolare si offriva egregiamente alla bisogna: il pittore forse più implicato nella prosa del Novecento italiano, protagonista e coautore di almeno tre capolavori come Ascolto il tuo cuore, città di Alberto Savinio, Retablo di Vincenzo Consolo e Le pietre volanti di Luigi Malerba: Fabrizio Clerici.

Ci venne subito in mente un dipinto in particolare di Clerici, Venezia senz’acqua (1955, fig. 10) che in qualche modo parlava la lingua della mia visione. E tuttavia Clerici, che nessuno mi toglie dalla mente abbia ispirato la serie delle vedute metafisiche di Moebius con Venezia senz’acqua, mancava, proprio rispetto a Moebius, di un ingrediente ancora essenziale. La neometafisica luttuosa e degradata di Clerici incontrava un aspetto tonale del romanzo, ossia la sua volontà stilistica di suonare inattuale, di parlare una lingua chiaramente non orale e non immediatamente comunicativa, di evocare un metodo mitico nella formazione delle immagini e delle scene, tuttavia avvertivo oscuramente che non verso le sale di un museo – il luogo in cui Clerici non ha mai smesso di abitare – bensì verso un cinema mentale, naturale, come l’avrebbe definito Celati, avevo inteso muovermi. E il mio cinema mentale, naturale – così come quello, azzardo, di una intera generazione nata all’inizio dei Settanta – aveva la sua sala originaria, archetipica, in una sede ancora cartacea, ossia tra gli Urania e le riviste di fumetti, con in più la televisione che ospitava i primi anime nipponici, e il paesaggio, imprescindibile per noi allora, e saccheggiato senza pietà decenni dopo dalla Disney, del primo Star Wars (non a caso, ancora un mondo di sabbie e rottami).

Insomma, occorreva sì un artista, un grafico, ma qualcuno dotato di un segno più prossimo a quello del fumetto che all’accademismo solenne di un Clerici, e semmai capace di parlare la lingua degli Umanoidi Associati, i quali fin dagli anni Settanta introdussero il repertorio onirico delle avanguardie, in particolare del Surrealismo, sulle riviste “per ragazzi”, e probabilmente influenzarono in qualche misura anche la stessa concezione di Lucas.
Samuele Grassi, mio vecchio amico e sodale di avventure artistiche, aveva precisamente quella cifra, e da qualche anno la stava esplorando con una serie di tavole (si veda il suo sito, www.samuelegrassi.it) dedicate alla nostra Rimini, a una Rimini sommersa, come tristemente sta già avvenendo in forma di prove generali, in più popolata di mostri alieni o preistorici (fig. 11). La prima illustrazione realizzata per me da Samuele citava molto esplicitamente Arzach, ma ancora non avevamo trovato la quadratura del cerchio, come si suol dire, e qui più che mai a proposito. Bontà loro, Roberto Maggiani e Giuliano Brenna, ossia Il ramo e la foglia, suggerirono di riequilibrare l’ironia di quell’immagine demo, e la sua apertura a larghissimo campo (fig.12), con un elemento forte: l’oblò, appunto, che significa mare, scafi, e si lega all’altro elemento essenziale del mio romanzo, cioè la diretta dipendenza dal magnum opus conradiano, trapiantato in un contesto futuribile. L’oblò fece riemergere immediatamente la memoria di Urania. Eccola, la quadratura del cerchio.

Non erano più gli Urania con i «rombi», dettaglio grafico su cui si conclude il racconto di Mari – che però è un classe 1955, e non poteva non rimanere prigioniero, lui che della sua infanzia non si è mai liberato, di una veste cessata quando Michelino aveva grossomodo nove anni – ma senza dubbio il convergere su quella collana contiene un segno dei tempi valido anche per noi venuti più tardi, e forse per ultimi, giacché proprio il successo mondiale di Star Wars affossò la SF come genere da leggere, e la spostò definitivamente nel business dei blockbuster e degli effetti speciali della Industrial Light & Magic.

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Le “Illusioni perdute” nella ‘società dello spettacolo’ https://www.carmillaonline.com/2022/01/09/le-illusioni-perdute-nella-societa-dello-spettacolo/ Sun, 09 Jan 2022 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69958 di Paolo Lago

Come scrive Gianni Celati in Finzioni occidentali, «il romanzesco definisce uno stato d’incoscienza, l’essere fuori di sé come condizione di chi è fuori della famiglia»1. Come esempio, lo studioso riporta il caso di Robinson Crusoe che, nel romanzo di Defoe, per intraprendere la via dell’avventura, ha dovuto opporsi alla volontà del padre e della famiglia, è dovuto andare al di fuori e al di là di essa. D’altronde, già Lukács aveva osservato che il romanzo [...]]]> di Paolo Lago

Come scrive Gianni Celati in Finzioni occidentali, «il romanzesco definisce uno stato d’incoscienza, l’essere fuori di sé come condizione di chi è fuori della famiglia»1. Come esempio, lo studioso riporta il caso di Robinson Crusoe che, nel romanzo di Defoe, per intraprendere la via dell’avventura, ha dovuto opporsi alla volontà del padre e della famiglia, è dovuto andare al di fuori e al di là di essa. D’altronde, già Lukács aveva osservato che il romanzo è la forma dell’avventura, dell’insicurezza di fronte all’ignoto in un mondo dominato dall’assenza di un dio ma pieno, invece, della presenza di demoni, perché «la psicologia dell’eroe da romanzo è il campo d’azione del demonico»2.

