Giacomo Sartori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2025/03/16/anatomia-della-battaglia-di-giacomo-sartori/ Sun, 16 Mar 2025 21:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87168 di Mauro Baldrati

Terrarossa, Bari 2025 pagg 267 € 17.90

Esce questo romanzo di Giacomo Sartori, che vide la luce per la prima volta 20 anni fa per l’editore Sironi. A quel tempo fu un romanzo fortemente innovativo, che può essere inquadrato agli albori dell’autofiction. E’ anche un iper testo, infatti si può leggere partendo da un punto qualsiasi e in qualsiasi direzione. Perfetta, infatti, è l’omogeneità del ritmo narrativo, e della scrittura, precisa, chirurgica. Passa con grande scioltezza da fasi di formazione, al ritratto di personaggi, fino a incursioni in un noir paradossale e allucinato. Il tutto senza mai scivolare [...]]]> di Mauro Baldrati

Terrarossa, Bari 2025 pagg 267 € 17.90

Esce questo romanzo di Giacomo Sartori, che vide la luce per la prima volta 20 anni fa per l’editore Sironi. A quel tempo fu un romanzo fortemente innovativo, che può essere inquadrato agli albori dell’autofiction. E’ anche un iper testo, infatti si può leggere partendo da un punto qualsiasi e in qualsiasi direzione. Perfetta, infatti, è l’omogeneità del ritmo narrativo, e della scrittura, precisa, chirurgica. Passa con grande scioltezza da fasi di formazione, al ritratto di personaggi, fino a incursioni in un noir paradossale e allucinato. Il tutto senza mai scivolare nell’autocompiacimento o nello sfogo di una rabbia compressa. Sul testo aleggia un’aura di straniamento, come un’epica remota che arriva fino a noi con echi selvaggi di avventure e vite perdute. Il nucleo centrale è il personaggio del padre, che il narratore segue fino alla lenta agonia, in una sorta di dolente omicidio della figura paterna. Un personaggio enorme, un gigante dotato di una forza incrollabile, che sembra sgorgare dalla sua formazione totalitaria di fascista che non conosce il dubbio né il pentimento, e tanto meno il pudore della negazione. “Per lui quello che importava sopra ogni cosa era comportarsi come un vero fascista, o comunque – quando il fascismo non esisteva più da anni – come la sua nostalgia del fascismo gli facesse credere che bisognasse comportarsi”. Tutta la famiglia sembra pervasa – dominata – da questa granitica resistenza all’avanzare della modernità. Un ambiente famigliare rarefatto che ricorda Il deserto dei tartari, in una grande, lussuosa villa, ma senza una lira, come un’aristocrazia che non accetta di morire. Con la tecnica dei piani temporali il narratore salta dal suo passato di bambino debole, sofferente, schiacciato dalla figura del padre che disprezza qualsiasi forma di debolezza, al presente di un inutile lavoro per un improbabile “Centro di Lotta contro la Desertificazione”. Poi ci troviamo all’interno di pagine psichedeliche in cui il narratore – forse per una inevitabile forma di ribellione verso il golem paterno? – sprofonda nella clandestinità e nella lotta armata. Ecco una pagina, segnata da una paradossale confusione mentale, in cui il narratore, che partecipa a una rapina proletaria come autista-palo, aspetta i compagni:

E invece all’improvviso attraversa la strada e punta verso di me, da davanti. Deve fermarsi per lasciare passare una ragazza con un passeggino, ma è chiaro che viene verso di me. Cammina in fretta, si avvicina sempre di più. Io apro il finestrino con la manovella, e penso che devo tirare fuori la pistola, devo puntargliela contro. Ma non posso, riesco solo a stare in ascolto dei tonfi del mio cuore. Poi invece non so come me la ritrovo in mano: scivola nel palmo sudato. Mi sporgo sulla sinistra per poter mettere fuori il braccio, e gliela punto contro. Lui continua però ad avanzare, come se non si fosse accorto di niente. Mi ripeto che devo tirargli almeno nelle gambe, devo farlo. Se non altro per gli altri, per la responsabilità che ho nei loro confronti. Ma non riesco a premere il grilletto. Il tipo è ormai a due metri, sta facendo uno scarto per avvicinarsi alla mia portiera. Mi dico che la aprirà da fuori, mi viene istintivamente, anche se il finestrino è aperto, da abbassare la sicura. Aspetto lo scatto della serratura. E invece c’è uno scatto diverso, che viene dalla mia pistola ma anche da altrove, e cade per terra. È come se d’improvviso le sue gambe fossero di stoffa: si avvitano su se stesse, schiacciate dal peso del busto e della testa. Io non posso crederci che stia bocconi contro l’asfalto, che dalla sua testa esca un liquido rosso. Io ho mirato alla gamba sinistra, non alla testa. Lo guardo per capire se è davvero ferito alla testa. Mi sembra impossibile che un proiettile gli abbia trapassato il cranio, anche se effettivamente devo aver premuto il grilletto.

Esistono, o sono esistiti, scrittori cosiddetti minimalisti, o dell’incomunicabilità. Per le atmosfere segnate da un distacco, doloroso benché segnato da una sorta di sommesso fatalismo, e da un sé che sembra continuamente fuori fase, Giacomo Sartori può essere definito un poeta dello straniamento. Di seguito pubblichiamo la postfazione, nella quale l’autore ragiona sulla genesi e sulle implicazioni della sua opera.

Quando ho iniziato a lavorare a questo romanzo – sono trascorsi più di venti anni – non immaginavo che la scrittura sarebbe stata accompagnata da una tormentata immersione nel fascismo. Intendevo parlare di mio padre, dei suoi ultimi mesi. E invece mi sono presto reso conto che non potevo dire niente di quella persona che pensavo di conoscere bene, e tanto meno descrivere la grinta titanica con la quale aveva combattuto contro il cancro, il nucleo palpitante alla base del libro, senza avere dimestichezza con la sua epoca, e l’affanno di morte che ne aveva presso possesso. Lottava per restare vivo perché per lui vivere voleva dire sfidare e avere la meglio sulla morte. Per lui, fascista e repubblichino mai davvero ravveduto, la massima aspirazione era stata una morte eroica sul campo di battaglia, o al limite sfidando una montagna: una bella morte. Non poteva rassegnarsi all’umiliazione di una fine qualsiasi, quella pedissequa di qualsiasi essere umano.

Più mi documentavo più scoprivo quanto ci fosse nelle sue parole e nei suoi modi della grande malattia che aveva colpito il suo tempo. Scoprivo che certo era un personaggio unico, con il suo innegabile carisma e il suo burbero manicheismo, la sua brutale franchezza e la sua rettitudine, il suo amore per la montagna e la sua insofferenza nei confronti della religione e dell’ipocrisia, la sua aggressività verbale e la mitezza della sua indole, il suo enorme coraggio e le sue ben celate debolezze, il suo narcisismo e la sua tolleranza, ma tanti di questi suoi ingredienti erano quelli della sua epoca. Non sgorgavano solo dal suo carattere così particolare, come avevo sempre dato per scontato, venivano in gran parte dalla Storia. Il suo destino individuale era anzi paradigmatico, e il vero interesse della sua vicenda stava nella complessa articolazione tra elementi intimi e epocali. Per delineare con crescente precisione quel personaggio che era mio padre, ma che non era più solo quello che avevo conosciuto io, era anche il fenotipo di un codice genetico più diffuso e generale, leggevo allora resoconti e biografie e diari, che si rivelavano illuminanti per chiarire il suo funzionamento: come succede quando si trovano finalmente le istruzioni di un apparecchio molto complicato. Li divoravo, ma il mio fine non era erudirmi, non era farmi una cultura astratta sul fascismo, non era imbastire una nuova teoria: in ogni caso questi compiti mi erano preclusi. Andavo più semplicemente a caccia dei mattoni che mi servivano per costruire la mia storia, per darle la profondità che altrimenti sarebbe mancata, per far sì che mirasse sempre alla verità, evitando i luoghi comuni e le autoassolutorie semplificazioni che imperavano, sbarazzandomi delle compiacenti mitologie della mia famiglia. Li rincorrevo traversando di corsa le pagine come un segugio, e come un segugio sapevo stanarli e dissotterrarli, senza mai lasciarli scappare. Al pari di sempre la scrittura non era la trascrizione di qualcosa che già sapevo, era un pericoloso viaggio di scoperta.

Io non avrei dovuto esserci in questo romanzo. E nemmeno un personaggio che per tanti aspetti mi assomiglia. Scrivendolo mi sono invece reso conto che senza punizione dei responsabili e senza esami di coscienza, senza alcuna cerimonia di interramento, la fine del fascismo era indissolubilmente legata alla violenza degli anni che avevo vissuto in prima persona. Ne era anzi la lontana e per certi versi ben mimetizzata fonte. La bestia nera che non è mai stata sepolta era risorta con i suoi agguati e le sue unghiate di crudeltà, in parallelo al rianimarsi altrettanto cruento degli storici nemici. Non si poteva capire la stagione insanguinata della mia adolescenza, senza fare riferimento alla guerra civile di trent’anni prima, quella vissuta da mio padre: ne era l’anacronistico proseguo. Ma era soprattutto la mia vita privata a aver ricevuto le eredità di quell’epoca che i più consideravano ormai lontana, e che io stesso avevo faticato a disseppellire. Quindi parlare di lui era anche parlare di me e del mio percorso, e riesumare l’origine delle mie scelte di vita. Scoprivo che ero molto più legato a lui di quanto pensassi, anche se avevo perso l’occasione di farglielo capire, come spesso succede nella vita, che nella sua rassicurante lentezza schizza via in fretta.

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Coltivare la natura, di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2023/05/28/coltivare-la-natura-di-giacomo-sartori/ Sun, 28 May 2023 20:21:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77281 Kellermann editore, Vittorio Veneto 2023, Pagg. 185 € 16

L’ultimo libro di Giacomo Sartori esce dal suo abituale brand, composto da un mix di scrittura raffinata e sperimentale, straniamento “autistico”, indagine spietata dell’animo e dei comportamenti, resistenza alle involuzioni che ci minacciano fin dalla nascita, per entrare a gamba tesa nella scrittura scientifica. Perché Sartori è anche uno scienziato: agronomo e geologo, conosce i terreni, i processi di germinazione e fotosintesi, e conosce la storia. Infatti non è solo un testo di denuncia del depauperamento dei suoli attraverso l’intervento predatorio dell’uomo, ma anche [...]]]> Kellermann editore, Vittorio Veneto 2023, Pagg. 185 € 16

L’ultimo libro di Giacomo Sartori esce dal suo abituale brand, composto da un mix di scrittura raffinata e sperimentale, straniamento “autistico”, indagine spietata dell’animo e dei comportamenti, resistenza alle involuzioni che ci minacciano fin dalla nascita, per entrare a gamba tesa nella scrittura scientifica. Perché Sartori è anche uno scienziato: agronomo e geologo, conosce i terreni, i processi di germinazione e fotosintesi, e conosce la storia. Infatti non è solo un testo di denuncia del depauperamento dei suoli attraverso l’intervento predatorio dell’uomo, ma anche un excursus storico dell’agricoltura, e un globale, disperato atto d’amore per la natura e di tutto ciò che ci offre (MB).

