Gianfranco Marrone – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La moda fra senso e cambiamento identitario https://www.carmillaonline.com/2021/01/28/la-moda-fra-senso-e-cambiamento-identitario/ Thu, 28 Jan 2021 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64682 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e con la scrittura di Charles Baudelaire, derivino premesse utili a comprendere le trasformazioni subite dalla moda nei tempi recenti. Come intuito dall’intellettuale tedesco, il termine moda manifesta una certa ambiguità denotando tanto una valenza negativa, per così dire “istituzionale”, riferita allo spettacolo consumistico, che una “meno convenzionale” che si manifesta attorno ai più recenti concetti di look, stili, e anti-mode. Muovendo dalla lettura politica operata da Hannah Arendt del rapporto tra gusto e senso comune in Kant e passando dal problema del contrasto tra il carattere di élite e quello di massa della moda posto da Jurij Michajlovič Lotman, Calefato ragiona su come la moda possa essere considerata un sistema capace di garantire una mediazione tra gusto, senso comune e comunità.

Tra i primi studiosi ad affrontare la moda attraverso un approccio semiotico, Algirdas Julien Greimas si interessa al vocabolario di questa per la sua peculiarità di prestarsi sia a una funzione tecnica di strumento di comunicazione interno a un gruppo specifico, che di risultare applicabile a tutti quei fenomeni sociali che hanno un carattere di attualità. Il “privilegio del verbale” di Greimas, sostiene Isabella Pezzini, non sembra discostarsi granché dalla convinzione di Lotman che vede nella lingua il “sistema modellizzante primario” di una cultura e che include la moda e l’abbigliamento nel suo progetto di semiotica della cultura.

A proposito dello studio della moda secondo una prospettiva semiologica, Pezzini si sofferma sul passaggio di testimone fra Algirdas Julien Greimas e Roland Barthes preoccupandosi di mettere in luce lo scarto che separa i lavori dei due. Mentre il primo sviluppa la sua analisi come studio storico-sociale del vocabolario francese orientato su uno strutturalismo storicista, il secondo esplora i parallelismi esistenti tra il linguaggio nel suo complesso e l’abbigliamento. La moda è vista dal francese come una lingua su cui mettere alla prova l’ipotesi saussuriana di una teoria generale dei segni contemplante al suo interno la linguistica. Se nello studiare il rapporto tra linguaggio e moda tanto Barthes che Greimas si concentrano soprattutto sul metalinguaggio dispensato dalle riviste, ora, suggerisce Terraciano nell’introduzione al volume, è piuttosto all’ambito dei social network che occorre far riferimento.

Per la formulazione di una teoria semiotica della moda, sostiene Ugo Volli nel suo intervento, è necessario partire da un’analisi della semiotica dell’abbigliamento in generale nella consapevolezza di come già quest’ultimo, oltre a una funzione pratica di protezione del corpo, sia organizzato in vista della produzione di senso. Nel ricavare un elenco di unità morfologiche di base della cultura vestimentaria occidentale moderna è possibile notare come, nonostante alcuni momenti di rottura, in genere il cambiamento proceda lentamente e senza grandi mutazioni. Tratteggiate le differenze principali che caratterizzano l’analisi degli indumenti in un approccio di tipo interpretativo e in uno di tipo generativo, si tratta, secondo Volli, di verificare se la semiotica, formatasi a partire dall’ipotesi sincronica della linguistica, sia applicabile alla moda che è caratterizzata da una natura diacronica.

Nel parlare di moda ci si riferisce a qualcosa di ben più complesso rispetto all’analisi dell’ambito vestimentario e della sua localizzazione; parlare di moda, scrive Giulia Ceriani nel suo contributo, significa confrontarsi con un laboratorio privilegiato dell’anticipazione che introduce nel presente le potenzialità della trasformazione e occorre considerare la sua peculiarità testuale in funzione dell’intenzionalità espressa dal fruitore effettivo che spazia dall’adesione emulativa, all’indifferenza sino al rifiuto di quanto di normativo ancora il sistema contiene. Attraverso l’iconizzazione e la condivisione sul web, la creatività della moda riesce in diversi casi a rappresentare fenomeni di cambiamento configurando identità che non riescono ad esprimersi agevolmente in altro modo

