ghost stories – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il conte Magnus (Victoriana 51) https://www.carmillaonline.com/2024/07/06/il-conte-magnus-victoriana-51/ Sat, 06 Jul 2024 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83263 di Franco Pezzini

(Si fornisce un altro assaggio del corso James & James – Fantasmi, sulle ghost stories di Henry James e Montague Rhodes James, e che riprenderà in autunno a Torino dopo la pausa estiva alla Libera Università dell’Immaginario.)

“Count Magnus” da Ghost Stories of an Antiquary (1904)

La voce narrante ci avvisa che si saprà solo alla fine come i documenti sul caso che verrà riportato siano arrivati tra le sue mani. Si tratta in gran parte di appunti per un travelogue, un libro di viaggi come spesso ne venivano varati a metà ottocento (si pensi solo al “Diario [...]]]> di Franco Pezzini

(Si fornisce un altro assaggio del corso James & James – Fantasmi, sulle ghost stories di Henry James e Montague Rhodes James, e che riprenderà in autunno a Torino dopo la pausa estiva alla Libera Università dell’Immaginario.)

“Count Magnus” da Ghost Stories of an Antiquary (1904)

La voce narrante ci avvisa che si saprà solo alla fine come i documenti sul caso che verrà riportato siano arrivati tra le sue mani. Si tratta in gran parte di appunti per un travelogue, un libro di viaggi come spesso ne venivano varati a metà ottocento (si pensi solo al “Diario di un soggiorno nello Jutland e nelle isole danesi” di Horace Marryat). Su questa tipologia di pubblicazione James – a sua volta viaggiatore nei paesi scandinavi, e che studia anche le lingue svedese e danese, traducendo tra l’altro Andersen – fornisce un quadro molto efficace, da studioso di letteratura:

 

Di solito questi libri parlavano di qualche parte poco conosciuta del continente. Erano illustrati con xilografie o incisioni. Fornivano descrizioni degli alberghi e dei mezzi di comunicazione, proprio come oggi noi ci aspettiamo di trovarne in ogni guida turistica ben fatta, e riportavano ampi brani di conversazioni con stranieri intelligenti, proprietari di locande caratteristiche e contadini loquaci. In una parola, erano discorsivi.

 

Ma poco a poco il materiale – funzionale proprio a una pubblicazione di quel genere – prende ad assumere una fisionomia molto più soggettiva, di esperienza personale, e così fin quasi alla fine. A scrivere è un certo signor Wraxall, di cui il narrante conosce solo ciò che emerge dallo scritto, un uomo solo al mondo, che ha superato la mezza età e gode di un certo benessere. In Inghilterra, forse in attesa di radicarsi da qualche parte, vive in alberghi e pensioni, ed è possibile “che l’incendio del Pantechnicon nei primi anni Settanta abbia distrutto gran parte di ciò che avrebbe potuto gettare luce sul suo passato, perché una o due volte egli fa riferimento a oggetti di sua proprietà che erano immagazzinati in quello stabilimento”. Il Pantechnicon, costruito nel 1830 come un centro di art and crafts, era divenuto un enorme deposito di mobili dalle parti di Belgrave Square a Londra, e andò distrutto per un incendio nel febbraio 1872.

Wraxall ha già editato almeno un travelogue relativo alla Bretagna, ma probabilmente in forma anonima o sotto pseudonimo, il che rende impossibile al narrante una ricerca bibliografica. Del suo profilo, per quanto si può evincere, risulta un uomo colto e intelligente: pare stesse tra l’altro per diventare Fellow del suo college a Oxford, Brasenose. “Il suo difetto principale era, senza ombra di dubbio, l’eccessiva curiosità, forse un difetto positivo in un viaggiatore, ma che sicuramente il viaggiatore in questione finì per pagare molto caro”.

All’epoca della sua ultima spedizione ha in programma un altro libro: e trova un soggetto d’interesse nella Scandinavia, al tempo poco nota agli inglesi.