Di seguito pubblichiamo l’introduzione di Carlo Petrini e un capitolo (pagg. 68-70)

“Di volumi, libri e trattati su suoli e agricoltura ce ne sono parecchi in circolazione. Eppure, a mio modo di vedere, con Coltivare la natura Giacomo Sartori ha portato a compimento un lavoro che riesce ad approcciare il tema da una prospettiva poco battuta, ma senz’altro di valore. Mi riferisco all’excursus storico con cui ripercorre in maniera dettagliata lo sviluppo della relazione – per noi esseri umani vitale – tra agricoltura e fertilità dei suoli durante l’arco dei millenni (dal Neolitico ai giorni nostri). Si tratta di una relazione per certi versi contraddittoria: dal punto di vista del suolo la pratica agricola è infatti un’attività estrattiva (che preleva risorse nutritive dal terreno, riducendone la fertilità), mentre dal punto di vista dell’uomo è generativa (che produce cibo volto al nutrimento e sostentamento).

Una contraddittorietà che è stata però gestita grazie al savoir faire umano che ha consentito di trovare tecniche e metodi calati nei singoli contesti territoriali e capaci di ricreare e mantenere nel tempo la fertilità dei suoli. A un certo punto della storia recente, qualcosa si è però inceppato. Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, e ancor più nel secondo dopoguerra, la chimica di sintesi ha soppiantato la visione olistica e di sistema che fino a quel momento aveva caratterizzato la relazione uomo – agricoltura.

Se nella pratica questa operazione ha fatto sì che l’attività agricola venisse assoggettata al paradigma produttivo lineare input-output, dal punto di vista del pensiero l’uomo è stato assalito da una sorta di delirio di onnipotenza che gli ha fatto credere che la natura si potesse dominare, e che i fenomeni naturali coinvolti nella produzione dei raccolti si potessero pilotare a favore dei propri interessi.

La chimica di sintesi insinuava presuntuosamente di poter risolvere un conflitto ontologico (quello tra agricoltura e fertilità dei suoli) che datava alla notte dei tempi, e invece, tutt’al contrario, ha provocato un incremento esponenziale della perdita di sostanza organica dei suoli coltivati. Trattare il suolo come una dinamica aziendale ci sta portando velocemente verso il baratro. Il suolo è materia viva, e come tale dovrebbe essere gestito. Per di più, se oltre a essere vivo è pure sano, allora fa da dimora alla più grande biodiversità al mondo (si parla di miliardi di microrganismi che ammontano a circa due terzi di tutti gli esseri viventi). Sopprimere la vitalità del suolo attraverso pratiche agricole predatorie implica, seppur indirettamente, di star affliggendo la medesima barbarie a noi stessi. Andando alle radici del problema, e ripercorrendo le soluzioni che di epoca storica in epoca storica hanno da un lato nutrito le persone e dall’altro garantito il mantenimento della fertilità dei suoli, Sartori aiuta a prendere maggiore consapevolezza della questione. Abbiamo urgente necessità di persone che imparino a camminare e a trattare la terra con rispetto, perché senza un suolo vivo non c’è futuro. Smettiamo di calpestarlo”.

Lo tsunami della via chimica sui paesaggi agrari italiani

“Le dinamiche descritte hanno stravolto in pochi decenni la natura e l’aspetto dell’agricoltura italiana, riducendo drasticamente le coltivazioni collinari e pedemontane, che ne rappresentavano la parte preponderante, e ne costituivano la storica ricchezza e la peculiarità. Intere zone coltivate da migliaia di anni, ben prima dei Romani, con tecniche che si adattavano ai vari ambienti, sono state lasciate a sé stesse.

Si è assistito quindi a una concentrazione delle aziende redditizie, o più spesso che ancora resistevano, nelle zone di pianura, più facilmente coltivabili. In particolare nelle piane alluvionali, o poco inclinate, che sono le più ricercate anche dall’urbanizzazione e dall’industria. Esse appaiano come superfici indifferenziate, quando sono quasi sempre il risultato di antiche opere di bonifica e di regimazione delle acque. Sono invase da colture specializzate, più spesso cerealicole, che sostituiscono quelle promiscue, prima onnipresenti.

Tutte le altre aree sono diventate marginali, se appunto per vocazione o altri motivi non sono riuscite a ripiegare su qualche coltura ad alto reddito. O più spesso sono degradate e abbandonate, restando in balia delle acque, dando luogo a dissesti idrogeologici. Il paesaggio dell’intero Paese, prevalentemente in pendenza, e molto articolato, ne risulta completamente stravolto, e dissestato.

Della passata organizzazione delle colture restano segni che in genere solo gli specialisti sanno leggere, quali filari di piante arboree, o resti di filari, senza più le viti che sostenevano. O anche alberi isolati, baulature ancora riconoscibili dei campi ormai accorpati, terrazzamenti in via di franamento, muretti, mucchi di pietre formate dagli antichi spietramenti.

In un trentennio gli addetti dell’agricoltura si sono ridotti in maniera vertiginosa, passando dai quasi nove milioni nel 1951, a meno di un milione e mezzo nel 1981. Tutto un mondo rurale, con una storia e una tradizione che affondava nella notte dei tempi, e con la sua preziosissima conoscenza capillare di un territorio composto da un mosaico di elementi diversi, e delle pratiche a esso appropriate, è stato spazzato via. E sono state le realtà più deboli economicamente, spesso presenti negli ambienti più problematici, a scomparire per prime. Certo l’epocale esodo dalle campagne è andato di pari passo a un rapido innalzamento del livello di vita, ma l’agricoltura, che a sua volta faceva grandi passi, non ci ha solo guadagnato. E ancora meno i territori.

Nel giro di pochissimo tempo sono state accantonate quelle opere di miglioramento delle terre e di modellamento delle superfici che erano la caratteristica, e il vanto, dell’agronomia della penisola fin dall’epoca romana. Per ottenere l’accorpamento dei campi sono state cancellate in particolare la maggior parte delle sistemazioni agrarie di pianura e di collina. Le antiche 70 71 opere di regimazione e di intercettazione delle acque sono in genere coperte. Le conseguenze in termini di erosione idrica sono catastrofiche.

I potenti trattori hanno permesso per anni di lavorare molto in profondità il terreno, quasi sempre troppo in profondità, come mai si era fatto in precedenza. Forse proprio per redimere le fatiche di generazioni e generazioni con strumenti manuali e animali da tiro, verrebbe da pensare. Più spesso portando a un suo peggioramento, mediante la riesumazione degli strati poco fertili di profondità e della pietrosità. E causando una perdita ulteriore di sostanza organica, per una più spinta mineralizzazione a contatto con l’aria. Il tutto restando nel sentiero della tradizione “ingegneristica” descritta.

I mezzi meccanici hanno consentito di appianare e rendere uniformi le superfici collinari, o di creare ciglioni (zone pianeggianti raccordate da scarpatine), quasi sempre sotterrando i suoli fertili che avevano impiegato millenni per formarsi, o peggiorandoli in modo definitivo. Sebbene negli ultimi anni si faccia in genere più attenzione a salvaguardare i suoli (asportandoli e riposandoli dopo le sistemazioni delle superfici), tali interventi distruttivi, che erano la regola fino a un passato molto recente, sono ancora diffusi. E questo anche in zone di grande pregio agronomico e paesaggistico (Chianti, colline venete…)”.

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Fisica delle separazioni, di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2022/12/05/fisica-delle-separazioni-di-giacomo-sartori/ Mon, 05 Dec 2022 21:30:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75093 Exorma, Roma 2022, pagg. 174 € 16,50

di Mauro Baldrati

Giacomo Sartori è un agronomo, quindi studioso degli innesti, una varietà vegetale che si fonde con un’altra; ed è anche specializzato in scienza del suolo, le stratificazioni, le densità e le composizioni chimiche dei terreni. Forse è un caso, o forse no, ma nei suoi testi – e soprattutto nel suo ultimo romanzo – gli innesti e le stratificazioni non solo le ha studiate all’università, ma le applica nella sua attività di scrittore. In questo libro, che in vari punti è una spietata [...]]]> Exorma, Roma 2022, pagg. 174 € 16,50

di Mauro Baldrati

Giacomo Sartori è un agronomo, quindi studioso degli innesti, una varietà vegetale che si fonde con un’altra; ed è anche specializzato in scienza del suolo, le stratificazioni, le densità e le composizioni chimiche dei terreni. Forse è un caso, o forse no, ma nei suoi testi – e soprattutto nel suo ultimo romanzo – gli innesti e le stratificazioni non solo le ha studiate all’università, ma le applica nella sua attività di scrittore. In questo libro, che in vari punti è una spietata autopsia lautreamontiana/cronemberghiana, dove i personaggi sono stesi sul tavolo operatorio con gli organi interni scoperti, troviamo uno stile in orgogliosa controtendenza con le moderne scritture che occupano gli spazi che un tempo remoto erano a disposizione della creatività e della sperimentazione. Niente struggenti incursioni nell’animismo dell’autore-artista, niente vittimismi, ma periodi lunghi, ostinati, di imprinting proustiano. Periodi che se ne fregano degli algoritmi che pretendono frasi brevi minimali, suggellate da dispotici punti che non ammettono divagazioni democratiche. E la lingua è ricca, colorata, scorre come un serpente di grossa taglia, un cromatico cobra reale, fluida, ma senza essere mai esibizionista né autoreferenziale. E questo gli permette di sfuggire alla trappola del virtuosismo, dove tutto è sterile, perché conta solo la tecnica, come la celebrity che sfila sul red carpet e si mangia coi segni mondani dell’apparenza la persona reale.

Mi è impossibile dimenticare quel mantra vieni a casa, quel salvagente lanciato alla mia incapacità di trovare un bilanciamento nella corrente dei giorni e di essere pago, quel dono inaspettato che mi ha accompagnato giorno per giorno negli anni seguenti, anni difficili, sempre più difficili, nel dolore fisico costante, con il capestro impietoso della codeina, in una guerra ormai cronica, ormai spietata, prevedibilmente imprevedibile, con battaglie feroci e fugaci tregue, talvolta dolci, tiepide di nostalgia e rimpianti, il duello tra due infelicità che si accanivano a essere ancora più derelitte, e anche riguardo alla mia anima, anch’essa in guerra con sé stessa, ma pur sempre con quella nuova sicurezza che mi seguiva, la certezza di avere almeno un riparo, un appartamento con dentro un guardiano che, nel bene o nel male, anche se le cose andavano sempre peggio, mi aspettava, che qualunque cosa fosse successa mi avrebbe atteso, non foss’altro per gridarmi recriminazioni e improperi che sono pur sempre manifestazioni di amore.

Ma Proust, oltre che nello stile, è presente anche nella trama fitta della ragnatela, soprattutto in uno dei componenti che sorreggono la gigantesca impalcatura della Recherche: la discesa agli inferi dell’amore e della sua componente strutturale: la gelosia. Questo sentimento si insinua nella coppia – e il modello base è costituito dal romanzo nel romanzo Un amore di Swann – e la devasta, come un demone, o un angelo sterminatore. Nelle Separazioni il Ragnarok è costituito da un doppio legame distruttivo e autodistruttivo, costituito da aggressioni, accuse reciproche infamanti, che sembrano cementare ancora di più una convivenza malata, un legame totalitario che pare spezzarsi di continuo per ricostituirsi immediatamente. L’ossessività è la stessa, il delirio viaggia sulla stessa semiretta.

Gli innesti, o forse l’innesto, qua e là avviene con uno scrittore unico nel suo genere, Samuel Beckett. Non sappiamo se Sartori l’ha letto, ma non è importante. Succede in vari campi, pittura, musica, un autore ne evoca un altro, senza neanche conoscerlo. Molloy è un vecchio vagabondo con movenze, riflessioni autistiche, da straniero che vaga chiedendosi dove diavolo si trova e perché, straniato ai massimi livelli. Il narratore delle Separazioni è giovane, viaggia su vari strati di giovinezza, dalla “prima morosa” alla moglie dalla quale deve separarsi; ma un suo libro precedente si intitola appunto Autismi, e ricorda fortemente un Molloy modernizzato, col quale condivide una certa anaffettività stupita, autistica appunto, ma anche un’autocoscienza minimalista e spietata, di sé, dell’altro/a, e del mondo.