La seconda sezione del volume, dedicata agli oggetti, dopo essersi aperta con il contributo di Paolo Fabbri, che struttura attorno a una dettagliata analisi del cappello un sistema semiotico applicabile a ogni altro oggetto del sistema moda, lascia spazio alla disamina di Jorge Lozano del termine “lusso” a partire dalla pluralità di valorizzazioni che vi si possono attribuire e che, in una girandola di contraddizioni e opposizioni, come per certi versi già aveva compreso Benjamin, contempla tanto un’idea di superfluo che di necessario, di ostentato che di raffinato. Lo studioso, derivata la definizione di lusso dalla congiunzione su un quadrato semiotico della categoria semantica di /esclusivo/ con quella del suo opposto /eccezionale/, dopo aver passato in rassegna le modalità con cui si è storicamente guardato al lusso, giunge a individuarne il suo particolare carattere contemporaneo a partire dal legame che manifesta con la pratica dei selfie e la personificazione degli oggetti.

Ora, in piena simulazione generalizzata, sotto il dominio dei big data, in cui il futuro non tramonta e regna il presentismo, l’autentico emerge come tendenza, che, sebbene non possa sostituire l’unico, l’unicità, la caratteristica fondamentale dell’esclusivo, funge da consolazione. Da parte sua, l’eccezionale dell’originale e genuino, di ciò che ha l’aura e appartiene alla patria del lusso, attualmente adotta altre manifestazioni pregne di soggettività, espresse nel cyberspazio, configurate con nuovi materiali. Questa nuova eccezionalità può coesistere perfettamente con il non esclusivo, promuovendo quello che considero il nuovo lusso. (p. 137)

Riprendendo le riflessioni di Barthes, Floch e Greimas a proposito di passioni e prossemica, Gianfranco Marrone, propone un’interessante analisi semiotica degli occhiali a partire da come l’esigenza sociale estetica abbia per certi versi finito per scalzare tanto la funzione dei modelli da vista, con il suo presupporre un movimento del soggetto verso il mondo, quanto quella dei modelli da sole, che presuppone il movimento inverso del mondo verso il soggetto. «Il corpo-meccanismo e il corpo-rifugio cedono il passo al corpo desiderato e desiderante, soggetto di seduzione e oggetto di piacere» (p. 140). Ad esemplificare la trasformazione avvenuta si pensi a come dai modelli di occhiali con lenti da vista capaci al tempo stesso di riparare dalla luce solare si sia passati al caso, per certi versi opposto, dei modelli con lenti trasparenti non correttive: un ribaltamento epocale che ha trasformato gli occhiali da strumento per vedere in oggetto per essere visti.

Maria Pia Pozzato, prendendo in esame la tematica della modest fashion riguardante l’abbigliamento rapportato ai codici della religione islamica, ricostruisce come dal punto di vista semantico, in tale contesto, si sia data negli ultimi tempi una riformulazione del concetto di /modestia/, non più riconducibile alla rinuncia alla seduttività, all’anonimato, alla povertà di ornamento, all’astoricità: la modestia della modest fashion, sostiene Pozzato, sembra mantenere soltanto un sema di /pudicizia/ implicante la non visibilità di alcune zone del corpo lasciate invece maggiormente scoperte dalla moda occidentale. Il risultato che ne deriva si indirizza verso una moda “a doppia versione”, anziché di contrapposizione.

Paolo Sorrentino, chiudendo la sezione del volume dedicata agli oggetti, ricorrendo a una prospettiva lotmaniana, analizza la risemantizzazione operata dalla moda contemporanea di un capospalla appartenente alla tradizione sarda rapportandolo al sistema vestimentario dell’isola che lo ha via via escluso dalle pratiche quotidiane marginalizzandolo all’ambito dei rituali carnevaleschi.