 

Doveva essersi entusiasmato per qualche vecchio libro di storia svedese o per qualche scritto su questo Paese, e gli era venuta l’idea che fosse il momento giusto per un libro che descrivesse un viaggio in Svezia, inframmezzato da episodi della storia di qualcuna delle principali famiglie svedesi. Quindi si procurò delle lettere di presentazione a persone di un certo rango in Svezia, e partì all’inizio dell’estate del 1863.

Non c’è bisogno di parlare dei suoi viaggi al nord, né del suo soggiorno di qualche settimana a Stoccolma. Devo solo accennare al fatto che qualche savant di lì lo mise sulle tracce di un’importante collezione di documenti di famiglia che appartenevano ai proprietari di un’antica dimora nel Vestergothland, e ottenne per lui il permesso di esaminarli.

Chiamerò la dimora, o herrgård, in questione, Råbäck (che si pronuncia più o meno Roebeck [ovviamente viene indicata una traslitterazione pseudo-fonetica anglofona]), anche se non è il suo vero nome. È una delle più belle costruzioni di questo genere in tutto il Paese, e il disegno nella Suecia antiqua et moderna di Dahlenberg, inciso nel 1694, la raffigura molto simile a come può vederla oggi un turista. Fu costruita poco dopo il 1600, ed è, grosso modo, molto simile a una casa inglese di quel periodo per quanto riguarda il materiale – mattoni rossi e rivestimenti di pietra – e lo stile. L’uomo che la costruì apparteneva al grande casato dei De la Gardie, e i suoi discendenti ne sono ancora i proprietari. De la Gardie è il nome con cui li designerò quando sarà necessario parlare di loro.

 

La famiglia lo accoglie con grande gentilezza, insisterebbe perché restasse da loro per tutto il tempo delle ricerche, ma lui preferisce far base alla locanda, a circa un miglio di passeggiata dalla casa. Questa è circondata da un parco con un bosco; poi, oltre il muro di cinta e una ripida collinetta, c’è la chiesa con alberi scuri e alti attorno.

 

Era una costruzione curiosa agli occhi di un inglese. Le navate erano basse, piene di banchi e gallerie. Nella galleria a ovest c’era un magnifico vecchio organo con le canne d’argento, dipinto a vivaci colori. Il soffitto era piatto, e un artista del diciassettesimo secolo lo aveva ornato con uno strano e orribile ≪Giudizio Universale≫ pieno di fiamme rosseggianti, citta che crollavano, navi che bruciavano, anime piangenti e diavoli scuri e ghignanti. Dal tetto pendevano delle belle corone di ottone; il pulpito sembrava una casa di bambole, ricoperto di piccoli cherubini e santi di legno dipinto; al leggio del predicatore era fissato un ripiano con tre clessidre. Cose del genere si vedono ancora oggi in molte chiese svedesi, ma ciò che distingueva questa dalle altre era un’aggiunta alla costruzione originaria. In fondo alla navata nord il costruttore della casa aveva edificato un mausoleo per sé e per la sua famiglia. Era una costruzione piuttosto grande, ottagonale, illuminata da una serie di finestre ovali, con il tetto a cupola sormontato da una specie di oggetto a forma di zucca che terminava con una punta, un motivo ornamentale prediletto da molti architetti svedesi. Esternamente il tetto era di rame, dipinto di nero, mentre le pareti, come quelle della chiesa, erano di un bianco accecante. Dalla chiesa non c’era nessuna via di accesso a questo mausoleo. Aveva il suo ingresso e la sua scalinata sul lato nord.

 

E il lato nord, lo sappiamo da altri racconti dell’autore, è quello meno tranquillizzante. Vi si tumulano infatti d’uso figure dalla fama discussa, streghe e suicidi, in conformità all’idea di nord come associato al male.

Comunque il primo giorno della permanenza in loco, Wraxall trova aperta la chiesa – prendendo appunti sull’interno – ma non il mausoleo, di cui riesce a occhieggiare solo qualcosa (statue, sarcofaghi, ornamenti araldici) dallo spioncino.