Questa fusione, questa materia primordiale, cavernosa ed elegante nella sua abissale oscurità, scorre con precisione chirurgica, spaziando dalle fidanzatine, alla famiglia “anarco-fascista” del narratore, dalla cittadina bigotta-cattolica (Trento?) in cui ha vissuto, prima di emigrare altrove, sempre disaggregato, molloyzzato, all’agonia della madre, in un capitolo “struggente e disabitato”, come la voce di lei morente; dal ritratto crudo della moglie, alticcia e crudele, al Mon cœur mis à nu del narratore.

Il risultato è un’opera originale e affabulatoria, ma con dinamiche complesse, che obbligano il lettore a riflettere, mentre assiste, come uno psicanalista che è anche paziente, a una guerra terminale di coppia dove Una lascia Altro, o perlomeno lo crede, perché Altro lavora sotterraneamente per farglielo credere, per cui potrebbe essere la lasciatrice in realtà a essere lasciata.

Fisica delle separazioni è un romanzo che ci riguarda, perché è politico: forse qualcuno può obiettare che le vicende di coppia non lo sono? Che sono affari privati? Sbagliato. Quando, sempre nel tempo remoto, la rivoluzione era vissuta – o sperata – nella sua totalità, i legami interpersonali costituivano uno degli elementi portanti. Lotta Continua è on line, basta consultare qualche numero degli anni Settanta per verificare quanto fosse ritenuto importante il rapporto uomo-donna, con tutte le sue contraddizioni e fascismi sotterranei.

Di seguito pubblichiamo un estratto, aprendo il libro a caso, a pag. 99, il “quinto movimento”. Lei è la sua prima fidanzatina, “che aveva un odore lieve ma pieno, altalenante tra due apici sempre in agguato di gomma per matita e pavimento di falegnameria”.

Con lei imparavo tante cose. Io non sapevo che esistessero individui che si arrogano la signoria sull’esistenza di persone più giovani, e che questi grotteschi despoti venissero chiamati genitori. A casa mia ognuno aveva sempre fatto e faceva quello che voleva, non c’era una vera distinzione di ruoli e di generazioni. Le direttive di stampo anarco-fascista erano introiettate e scaturivano dall’intimo, non potevano certo essere imposte con le parole, o peggio ancora con le minacce e i castighi. Da noi ognuno cercava di sfangarla come meglio poteva, come succede su tutte le navi che affondano. Forse, prima di me, era stato diverso, ma adesso restavano solo ruderi con travi annerite dal fuoco, solo di rado puntate al cielo, e resti di quotidianità devastate, cumuli di macerie dove i passanti preferivano non attardarsi.
A casa sua invece tutto era ordinato e asettico, lo si capiva dalle cere specchianti del pavimento e dal bouquet sfaccettato di prodotti per le pulizie. Tutti gli oggetti erano nel contempo dimessi e vistosi, scarni e paludati, rivelavano una schizofrenica coerenza sociologica. A vegliare su questo museo della normalità c’era sua madre, che pur non essendo anziana aveva delle pantofole e un’andatura un po’ curva: era una CASALINGA. Io non sospettavo che esistesse una specie del genere, marcata dalle stigmate della detenzione a perpetuità. Questo individuo sconfitto a priori dalla vita metteva pur sempre il becco dappertutto. Il vero despota rientrava però il pomeriggio, e si trattava di un signorotto tutto nervi e muscoli, scavato e diritto, un inquieto Pasolini in versione impiegatizia, che si faceva chiamare babbo.
Tali genitori sessuofobi mi hanno accolto come un cucchiaino di sale nel loro caffè, un ciuffo di capelli nella minestrina serale: la guerra che mi facevano era totale e sporca, si avvaleva di appoggi e informatori, anche proprio nel concentrazionario ambiente liceale. Poco ci importava. Nel frattempo la vita extrascolastica ci strattonava per appartamenti provvisoriamente liberi e bar fumosi e gruppi clandestini per l’interruzione della gravidanza, e anzi spesso era proprio scontrandomi con queste primizie che mi si aprivano nuovi orizzonti che si rivelavano fondamentali. Sperimentavo le rifrattometrie dei rapporti intimi, i misteri dei sentimenti.

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Baco, di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2020/01/06/baco-di-giacomo-sartori/ Mon, 06 Jan 2020 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57011 di Mauro Baldrati

Exorma, Roma, 2019, pp. 331, € 16,50.

Baco narra le vicende mirabolanti di una famiglia di svitati – o di alieni? – composta da due figli, una madre, un padre e un nonno. Una famiglia tipo insomma. Solo che uno è più eccentrico dell’altro. Uno più fissato dell’altro. Vivono in un ex allevamento di polli, un ambiente misterioso, bellissimo: il silos del mangime è la dispensa, una roulotte senza ruote il bagno, “il bel lavandino scavato nella pietra”. Sul terrazzino ci sono le piantine di marijuana. E’ suddiviso in “cellule”, [...]]]> di Mauro Baldrati

Exorma, Roma, 2019, pp. 331, € 16,50.

Baco narra le vicende mirabolanti di una famiglia di svitati – o di alieni? – composta da due figli, una madre, un padre e un nonno. Una famiglia tipo insomma. Solo che uno è più eccentrico dell’altro. Uno più fissato dell’altro. Vivono in un ex allevamento di polli, un ambiente misterioso, bellissimo: il silos del mangime è la dispensa, una roulotte senza ruote il bagno, “il bel lavandino scavato nella pietra”. Sul terrazzino ci sono le piantine di marijuana. E’ suddiviso in “cellule”, tutte “intelligenti”, tutte controllate e gestite da supercomputer. D’altra parte tutto là dentro è “intelligente”: la stufa a trucioli, il citofono, un’arnia speciale, persino il sellino della bicicletta. Ma lo sfratto incombe, presto l’edifico sarà demolito e ricostruito “per erigere scatole in cemento armato incastrate l’una nell’altra, con le siepi divisorie che sembrano appena uscite dal barbiere e con noiosi pratini all’inglese. Sul davanti si inventeranno un parcheggio asfaltato simile a una pista di atterraggio, sempre pieno di macchine e con tristi marciapiedi”.

Il narratore è un ragazzino sordo, ipercinetico, coi “globuli rossi” sempre in agitazione che lo portano, nei momenti di crisi, a mordere come un gatto selvatico chi lo sta stressando (la prof di inglese, un compagno di banco). Il fratello, QI185 (per i lettori un po’ ritardati come il sottoscritto sta per Quoziente intellettivo 185), è un semidio informatico che crea “reti neurali autocoscienti” in grado di entrare in qualunque sistema per carpirne i dati. Il padre è un altro guerriero digitalizzato, giovanissimo, tanto che lo scambiano per un fratello, che lavora ai software della Nutella, ma gestisce anche un algoritmo che “trova i terroristi”. Il nonno è invece un ex anarchico militante che odia ogni forma di “sfruttamento capitalistico”. Tutti i giorni si fuma “il suo spinello del pomeriggio”. Studia e classifica i lombrichi, trasformandone gli escrementi in “formule matematiche”. La madre è un’ecologista che alleva api e ama la campagna e i boschi. È in coma all’ospedale, per un incidente già annunciato nella prima riga dell’incipit.

In questo microcosmo folle e geniale ritroviamo le principali tematiche di Giacomo Sartori, autore kult in Italia molto tradotto all’estero: il fascino creativo dell’autismo, del diverso, e il rapporto struggente, di adorazione, con la madre, alla quale ha anche dedicato un poema, depositaria di tutte le delizie e le consolazioni che offre la vita. Sartori ci fa entrare in questo flusso narrativo sgargiante e straordinariamente intenso così in profondità che quando appaiono i “normali” ci sembrano loro gli alieni.

Di seguito pubblichiamo l’incipit di questo romanzo che, a mio modesto avviso, insieme a Piano Americano di Antonio Paolacci è il testo più originale che ho letto negli ultimi anni.

Come la palla di un biliardo colpisce il boccino

Il camion russo non poteva frenare, perché era una domenica cominciata storta fin dall’inizio. Le cose andavano male nel cielo trasformato in mare rabbioso, nella fiumana che intrecciava vortici di fanghiglia sull’asfalto, nelle arnie sotto la tettoia pericolante, e perfino nella nostra stufa a trucioli, che si ostinava a restare spenta. Immaginiamoci nella testa della mamma piena di preoccupazioni e di frasi da dire.
Con quel diluvio non si vedeva niente, il camionista ucraino non ci ha nemmeno provato a frenare. Era come essere davanti all’oblò di una lavatrice, ha detto nella sua lingua che nessuno capiva.

Nel nostro ex allevamento di polli si aveva l’impressione di essere sotto una cascata, e che l’acqua ghiacciata volesse sfondare il tetto di lamiera. Non ci sono grondaie, ma anche se ci fossero come nelle vere case l’acqua avrebbe formato gli stessi muri davanti alle finestre a baionetta. Io i rumori acuti non li sento, però quelle lame liquide picchiavano come forsennate: il loro rombo mi risaliva lungo le gambe e la spina dorsale, mi comprimeva il cervello. Invece di parlare tutti gridavano.
In casa, noi la chiamiamo casa, si vedeva il fiato, da quanto freddo faceva. Con una stufa normale sarebbe bastato un fiammifero e un pezzo di carta, ma la nostra è una stufa intelligente: può accendersi solo se i sensori miniaturizzati danno il beneplacito, e se i programmi di regolazione a autoapprendimento sono d’accordo. QI185 provava e riprovava a calcare i tasti della centralina, come un astronauta ormai isolato dal resto dell’umanità tenta tanto per tentare: i trucioli di legna restavano tristi e immobili.

Mia mamma aveva furia di partire per la sua assemblea del primo sabato del mese. L’estate scorsa ci sono morte diciassette famiglie, e in autunno altre cinque, perché sulle api sopravvissute ai neonicotinoidi è arrivata la mazzata della varroa. Ma pure negli altri allevamenti gli apicoltori raccolgono con la pala le api stecchite. Quindi quella loro riunione era decisiva, si trattava di combattere la morte. E la segretaria dell’associazione regionale è lei, mica uno dei grandi allevatori che si intascano gli aiuti nazionali e fanno i pasticci con il miele che viene dalla Cina. Tutto il peso delle api morte, o anche solo che piangevano, incombeva sulle sue spalle.

Con la testa era già partita: si ripeteva le frasi che avrebbe detto. Le loro assemblee sono terribili burrasche, c’è sempre chi non è d’accordo con questo o con quello, chi vorrebbe il contrario di tutti gli altri. E tocca sempre a lei prendersi i colpi più secchi e convincere i più testoni. Ma non poteva certo montare in macchina prima che arrivasse il papà. E quindi era un toro pronto a caricare qualsiasi fazzoletto in movimento.

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Il postino di Mozzi, l’ultima frontiera della psichedelia https://www.carmillaonline.com/2019/05/09/il-postino-di-mozzi-lultima-frontiera-della-psichedelia/ Thu, 09 May 2019 21:29:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52446 Il postino di Mozzi, Arkadia editore, Cagliari 2019, pagg. 136 € 14

Esce per Arkadia questa originale antologia, curata da Marino Magliani e Luigi preziosi, dove un gruppo di scrittori di formazione e stili diversissimi trova riparo sotto l’accogliente ombrello del nominativo Fernando Gugliemo Castanar. La fiction di base sta nell’operato di un aspirante autore (lo stesso Castanar) che per anni ha spedito, inutilmente, testi e lettere a un famoso editor e scrittore di nome Giulio Mozzi, il quale ovviamente non ha mai risposto.