Anche Lucien de Rubempré, in Illusioni perdute (Illusions perdues, 1837-1843) di Honoré de Balzac, si reca al di fuori del suo mondo di provincia per immergersi in un’avventura ignota, al di là del proprio orizzonte, nella fagocitante Parigi della Restaurazione, rappresentata realisticamente dallo scrittore come un macrocosmo in continua evoluzione, in perenne movimento, dominato da dinamiche spettacolari. Nel romanzo vi è un’opposizione fondamentale fra l’universo della provincia – Angoulême, in cui il giovane aspirante scrittore può ancora illudersi di essere qualcuno, di poter entrare nelle grazie della nobiltà e nei favori di madame de Bargeton – e Parigi, città tentacolare, imprevedibile, dai mille demonici volti. Questa opposizione che marca nel profondo la struttura del libro di Balzac viene riproposta efficacemente dalla recente trasposizione cinematografica realizzata da Xavier Giannoli, che si concentra esclusivamente sulla parte iniziale e centrale del romanzo. Alle due ambientazioni, rispettivamente, della provincia e della città, sono associati due universi culturali che entrano anch’essi in opposizione: da una parte, l’aspirazione alla poesia, alla scrittura, un apprendistato lungo e segnato da sacrifici; dall’altra, invece, la rapida carriera nel giornalismo, caratterizzato da una scrittura veloce, confezionata su misura per il poliedrico tempo presente. Illusioni perdute di Giannoli rende in modo efficace anche l’opposizione fra questi due mondi.

Il film sembra insistere in modo particolare sull’oggetto libro o, comunque, sull’oggetto cartaceo, fatto per essere letto e sfogliato. Le prime inquadrature mostrano le pagine del libriccino di poesie di Lucien incorniciato dall’ambientazione agreste ed elegiaca della provincia: un fiume e degli alberi in aperta campagna. Lo stesso libriccino tornerà poi in un contesto estremamente diverso, quello parigino, dove il protagonista cercherà di farlo pubblicare da uno dei più famosi editori cittadini, Dauriat. Ma l’oggetto libro appare anche sotto la forma dei volumi che Lucien tiene con sé nella sua stanza: nel buio, è lo stesso personaggio ad avvicinare la candela ai libri e ad illuminarli. Essi rappresentano tutti i suoi ideali, le sue aspirazioni, il motivo per cui si è recato nella grande, fagocitante città: divenire poeta e scrittore. Quei libri che Lucien illumina e che la macchina da presa inquadra in primo piano sono dei romanzi: delle opere, perciò, come abbiamo visto, che rappresentano una fuga verso il ‘fuori’, un’avventura ignota dominata da forze ‘demoniche’ e probabilmente ostili. Essere scrittore di quelle storie avventurose, di quelle composizioni perfette, oltre che poeta dalle tonalità raffinate ed elegiache: è questa l’aspirazione di Lucien.

Il film tralascia un episodio del romanzo di Balzac (ma, come si sa, la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria esige spesso dei tagli) che rappresenta il primo ambiente parigino frequentato da Lucien. È il cenacolo dei giovani e spiantati scrittori e intellettuali nel quale viene introdotto da Daniel d’Arthez, il suo primo vero amico. Un gruppo di idealisti che affrontano la miseria e le difficoltà della vita con coraggio e determinazione: «La loro fronte spiccava per ampiezza poetica. Gli occhi, vivi e brillanti, erano indice di una vita lontana dal fango. Le sofferenze della miseria, quando si facevano sentire, erano sopportate con tanta gaiezza, accettate da tutti con tale entusiasmo che non alteravano la serenità di quei volti di giovani ancora esenti da gravi difetti, che non si sono compromessi in nessuno dei vili accomodamenti cui spingono la miseria mal sopportata, la brama di riuscire quando ne mancano i mezzi, la facile bontà con la quale la gente di lettere accetta o perdona i tradimenti»3. Se la «gente di lettere», pronta ad affrontare con determinazione qualsiasi difficoltà pur di raggiungere il suo obiettivo di essere poeta, scrittore o filosofo, è il modello ideale cui aspira anche Lucien, quello dei giornalisti, invece, viene presentato come un mondo cinico e meschino.

È Étienne Lousteau a rappresentare un vero e proprio alfiere di questo mondo, colui che vi introdurrà un angelico e indifeso Lucien. Nel film, infatti, la prima conoscenza parigina del protagonista è proprio Lousteau, dal quale un disincantato Lucien imparerà un altro modo di usare la penna. Non più per scrivere poesie o romanzi ma per scrivere articoli di giornale, soprattutto recensioni di spettacoli teatrali. Il film ci presenta allora l’ingresso del protagonista in una vera e propria – se così si può dire, utilizzando anacronisticamente il titolo del saggio di Guy Debord – ‘società dello spettacolo’. Si tratta infatti di una società in cui la stessa realtà spettacolarizzata viene percepita in forma indiretta e mediata. Le rappresentazioni teatrali che costellano ogni angolo della capitale francese vengono esteticamente filtrate dall’informazione giornalistica: basta una recensione buona per portarle alle stelle, una cattiva per affossarle definitivamente. A dominare questo tipo di società spettacolare è il denaro: gli impresari e le compagnie teatrali fanno a gara a pagare a peso d’oro i giornalisti per avere le recensioni più belle. Poco importa, allora, che nei palchi più alti di quei teatri della Parigi della Restaurazione ci siano conti, baroni e marchesi, i reggitori delle trame politiche, quegli stessi che avevano allontanato il popolano Lucien; quella che conta è la platea, dove si trova la borghesia, dove si trovano i giornalisti e le claque prezzolate. Lucien, rinnegando tutti i suoi ideali precedenti, diverrà una delle penne più temute del mondo del giornalismo, un mondo che, però, saprà tendergli la trappola al momento opportuno. Perché la società dello spettacolo, pure se ante litteram, non ha nessuna pietà per nessuno, nessun ideale da portare avanti, nessun rispetto o considerazione: in essa c’è già, in nuce, la dinamica capitalistica del profitto spietato.

All’oggetto libro, allora, il film contrappone un altro oggetto cartaceo, il giornale, il quale, grazie all’invenzione delle rotative di stampa, può avere una diffusione ampia e rapidissima. La macchina da presa indugia sulle rotative che producono Le Corsaire Satan, il giornale liberale presso il quale verrà introdotto Lucien, mostrandole in continuo movimento, in evidente contrapposizione con le pose statiche nelle quali venivano inquadrati i libri, siano essi i volumi nella stanza del protagonista, sia il suo libretto di poesie. I giornali – caratterizzati, nelle inquadrature del film, da velocità, rapidità, movimento – fanno parte di quel mondo spettacolare ibrido e fluido, probabile antenato della contemporanea società digitalizzata, emblema di un’informazione prezzolata e pronta a distorcere la realtà. L’unico libro inquadrato all’interno del circuito spettacolare dell’informazione corrotta sarà quello di Raoul Nathan, l’autore rivale da stroncare. L’oggetto libro, allora, è nelle mani del recensore, pronto ad essere stritolato dalla macina di una società in cui domina lo spettacolo fine a se stesso.