Nella terza e ultima sezione di La moda fra senso e cambiamento, dedicata agli spazi, avvalendosi del lavoro che Denis Bertrand dedica all’importanza della raffigurazione spaziale nel discorso del romanzo, Isabella Pezzini approfondisce la nascita e l’attestarsi del grande magazzino francese nella seconda metà dell’Ottocento così come traspare dal romanzo Au bonheur des dames (1883) di Émile Zola. Venendo invece a spazi commerciali più recenti, Bianca Terraciano si concentra sulle modalità con cui alcuni negozi di moda, nell’era dell’e-commerce e dei social network, vadano alla ricerca di elementi distintivi che ne giustifichino la presenza e da questo punto di vista risulta di un certo interesse il rapporto che si viene a creare tra città, heritage culturale e consumi. Sempre restando a tendenze contemporanee, Claudia Torrini e Tiziana Barone indagano la propensione della moda contemporanea a ricorrere sempre più frequentemente all’arte come medium e su come l’intrecciarsi dei due ambiti comporti la condivisione di un linguaggio che permette al brand di proporre il suo sistema valoriale in quanto marca e al tempo stesso curatore di un’eredità territoriale da preservare e condividere con la collettività.

Al rapporto tra moda e costruzione identitaria sono invece dedicati gli ultimi interventi del volume. Nella semiotica Ana Claudia Mei Alves de Oliveira ricerca gli strumenti utili allo studio delle diverse maniere in cui la moda propone di vestire il corpo influendo sul soggetto e sulla costituzione della sua identità sociale. Preso atto di come, almeno a partire da metà Ottocento, all’interesse per le caratteristiche fisiche della produzione vestimentaria si sia sostituita una lettura del capo di abbigliamento come artefatto culturale sempre più complesso, Luca Marchetti passa in rassegna alcune opere che riguardano appunto la costruzione identitaria.

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Praticare la pigrizia (con impegno) https://www.carmillaonline.com/2020/05/21/praticare-la-pigrizia-con-impegno/ Thu, 21 May 2020 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60120 di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un [...]]]> di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un libro godibile ove: passa in rassegna le modalità con cui si è guardato alla pigrizia nel corso del tempo; opera una ricostruzione semantica del termine pigrizia indagandone derivati, sinonimi e contrari in diverse lingue e culture; prende in esame detti, proverbi, fiabe e romanzi (soprattutto russi) che fanno rigerimento alla pigrizia; si sofferma sul personaggio di Oblòmov di Ivan Aleksandrovič Gončarov e su quello di Bartleby di Herman Melville; esamina la figura del pigro nei fumetti prestando particolare attenzione a Paperino di Disney e a Snoopy dei Peanuts; riflette, infine, su alcune affermazioni di Roland Barthes a proposito della pigrizia.

La pigrizia, sostiene Marrone, non è la manifestazione di un carattere individuale ma un sentimento collettivo, una forma di vita che tendenzialmente si manifesta in reazione – per opposizione o per sottrazione – a quei contesti sociali e culturali in cui il sistema di valori esalta l’operosità, il lavoro, il fare. «Poltrire è rifiutare di agire, considerare l’inazione un obiettivo esistenziale, per resistere a chi vorrebbe farci lavorare, per protestare contro ogni forma di insensato stakanovismo.» (p. 13) Lungi dal “non far nulla”; il pigro si trova a compiere ogni sforzo necessario per riuscire in questo suo intento.

Solitamente a essere contrapposto al lavoro e alle sue retoriche è l’ozio e non la pigrizia. Anche se quest’ultima non se ne allontana granché, resta comunque differente; per certi versi ne consegue e per altri lo anticipa. A seconda di come storicamente è stato concepito il lavoro è stato inteso l’ozio.

Bertrand Russell nel suo “Elogio dell’ozio” (1932) prende di mira l’etica di matrice protestante che indica nel lavoro un dovere sociale denunciando come in ciò sia sottesa  una volontà di sfruttamento e polemizza nei confronti della stessa Russia comunista rea di aver ereditato dal capitalismo occidentale l’etica dell’operosità e dello spirito di sacrificio come realizzazione di sé e non come strumento per guadagnarsi da vivere. Soddisfatti i bisogni indispensabili, sarebbe auspicabile, sostiene Russell, una generalizzata riduzione dell’orario dedicato al lavoro. In linea con una tradizione di pensatori anglosassoni che si confrontano con i disastri dell’industrializzazione, secondo il filosofo inglese è attraverso l’ozio che si possono affermare altre forme di necessità indirizzare alla joie de vivre.