Così, diventato postino, proprio nella [...]]]> Il postino di Mozzi, Arkadia editore, Cagliari 2019, pagg. 136 € 14

Esce per Arkadia questa originale antologia, curata da Marino Magliani e Luigi preziosi, dove un gruppo di scrittori di formazione e stili diversissimi trova riparo sotto l’accogliente ombrello del nominativo Fernando Gugliemo Castanar. La fiction di base sta nell’operato di un aspirante autore (lo stesso Castanar) che per anni ha spedito, inutilmente, testi e lettere a un famoso editor e scrittore di nome Giulio Mozzi, il quale ovviamente non ha mai risposto.

Così, diventato postino, proprio nella città di Mozzi, ha iniziato a sottrarre posta al suddetto, assemblando questa raccolta fatta di pagine narrative, poetiche, invettive, riflessioni. Il risultato è un furioso, anarcoide ipertesto che si può leggere in tutte le direzioni: dalla fine, dal centro, dall’inizio. E’ un cut up pirotecnico di stili, che vanno dal classico all’epistolare allo sperimentale; è come imbarcarsi nel carrello di un lunapark, dove veniamo schiaffeggiati, cosparsi di ragnatele, accecati da lampi, assordati da grida cavernose. Di sicuro non ci si annoia.

Di seguito pubblichiamo un testo, proprio dello stesso Giulio Mozzi, che potrebbe avere, come sottotitolo, Vita complicata di uno scrittore che non scrive storie (MB).

* * *

Da due anni e mezzo Giulio non inventa una storia. Lui è uno scrittore di racconti, uno che di solito brulica di storie. In nove anni ha scritto sessantaquattro racconti, di varia lunghezza, dalle settanta pagine a tre, mediamente di quindici-venti pagine. Fanno sette racconti virgola uno periodico all’anno, calcola. Zero virgola cinquantanove pressoché periodico racconti al mese. Insomma, scrivendo in certe stagioni di più, in certe stagioni di meno – per esempio, quando lavorava in libreria, scriveva molto durante le ferie – Giulio ha potuto sempre pensare a se stesso come a uno che le sue storie se le pensa, se le rigira in mente, se le scrive: con tranquillità. Agli amici però diceva: «Non mi toccherà mica tutta la vita fare lo scrittore»; suscitando strilli e rimproveri.

Da due anni e mezzo invece Giulio non inventa una storia. Qualche racconto l’ha cominciato: e l’ha interrotto, magari dopo molte pagine, non perché venisse poi male, no, ma perché si rendeva conto di avere già scritta quella storia, magari più di una volta, con travestimenti diversi. E le storie, a un certo punto, vanno ammazzate. Tutto sommato, pensa Giulio, è vero che ciascuno di noi ha solo una, forse due storie da raccontare. Ma comunque, a un certo punto, le storie bisogna ammazzarle. Per l’ennesima volta Giulio inizia a scrivere la storia d’un abbandono, d’un amore odioso, di una repulsione affascinata: scrive cinque pagine, dieci, quindici, fingendo d’essere una donna di trent’anni che scrive al proprio padre, immaginando un padre amante della figlia fin dai primissimi tempi dell’adolescenza di questa, immaginando una figlia prima sedotta e poi spaventata, fuggita, indurita; scrive, Giulio, più di trenta pagine, immaginandosi di essere questa donna, scrivendo attraverso questa donna che immagina di essere parole che lui da solo non sarebbe mai capace nemmeno di pensare; scrive, e un bel giorno butta via tutto. Via. Cestino, Svuota cestino. Perché la storia è sempre la stessa storia, e lui l’ha raccontata così tante volte da saperla raccontare, ormai, se n’è accorto, come col pilota automatico. Datemi la storia d’un amore disperato, possibilmente contro natura di quel tanto, e io darò voce ai suoi attori. Li farò parlare in modo tale da farli compatire e amare. Questo io so fare. Questa è la mia specialità.

In questi due anni e mezzo senza storie – una storia buttata via è una storia inesistente – Giulio ha scritto molto. Ultimamente si è specializzato in testi descrittivi di luoghi. Lo chiamano studi di architettura, aziende di promozione turistica, agenzie di pubbliche relazioni: gli chiedono di andare nel posto tale, di vistare l’edificio tale, di farsi un giro nei supermercati della catena tale, e di tornare a casa con una storia. Giulio dice di sì, sempre; fa quello che deve fare; descrive località turistiche, terreni edificabili, edifici incongrui, punti vendita, cimiteri; a volte è accompagnato da un fotografo, a volte no, a volte è lui che accompagna un fotografo; alla fine il cliente è soddisfatto, quasi sempre. Non sempre: perché qualche assessore al turismo se la prende per un testo che non ha niente di turistico, o qualche agenzia di pubbliche relazioni si scandalizza per un testo che manca di rispetto al cliente. In questi casi di solito non pagano.

Giulio si mantiene facendo un po’ di questi lavori, ma soprattutto con i laboratori di scrittura e narrazione. Ogni settimana, più o meno, affronta un gruppo nuovo. Pensionati che si ricordano ancora il tempo in cui tutto questo che c’è oggi non c’era, prima che tutto quello che oggi non c’è più scomparisse, e vogliono fissare, ricordare, conservare. Giovani mamme che inventano favole e filastrocche per i loro bambini presenti e futuri. Carabinieri convinti che la loro vita sia un romanzo. Ragazzotti che vogliono «diventare uno scrittore» (questi Giulio, se può, cerca di mandarli via). Lettrici accanite curiose di capire come funzionano e «come si fanno» quelle narrazioni che le affascinano così tanto. Ingegneri navali, chimici del bitume, operatori di call center, bibliotecarie, ragioniere iscritte all’ordine dei ragionieri: c’è di tutto, in questi laboratori. Giulio veramente è un po’ stanco di affrontare ogni settimana un gruppo nuovo, di riprendere a rotazione gli stessi argomenti, di ricominciare ogni volta da un inizio; tuttavia non sa sottrarsi, pensa a quanto importante sia stata, per lui, l’educazione al parlare al leggere allo scrivere ricevuta prima in casa, poi a scuola, poi nel lavoro; gli risuona sempre in mente la battuta di don Milani che dice, più o meno: «Tu sai cento parole, il tuo padrone mille; per questo lui è il tuo padrone». Non è altro che questo, il mio lavoro, pensa Giulio, e in effetti è un lavoro che gli piace molto, anche se adesso, dopo quasi sei anni che è il suo primo lavoro, veramente è un po’ stanco.

Gli è successo, in questi sei anni, di incontrare persone che, come lui, avevano il dono. Ormai Giulio usa spudoratamente questa parola: il dono; perché solo questa parola gli permette di parlare della cosa che lui ha, o ha avuta, come di una cosa che ad averla non si ha nessun merito, avendola ricevuta in dono. Giulio sa che il suo dono, quello che ha ricevuto lui, è un dono mediocre; sa che il suo lavoro è farlo fruttare; sospetta di averne cavato ormai tutto il frutto che poteva cavarne; ed è felice, di tutto il frutto che ha cavato dal suo dono. Quando incontra persone che, gli sembra, hanno come lui il dono, Giulio si emoziona. Il suo primo pensiero è che di quel dono, di quel dono altrui, lui deve prendersi cura. Si può dire che a volte Giulio si innamori del dono altrui; che lo curi e si adoperi per farlo fruttare più di quanto, negli anni passati, si sia curato del suo proprio dono. In fondo, nel proprio dono Giulio ha avuto molta fiducia: ciò che vorrà darmi come frutto, ha pensato spesso, verrà quasi da sé; io devo essere soprattutto pronto ad accogliere, ad accettare, a ospitare. Invece verso il dono altrui a Giulio verrebbe da essere invadente, sollecitante, troppo premuroso. Così che a volte sbaglia, esagera, ha troppa fretta, non fa le cose come dovrebbero essere fatte. «Sei una mamma un po’ isterica», gli è stato detto una volta; e sarà stato ben detto. Le persone con il dono di cui Giulio decide di prendersi cura, diventano i suoi amici e le sue amiche. Ogni tanto lui pensa che sarebbe bello, vivere per loro. Ogni tanto pensa che forse queste che lui pensa come amicizie non sono veramente amicizie, perché lui è ossessionato dal prendersi cura; e questo non va bene.

Il terrore di Giulio è: ingannarsi, vedere il dono in chi non ce l’ha. Ha provato questo terrore per qualche anno, perché nessuno dei suoi amici, nel cui dono Giulio credeva fermamente, trovava attenzione presso gli editori. Non essendo capace di dubitare del dono dei suoi amici, Giulio ha dubitato di se stesso. Che cosa posso fare, che cosa posso fare, che cosa posso fare? Certi giorni non pensava ad altro.

Da qualche tempo un editore ha chiesto a Giulio di scegliere dei libri da pubblicare. Giulio ne è stato felice: ha potuto chiamare i suoi amici con il dono, e dire loro: ecco. Qualcuno nel frattempo ha trovata una via per suo conto; qualcuno ha rinunciato; qualcuno si è arrabbiato con Giulio; qualcuno è stato felice di accogliere la possibilità; qualcuno ha detto di sentirsi non ancora pronto. Fatto sta che da due anni e mezzo il tempo di Giulio è sempre più occupato dai libri degli amici, e da due anni e mezzo Giulio non inventa più storie nuove. Giulio non è preoccupato per le storie che non gli vengono più. In fondo a lui importa che i libri esistano, ci siano; non è importante che sia lui o siano altri a scriverli. Se in nove anni ha scritto sessantaquattro storie, può bastare. Gli piace molto discutere fino a mattina con Umberto, scambiare lettere con Laura, telefonare a Maria Luisa, prendere il treno per andare da Giuseppe, leggere le e-mail chilometriche di Livio. In fondo, pensa Giulio, io non faccio niente. Queste persone scrivono i loro libri, e non li scrivono certo perché io li aiuto o li sostengo o gli dico come fare o gli risolvo dei problemi. Farebbero lo stesso, anche senza di me; in altri modi forse, con altri tempi forse; ma farebbero lo stesso. Tutto ciò che io devo fare, è stare lì. Esserci. Io sono quello che ci crede, che pensa che tutto questo abbia senso. Sono quello che può testimoniare: che giocarsi un pezzo della vita su una storia o venti storie o sessantaquattro storie da raccontare, è una cosa che ha senso. Io l’ho fatto, la mia esistenza in vita dimostra che ha senso.

Perché in effetti, ciò che temono gli amici di Giulio, così lui pensa, è di morire. Temono che la loro storia uscirà da loro, andrà per il mondo, e loro moriranno. Anche Giulio, a suo tempo, ha temuto questo. Ma adesso lui è lì, le sue storie sono completamente uscite da lui, non ne ha più nessuna, sono tutte in giro per il mondo, e lui è vivo. Vivo. Vivo. Vivo.