Di questa ‘società dello spettacolo’ parigina, però, il film ci mostra soltanto gli aspetti più edulcorati dal punto di vista estetico: i teatri, i salotti, le redazioni dei giornali. Il mondo affrescato da Balzac, invece, è a doppia faccia: quella Parigi degli anni Venti dell’Ottocento, fagocitata dal marchingegno spettacolare, viene rappresentata dallo scrittore anche nei suoi aspetti più sordidi, più bui, più sinistri. Ad esempio, le «Galeries de Bois» vengono rappresentate dal film come una specie di mondo incantato, caratterizzato da eleganti giardini dove, accanto alle botteghe dei librai e degli editori (fra i quali vi è anche quella del famoso Dauriat, editore tanto importante quanto corrotto, interpretato da Gérard Depardieu), si trovano ammiccanti prostitute. Le «Galeries de Bois» affrescate nel romanzo possiedono anche un’altra faccia, quella più sordida e truce, che nel film si perde:

Quel sinistro ammasso di fanghiglia, di vetri lordati dalla pioggia e dalla polvere, quei capannoni piatti e coperti all’esterno di cenci, la sporcizia dei muri, quell’insieme di cose che sembrava un accampamento di zingari, un insieme di baracconi da fiera, le costruzioni provvisorie con le quali, a Parigi, si circondano i monumenti che non vengono mai costruiti, quell’agghiacciante fisionomia si adattava mirabilmente ai diversi commerci che brulicavano sotto quella tettoia impudica, sfrontata, piena di voci e di folle gaiezza, nella quale, dalla rivoluzione del 1789 fino alla rivoluzione del 1830, si sono fatti enormi affari4.

L’altra faccia della dimensione spettacolare di un’epoca, dominata dal denaro e da un roboante Ancien Régime, nevrotico e malato, è soltanto un’«agghiacciante fisionomia», uno spettro che passa nelle mani di diversi poteri. In questa dimensione, in questo universo cinicamente funambolico Lucien perde le sue illusioni, schiacciato e accerchiato da una società più forte di lui. Come nota Georges Poulet, in Balzac, di solito compare la dinamica sociale dell’accerchiamento, che prevede che una coalizione sia più potente di un individuo isolato. Ma a volte, però – osserva lo studioso – la società non prevale tanto facilmente sull’individuo: il romanziere può conferire ad esso le giuste potenzialità per passare al contrattacco5. E Lucien, anche se riuscirà a difendersi in qualche modo dai suoi nemici, non riuscirà mai a liberarsi da questo universo contemporaneamente sordido e spettacolare, e dovrà abbandonare le sue illusioni, ormai perdute, impantanate nel fango di un vicolo. Il mondo che di lì a poco emergerà, quello del profitto e del capitale, lascia davvero poco spazio a qualsiasi illusione.


  1. G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi, Torino, 1986, p. 31. 

  2. G. Lukács, Teoria del romanzo, trad. it. Garzanti, Milano, 1974, p. 131. 

  3. H. de Balzac, Illusioni perdute, trad. it. Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 194. 

  4. Ivi, p. 232. 

  5. Cfr. G. Poulet, Le metamorfosi del cerchio, trad. it. Rizzoli, Milano, 1971, pp. 214-215. 

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Sport e dintorni – Calcio e letteratura in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/sport-e-dintorni-calcio-e-letteratura-in-italia/ Thu, 13 Dec 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48612 di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, [...]]]> di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, romanzi, racconti e poesie, biografie e autobiografie, saggi di varia natura dedicati al calcio.
Grazie ad una minuziosa e rigorosa ricerca – a partire dalla raccolta di una vastissima gamma di documenti, padroneggiati con notevole competenza – Giuntini riesce pienamente nell’intento di fornire una mappatura ragionata delle relazioni tra dimensione letteraria e fenomeno calcistico che si inserisce nella storia socio-culturale del calcio italiano ovvero della disciplina sportiva che più di ogni altra cattura quotidianamente l’attenzione di milioni di persone.
Oltre a fornire molteplici spunti interpretativi, il saggio si segnala per la qualità della scrittura e per il solido impianto storico di un percorso che si snoda da fine Ottocento ai giorni nostri.

Il volume si apre con un capitolo sui primi manuali e regolamenti, mutuati principalmente dall’Inghilterra, che contribuiscono ad uniformare una pratica calcistica ancora disomogenea e con regole confuse. Nel contempo il football debutta sulle pagine della pubblicistica sportiva nella quale si distinguono testate come “La Gazzetta dello Sport” e il “Guerin Sportivo”. Inizialmente marginale rispetto ad altre discipline, il calcio conquista progressivamente uno spazio nei periodici, mentre nascono le prime riviste specializzate e fogli espressione di alcuni club calcistici.
Il panorama giornalistico si arricchisce anche grazie a due voci critiche: il “Corriere dello Sport Libero” – organo della Unione Libera Italiana del Calcio, sorta nel 1917 in alternativa alla FIGC con l’intento di diffondere il calcio tra le classi popolari – e “Sport e proletariato”, settimanale legato all’area socialista massimalista uscito nel 1923 e subito soppresso dal fascismo.
Giuntini segnala inoltre un episodio poco noto accaduto nel clima del “biennio rosso”. Nell’ottobre del 1920 le maestranze del “Guerin sportivo” occupano per alcuni giorni la sede torinese della rivista e danno alle stampe un’edizione autogestita nella quale denunciano l’autoritarismo del direttore e si propongono di dare al periodico un orientamento di classe. L’evento – unico nella storia della stampa sportiva italiana – si inscrive nel superamento dell’originario “antisportismo” socialista, in un contesto che vede la nascita di un associazionismo sportivo di classe promosso a Milano dai “terzinternazionalisti” vicini a Giacinto Menotti Serrati e a Torino dal gruppo de “L’Ordine Nuovo”. In questo quadro Giuntini dedica alcune pagine alle riflessioni di Antonio Gramsci sullo sport, letto in modo originale attraverso le categorie del marxismo.