Secondo diverse sfaccettature, apologie dell’ozio si ritrovano in Robert L. Stevenson, Oscar Wilde, Jerome K. Jerome e Gilbert K. Chesterton ma, più in generale, la valorizzazione dell’inoperosità non può essere ricondotta esclusivamente all’ascesa dell’industrialismo. Nella Bibbia il lavoro è una maledizione divina derivata da quel peccato originale che, nel testo sacro, inaugura l’ingiustizia di genere (il dominio dell’uomo sulla donna), quella di specie (il privilegio umano sul resto del creato) e quella sociale (la necessità di ricorrere al lavoro finirà per non riguardare tutti allo stesso modo).

Nell’antichità al negotium si oppone l’otium aristocratico e a proposito delle modalità con cui vengono attribuiti valori o disvalori all’ozio, Marrone passa velocemente in rassegna le posizioni di Cicerone, Orazio, Seneca e Tacito. In ambito cristiano al lavoro come marchio d’infamia si è presto sostituita l’idea del lavoro come rifugio dalle tentazioni prodotte dall’ozio: è qua che trova la sua codifica, pur riprendendo alcuni elementi dalla tradizione greca, la colpa di accidia propria della cultura cristiana.

Se nel contesto medievale l’inattività resta un segno di distinzione sociale, progressivamente il lavoro cambia statuto tanto da necessitare di una nuova definizione e rivalutazione. Di come intendere l’operosità e l’ozio si occupano anche i propugnatori della Riforma protestante e i filosofi dell’utopia come Moro e Campanella. Con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese vengono presi di mira tanto i privilegi degli inoperosi aristocratici quanto coloro che intendono imitarli

«Lavorare è produrre, mettere in circolazione nuove cose, migliorando le condizioni di vita sulla terra senza attendere l’intervento risolutore dell’aldilà. Come diranno gli economisti, il lavoro è strumento di produzione ma anche, e soprattutto, origine del valore dei prodotti, ossia loro trasformazione in merce.» (pp. 28-29) É con la modernità che il lavoro assume stabilmente lo statuto di valore e di pari passo l’ozio diviene un malcostume che, suggerisce lo studioso, altro non è che una forma di accidia secolarizzata: un peccato mortale trasformatosi in disobbedienza civile. Interi sistemi educativi e teorizzazioni economiche e politiche si preoccupano di esaltare l’attivismo in quanto produttore di valore (e valore esso stesso) e di diffondere rancore e condanna verso tale accidia laicizzata. La stessa psichiatria, ricorda Marrone, si presta con solerzia alla medicalizzazione della pigrizia designandola come malattia da curare.

Già Rousseau, nel sottolineare come l’ineguaglianza degli esseri umani derivi dalla divisione sociale del lavoro e dal progresso della civiltà, esalta l’individuo non ancora “civilizzato” in quanto privo delle angosce dell’operosità. Contro le tesi espresse da Charles Fourier, circa la necessità di trasfigurare il lavoro in piacere, di fare del godimento il fine del lavoro, prende posizione Marx che, anziché preoccuparsi della diminuzione delle ore di lavoro (come fa Russell), si pone il problema di porre fine all’opposizione lavoro/riposo, fatica/svago, in modo da eliminare l’alienazione e permettere all’essere umano di «affermarsi come essere sociale libero e sicuro di sé grazie alla propria attività lavorativa». (p. 33)

Agli slogan inneggianti al diritto al lavoro, Paul Lafargue risponde con Il diritto alla pigrizia (1883): proclamare il diritto dell’essere umano al lavoro significa introiettare l’ingannevole morale diffusa e proposta come universale dal cristianesimo e dal capitalismo. «Che vi sia l’obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, di fannullare e di fare bisboccia per il resto della giornata e della notte». I lavoratori, sostiene Lafargue, dovrebbero fare propria la pigrizia che contraddistingue la borghesia e la loro voracità consumistica: il lavoro, in sostanza, deve essere proibito, non imposto o autoimposto.