[Gli autori:
Giovanni Agnoloni, Franco Arminio, Mauro Baldrati, Mario Bianco, Valter Binaghi, Adrián N. Bravi, Marco Candida, Riccardo de Gennaro, Arianna Destito, Valentina di Cesare, Marco Drago, Riccardo Ferrazzi, Nunzio Festa, Francesco Forlani, Sergio Garufi, Alessandro Gianetti, Carlo Grande, Franz Krauspenhaar, Marino Magliani, Emilia Marasco, Claudio Morandini, Paolo Morelli, Giulio Mozzi, Giacomo Sartori, Beppe Sebaste, Giorgio Vasta, Alessandro Zaccuri, Stefano Zangrando]

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Mater Amena, di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2019/04/04/mater-amena-di-giacomo-sartori/ Thu, 04 Apr 2019 21:30:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51829 Mater Amena, Arcipelago Itaca, Osimo 2019,  pp. 160, €15

[E’ in uscita una raccolta di versi poetici di Sartori, dedicati alla madre. O forse alle madri, tutte, in tutte le forme e le rabbie e le speranze. La Madre ci ha creato in carne e ossa, ma la Madre collettiva antropomorfizzata è anche la mitopoiesi di tutto lo scibile umano: la rivoluzione, l’amore, la religione, la scuola, la gioia, la disperazione e la guerra. Di seguito pubblichiamo la postfazione di Helena Janeczek. MB]

di Helena Janeczek

Rileggo “Mater amena” [...]]]> Mater Amena, Arcipelago Itaca, Osimo 2019,  pp. 160, €15

[E’ in uscita una raccolta di versi poetici di Sartori, dedicati alla madre. O forse alle madri, tutte, in tutte le forme e le rabbie e le speranze. La Madre ci ha creato in carne e ossa, ma la Madre collettiva antropomorfizzata è anche la mitopoiesi di tutto lo scibile umano: la rivoluzione, l’amore, la religione, la scuola, la gioia, la disperazione e la guerra.
Di seguito pubblichiamo la postfazione di Helena Janeczek. MB]

di Helena Janeczek

Rileggo “Mater amena” nel periodo delle feste natalizie, circostanza che accentua la percezione di trovarmi davanti a un testo straordinario. Già nelle prime strofe mi viene incontro un richiamo al Natale, appiglio utile per anticipare quanto il poemetto si accinge a intavolare una conversazione fuori dai canoni.

Come facciamo con le sedie

ci tenevi tanto
a regalarmele
poi mancava il tempo
per andare a sceglierle
veniva un’altra festa
avevo altre urgenze
l’anno seguente ero via
il Natale dopo ancora
mi faceva fatica
un po’ era anche
per non farti spendere
diciamola tutta
(le chiappe gradivano
anche le vecchie)
ridevamo di queste sedie
che non arrivavano
né a Natale né mai
adesso come facciamo
è il mio compleanno
il tempo l’avrei
(scegliere è niente)
tu però sei morta

Il figlio ha deluso l’attesa del ritorno a Natale, ma non si è mai sottratto al rapporto con la madre. Finché la madre era in vita, il figlio ci rideva e scherzava, non rifiutava i suoi regali, pur preoccupandosi che non spendesse troppo: preoccupazione che rispecchia un’attenzione affettuosa e al tempo stesso la riluttanza ad accogliere un dono costoso come pegno di un indissolubile legame.

La vita è piena di uomini che evitano di confrontarsi con l’ingombro delle madri e, dato che la società da loro esige appena qualche obolo di presenza e qualche telefonata di ascolto in silenzio, non stupisce che quel modello relazionale improntato al mi-nor attrito vada per
la maggiore sino a oggi.

Strano è invece che neanche i poeti, gli scrittori e gli artisti, insomma coloro a cui i problemi della vita forniscono materia creativa, abbiano infranto, se non in via eccezionale, la convenzione che sia meglio evitare di parlare delle madri e, a maggior ragione, con le madri.

Intendo soprattutto gli autori maschi, mentre le autrici si sono arrischiate a interrogare il materno e le sue zone d’ombra sin da quando la loro presenza è diventata abituale, con l’effetto che occuparsi delle madri abbia preso a configurarsi come un compito femminile anche in letteratura.

La lotta del figlio contro il padre resta invece un tema di prestigio universale, una matrice che lega i miti e i testi sacri delle culture patriarcali alle teorie fondative del pensiero novecentesco formulate dai padri della psicoanalisi.

Sembra un portato della vulgata psicoanalitica se alle figlie è concesso sviscerare il conflitto con la madre e alle madri attuali è chiesto un continuo esame autocritico, mentre i figli dovrebbero semmai misurarsi con la scomparsa del padre, per esempio narrando di certi sforzi eroico-comici di fare i papà, altrimenti definiti “nuovi padri”. Insomma, anche se il Padre sembra essersi mutato in un deus absconditus, la prospettiva maschile non si appresta neanche oggi ad aprire il proprio campo visivo alla madre, tantomeno a uno sguardo che nella madre cerchi tracce di se stesso.

È proprio questa l’impresa con cui si cimenta il nostro impavido poeta. D’altronde, alla resa dei conti con la figura paterna ci ha già pensato agli albori del suo percorso letterario.
Giacomo Sartori si è formato nel secolo scorso, quando c’erano ancora i padri all’antica e, per ben due volte, il compito di ucciderli simbolicamente era venuto a convergere con la volontà euforica dei figli a uccidere e farsi uccidere nel nome della patria.

In Anatomia della battaglia (Sironi 2005), romanzo scarno e implacabile, Sartori si è confrontato con quell’eredità nefasta. Il figlio, militante della sinistra extraparlamentare tentato dalla lotta armata, ingaggia la sua battaglia contro il padre fascista non pentito, autoritario e anaffettivo. Ma nel corso dell’esplorazione di quel conflitto finisce per dare conto della propria sconfitta: la violenta contestazione dei contenuti ideologici lascia intatte le matri-ci culturali e il condizionamento psicologico che quel padre gli ha trasmesso.

Anatomia della battaglia è forse uscito anzitempo rispetto alla fortuna delle autofiction con cui molti scrittori di prim’ordine hanno interrogato il lascito dei padri e i modelli di una mascolinità entrata in crisi. Di certo, rimane un testo scomodo per l’assoluta mancanza di autoindulgenza e la nettezza con cui fa emergere come l’uccisione simbolica del padre non disarticoli le strutture patriarcali ma, anzi, le propaghi.

Nelle successive prove letterarie, Sartori ha declinato in tanti stili e generi la critica dell’identità maschile unita a una capacità rara di immedesimarsi nelle più disturbanti esperienze femminili. In Rogo (CartaCanta 2015), intreccia le storie di tre donne, streghe e infanticide, in Sono Dio (NNEditore 2016) presenta un controcanto quasi parodistico dalle precedenti opere: il divino protagonista si invaghisce di una ragazza post-punk new age che non mostra nessuna soggezione verso lo status onnipotente del suo corteggiatore.

Che il Signore Iddio-padre avesse spodestato una Dea-madre, Signora della vita e della morte, è un rimosso culturale e della “psiche collettiva”, anche se Freud ha inquadrato la madre castrante, Lacan la madre-coccodrillo, e non sta a me interrogare l’immaginario che ha suggerito loro proprio quelle definizioni.

In ogni caso, i padri da scalzare meritano la più nobile tradizione letteraria, le madri soverchianti si collocano in una zona tabù che giusto l’umorismo, il Witz freudiano, può arrischiarsi a infrangere. Con l’avallo del dottor Freud e il diffondersi dei pazienti dei suoi discepoli, le storielle sulla yiddishe mame hanno potuto elevarsi in trasposizioni autoriali, come l’episodio Edipo relitto del film collettivo New York Stories (1998), dove il Volto di Mamma nel cielo di Manhattan coinvolge i passanti nello sforzo di rovinare le imminenti nozze di Woody Allen.

Ma nell’ambito della cultura di origine cattolica la Beata Vergine continua a vegliare che nessuno – nessun figlio innanzitutto – s’azzardi a profanare il modello bello e impossibile della madre santificata. Se penso al fatto che Sartori è di Trento, città chiusa dalle Alpi come a salvaguardia dello spirito del Concilio che cominciò a sottrarre l’Immacolata a o- gni somiglianza con le madri terrene, il suo azzardo mi sembra ancora più notevole. Questo, però, è anche merito di un lignaggio femminile che ha dato molto filo da torcere al genius loci tridentino.

[…]
Ruth 1915
Mica 1916
Lumo 1918
(tu ultima)
Piuma 1921
le quattro Lange
foriere di scandali
e suicidi d’amore
nel sopore fascioclericale
Ruth 1994
Mica 2005
Lumo 2013
Piuma 2016:
per la partenza
lo stesso ordine
nell’impudica insubordinazione
(poi sedimentata
in eccentrica rispettabilità)
[…]

La madre di Sartori, Piuma, è l’unica a essere venuta al mondo dopo la disfatta austro-ungarica, in quella Trento riconquistata che divenne presto vessillo dell’Italia fascista. Protetta dai natali in un’antica casa signorile e dalle altolocate frequentazioni dei parenti, l’appartenenza di classe le consente delle eccentricità antiborghesi ma anche riparo dal discredito che la discendenza nient’affatto italica a vrebbe potuto causarle. È interessante che Sartori, tra i molti non detti affrontati nel poema, nomini una sola volta il cognome tedesco e mai il nome di battesimo, Rosemarie, che ho trovato in un necrologio.

Probabilmente era italiano nonché “di ottima famiglia” il ramo materno di Piuma, mentre il padre che vigilava sulla sua formazione non era il signor Sartori, bensì il fascismo.
A questo punto il dialogo e confronto con la mater amena di cui il figlio ha da poco sepolto le ceneri, raggiunge un’apice di coraggio persino superiore al corpo a corpo con il padre di Anatomia della battaglia.

[…]
il tuo fascismo
era dispatia
il sentirti superiore
a volgo e cafoni
alla gentucola
sprezzo di debolezza
inclusa la tua
(figuriamoci la mia)
il tuo fascismo
erano le escursioni
in alta montagna
a ottant’anni
l’ultima sciata
a novanta
le marce d’allenamento
i passini sovraumani
aggrappata al deambulatore
scheletrica e tremante
(indomita maschera
di dolore)
il tuo narcisismo
sintetizza la terapeuta

L’intuizione formidabile e lancinante di Sartori sta nel far rimare “narcisismo” e “fascismo”. Una lettu-ra accreditata sostiene che il primo sia diventato patologia sociale dal momento in cui il capitalismo liberista assorbì l’energia libertaria dalle rivolte giovanili degli anni ’60-’70. L’anti-autoritarismo sessantottino, pur non chiamato in causa come colpevole diretto, avrebbe preparato il terreno alla proliferazione di individui alla rincorsa del godimento consumistico e ormai incapaci di stabilire autentiche relazioni affettive. I versi di Sartori, invece, riportano a una radice inaudita la diagnosi della sua terapeuta. Non la contestazione studentesca, ma la premessa nell’epoca che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio a una mancanza originaria. A lui non resta che portare il peso di Piuma, seguitando a colmare di parole …un vuoto/ leggero e gaio/ ma anche inquieto/ (un tantino angosciante)/ com’eri tu.

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Autismi, di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2018/06/06/autismi-di-giacomo-sartori/ Tue, 05 Jun 2018 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45816 Miraggi Edizioni, Torino 2018, pagg. 224 € 16

[Pubblichiamo un estratto della raccolta di racconti di Giacomo Sartori, scrittore trentino che vive a Parigi e redattore di Nazione Indiana, sito sul quale sono stati pubblicati. E’ un Narratore straniero e consapevolmente naif, marginale, spesso in conflitto col mondo, disorientato dalle regole del gioco, famiglia lavoro e società. Il testo che segue è stato pubblicato anche sulla Massachusetts Review. MB]

Il mio attuale editore

Il mio attuale editore quando gli telefono per qualche istante sta zitto. Poi parlando molto forte dice che [...]]]> Miraggi Edizioni, Torino 2018, pagg. 224 € 16

[Pubblichiamo un estratto della raccolta di racconti di Giacomo Sartori, scrittore trentino che vive a Parigi e redattore di Nazione Indiana, sito sul quale sono stati pubblicati. E’ un Narratore straniero e consapevolmente naif, marginale, spesso in conflitto col mondo, disorientato dalle regole del gioco, famiglia lavoro e società. Il testo che segue è stato pubblicato anche sulla Massachusetts Review. MB]

Il mio attuale editore

Il mio attuale editore quando gli telefono per qualche istante sta zitto. Poi parlando molto forte dice che non sente. PRONTO!, PRONTO! NON SENTO!, grida, come appunto uno che sente malissimo. Poi mette giù. Quando richiamo il telefono è occupato, o c’è la segreteria.