Una parte rilevante della ricerca riguarda il periodo fascista, sul versante giornalistico e letterario.
Giuntini si sofferma inizialmente sul ruolo di Lando Ferretti e Leandro Arpinati – due personalità di primo piano del fascismo nonché dirigenti dello sport nazionale – nel dare impulso alla carta stampata sportiva e inquadrarla secondo le direttive del regime per la costruzione dell’”uomo nuovo” fascista.
Durante il fascismo il giornalismo sportivo cresce dal punto di vista quantitativo con una moltiplicazione delle testate, sempre più “calcistizzate”, e la copertura degli eventi sportivi da parte dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio e cinema). Tra i giornalisti che contribuiscono alla trasformazione della scrittura sportiva Giuntini indica in particolare due direttori de “La Gazzetta dello Sport”: Emilio Colombo, a cui si deve la nascita dello “sport epico”, e Bruno Roghi che fa scuola con il suo stile retorico ed enfatico e con il ricorso a metafore di matrice bellica funzionali all’esaltazione dei successi agonistici della nazione “guerriera e sportiva”.

La ricostruzione di Giuntini spazia poi da Massimo Bontempelli, lo scrittore che esalta il «vitalismo tipicamente fascista insito nella modernità dello sport», alle prove di scrittura sportiva di Alessandro Pavolini, uno dei principali «gerarchi-letterati del “calcio e moschetto”», da La prima antologia degli scrittori sportivi (1934) che comprende tra l’altro le Cinque poesie sul gioco del calcio di Umberto Saba, alla narrativa sul calcio nella quale si distingue Novantesimo minuto (1932) di Francesco Ciampitti, «il primo autentico romanzo calcistico italiano», capace di uscire dai canoni dominanti del romanzo sportivo fascista. Nel corso del Ventennio questo genere conosce una notevole fortuna – esemplificata ad esempio da La squadra di stoppa (1941) di Emilio De Martino, un best-seller della letteratura italiana per l’infanzia – anche grazie alle vittorie internazionali conseguite dagli “azzurri” di Vittorio Pozzo e all’attenzione del fascismo per il calcio.

Negli anni della dittatura non mancano posizioni critiche nei confronti dello sport di regime. Antonino Pino Ballotta in Tifo sportivo e i suoi effetti sottolinea «l’esasperata sportivizzazione promossa dal fascismo»; Cesare Zavattini smitizza «la tronfia retorica staraciana dello sport in “camicia nera”» attraverso alcune pagine del suo I poveri sono matti; su “Giustizia e Libertà” Carlo Rosselli denuncia il fanatismo sportivo alimentato dalla dittatura e Carlo Levi interviene con una serie di articoli che rappresentano «un autentico J’accuse nei confronti della politica sportiva fascista».

Venendo al dopoguerra, il saggio analizza il ritrovato interesse per il calcio da parte di scrittori e poeti che se ne erano allontanati, disgustati dalla strumentalizzazione fascista dello sport.
Mentre Italo Calvino scrive di sport su “l’Unità” e Alfonso Gatto e Vasco Pratolini celebrano con i loro scritti «il rito domenicale della partita», «la unica vera “religione laica” degli italiani del secondo dopoguerra», negli anni Cinquanta Gianni Brera – il “Gadda spiegato al popolo” secondo Umberto Eco – si afferma come protagonista di una lunga stagione del giornalismo e della letteratura sportiva. Giuntini analizza puntualmente i passaggi che portano Brera verso la costruzione di un linguaggio straordinariamente originale. La sua scrittura «affabulatoria, gigionesca e straripante» è frutto di «un esercizio di inventività “parolibera” infinito, in un codice linguistico “onomaturgico” impregnato di metafore e neologismi entrati nel parlato comune»: da “centrocampista” a “goleador”, da “incornare” a “libero”, da “melina” a “palla-gol”, da “pretattica” a “rifinitura”, da “Bonimba” (Roberto Bonisegna) al “Barone” (Franco Causio).

In pieno “miracolo economico” esce un importante romanzo di Salvatore Bruno (L’allenatore, 1963), mentre lo juventino Mario Soldati e l’interista Vittorio Sereni fanno filtrare in alcune opere la loro passione per il calcio. Un amore che traspare anche nella narrativa di Luciano Bianciardi chiamato nei primi anni Settanta, alle soglie della morte, da Gianni Brera a collaborare al “Guerin Sportivo” e di Oreste Del Buono, incarnazione dello “scrittore-tifoso” che trova nel tifo una fonte di ispirazione per un capitolo del suo romanzo I peggiori anni della nostra vita (1971).
Tra i grandi intellettuali italiani è poi Pier Paolo Pasolini – tifoso del Bologna, appassionato praticante e attento osservatore del calcio – a scrivere pagine preziose sullo sport e in particolare sul pallone spingendosi fino a tentare una lettura semiologica del fenomeno calcistico con i suoi “elzeviristi”» (Gianni Rivera e Sandro Mazzola) e i suoi poeti e prosatori “realisti” (Giacomo Bulgarelli e Gigi Riva).

Di sport scrive anche Giovanni Arpino cimentandosi in un’attività giornalistica che lo porta tra l’altro a seguire per “La Stampa” diverse edizioni delle Olimpiadi e dei Mondiali di calcio. Sarà l’ingloriosa eliminazione della nazionale italiana ai Mondiali tedeschi del 1974 ad ispirare il suo Azzurro tenebra (1977) – secondo Giuntini «il più importante romanzo, tra il reportage e il pamphlet, di questo scorcio di anni» – nel quale si esprime «una forte requisitoria contro la decadenza materiale e umana del football italiano».
Una denuncia che è al centro di Calci e sputi e colpi di testa (1978) di Paolo Sollier, militante dell’organizzazione della sinistra extraparlamentare Avanguardia operaia, uno dei calciatori più “politicamente scorretti” nella ridotta schiera degli “irregolari” del calcio, tra i quali si possono annoverare il calciatore-poeta Enzo Vendrame e Carlo Petrini con i suoi libri, pubblicati vent’anni dopo, su un football sempre più ossessionato da una ricerca esasperata del risultato e condizionato dal doping, dalle scommesse clandestine e dalle partite truccate.