Le cose, sappiamo, sono andate diversamente da come auspicato: il lavoro non è diminuito, il consumo è divenuto un obbligo sociale e la ricchezza ha finito per concentrarsi sempre più nelle mani di pochi. Non è andata meglio all’idea marxiana circa la necessità di porre fine all’opposizione fra lavoro e tempo libero: tutto si è trasformato in lavoro, anche lo spazio del leisure. Negli sviluppi successivi del sistema capitalista si è giunti a una società dei consumi in cui a produrre identità è l’atto stesso del consumo. Il loisir, la bisboccia, il tempo libero hanno finito per coincidere con il consumo e con il lavoro.

Il fancazzismo non è (più) l’esito triste della disoccupazione, una condizione che occorre necessariamente subire, ma un modo d’essere morale e civile rivendicato come una soluzione possibile, nemmeno così angosciosa. E la pigrizia, tutt’altro che diritto condiviso, diviene rivoluzionaria. O almeno da molti viene considerata tale. Da un altro lato, però, quella che è stata chiamata società della prestazione continua risucchiare al suo interno qualsiasi forma di attività, lavorativa o ricreativa. (pp. 39-40)

Marrone puntualizza come concetti come lavoro, ozio e pigrizia necessitino di una contestualizzazione culturale, oltre che storica: non in tutte le culture operosità e inoperosità assumono lo stesso valore, così come gli stessi concetti di progresso, tempo libero, sussistenza e opulenza non vengono significati nello stesso modo. A riprova di ciò lo studioso si sofferma su un paio di casi derivati da culture non occidentali.

Kenkō Yoshida in Tsurezuregusa (Ore d’ozio o Momenti d’ozio, 1330-1332) non contrappone l’ozio al lavoro o al negotium ma alla noia della quotidianità, esplicitando così un rifiuto per la società vissuto dall’interno. Lin Yutang, nel suo Importanza di vivere (1937), confronta il tradizionale distacco dalle cose terrene della cultura cinese con l’american way of life palesando come l’ozio nella prima venga vissuto, ben diversamente che in Occidente, come vivere alternativo al fare; non si tratta di una contrapposizione a un mondo su cui si vuole incidere ma di una particolare immersione in esso per coglierne le potenzialità.

Nel passare in rassegna le definizioni di pigro e pigrizia proposte dai dizionari, Marrone si sofferma su alcune dimensioni che vi si ritrovano: “estesica” (la pigrizia viene associata con la mancanza efficienza, con la lentezza, il torpore); passionale (il pigro è svogliato, indolente, apatico); cognitiva (la pigrizia ha a che fare con la mancanza di volontà, curiosità e interesse); pragmatica (pur essendo lento, apatico e svogliato, il pigro è tutt’altro che inoperoso: egli fa di tutto per non far nulla. Il pigro, pur scansando il lavoro, è a suo modo un gran lavoratore).

Il pigro, che può anche manifestarsi come attore collettivo, non fa quello che gli altri si aspettano da lui, non adempie agli impegni e ai doveri che la società gli impone rinnegando così il suo essere sociale. A scontrarsi sono due sistemi morali: l’azione di resistenza dispiegata dal pigro attraverso il suo non-voler-fare e non-voler-essere nei confronti della società del dover-fare e del dover-essere, «è tanto più potente quanto più è legata alla coscienza dei valori sociali cui egli si sta opponendo, del lavoro che sta a tutti i costi evitando» (p. 62).

Stando ai dizionari, rispetto alla pigrizia, l’ozio sembra aver più a che fare con una chiusura in se stessi che non con una resistenza ai doveri sociali. A differenza dei termini pigrizia e pigro, ozio indica tanto una “condizione”, una “disposizione” d’animo che un lasso di tempo (“prendersi un periodo di ozio”). L’ozio è indicato, inoltre, come inclinazione posseduta dal soggetto prima di ogni situazione intersoggettiva o tendenza sociale che rimanda alla ricerca indiscriminata del piacere che non può che condurre alla dissolutezza. Il termine può riferirsi anche all’inattività e all’inoperosità imposte dall’esterno a scopo punitivo, come nel caso della prigionia, oppure, in accezione positiva, a una situazione di inoperosità vacanziera.