Le prime volte ci cascavo. O meglio, preferivo cascarci, come quando si preferisce pensare che nell’aereo che s’è spiaccicato al suolo c’è qualche sopravvissuto. I pezzi sparsi per la landa periurbana sono minuscoli e bruciacchiati, le riprese televisive su questo sono implacabilmente esplicite, ma in fondo qualche sopravvissuto ci potrebbe anche essere, ci si dice. Una donna con una gran gonna a fiori che ha frenato la caduta, o anche un magrolino che è atterrato sulla corolla di una palma. Un tipetto che poi è adottato da una lupa e poi ancora scrive un bestseller dove racconta la sua incredibile avventura, che gli permette di vivere come un nababbo per il resto dei suoi giorni. Per poi ahimè morire di diabete appunto perché mangiava troppo.

Io però a scanso di equivoci se fossi un pilota un paracadute me lo porterei dietro. Uno poco ingombrante, che dà poco nell’occhio. Certo sta male paracadutarsi quando tutti gli altri sono destinati nel giro di qualche decina di secondi a diventare brandelli bruciacchiati, però è preferibile un morto di meno che uno di più, su questo dovrebbero essere d’accordo tutti i filosofi del mondo. Non è che a una festa ci si può gettare sui salatini dando una testata a chi ti sbarra il cammino, ma in condizioni di vita o di morte si può capire. Uno a una festa non rischia di diventare nel giro di qualche secondo dei brandelli bruciacchiati. Insomma, raramente. Mentre su un aereo che precipita la cosa è pressoché sicura. Ogni giorno si fanno abnegati sforzi per salvare un’unica misera vita umana incrodata su una montagna o sepolta dalle macerie, e ai piloti dei voli di linea nessuno ci pensa. Li si lascia crepare senza il minimo rimpianto. Nessuna telecamera, nessun commento struggente. Certo a far le cose bene prima di lanciarsi con il paracadute dovrebbero chiarirsi con un dialogo aperto e franco, come vanno affrontate le difficoltà anche nelle coppie. Ma su un aereo che precipita ci sono rumori che sconcentrano, vibrazioni e scossoni poco propizi al dialogo. Senza contare che salterebbe fuori uno che non è d’accordo e che vuole avere ragione lui, come succede immancabilmente nelle coppie.

NON SENTO!, NON SENTO!, dice il mio attuale editore quando gli telefono. La linea in realtà è molto nitida, e si distinguono le più infime modulazioni della sua voce garbata da editore raffinato, si sente benissimo che fa finta, ma lui lo dice lo stesso. NON SENTO!, esclama un’ultima volta, e riattacca. Penoso.

Al limite potrei capire che dica che ha un appuntamento con Barack Obama, o anche che stia zitto come un pesce, non che farnetichi: NON SENTO!. Non stiamo parlando di bambini, stiamo parlando di persone adulte, di rispettati editori. Non certo grandi editori, e neanche medi, e nemmeno medio-piccoli, ma pur sempre stimati editori. Dei piccoli editori apprezzati per il loro lavoro di piccoli editori. Dei piccolissimi editori che alle volte pubblicano dei grandissimi autori. Quindi qualche volta riprovo. Lui però ha il brutto vizio di filtrare le chiamate. Ho un bel chiamare e richiamare, non risponde mai. È lì che guarda il telefono, ma non lo prende in mano. Inutile provare da un altro telefono, lui ormai s’è fatto furbo.

Qualche volta però è preso alla sprovvista, e comincia con i suoi: NON SENTO!, NON SENTO!. Dopodiché riattacca. Sta a vedere che adesso è occupato, mi dico io. E in effetti se riprovo è occupato. È frustrante. Uno scrittore vorrebbe poter comunicare con il proprio editore. Non dico stare lì a raccontargli tutta la propria vita, entrando nei dettagli degli alti e bassi della vita di coppia, ma insomma scambiare due parole. Quel tanto da chiarirsi un po’ le idee, da capire che libri usciranno e quando.

Un giorno, o meglio una notte, perché era notte piena, ho provato a chiamarlo appunto in piena notte. Era un tentativo oziosamente scettico. Un tentativo da scrittore perplesso di come vanno le cose, forse anche un po’ depresso. Avrà certamente spento il cellulare, e starà dormendo come un angelo, mi dicevo. Provavo della tenerezza, a immaginare la sua testa abbandonata sul cuscino, a immaginarmi il suo sonno silenzioso da editore. Un sonno pacioso di uomo di lettere alla mano, ma nel contempo pieno di una dignità trattenuta, per non dire ieratico. È normale che uno scrittore provi della tenerezza per il proprio unico e fedele editore.

E invece ha risposto. Non subitissimo, ma ha risposto. La voce era alquanto irrocchita, era la tipica voce che fino a dieci secondi prima era persa nei sogni più mirabolanti, però era pur sempre la sua voce. La voce inimitabile del mio editore che ogni volta mi fa fremere di emozione come se fosse la prima volta. Forse un po’ più burbera del solito. Ma fa sempre piacere sentire la voce del proprio editore. Anche in piena notte. Sentivo il bisogno di dirglielo. Ero ormai risoluto a dirgli solo questo, lasciando perdere tutto il resto, tralasciando gli affari. Poco importa quando il mio libro sarà pubblicato, mi dicevo. Lui però appena ha capito chi era ha messo giù.

Ho provato a richiamare, ma il cellulare era spento. Una volta, due volte, tre volte: sempre spento. Gli ho lasciato allora un messaggio sulla segreteria di casa, spiegandogli che mi aveva fatto molto piacere sentire la sua voce. Non ho insistito sul fatto che mi aveva messo giù sul naso. E poi un altro messaggio, per dirgli che non si preoccupasse per il mio libro che aveva ancora da pubblicare, non era per questo che lo avevo chiamato. E poi un altro ancora, perché mano a mano che andavo avanti le cose da dire si affollavano nella mia testa. Faccende anche molto intime. E poi un ultimo messaggio molto accorato, per dirgli che per riassumere il tutto mi aveva commosso sentirlo, anche se la nostra conversazione era durata così poco. Tanto che forse ne avrei parlato nel mio prossimo romanzo, un romanzo come sempre a sfondo autobiografico. Nemmeno in questo messaggio struggente come una bottiglia lanciata nel mare, una bottiglia con dentro poche commosse linee che condensano la sofferenza di un’anima disperata, ho fatto allusione all’interruzione anticipata della comunicazione. Nel mondo dell’editoria si cerca sempre di evitare le asperità della vita di tutti i giorni, questo ormai lo ho imparato. Nel mondo dell’Editoria quello che conta è la Letteratura, non le pedisseque asperità della vita di tutti i giorni degli autori non molto conosciuti, per non dire radicalmente ignoti.

NON SENTO!, esclama quando lo chiamo. Con lo stesso scontroso candore con il quale mentono i bambini di cinque anni. Cinquant’anni da una parte e cinquant’anni dall’altra, e in mezzo delle bugie da bimbo di cinque anni. Un secolo di esperienza cumulata, vanificati da cinque anni di goffe bugie. Quarantacinque anni di buone letture da una parte, quarantacinque anni di buone letture dall’altra, e un vissuto telefonico così frustrante. Un secolo di ottima letteratura arenato su sabbie infide e menzognere. Nel 2009 succedono ancora queste cose. Gli aerei cascano sempre più di rado, i piloti pilotano tranquilli, senza nemmeno più rimpiangere il paracadute, e invece gli editori fingono di non sentire quando li si chiama. NON SENTO!, dice, e riattacca.

Vorrei dirgli che uno che davvero non sente non esclama: NON SENTO!, non mette subito giù. Vorrei dirgli che un editore che davvero non sente cambia il telefono, o si fa curare le orecchie. MARCO, CI SENTI BENISSIMO!, vorrei dirgli. Si chiama Marco. MARCO MONINA!, SMETTI QUESTE PAGLIACCIATE!, vorrei dirgli. Di cognome fa Monina. Un bel cognome, un cognome di un essere destinato fin dalla culla a fare l’editore, a pubblicare dei capolavori. Vorrei semplicemente dirgli di spiegarmi perché non mi vuole parlare, in modo da trovare una soluzione per la telefonata seguente. Un discorso franco e costruttivo, come nelle coppie. Insomma, le coppie che funzionano. Vorrei dirgli che in fondo non è per sapere quando diavolo si deciderà a pubblicare il mio libro che è da due anni che dovrebbe essere già pubblicato, non è per quello. Per comunicargli questo semplicissimo messaggio avrei però bisogno che mi lasciasse parlare. Non dovrebbe gridare: NON SENTO! Un gatto che si morde la coda. E gli aerei continuano a stare su.

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Un Dio umano, troppo umano https://www.carmillaonline.com/2016/05/27/un-dio-umano-umano/ Thu, 26 May 2016 22:01:17 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30698 di Giacomo Sartori

Sartori_Cover[Pubblichiamo un estratto del romanzo in uscita di Giacomo Sartori Sono Dio, Enne Enne Editore, Milano 2016, pagg. 213 € 17. Il testo è preceduto da una introduzione scritta dall’autore per Carmilla.]

LA DISFATTA DI DIO

I personaggi di tutti i miei testi lottano con il linguaggio per cercare di attribuire un senso a quello che vivono e a se stessi, come facciamo noi nelle nostre esistenze. È questa lotta ingrata e in fondo sempre perdente, ma a momenti anche molto bella, o comunque struggente, che m’è sempre [...]]]> di Giacomo Sartori

Sartori_Cover[Pubblichiamo un estratto del romanzo in uscita di Giacomo Sartori Sono Dio, Enne Enne Editore, Milano 2016, pagg. 213 € 17. Il testo è preceduto da una introduzione scritta dall’autore per Carmilla.]