I documenti trovati alla casa (corrispondenza, diari, libri contabili…) permettono allo studioso di raccogliere una quantità di storie pittoresche: in particolare del capostipite Magnus De la Gardie, che aveva contribuito a stroncare con severità le rivolte contadine, e il cui ritratto spicca “più per la sua forza che per la sua bellezza o la bontà; infatti egli scrive che il conte Magnus era un uomo straordinariamente brutto”. Wraxall cena con la famiglia, e si ripromette di chiedere al sacrestano di farlo entrare nel mausoleo, che gli pare di aver visto aprire o chiudere.

 

Leggo poi che il giorno seguente, la mattina presto, il signor Wraxall scambio qualche parola con l’albergatore. Il fatto che avesse riportato la conversazione per esteso a tutta prima mi sorprese; ma subito mi resi conto che le carte che stavo leggendo erano, almeno da principio, il materiale per il libro cui stava pensando, e che questo sarebbe stato una di quelle produzioni semi-giornalistiche che consentono l’introduzione di conversazioni su svariati argomenti.

Il suo scopo, egli dice, era quello di scoprire se nei luoghi dove era vissuto il conte Magnus restasse ancora qualche tradizione legata a costui, e se l’opinione che la gente aveva di lui fosse o no favorevole. Scoprì che il suo conte non era assolutamente benvoluto. Se i suoi affittuari arrivavano tardi nei giorni in cui dovevano lavorare per lui in quanto signore del luogo, venivano messi sul cavalletto di tortura, o fustigati e marchiati a fuoco nel cortile della casa. C’erano stati un paio di casi di uomini che avevano occupato terreni facenti parte della proprietà del signore, le cui case erano andate misteriosamente a fuoco in una notte d’inverno, con tutta la famiglia dentro. Ma quello che più di tutto sembrava essere rimasto impresso all’albergatore – perché tornò sull’argomento più di una volta – era che il conte aveva partecipato a un pellegrinaggio nero, e ne aveva riportato qualcosa, o qualcuno, con sé.

 

Cos’è un pellegrinaggio nero? Per ora le informazioni a Wraxall da parte dell’albergatore sono molto elusive. Comunque durante lo studio le carte lo stornano su un alto tema, la “corrispondenza fra Sophia Albertina a Stoccolma e la sua cugina sposata Ulrica Leonora a Råbäck, negli anni dal 1705 al 1710”, di eccezionale interesse per lo sviluppo della cultura un Svezia. Terminata la lettura, esplora alcuni dei volumi più vicini, scoprendo che quasi tutto lo scaffale è occupato da una

 

raccolta di libri contabili scritti di pugno dal primo conte Magnus. Uno di essi non era un libro contabile, ma un testo di alchimia e altri trattati, in un’altra grafia del diciassettesimo secolo. Non conoscendo molto bene la letteratura alchemica, il signor Wraxall perse molto tempo che avrebbe potuto altrimenti risparmiare per elencare i titoli e le prime righe dei vari trattati: il Libro della fenice, il Libro delle trenta parole, il Libro del rospo, il Libro di Miriam, la Turba philosophorum, e cosi via; e poi annuncio con abbondanza di particolari la sua gioia nel trovare, su di una pagina originariamente lasciata bianca quasi a metà del libro, uno scritto del conte Magnus in persona, intitolato Liber nigræ peregrinationis. È vero che si trattava solo di poche righe, ma era abbastanza per capire che quella mattina l’albergatore aveva accennato a un’antica credenza che risaliva ai tempi del conte Magnus, e probabilmente era da lui condivisa.