Tra gli anni Ottanta e Novanta un profluvio di titoli e un impoverimento linguistico segnano «la mediatizzazione selvaggia vissuta dal calcio sempre più malato di “biscardismo” e di quel gigantismo sfrenato inaugurato con gli sprechi di “Italia ‘90” e proseguito con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e l’invasione delle pay-tv di Rupert Murdoch». L’antidoto al “biscardismo” è affidato alla penna di autori che tentano l’impresa «quasi folle e utopica di frenarne, con una buona letteratura, la grave decadenza umana e morale».
Ecco allora Dov’è la vittoria? Cronaca e cronache dei Mondiali di Spagna (1982) del dantista Vittorio Sermonti che avverte precocemente gli effetti nefasti della deriva biscardiana e qualche anno dopo, ai tempi del mondiale italiano degli affari e delle speculazioni e della craxiana “Milano da bere”, Il calciatore di Marco Weiss, un romanzo di formazione a sfondo calcistico, e Finale di partita, raccolta di scritti alla quale partecipano autori del calibro di Dario Bellezza, Gianni Celati, Franco Fortini, Cesare Garboli, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Antonio Tabucchi e molti altri.

Tra i tanti autori e titoli citati e commentati da Giuntini nel capitolo sulla scrittura come risposta culturale al “biscardismo” e sulle tendenze più recenti della letteratura a tema calcistico, spiccano per valore letterario e impegno civile La solitudine dell’ala destra di Fernando Acitelli, una storia del calcio in versi; alcune poesie di Loi, Giudici, Sanguineti e Roversi; Manlio Cancogni sulle tracce dell’”eretico” Zeman con il suo Il Mister, che Giuntini valuta come uno dei tre romanzi da ricordare nella storia della letteratura italiana sul calcio insieme a Novantesimo Minuto di Ciampitti e Azzurro tenebra di Arpino; Il portiere e lo straniero di Daniele Santi, un’opera tra storia e romanzo intorno alla figura dell’intellettuale-portiere Albert Camus; La farfalla granata, il libro di Nando Dalla Chiesa su Gigi Meroni. E ancora Edmondo Berselli che in Il più mancino dei tiri propone attraverso il calcio una rivisitazione politica, sociale e di costume dell’Italia e delle sue contraddizioni irrisolte, i romanzi sul calcio e i sentimenti di Roberto Perrone, Rembò di Davide Enia, Addio al calcio di Magrelli, Il mio nome è Nedo Ludi di Pippo Russo, la produzione sportivo-letteraria di Darwin Pastorin e le esperienze di scrittura sul calcio al femminile.

Oltre ad offrire una panoramica sulla ripresa degli studi storici sul calcio e sulle opere sociologiche e letterarie dedicate al tifo ultrà, in chiusura del volume Giuntini dedica due capitoli ad una sintetica rassegna sul calcio nel cinema e nel teatro, suggerendo altri spunti di riflessione e indicazioni per ulteriori approfondimenti.
Utile è anche la bibliografia posta in appendice al volume, mentre è discutibile la scelta editoriale di non avvalersi di un apparato di note, uno strumento che sarebbe stato prezioso per i lettori interessati a risalire puntualmente dalle numerose citazioni alle loro fonti. Un limite che comunque non inficia il notevole valore di una ricerca che rappresenta uno dei più importanti contributi recenti agli studi storici sullo sport.

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Una storia di musicisti e suonatori dimenticati https://www.carmillaonline.com/2017/10/25/storia-musicisti-suonatori-dimenticati/ Wed, 25 Oct 2017 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41122 di Sandro Moiso

Franco Ghigini, QUANDO SUONAVANO STRADE E PIAZZE. Bande, orchestrine, e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento, Comunita Montana di Valle Trompia 2017, Collana “Gli uomini e le comunità”, pp. 402, € 15,00

Ecco un testo importante per la comprensione dello sviluppo della musica popolare in Italia e del suo collegamento con la “grande” Storia del XX secolo. Un testo, pubblicato nella (meritoria) collana editoriale della Comunità Montana di Valle Trompia, che difficilmente troverete sui banchi delle librerie, dove al contrario imperversano instant book dedicati alle stelle del business [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Ghigini, QUANDO SUONAVANO STRADE E PIAZZE. Bande, orchestrine, e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento, Comunita Montana di Valle Trompia 2017, Collana “Gli uomini e le comunità”, pp. 402, € 15,00

Ecco un testo importante per la comprensione dello sviluppo della musica popolare in Italia e del suo collegamento con la “grande” Storia del XX secolo.
Un testo, pubblicato nella (meritoria) collana editoriale della Comunità Montana di Valle Trompia, che difficilmente troverete sui banchi delle librerie, dove al contrario imperversano instant book dedicati alle stelle del business musicale e del mainstream pop giovanile. Che di popolare, specie qui in Italia, hanno poco e molto di più, invece, rivestono i caratteri della programmazione mediatica richiesta dall’industria musicale.

Un testo, quello di Franco Ghigini, che ha richiesto circa vent’anni di lavoro di indagini, interviste e consultazione di archivi, e che si propone come modello di ricerca sia per quanto riguarda la musica tradizionale vera e propria, sia per quanto riguarda la “popular music” nella sua più ampia accezione. In un contesto sociale e culturale, quello italiano, che se da un lato ha visto un grande sviluppo degli studi sulle musiche e le tradizioni popolari tra gli anni cinquanta e settanta, sulla base dei lavori di Ernesto De Martino, Gianni Bosio, Roberto Leydi (tutti variamente influenzati da Alan Lomax, forse il più importante etnomusicologo statunitense insieme al padre John, durante il periodo di assenza dello stesso dagli Stati Uniti a causa della caccia alle streghe del senatore McCarthy), vede oggi una minore attenzione della ricerca (e soprattutto del mercato culturale e librario) nei confronti di tale settore.