Nel caso del termine accidia, i primi riferimenti proposti dai dizionari rimandano al peccato capitale, pertanto, in questo caso, l’indolenza non è rivolta ai doveri sociali e agli impegni intersoggettivi ma piuttosto al bene nella sua accezione etico-religiosa. A differenza dell’ozio, che può essere circoscritto a un periodo limitato (assumendo valore negativo o positivo a seconda dei casi), l’accidia, il disinteresse per il fare il bene, non è circoscritta nel tempo.

Prendendo in esame il folklore europeo, Marrone nota come questo sia intessuto di disapprovazione nei confronti della pigrizia. Nei modi di dire e nei proverbi, risulta evidente un’inclinazione moralistica volta a ribadire le conseguenze nefaste dell’inoperosità. D’altra parte, si tratta di massime scaturite da un universo contadino che percepisce il lavoro come strumento indispensabile al proprio sostentamento quotidiano, come destino indiscutibile e il sottrarsi a esso comporta sicura sciagura. Al di là delle convinzioni calviniste e dell’efficientismo capitalistico, anche il mondo delle fiabe, soprattutto russe,  è attraversato da un’ideologia utilitarista votata all’operosità in cui si sostiene l’idea di un’esistenza votata alla realizzazione di sé attraverso il buon superamento delle prove che la vita presenta.

In risposta all’ideologia fattiva e avventuriera della fiaba russa il saggio di Morrone propone un approfondimento dell’Oblòmov di Gončarov che rappresenta la rivincita di «chi non si limita a opporre una pigrizia positiva al dinamismo negativo, ma decostruisce pezzo per pezzo l’ideologia su cui tale attivismo si appoggia, mostrandone i limiti, la violenza costitutiva, la malafede» (p. 84). Il protagonista del romanzo di Gončarov non intende sostituire il sistema valoriale con un altro; semplicemente, e radicalmente, si limita a decostruire quello esistente. «È qualcuno che, conservando strenuamente i propri spazi di felicità, ha additato la banalità del fare. La sua è una pigrizia fattiva, una malinconia euforica, una nostalgia del futuro.» (p. 108)

Se di Oblòmov il lettore finisce per conoscere parecchio della sua complessa interiorità, non altrettanto si può dire di Bartleby di Melville, personaggio che non palesa alcuna volontà di non-fare; semplicemente esprime una preferenza: «I would prefer not to». Si tratta di un grado debole di volontà che lascia il lettore di fronte alla sua testarda indeterminatezza che però non cela alcun mistero. Ed è proprio l’assenza di una motivazione profonda ad affascinare e inquietare.

Ecco una nuova versione politica della pigrizia: non, alla Lafargue, la rivendicazione di un programmatico non-lavoro di contro al lavoro alienato del modo di produzione capitalistico, né il dolce far niente di chi del lavoro se ne infischia perché non ha bisogno, né, ancora, l’idea di un ozio creativo di contro al fare meccanico della modernità. Nulla di radicalmente oppositivo, insomma. Nessun volere, nessun controvolere. Piuttosto, l’esasperazione estrema di una preferenza tanto irragionevole quanto caparbia, di un progressivo ritiro dalle cose del mondo, dai suoi valori, dalle sue necessità e dai suoi piaceri. Non è pigrizia? Probabilmente no: è più che altro desiderio di santità, di ascesa all’ascesi, condotta angelica, emulazione di Cristo. Ma comunque, sotto sotto, alla pigrizia assomiglia parecchio. (pp. 111-112)

Nell’esaminare la figura del pigro nei fumetti – Arcibaldo, Mafalda, Garfield, Andy Capp, Homer Simpson… –, Marrone si concentra sulle specificità della pigrizia di Paperino, ben diversa da quella di altri personaggi disneyani, e su quella di Snoopy. Paperino è un pigro che, pur detestando il lavoro, nelle sue storie non fa altro che lavorare nella speranza di poter tornare alla sua amata amaca. «Il riposo è l’oggetto di valore, l’oggetto cercato o al quale vuol tornare; il lavoro lo strumento per ottenerlo, per tornarvi.» (p. 126)