Questa è la traduzione di quel che c’era scritto:

≪Se si desidera una vita lunga, se si desidera avere un emissario fedele e vedere il sangue dei propri nemici, prima è necessario recarsi alla citta di Chorazin, e qui salutare il principe…≫. A questo punto c’era una cancellatura, non perfettamente eseguita, cosi che il signor Wraxall si sentì abbastanza sicuro di non sbagliare nel leggere aeris (dell’aria). Ma non c’era altro, solo un rigo in latino: ≪Quære reliqua hujus materiei inter secretiora» (Cerca il resto di questa faccenda fra le cose più segrete).

 

Chorazin o Corazin è una delle città maledette del Nuovo Testamento, nell’ambito di un’invettiva di Gesù contro alcune città incredule, presente nei vangeli di Matteo (11,21-24: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida. Perché, se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere. Ebbene io ve lo dico: Tiro e Sidone nel giorno del giudizio avranno una sorte meno dura della vostra. E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! Ebbene io vi dico: Nel giorno del giudizio avrà una sorte meno dura della tua!”) e di Luca (10,13-15: “Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata!”).

Per capire come si possa giungere all’idea della peregrinazione nera occorre prendere la celeberrima opera del padre medioevale degli scrittori di viaggio inglesi, un apocrifo Jehan de Mandeville anglicizzato come sir John Mandeville, The Travels of Sir John Mandeville (anche Voyage d’outre mer, le prime versioni rinvenute sono in francese), con il suo viaggio attraverso l’oriente islamico e fino all’estremo oriente: un viaggio certo immaginario e fitto di elementi fantastici ma tale da influenzare in seguito la cultura dell’esplorazione e viaggiatori come Colombo e Martin Frobisher. In ogni caso, proprio lì si trova una citazione interessante: “Dissero alcuni che a Corazin o a Babilonia nascerà l’Anticristo, sarà nutrito a Betsaida e regnerà a Cafarnao”: appunto le tre città maledette. Ma già l’influente Apocalisse dello pseudo-Metodio, un testo siriano del VII secolo, parlava dell’Anticristo concepito a Corazin, e a questo probabilmente attinge il Mandeville; e aggiungiamo che a Chorazin, identificata a metà Ottocento, verrà trovata la cosiddetta sinagoga nera, perché costruita in basalto, una roccia nera vulcanica disponibile localmente. Farne un luogo di peregrinazioni demoniache non sembra insomma così strano.

Lo scritto di Magnus proietta una luce livida sulle sue convinzioni, ma Wraxall arriva a vederlo soltanto come figura pittoresca, e tornando verso la locanda continua a pensarci. Al passare davanti al mausoleo dichiara persino che vorrebbe incontrarlo: è abituato a parlare da solo, ma a quel punto trasale per un suono che attribuisce alla donna delle pulizie della chiesa, che farebbe cadere un oggetto metallico. Mentre “Il conte Magnus, credo, dorme abbastanza profondamente”. Quella sera poi, il locandiere gli fa incontrare “il sacrestano o diacono (come si chiama in Svezia) della parrocchia”, per organizzargli la visita al mausoleo, e segue una breve conversazione. Interpellato da Wraxall in merito a Chorazin (“non credo che ne restino altro che le rovine, no?”), il brav’uomo risponde che nella città tacciata d’infamia alcuni dei loro preti più anziani situavano la futura nascita dell’anticristo, ma glissa sulle leggende esistenti in merito e augura la buona notte a Wraxall. Questi, rimasto solo con l’albergatore Nielsen, spiega di aver “trovato qualcosa sul pellegrinaggio nero. Mi dica cosa ne sa. Che cosa ne riportò il conte Magnus?”.