Eppure attraverso questo tipo di ricerche la grande Storia (le trasformazioni socio-economiche e culturali avvenute nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, il dramma della Prima Guerra Mondiale, l’avvento del fascismo, la Resistenza e la caduta del regime, i primi anni della Repubblica con tutte le loro contraddizioni politiche e sociali) incrocia realmente la storia individuale, delle piccole comunità e delle classi sociali meno ricordate dalla storiografia ufficiale. E tale incrocio di grande e di “piccolo”, anche se tale il secondo non è, restituisce al lettore non soltanto un curioso quadretto sociale ma, piuttosto, il quadro reale di come tali eventi sono stati assorbiti o rigettati, riletti e trasformati oppure passivamente accettati da una parte consistente della Nazione. Di solito quella inizialmente più rimossa dalle memorie storiche.

Perché un ricerca come quella di cui si parla non ridona solo la voce ai gruppi corali, famigliari e non, oppure musicali, ricordandocene i suoni, gli strumenti e i brani “più celebri” (almeno in loco).
Una ricerca del genere, anche soltanto per questo motivo indubbiamente degna di attenzione, ridona la voce a classi sociali e individui, marginali e non, che spesso soltanto attraverso la spontanea creazione musicale sono riusciti o tuttora ancora riescono a dare voce ai propri sentimenti e alle proprie opinioni.

Dalla fine dell’Ottocento, in sintonia col rinnovarsi d’istanze politiche e culturali, si moltiplicarono ovunque bande, fanfare, orchestre mandolinistiche e società filarmoniche. Esse promuovevano peculiari repertori e nuove consuetudini esecutive: un’espressività popolare “moderna”, diversa da quella propriamente etnica o tradizionale, che durante il Novecento sino al secondo dopoguerra evolverà assumendo susseguenti connotazioni stilistiche.

Nello specifico il volume, promosso dall’Associazione Valtrompiacuore ed edito dalla Comunità Montana di Valle Trompia, illustra le molteplici esperienze musicali di ambito popolare nella prima metà del Novecento a Gardone V.T. e in Valle Trompia, opportunamente contestualizzate a livello provinciale e nazionale.

L’opera, accompagnata da un ricchissimo apparato iconografico, ripercorrendo le tradizioni musicali della Val Trompia, dalla fine dell’Ottocento fino agli albori della musica giovanile o beat degli anni ’60, traccia quindi un quadro interessante, variegato e spesso per nulla scontato delle trasformazioni avvenute in un contesto in cui i grandi cambiamenti del ‘900 si sono sommati alla trasformazione di una comunità inizialmente agricolo-montanara, basata sostanzialmente su un’economia di sussistenza, in cui un precoce sviluppo dell’industria metallurgica e dell’economia monetaria aveva rapidamente portato ad una società in cui il lavoro industriale era diventato predominante. Si potrebbe dire dal coro famigliare alla banda e all’orchestrina, anche se ancora in anni recenti tutte e tre queste tradizionali aggregazioni musicali non erano ancora da considerarsi del tutto scomparse.

Data la particolarità dell’opera si ritenuto giusto dare voce all’autore della stessa, attraverso l’intervista che si propone qui di seguito. In calce alla stessa, e per i lettori interessati, seguono le modalità per poterne acquisire una o più copie.

1) Qual è il senso della ricerca etnomusicologica oggi?
Preferisco parlare di funzione piuttosto che di senso. Ritengo che oggi la funzione sia la medesima del passato, ovvero documentare – evidenziandone specificità e correlazioni – le manifestazioni musicali (i repertori, i contesti esecutivi, le modalità conservative ed evolutive, le valenze antropologiche) di un’area geografica, una comunità, un aggruppamento etnico o sociale. La nobile vocazione di generazioni di etnomusicologi – tuttora valida e meritoria – a valorizzare musiche di tradizione spesso marginalizzate, misconosciute e affatto diverse da quelle cosiddette “colte” e “di consumo”, s’offre oggi anche a una nuova declinazione. È quella della popular music, disciplina che mutatis mutandis s’applica con medesimi obiettivi alle innumerevoli forme della fruizione musicale contemporanea, laddove però viene a cadere la netta separazione fra musiche “di consumo” e “altre”. Risulta invece assai interessante studiare quanto e come la musica – non importa se nel villaggio globale o in un ristretto contesto locale – influenzi i comportamenti sociali e da essi sia informata, quali istanze trattenga e quali compiti assolva. Ritengo perciò che – oggi come ieri – l’etnomusicologia ed egualmente la popular music siano una preziosa opportunità conoscitiva per superare grossolane generalizzazioni e intendere l’espressività musicale, oltre che nelle peculiarità formali ed estetiche, come condizione variegata e mutevole che si relaziona fortemente a ragioni culturali e sociali.

2) Quanto tempo hai dedicato alla tua ricerca e quanto tempo hai impiegato per darle l’attuale veste definitiva?
La ricerca presentata nel volume – in precedenza e parallelamente ne ho condotte altre più mirate e assai meno impegnative – è iniziata nel 1995 e ha avuto nel 1996 un primo riscontro nella mia tesi di laurea in Etnomusicologia presso il D.A.M.S. di Bologna. Negli anni successivi ho proseguito, in modo discontinuo, la raccolta di documenti. Dal 2012 ho ripreso la ricerca con nuove interviste biografiche a testimoni, l’acquisizione di ulteriori fondi fotografici familiari e più approfondite indagini in emeroteca e archivi, concludendola durante i mesi di stesura del volume. Mi piace ricordare come non mi sia mai mancato in questi ultimi anni il sostegno filantropico dell’Associazione Valtrompiacuore, anche promotrice del volume. La ricerca e il volume “Quando suonavano strade e piazze” sono stati perciò il mio cimento e il mio rovello per oltre un ventennio: lunghi periodi a tempo pieno e altri in cui vi riservavo sere e fine settimana; in mezzo, alcune pause per svolgere altre ricerche. Segnalo che oggi l’intero repertorio documentario da me raccolto è consultabile presso l’archivio multimediale S.I.B.C.A. della Comunità Montana di Valle Trompia, editore del volume, e l’Archivio di Etnografia e Storia Sociale A.E.S.S. della Regione Lombardia, ente cofinanziatore il volume.