Se per Paperino la pigrizia è un traguardo o un gesto di resistenza rispetto a chi intende farlo lavorare, per Snoopy è invece uno stato acquisito. Il personaggio di Charles Monroe Schulz poltrisce e basta, non ha doveri da scansare, è un pigro puro che avendo tanto tempo a disposizione lo impiega fantasticando: la sua pigrizia risulta produttiva, stimola l’immaginazione che lo porta a vivere mille vite attraverso meccanismi di assimilazione e identificazione. «Né apocalittico né integrato. Forse eroe decadente, ma – inaspettata forma di pigrizia – con lo sguardo rivolto al futuro.» (p. 140)

Nell’ultima parte del volume, Marrone riprende alcune riflessioni di Roland Barthes in cui passa in rassegna varie forme di pigrizia. Secondo il francese il tempo libero non può essere visto come vera e propria pigrizia, come ozio, in quanto esso presuppone il tempo del lavoro. Pigrizia e ozio dovrebbero esser sganciati da ogni presupposizione sociale. «Per ritrovare la pigrizia occorre piuttosto fuoriuscire dalla coercizione del tempo libero, e prospettare un tempo neutro e un’attività a sé stante: […] “a meno che – precisa Barthes – non si sia presi dal desiderio di finire il lavoro”» (pp. 146).

Il francese propone l’esempio del lavoro a maglia nel suo darsi come gesto puramente intransitivo. Altro esempio di pigrizia riuscita è, secondo Barthes, il restare al letto dopo essersi svegliati senza giustificazione, nemmeno di tipo fisiologico. In alternativa a queste pratiche antisociali si può pensare a uno sconvolgimento quotidiano del ritmo dell’esistenza, al frantumare il flusso abituale del tempo attraverso diversivi del tutto gratuiti, improduttivi.

Tuttavia, una per una vera e propria pigrizia, secondo l’autore di Miti d’oggi, ci si potrebbe rifare allo Zen, al suo mirare al dissolvimento del soggetto. «Nella pigrizia, ci dice lo Zen, non c’è più il conflitto perché spariscono, prima ancora che le ragioni del contendere, i soggetti stessi che dovrebbero contendersele» (pp. 148-149). O ancora, continua il francese, per innescare una pigrizia risuscita, si potrebbe ricorrere alla via letteraria: legare il non far nulla alla pratica della scrittura, sul modello di Marcel Proust.

«Essere pigri, secondo questa prospettiva, è appunto, per riprendere la metafora proustiana, essere come la madeleine che si disgrega lentamente nella bocca, che, in quel momento, è pigra. Il soggetto si lascia disgregare dal ricordo, ed è pigro. Se non lo fosse ritroverebbe una memoria volontaria» (p. 149). Da questo punto di vista, la pigrizia durerebbe il tempo della preparazione del romanzo, poi, a questa, succede il tempo della scrittura, del lavoro e lì la pigrizia è obbligata a farsi da parte.

A  proposito di ozio e pigrizia, in conclusione vale la pena far riferimento a un bel saggio di Pablo Echaurren (Duchamp politique, Postmedia Books 2019) dedicato all’artista francese in cui l’autore argomenta come l’ozio praticato da Duchamp sia interpretabile come forma elaborata di rifiuto del lavoro e di rigetto della società capitalistica. Attraverso il suo oziare, appartarsi dalla scena artistico-mediatica, rifugiarsi nel gioco degli scacchi, Duchamp opera una rivolta nei confronti dell’accumulazione. La sua proverbiale inoperosità non è però fine a se stessa ma coincide con la critica di un modus operandi, di un amore per il lavoro che ha intaccato anche il mondo dell’arte, ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi votati al denaro e a ciò il francese risponde con la sua inoperosità. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare».

Insomma, a maggior ragione in questi tempi di pandemia, in un contesto in cui mentre vengono mandate sugli schermi personalità dello spettacolo per invitare la gente a restare chiusa in casa per evitare il contagio, solerti capitani d’impresa richiamano la nazione al posto di lavoro, sottrarsi alla società della prestazione è un lavoraccio che forse vale la pena di fare con impegno.

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