 

Forse gli svedesi sono abitualmente lenti a rispondere, o forse l’albergatore era un’eccezione. Non ne sono sicuro; ma il signor Wraxall scrive che l’albergatore rimase a guardarlo per almeno un minuto prima di aprire bocca. Poi si fece più vicino al suo ospite e, con notevole sforzo, disse:

– Signor Wraxall, posso raccontarle una storia, ma non di più, non una parola di più. Quando gliela avrò raccontata non mi deve chiedere niente. Ai tempi di mio nonno – cioè novantadue anni fa – c’erano due uomini che dicevano: «Il conte è morto; noi non ci curiamo di lui. Stasera andremo a cacciare gratis nel suo bosco», il grande bosco sulla collina che si vede dietro Råbäck. Bene, chi li sentì parlare così, disse: «No, non andate; siamo certi che incontrerete persone che camminano e non dovrebbero camminare. Dovrebbero riposare in pace, non camminare». Quegli uomini risero. Non c’erano guardiani in quel bosco, perché nessuno desiderava andarci a caccia. La famiglia non era qui alla casa. Quegli uomini potevano fare quello che volevano.

Bene, quella notte andarono nel bosco. Mio nonno sedeva qui in questa stanza. Era estate e la notte era chiara. Con la finestra aperta, si poteva vedere il bosco, e sentire.

Cosi se ne stava qui seduto, e con lui due o tre altri uomini, e ascoltavano. All’inizio non sentirono niente; poi sentirono qualcuno – sapete quant’è lontano – sentirono qualcuno urlare, come se gli stessero strappando l’anima. Si strinsero gli uni agli altri, e rimasero seduti per tre quarti d’ora. Poi sentirono qualcun altro, a sole tremila ell di distanza. Lo sentirono ridere ad alta voce: non era uno di quei due uomini che rideva, e, per la verità, tutti loro dissero che non si trattava affatto di un uomo. Poi sentirono il rumore di una grande porta che si chiudeva.

Infine, appena spunto il sole, andarono tutti dal prete, e gli dissero:

≪Padre, si metta la tonaca e il collare, e venga a seppellire Anders Bjornsen e Hans Thorbjorn≫.

Lei capisce che erano sicuri che quegli uomini fossero morti. Cosi andarono nel bosco; mio nonno non lo dimenticò mai. Disse che anche tutti loro sembravano dei morti. Anche il prete era bianco di paura. Quando erano andati da lui, aveva detto:

≪Ho sentito un grido nella notte, e poi ho sentito una risata. Se non riuscirò a dimenticarmene, non potrò mai più dormire≫.

Così andarono, e trovarono questi uomini al margine del bosco. Hans Thorbjorn stava in piedi con la schiena appoggiata contro un albero, e continuava ad allontanare qualcosa con le mani, a spingere via qualcosa che non c’era. Quindi non era morto. Lo portarono via, e lo condussero a casa sua a Nykjoping, ed egli morì prima dell’inverno; ma non smise mai più di spingere con le mani. Anche Anders Bjornsen era lì, ma lui era morto. E io le dico che una volta Anders Bjornsen era un uomo bellissimo, ma ormai non aveva più faccia, perché la carne era stata succhiata via dalle ossa. Capisce? Mio nonno non lo ha mai dimenticato. Lo deposero sulla barella che avevano portato con loro, e gli coprirono la testa con un panno, e il prete gli camminava davanti; poi cominciarono a cantare salmi per il morto meglio che potevano. Ma, mentre stavano cantando la fine del primo verso, uno di loro cadde, quello che portava la barella dalla parte della testa, e quando gli altri si voltarono a guardare, videro che il panno era caduto, e gli occhi di Anders Bjornsen erano spalancati, perché non c’era niente che si chiudesse sopra di loro. Questo non potevano sopportarlo. Allora il prete lo coprì di nuovo con il panno, mandò a prendere una pala, ed essi lo seppellirono in quel luogo.

 

Il giorno dopo il diacono chiama Wraxall dopo colazione, e lo porta in chiesa e nel mausoleo. La chiave di quest’ultimo si trova appesa a un chiodo vicino al pulpito, quindi comodamente a disposizione – riflette il Nostro – per una seconda visita con calma.

All’ingresso vede i monumenti funebri – in genere del XVII e XVIII secolo – austeri ma sovraccarichi, con epitaffi e ornamenti araldici. Al centro dello spazio a volta si trovano tre sarcofaghi di rame con incisioni ornamentali, due contrassegnati da grandi crocifissi.