3) Quali sono le difficoltà maggiori che si incontrano nel realizzare una ricerca di questo genere?
Stiamo parlando di una materia specialistica, quindi non è facile far comprendere il valore e la professionalità del tuo impegno; il riconoscimento, in primis quello economico, è perciò da scordare. Vi sono poi le difficoltà – intendo i tempi e contrattempi – di un approccio inevitabilmente laborioso poiché applicato a differenti fonti documentarie: archivistica, bibliografica, materiale, storico-iconografica e, con ruolo tutt’altro che secondario, orale. Sono convinto che la ricerca etnografica debba configurarsi in servizio alla comunità e negli anni ho sperimentato una metodologia che chiamo partecipata. Essa si qualifica concretamente a più livelli: creazione di rapporti consapevoli coi testimoni titolari delle interviste biografiche, in corso d’opera coinvolti in una vera e propria équipe impegnata attivamente nella ricerca; illustrazione della ricerca in un report che, dettagliando nominativi, incontri e contenuti, sia documento dirimente a futura memoria; restituzione comunitaria che si formalizzi, oltre che in un volume, una mostra o un docufilm, in un archivio multimediale (videoregistrazioni di interviste, scansioni digitali di fotografie) ordinato, catalogato e pubblicamente consultabile. Ho perfezionato così una buona prassi che oggi condivido formando gruppi di storia locale: come si conduce un’intervista biografica, si ordinano e catalogano le fotografie storiche, si produce un archivio. Operare secondo questi criteri comporta sicuramente maggiore dedizione e tempi più lunghi.

4) Da cosa ha avuto origine la tua passione per la musica popolare?
Inizialmente – lo accenno nella prefazione – c’è stata una fascinazione quasi romantica: il guardare le montagne e la valle in cui vivo ed emozionarmi nell’immaginarne il passato, un mondo preindustriale animato da cantori e suonatori di musiche poi dimenticate. C’è stato pure – lo confesso – il piacere di vivere un’avventura quasi elettiva: il paradosso, infatti, è che la musica popolare o di tradizione, il cosiddetto folk, oggi risulta minoritaria e che il folk-revival, se escludiamo felici esperienze d’interazione virtuosa con permanenze propriamente tradizionali, è di fatto pratica di nicchia. Niente a che fare quindi, all’inizio della mia storia, con un’attitudine vorrei dire gramsciana. Un provvidenziale indirizzo è stata la ricerca promossa dalla Regione Lombardia nei primi anni Settanta – presentata nel volume “Brescia e il suo territorio” e in alcuni dischi Albatros – che ha documentato repertori tradizionali del Bresciano quali i canti e le musiche della Famiglia Bregoli di Pezzaze e il Carnevale di Bagolino. Dopo sono arrivati il rigore metodologico e le riflessioni sul ruolo del ricercatore.

5) Qual è stata la tua formazione e quale il percorso che ti ha condotto a diventare etnografo ed etnomusicologo? Quali sono i tuoi maestri ideali?
L’interesse per le musiche di tradizione, coltivato ascoltando dischi, leggendo libri e riviste nonché svolgendo le prime registrazioni sul campo, è cresciuto e ho sentito indispensabile darmi una più solida preparazione teorica. Allora, negli anni Ottanta e Novanta, il D.A.M.S. di Bologna era l’approdo più autorevole. Per me sono state quindi fondamentali le lezioni in università di Roberto Leydi che considero il mio maestro decisivo. Le ho seguite per tre anni: lavorando, scendevo a Bologna per gli esami e appositamente per le lezioni sue e di pochi altri. Ricordo con grande piacere anche quelle del filologo e medievalista Piero Camporesi, un intellettuale straordinario oggi considerato meno di quanto meriti, e quelle di Gianni Celati. Da Leydi ho appreso come l’attenzione metodologica non debba disgiungersi dallo stupore nella scoperta e dalla generosa apertura all’incontro umano. Non posso non citare pure i testi di Ernesto De Martino, illuminanti per comprendere quanta e quale forza interpretativa del mondo stia nei saperi popolari.

6) Tu hai “praticato” la musica popolare, sia come musicista che come organizzatore di eventi e festival. Vuoi parlare di questa tua esperienza?
Nel 1984 ho deciso che mi sarei dedicato alla musica studiandola e suonandola, organizzando concerti, scrivendo di essa. Ho così interrotto, poco prima della laurea, gli studi in medicina e mi sono buttato nello studio della fisarmonica diatonica. Dal 1990 sono stato per alcuni anni docente di questo strumento in Svizzera, presso la scuola di Musica Popolare ACP Valle Verzasca. Per tre anni ho pure partecipato con entusiasmo – suonando un po’ in tutta Europa – al gruppo Bandalpina, tuttora in attività. Negli anni Novanta ho scelto uno studio ritirato, applicandomi alla composizione; alcune mie musiche sono state utilizzate in film, documentari e produzioni teatrali. Nel 2001 ho smesso di suonare poiché non ne ero più motivato. Avevo già chiuso, nel 1997, anche con l’organizzare concerti. In proposito ricordo con soddisfazione il successo delle tre edizioni del festival “Suoni nella Valle”, fra le prime vetrine per l’allora nuova generazione del folk-revival italiano (La Ciapa Rusa, Cantovivo, Baraban, Calicanto, Re Niliu, Riccardo Tesi, ecc.), e delle dieci edizioni della rassegna internazionale “I legni, le pietre… i suoni”, in cui s’è sperimentato un suggestivo cortocircuito fra tradizione, proposte revivalistiche e nuove musiche. Un’intensa attività, quella dell’organizzare concerti, che ho svolto operando nella Cooperativa A.R.C.A. di Gardone V.T.