LA DISFATTA DI DIO

I personaggi di tutti i miei testi lottano con il linguaggio per cercare di attribuire un senso a quello che vivono e a se stessi, come facciamo noi nelle nostre esistenze. È questa lotta ingrata e in fondo sempre perdente, ma a momenti anche molto bella, o comunque struggente, che m’è sempre interessata. Per braccare i significati noi abbiamo solo il pensiero, che si serve delle parole. Le parole ci appartengono ma anche ci respingono e tradiscono, non combaciano con i dettagli arzigogolati del nostro modo di essere. Spesso ci fanno male. E allora cerchiamo di piegarle, di modellarle, di combinarle in modo che ci aiutino, o almeno che non ci facciano male. Questo fanno le donne e gli uomini che abitano i miei libri, che sono spesso degli spostati e dei vinti, a modo loro più vicini alla verità, o almeno con schermi meno elaborati dietro ai quali rifugiarsi.
Questa volta il protagonista è Dio, ma la sua condizione risulta essere la stessa, anche lui si interroga, cerca di capire e di dirsi. Perché la nostra cultura non ci consente di immaginarci un Dio che non raziocina e non sa argomentare. Però non possiamo permetterci di ascoltarlo, perché se lo ascoltassimo ci accorgeremmo che le sue sono solo stoltezze. Lui naturalmente non è sciocco, è la lingua che imprigiona quello che può essere detto nel già detto, svilendolo, trasformando anche la manna in pedisseque menzogne. Se usasse pure lui i nostri strumenti verbali, Dio si avvilupperebbe sempre più in una rete che lo stritolerebbe e annienterebbe quanto di divino è in lui. Nessuno, nemmeno Dio, può piegare la lingua. Proprio per questo lo facciamo stare zitto, il nostro Dio, lo lasciamo esprimersi attraverso antichi testi canonici che trattano di lui, scritti da noi. Nei nostri cervelli e noi nostri cuori però parla, non riusciremmo a concepire che immenso e potente com’è taccia.
E sempre difficile per me dire perché ho preso di petto un dato tema in un romanzo. Lo capisco in genere dopo, proprio grazie alle sequele di quell’esperienza ermeneutica che rappresenta la scrittura, e nella sedimentazione del tempo. A un certo momento mi accorgo che ho le idee un po’ più chiare, e constato che per me quel tragitto è stato essenziale. Ora è troppo presto. Io vengo da una famiglia vivacemente laica e anticlericale, una piccola zattera con bandiera tricolore alla deriva in un braccio di mare particolarmente bigotto e clericale. E non a caso vivo da anni nel paese meno religioso e più anticlericale del mondo (la Francia ndr). Il mio laicismo è però sfociato nella consapevolezza di quanto la nostra cultura, anche appunto quella laica, sia intrisa di religione, così come i nostri modi di valutare e di relazionarci, e come le stesse alternative che l’uomo moderno si è costruito, che per me restano molto importanti, siano modellate sull’impalcatura e nella lingua delle religioni. Ma il mio laicismo s’è incrinato anche di fronte alla constatazione che esiste un mondo nascosto, e questa parte sommersa è una dimensione essenziale dell’esistere. Ho dovuto arrendermi all’evidenza che sotto la materia c’è anche dell’altro, e questo altro con il quale l’uomo ha sempre dialogato è forse quanto di più prezioso abbiamo, e conoscerlo può aiutarci a vivere meglio. Certo, esso è stato preso in ostaggio dalle religioni, però esiste al di fuori di esse, e è forse esiziale per le stesse strategie di equità e miglioramento sociale finalizzate a strappare l’uomo dalle paludi mortifere nelle quali s’è ficcato.
Il protagonista del mio romanzo non è Dio, e non potrebbe esserlo – Dio è tutto ciò che non possiamo conoscere e di cui non possiamo parlare, o semplicemente, come ha insinuato Jung, il nostro subconscio – è l’immagine che abbiamo di Dio, che ci viene dalle religioni monoteiste. La disfatta attuale di questa nostra rappresentazione è proporzionale alle sue velleità e pretese, ed è tanto catastrofica da poter risultare, come capita appunto nel mio testo, comica. Fa sorridere che un presuntuoso che si crede onnipotente capitomboli dal suo sommo trono, e fa ridere che un dominatore ostinato deva arrendersi a un avversario apparentemente tanto inconsistente come la lingua, la quale riflette le infinite declinazioni possibili dell’essere, ma si rivela sempre inadeguata a esprimere l’inimitabile particolarità di un qualsiasi individuo, sia esso uno schizofrenico che si prende per Dio o Dio in persona. Ma appunto una narrazione non è una macchina di coerenza, non dà risposte, e forse il Dio risibile che abita il mio romanzo ha anche lacerti di saggezza, in particolare quando guarda e giudica la follia degli uomini, il loro tramenare quotidiano, la loro insensata fede nelle tecnologie e nel progresso, i loro pietosi espedienti per rassicurarsi. Quindi lo rispetto, come ho sempre rispettato tutti i miei personaggi, che mi hanno insegnato molto e mi hanno reso quello che sono adesso.

LA MOTOCICLISTA SODOMITICA

Un dio fa infinite cose, questo lo sanno proprio tutti, ma nello stesso tempo per quanto possa sembrare paradossale non ha niente di particolare da fare. Non è uno sfaccendato, però nemmeno un ragioniere che timbra ogni giorno il cartellino, e tanto meno un fanatico dell’attività. Fa quello che deve fare senza affannarsi e senza stressarsi, senza farlo pesare. Per certi versi senza nemmeno accorgersene. Un dio come prima cosa sta lì a fare il dio. Guarda e ascolta, anche se il suo guardare e ascoltare non hanno nulla a che fare con quelli degli uomini. Sono Dio, pensa.
Contemplo, veglio. Osservo per esempio la galassia chiamata Via Lattea, e più precisamente quello che viene chiamato sistema solare, e più in dettaglio ancora il pianetino chiamato Terra. I miei occhi, faccio per dire, cadono su una ragazza molto alta (tutto è relativo) che si trova in una stalla supertecnologica: agli antipodi, non vorrei che sorgessero equivoci, del bucolico raccoglimento di un presepio. Vedo che infila la mano guantata nell’ano di una mucca, e con un rapido movimento rotatorio del polso ne estrae qualche manciata di feci di consistenza fangosa. Dopodiché pulisce la turgida vulva
dell’animale, la divarica e inserisce l’apice di uno strumento che ricorda per certi versi una siringa e per altri una pistola, spingendo per farlo penetrare, ogni tanto ruotandolo. Nello stesso tempo rinfila il pugno sinistro nel sedere, questa volta immergendo tutto il braccio fino oltre il gomito. Come sbilanciandosi per raccogliere un oggetto caduto dietro un mobile.
Non saprei dire perché tra le tante (per non dire infinite) possibilità che gli si presentano, negli ultimi tempi il mio sguardo converga sempre sulla Via Lattea. E perché all’interno della Via Lattea, che non è poi così minuscola, si focalizzi proprio sul sistema solare, e nel sistema solare precisamente sul pianetucolo a stento visibile chiamato Terra. E perché sulla Terra, che per quanto infinitesimale ha pur sempre ben altre attrattive, inquadri la ragazza con due codini viola che a ogni piè sospinto infila il braccio nel culo delle mucche.
L’universo rigurgita di sbalorditivi panorami e anfratti, di rarefatte lande interstellari, di repentine apoteosi di gas incandescenti, di pozzi di nerissimo vuoto. E invece prima ancora che me ne renda conto il mio sguardo (continuiamo a chiamarlo così) si concentra sulla Via Lattea, e mette a fuoco il braccio nel posteriore e la lunga faccia occhialuta che supervisiona l’operazione: l’espressione concentrata di chi sta adempiendo un compito importante, di chi sta pregando.
La perticona con la tuta da operaio agricolo continua a sprofondare il braccio nelle viscere della mucca, fino quasi a arrivare alla spalla. La bovina si lascia sodomizzare – non saprei che altro termine usare, scartando a priori il termine anglosassone fisting, in odore di pornografia – senza fiatare, perché se c’è un animale pacifico tra tutti quelli che ho creato (e questo anche prima della cosiddetta domesticazione, alias la schiavizzazione) è proprio lei. Molte altre bestie azzannerebbero la sodomizzatrice, o le inietterebbero un micidiale veleno, o almeno le darebbero un calcione con le zampe posteriori: quella invece se ne sta lì paziente, come un umano aspetterebbe l’autobus a una fermata.

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Rogo, di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2015/05/06/rogo-di-giacomo-sartori/ Tue, 05 May 2015 22:03:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22280 [Pubblichiamo un capitolo del romanzo Rogo di Giacomo Sartori, in uscita per l’editore Carta Canta, Forlì 2015, pag. 192 € 11,90. Il testo è preceduto da una introduzione scritta dall’autore per Carmilla. Sartori vive a Trento e a Parigi ed è redattore di Nazione Indiana.]

sartori_rogo_cover[Intro] Ho sempre scritto su cose che non sapevo. Forse proprio per impararle, per sondare nelle parole gli abissi che non sospettavo, e che invece erano lì che mi aspettavano, immobili e ialini come larve addormentate. Mi confrontavo con quei mostri che finivano per soggiogarmi, facendomi capire che erano parte essenziale del mio essere più profondo, [...]]]> [Pubblichiamo un capitolo del romanzo Rogo di Giacomo Sartori, in uscita per l’editore Carta Canta, Forlì 2015, pag. 192 € 11,90. Il testo è preceduto da una introduzione scritta dall’autore per Carmilla. Sartori vive a Trento e a Parigi ed è redattore di Nazione Indiana.]

sartori_rogo_cover[Intro] Ho sempre scritto su cose che non sapevo. Forse proprio per impararle, per sondare nelle parole gli abissi che non sospettavo, e che invece erano lì che mi aspettavano, immobili e ialini come larve addormentate. Mi confrontavo con quei mostri che finivano per soggiogarmi, facendomi capire che erano parte essenziale del mio essere più profondo, sfidandomi a battermi per capirci qualcosa. Ogni narrazione si rivelava un viaggio non più procrastinabile in me stesso, una rischiosa esplorazione. Non scrivevo di me, ma si trattava pur sempre delle mie fondamenta. E certo allora si può dire che racconto anche per mettere ordine in me stesso, per inventariare e archiviare i relitti degli scatoloni (virtuali) del mio fondo personale. Un casellario in fieri affastellato di rimandi e connessioni che beninteso è solo un lenitivo, perché più mi armo di conoscenze e sistemi più mi perdo. Ma che mi permette pur sempre di continuare a vivere.
Ho scritto per lo più storie di donne, credo perché non le ho mai davvero capite (a cominciare dall’essere femminile che è in me), forse sotto la maschera dell’ammirazione non le ho mai davvero accettate. Sono spesso partito da vicende reali, per poi allontanarmene, per essere trascinato in plaghe sconosciute che si rivelavano essere ben circoscritti nuclei incandescenti, bocche di vulcani, soglie di prove iniziatiche. In genere c’erano eventi cruenti, ma appunto erano solo lo sfogo di superficie di forze abissali, per certi versi epifenomeni, sui quali non dovevo soffermarmi più di tanto. Mi è capitato con la morte di mio padre, la quale mi ha trascinato mio malgrado a documentarmi sul fascismo. Al fascismo che è anche in me e negli italiani, e che è prima di tutto un rapporto malato con le emozioni, e conflitto con la femminilità. Mi è successo con alcuni casi di omicidio, con il loro corredo di follia, malessere e dolore. Il fattaccio pubblico ogni volta si sfilacciava, diventava richiamo segnaletico per ritrovare le vicissitudini di individui intenti a spiegare a se stessi quello che succedeva loro, a arginare l’assurdità della propria esistenza. Queste vicende di sudore e sangue si svolgevano in genere nei fondovalle delle montagne alpine, nel grigio della pioggia, con odori di muschi e di pietra fredda, ravvivando legami che pensavo estinti e che invece permangono.
Per quest’ultimo romanzo il nucleo di cristallizzazione è stato l’omicidio di un figlio assurto a drammone nazionale, e che ho cercato di riscrivere con i miei mezzi. S’è rivelata una falsa partenza. Tutto era stato detto e mostrato, e certo la mole di letture specialistiche che avevo fatto erano confluite in una grammatica troppo rigida, troppo deterministica. Credevo quindi che si trattasse di uno dei tanti testi morti prima di vedere la luce. Anni dopo il mio progetto è stato invece resuscitato da un altro figlicidio, avvenuto nella regione dalla quale si è originato – come un cancro ineluttabile – il mio dispatrio. Un evento di una sordidezza domestica, quotidiana, in un quadro agiato e legato alla cultura, e proprio per questo enigmatico, incomprensibile. Ma anche esemplare, per certi versi necessario. Questa volta era pronto, e avevo tutte le armi che mi servivano. Si trattava dei sobborghi della mia adolescenza, degli orizzonti sbarrati dalle pareti di roccia, delle notti intrise di umido vegetale e di odore di asfalto, di quelle tipologie di persone burbere e orgogliose che non sono riuscito a dimenticare: non potevo non metterci mano. Nel frattempo si erano peraltro innestate altre due storie, una germinata dai documenti sui processi alle streghe nelle valli più interne, in piena Controriforma, e una di invenzione, che cova e esplode alla fine degli anni settanta, con tutta l’efferata follia di quel periodo di sogni e ingenuità (su questo non avevo bisogno di documentarmi).
In ognuna delle tre vicende c’è quello sconvolgimento che vivono le donne nel diventare madri. Quella rivoluzione che ci presentiamo come felice e istintiva, e che invece nasconde in genere insidie e sofferenze, e qualche volta diventa discesa negli inferi e calvario. In qualche caso mortale, perché le ansie e le fissazioni della madre non lasciano spazio all’essere vivente che piange e vorrebbe farsi un posto nel mondo. E certo i legami tra le tre epoche non erano solo razionali, come dimostrava anche il tessuto esoterico che le univa nella narrazione. Anche questa volta scrivere è stato esaltante, e anche doloroso. Si trattava come sempre di evacuare dalle frasi tutti i loro significati correnti, di torcere la lingua costringendola a parlare in un altro modo, tra fruscii di umori corporei e echi di spazi senza ossigeno. Ma forse scrivere non è la parola giusta, perché pure questa volta è stata una farragine di letture, riflessioni, tuffi in me stesso, e appunto lunghe distillazioni nel corso di quell’atto di incredibile concentrazione che chiamiamo scrivere. Quell’attività solitaria che è appunto pensiero e sintonia con le sensazioni, ma anche soprattutto ascolto, traduzione di rivelazioni in linee di parole con una loro verità e una loro grazia. Parole uscite dal mio cervello ma che sono anche degli altri, o forse soprattutto degli altri, e quindi a loro devono tornare.