 

Il terzo, quello del conte Magnus, aveva, invece della croce, un suo ritratto a grandezza naturale inciso sul coperchio, e tutto intorno vi erano altre incisioni che rappresentavano vari episodi della sua vita. Una era una battaglia, con cannoni fumanti, città cinte di mura e truppe di uomini armati di alabarde. Un’altra mostrava un’esecuzione. In una terza c’era un uomo che correva a gran velocità fra gli alberi, con i capelli al vento e le braccia distese. Lo seguiva una strana creatura; sarebbe difficile dire se l’artista avesse inteso raffigurare un uomo, ma non fosse riuscito a renderlo abbastanza somigliante, o se fosse stata intenzionalmente rappresentata così mostruosa. Data l’abilità con cui era stato eseguito il resto del disegno, il signor Wraxall si sentì incline a optare per quest’ultima ipotesi. La creatura era estremamente bassa, e quasi tutta imbacuccata in un mantello con cappuccio che sfiorava il terreno. L’unica parte di quell’essere che usciva allo scoperto non aveva la forma né di un braccio né di una gamba. Il signor Wraxall la paragona al tentacolo di un diavolo di mare, e prosegue: «Vedendolo, mi dissi: “Questa, allora, che è evidentemente una rappresentazione allegorica di qualche avvenimento, un demonio che insegue un’anima perseguitata, può essere l’origine della leggenda del conte Magnus e del suo misterioso compagno. Vediamo come è rappresentato il persecutore: senza dubbio sarà un demonio che soffia in un corno”». Ma, come invece risultò, non c’era nessuna figura così impressionante, solo qualcosa che assomigliava a un uomo avvolto in un mantello, in piedi su di una collinetta, appoggiato a un bastone, che osservava l’inseguimento con un interesse che l’incisore aveva cercato di esprimere nel suo atteggiamento.

Il signor Wraxall notò i lucchetti di acciaio, pesanti e ben lavorati, tre in tutto, che assicuravano il sarcofago. Uno di essi, come osservò, si era staccato ed era rimasto per terra.

 

Poi, per non trattenere oltre il diacono e perdere tempo, torna al lavoro alla casa.

Ma la successiva annotazione è una registrazione di stupore a come un sentiero familiare permetta alla testa di fissarsi su un’unica cosa: e così tornando all’albergo si trova invece di nuovo vicino al cancello della chiesa, “nell’atto di cantare o salmodiare qualcosa del tipo: ‘Sei sveglio, conte Magnus? Dormi, conte Magnus?’, e poi qualcos’altro che non riesco a ricordare”. Anzi, probabilmente è lì da un po’… Recupera poi la chiave del mausoleo, entra a copiare gli epitaffi finché resta luce, e annota solo che doveva essersi sbagliato: a essere aperto, non è solo un lucchetto del sarcofago, ma due. Tenta invano di chiuderli, e a quel punto li pone sul davanzale della finestra. Il terzo è ancora saldo: si tratta probabilmente di lucchetti a molla, non riesce a capire come possano aprirsi. “Se ci fossi riuscito, temo proprio che mi sarei preso la libertà di aprire il sarcofago. È strano l’interesse che provo per la personalità di questo vecchio nobile così crudele e sinistro”.

Il giorno seguente è l’ultimo della permanenza: deve oltretutto tornare in Inghilterra per certi affari, ma il congedo è una faccenda un po’ lunga. Sia per l’affettuosa gentilezza dei signori della casa, che lo trattengono a pranzo, sia per la volontà di assorbire nella memoria quelle scene e quei panorami. Deve anche, riflette, congedarsi dal conte Magnus: per cui prende la chiave in chiesa, entra nel mausoleo e prende a parlare come d’abitudine da solo ad alta voce. “Forse sei stato un po’ scapestrato ai tuoi tempi, conte Magnus […] ma è proprio per questo che mi piacerebbe vederti, o, piuttosto…”. Ma in quel momento sente come un soffio su un piede, lo ritrae e qualcosa cade sul pavimento: si china a raccogliere così il terzo lucchetto e all’improvviso vede con orrore il coperchio del sarcofago che si solleva – e comprensibilmente fugge, ma senza chiudere la porta. Annota tutto questo ancora atterrito una ventina di minuti dopo: “So soltanto che a spaventarmi fu qualcosa di più di quello che ho scritto, ma se fosse un suono o una vista non riesco a ricordarlo. Che cosa ho fatto?”: dove a inquietarlo è anche questa strana amnesia, simile allo stato assorto con cui tornava dalla casa all’albergo passando per la chiesa…