7) Hai anche sviluppato un grande amore per la musica folk anglosassone, al di qua e al di là dell’Oceano. C’è un collegamento tra i tuoi ascolti musicali e l’impegno propriamente etnomusicologico?
Continuo tuttora ad acquistare dischi e ascoltare molta e varia musica. Del resto mi sono formato come ascoltatore negli anni Settanta. Allora l’unica distinzione, per me e tanti coetanei, era fra musica “leggera” e musica “alternativa”. Nella nostra colonna sonora generazionale convivevano il british blues e il southern rock, la perfetta canzone beatlesiana e le dilatazioni lisergiche californiane, la “cassa in quattro” dell’hard rock e le poliritmie del progressive, i timbri acustici del folk e l’elettronica del kraut-rock tedesco, la canzone d’autore italiana e il jazz. Ho però riservato, ritengo per indole, l’ascolto più attento alle musiche acustiche e al folk-revival anglo-celtico e francese: anche da lì parte l’interesse per l’etnomusicologia.

8) Condividiamo una grande passione per la musica rock nelle sue infinite varianti, ma il tuo libro si ferma nel momento in cui anche nelle valli del Nord Italia iniziano a formarsi i primi gruppi beat. È un’altra storia oppure è la musica popolare che, soprattutto, negli anni Sessanta assume un’altra forma e dimensione?
Non dobbiamo dimenticare che le musiche di tradizione e, in modo più evidente, quelle più genericamente di diffusione popolare dicono di un’espressività che è insieme conservativa ed evolutiva. È tipica dell’elaborazione in ambito popolare una continua rielaborazione che sedimenta e si formalizza in stilemi e repertori, ma che sa accogliere nuove sollecitazioni e aprirsi addirittura a radicali cambiamenti. Sono state due le rivoluzioni musicali nel Novecento, in evidente concomitanza con importanti accelerazioni economiche e sociali. La prima, che analizzo nel volume, s’impone all’inizio del secolo e si rinnova per alcuni decenni in una sorta di onda lunga: è caratterizzata dalla diffusione di nuovi repertori sovralocali e nuove forme di apprendimento – alla trasmissione orale s’aggiunge o sostituisce la notazione musicale – attraverso bande, circoli mandolinistici, corali, accademie filarmoniche. Con questa musica “moderna” cosiddetta popolaresca – a spartito – il suonatore afferma una propria emancipazione culturale e sociale. La seconda rivoluzione, negli anni Sessanta, è quella del beat. Si tratta di una vera cesura: un nuovo linguaggio, nuovi strumenti, una lingua misteriosa – l’incomprensibile inglese cantato dai giovani per imitazione fonetica – e l’apprendimento a orecchio, da radio e dischi, nelle cantine. Anche in questa seconda rivoluzione la musica è perentoria dichiarazione identitaria e generazionale.

9) Ritieni che i dischi e, più in genere, la musica registrata industrialmente abbiano valore documentario anche per l’evoluzione della musica popolare oppure tendano piuttosto a castrare l’originaria creatività dal “basso” che questa esprimeva?
Trovo che la distinzione fra musica popolare e musica “di consumo” vada intesa in modo non riduttivo e dogmatico. Certo, la musica popolare ha usufruito – soprattutto in passato – di precipue modalità espressive, comunicative e conservative. Esiste e presumo sempre esisterà un fare musica che si sottrae alle leggi delle mercato o quanto meno mantiene una distanza critica. Penso peraltro che la separazione sia infine fittizia. Pur considerando l’innegabile impronta orientativa e coercitiva dell’industria musicale, ritengo che a dare forza a un’esperienza – disco o non disco – siano la consapevolezza degl’interpreti e una creatività che si traduca in percepibile e condivisibile visione del mondo.

10) Nel documentare il rapporto con la “grande” Storia, quella delle bande, dei circoli mandolinistici e delle orchestrine ha più significato se analizzata dal punto di vista delle storie personali, dei testi o della scelta degli stili e dei generi musicali seguiti?
Sono convinto – dico peraltro un’ovvietà – che la più provveduta e interessante indagine sulla “grande” Storia debba affidarsi alla dettagliata documentazione di come essa si sia estrinsecata a livello locale. Nelle innumerevoli connessioni comunitarie fra realtà istituzionali e composito ordito sociale, nelle vicende minime di gruppi e d’individui, proprio lì possiamo intendere pienamente le ragioni e le implicazioni di fenomeni sovralocali e nazionali. Nella modalità di diffusione capillare dei repertori, negl’incontri conviviali, nelle osterie e nei teatri di paese, proprio lì ci è dato comprendere il senso dei grandi cambiamenti musicali novecenteschi. Il volume ha una duplice valenza che spero venga considerata: di comunità, offrendo una lettura dell’evoluzione sociale e culturale precisamente gardonese e della Valle Trompia; più generale, poiché racconta di vicende ovunque simili. V’è inoltre la presunzione che questo volume possa offrirsi come plausibile paradigma di un’efficace divulgazione etnografica.

11) Ti occuperai ancora di ricerca sul campo sia in chiave etnomusicale che etnologica?
Con questo volume ho dato compimento a un percorso che ho voluto fosse esemplare di ciò che intendo per ricerca etnografica, nello specifico anche etnomusicologica. Ora sto terminando la curatela di un altro volume, poi penso mi fermerò qualche tempo per capire dove ancora andare. Saranno importanti i nuovi incontri che spero d’avere. Confesso che m’affascina l’idea di raccontare, usando le medesime chiavi d’accesso di “Quando suonavano strade e piazze”, ovvero la dettagliata documentazione locale congiunta all’ampia contestualizzazione sovralocale e nazionale, la rivoluzione giovanile del beat negli anni Sessanta. Ho già raccolto un po’ di documentazione e potrebbe essere un viaggio emozionante come quello di “Quando suonavano strade e piazze”.

Reperibilità del volume
Franco Ghigini
Quando suonavano strade e piazze. Bande, orchestrine e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento
Edizioni Comunità Montana di Valle Trompia, 2017
15,00 Euro

Il volume è reperibile presso i seguenti recapiti
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