[Rogo]

ottobre 1627
La Gheta è ormai un cumulo informe di carne. Ha la testa affossata nel collo, come risucchiata dal torace, e i piedi ruotati all’interno. Nel bugigattolo trasformato in cella si guarda attorno come una bestia ferita, una bestia morente. Ansima.
Quando le guardie la sollevano da terra per trascinarla in tribu¬nale geme e si contorce. Dei lamenti brevi e molto acuti che fanno pensare ai versi notturni in una foresta. Vedendola in sogno Lucil¬la sente quello che prova, sente che i supplizi nelle varie parti del suo corpo voluminoso si fondono in un bruciore diffuso, un unico strazio che le ottunde la mente. Qualcosa in quella fiera anziana si rifiuta però di gettare la spugna, si aggrappa a quel mozzicone di vita che le resta. Nella sua esistenza ha aiutato tante persone, le sembra impossibile che adesso nessuno aiuti lei. E che anzi debba pagare perché ha aiutato gli altri. Qualcuno finirà per darmi una mano, si dice.
Il giudice Jakob von Kolz decide di appenderla di nuovo: vuo¬le che parli ancora. Ha confessato che è stata lei a provocare la tempesta che ha distrutto la segale e le patate l’anno precedente, ha ammesso di essere una medichessa, e che sbarazzava le don¬ne gravide usando le erbe, adesso deve riconoscere anche il resto. Deve confessare che il suo figlioletto non è morto per caso: lo ha ucciso lei.
Ordina quindi di sollevarla di nuovo con la corda, ma senza pesi. È evidente a tutti che morirebbe subito, con i pesi. Non deve morire, deve prima parlare. Al limite potrà crepare nella sua cella, raggomitolata per terra, come ha fatto la Dorotea Zompa, non lì davanti a tutti. È però meglio che muoia durante l’esecuzione. Il Principe Vescovo Cristoforo Madruzzo lo ha scritto nero su bian¬co: non vede di buon occhio che troppi imputati decedano duran¬te il processo. Troppi morti, ha scritto.
Appena la legano la Gheta biascica che lei voleva molto bene al suo figlioletto. Era bello come un vitellino, e buono come un ange¬lo del cielo. Erano le voci che lo facevano piangere sempre. Le voci lo infastidivano e gli facevano paura, gli impedivano di dormire. E gli davano pizzicotti sui polmoni e all’interno delle cosce, povera creatura, facendolo contorcere nella culla. Parla sempre più velo¬cemente, come lottando contro il tempo.
Quando la sollevano i suoi lamenti lacerano le orecchie e fan¬no fremere la schiena: non sono parole umane, sono vibrazioni sonore che grondano sofferenza animale. Ma riesce pur sempre a spiegare che le voci tormentavano anche lei. Le dicevano che do¬veva far smettere suo figlio di piangere, che era lei la responsabile se non la piantava. Nello stesso tempo facevano strillare lui e ri¬versavano su di lei la colpa dei suoi strilli. Lei però non le ascoltava quelle voci. Suo figlio è morto perché s’è soffocato sotto il cuscino, lei non gli ha fatto del male. Non avrebbe potuto torcergli un ca¬pello, bello com’era.
Lucilla naturalmente non è presente, trattandosi di quattro secoli prima, ma vede tutto in sogno, stesa accanto a Caramella, muta anche nel sonno. Ogni settimana, o quasi, il sogno riprende da dove s’era interrotto la volta prima. Notte dopo notte si susse¬guono le varie sedute del processo, gli spezzoni di quel calvario: è come se la sua guida avesse deciso di aprirsi completamente a lei, adesso che sta meglio, adesso che comincia a pensare a quello che farà quando uscirà dal penitenziario. Quella donna martirizzata vuole mostrarle che anche a lei è successa quella cosa terribile, vuo¬le dirle che anche lei potrà aiutare gli altri, ma non deve aspettarsi niente in cambio.

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Marino Magliani, Giacomo Sartori: ZOO A DUE https://www.carmillaonline.com/2013/10/09/marino-magliani-giacomo-sartori-zoo-due/ Tue, 08 Oct 2013 22:01:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9900 di Luigi Marfé

zooadueMarino Magliani, Giacomo Sartori, Zoo a due, Perdisa Editore, 2012, pp. 177, € 14,00

“L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio qui”, ha scritto Jacques Derrida ne L’animale che dunque sono (2006). L’alterità dello sguardo non-umano mette l’uomo di fronte alla propria fragilità:scoprire di non essere soli è il primo passo per comprendersi.

È lunga la storia degli scrittori che hanno preso a prestito occhi animali: le favole di Fedro, il gallo silvestre di Leopardi, gli insetti di Kafka, i cani [...]]]> di Luigi Marfé

zooadueMarino Magliani, Giacomo Sartori, Zoo a due, Perdisa Editore, 2012, pp. 177, € 14,00

“L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio qui”, ha scritto Jacques Derrida ne L’animale che dunque sono (2006). L’alterità dello sguardo non-umano mette l’uomo di fronte alla propria fragilità:scoprire di non essere soli è il primo passo per comprendersi.

È lunga la storia degli scrittori che hanno preso a prestito occhi animali: le favole di Fedro, il gallo silvestre di Leopardi, gli insetti di Kafka, i cani di London, le tigri e gli orsi di Kipling, la fattoria di Orwell. Assumere un punto di vista animale, secondo Viktor Sklovskij, è la strategia migliore per straniare il proprio discorso: per toglierlo cioè da morti binari del linguaggio di tutti i giorni. Non conoscendo le lusinghe della civiltà, gli animali giudicano ciò che li circonda dal punto di vista dei bisogni del corpo e degli istinti. Il loro sguardo ci riporta a quelle basi materiali dell’esistenza che troppo spesso dimentichiamo,e che invece ci riguardano da vicino.

Da qualche tempo, tuttavia, pare che la voce degli animali abbia smesso di parlare agli scrittori. Pare che nessuno la cerchi. Forse perché la società contemporanea, troppo presa da se stessa, è ormai del tutto indifferente a ciò che le è estraneo, forse perché ci si è abituati a chiamare umanesimo quello che è solo provincialismo del genere umano.

Un libro come Zoo a due, scritto a quattro mani da Marino Magliani e Giacomo Sartori per la collana PerdisaPop di PerdisaEditore, è per queste ragioni una gradita sorpresa. A cominciare dall’immagine di copertina, un disegno tenero ed essenziale di Andrea Pazienza, che raffigura due pappagalli intenti ad accarezzarsi, senza nascondere le imperfezioni del proprio corpo, che non permette loro di abbracciarsi, ma solo di appoggiarsi l’uno all’altro. Ma è tutto il libro ad essere curatissimo, dalla prefazione di Beppe Sebaste ai testi dei due autori, che alternano nel volume due narrazioni complementari: una – quella di Sartori – che colleziona in brevi testi di poche pagine le voci degli animali più diversi; l’altra – quella di Magliani – che si concentra sulla storia di un cane abbandonato dal padrone, e innamorato del mare.

I racconti di Sartori – scrittore e agronomo che vive tra Trento e Parigi, autore di romanzi come Anatomia della battaglia (2005) e Sacrificio (2008) – rammentano le atmosfere impalpabili di certi testi di Julio Cortázar, come quello sull’uomo che si trasformò in axolotl (un particolare anfibio che trascorre tutta la vita in stato larvale), dopo aver fissato per troppo tempo quello strano animale in un acquario al Jardin desPlantes di Parigi. Lo stesso desiderio di passare dallo sguardo dell’uomo a quello animale è alla base dei racconti di Sartori. Spinti da emozioni primarie come il desiderio del cibo o la paura della morte, i loro timidi protagonisti esibiscono molta più umanità degli uomini che li tormentano. Ingenue e ferite, le loro voci portano avanti le ragioni di una vita che conosce la sua caducità, e proprio per questo non perde tempo a bruciarsi.

Magliani – romanziere e traduttore giramondo, che da alcuni anni vive tra la Liguria e l’Olanda, ed è autore di romanzi come Il collezionista di tempo (2007) e Quella notte a Dolcedo (2008) – ha invece disteso i suoi due racconti in una misura più ampia. Il primo narra la storia di Cobre, un cane abbandonato nell’entroterra ligure, che arriva alla costa, vede il mare e se ne innamora. Il secondo quella del figlio del cane, che segue le orme del padre al contrario, risalendo verso i monti. Si tratta di due iniziazioni, di due veri e propri itinerari di formazione interiore, che tuttavia – e qui vengono in mente le storie di Jack London – non riguardano il mondo degli uomini,sordo e crudele, troppo intento nei suoi affari, ma due cani e la loro scoperta del paesaggio ligure, teatro a mezzogiorno tra il sole e il mare.

Proprio nel mare Cobre pare intravedere la promessa di una vita diversa rispetto a quella randagia cui è stato condannato. E il “giacimento di parole” che le sue orecchie hanno assimilato inconsapevolmente gli riporta il suono di qualche verso che gli era stato letto dall’unico uomo che gli era stato amico:

Quale voce viene sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
È la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
proprio per esserci messi ad ascoltare.

Sono versi di Pessoa, tratti da Le isole fortunate, una lirica trasognata che postula l’esistenza di una voce che non è quella dell’uomo, e nemmeno quella degli animali: una voce più antica, che viene dalla vita stessa.

Dare voce a ciò che è muto e nascosto, secondo Jean-François Lyotard,è il compito più autentico di un pensiero che voglia dirsi ecologico. Nei discorsi dell’uomo, il mondo animale è spesso costretto al silenzio da grancasse più agguerrite. Libri come Zoo a due provano a tendergli la mano, a starlo ad ascoltare, per renderlo più libero.

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