Insomma, torna in Inghilterra, ma abbastanza distrutto, come provano grafia alterata e annotazioni sconnesse: e “Uno dei numerosi piccoli taccuini che sono giunti in mio possesso con le sue carte” riporta ben sei angosciatissimi tentativi di descrivere gli altri passeggeri del suo viaggio di ritorno in barca lungo i canali. Appunti come:

 

  1. Pastore di campagna dello Skåne. Solito cappotto nero e cappello floscio nero.

  1. Viaggiatore di commercio di Stoccolma diretto a Trollhättan. Mantello nero,

cappello marrone.

  1. Uomo con un lungo mantello nero, cappello a larghe tese, molto all’antica.

 

Anche se poi l’annotazione è cancellata e sostituita con:

 

“Forse identico al n.ro 13. Non l’ho ancora visto in faccia”. Andando al n.ro 13, vedo che è un prete cattolico romano in tonaca.

Il risultato finale del conteggio e sempre lo stesso. Sono elencate ventotto persone, e una e sempre l’uomo con il lungo mantello nero e il cappello a larghe tese, e un’altra “una figura bassa con mantello e cappuccio scuri”. Ma d’altra parte, vi e sempre annotato che solo ventisei passeggeri si fanno vedere ai pasti, e che l’uomo con il mantello forse non c’è, e la figura bassa non c’è sicuramente.

 

Sbarcato in Inghilterra ad Harwich nell’Essex, Wraxall cerca “di mettersi al riparo da una o più persone che non specifica mai, ma che evidentemente era arrivato a considerare suoi persecutori”: quindi evita la ferrovia e sale su una carrozza chiusa, dirigendosi al villaggio di Belchamp St Paul, appunto nell’Essex. Giunge nei pressi alle nove di una sera di luna piena d’agosto, e a un tratta un incrocio nota due figure che non gli sono nuove, “immobili; tutte e due portavano mantelli scuri; quella più alta aveva un cappello, la più bassa un cappuccio”. Allora il cavallo scarta e galoppa via, conducendolo atterrito al villaggio, dove trova una camera ammobiliata. Vi si ferma per le successive ventiquattr’ore, scrivendo appunti sconnessi e attendendo l’apparire dei persecutori al ritornello di “Che cosa ho fatto?”, e “Non c’è una speranza?”. Sa che i medici lo giudicherebbero pazzo, la polizia riderebbe e il parroco non è al paese: “Che altro può fare oltre a chiudere a chiave la sua porta e implorare il Signore?”.

L’anno precedente, annota la voce narrante,

 

la gente di Belchamp St Paul si ricordava ancora di uno strano tipo che era arrivato una sera di agosto di alcuni anni prima; la mattina del secondo giorno venne trovato morto, e ci fu un’inchiesta; della giuria che esaminò il cadavere, sette svennero, e nessuno volle parlare di quello che aveva visto; il verdetto fu morte per cause naturali; ma i proprietari di quella casa traslocarono quella stessa settimana, e lasciarono la regione. Ma essi non sanno, credo, che sul mistero si è aperto, o potrebbe aprirsi, uno spiraglio di luce. Infatti l’anno scorso quella casa è divenuta di mia proprietà in quanto parte di un lascito. Era rimasta vuota dal 1863, e non sembrava ci fossero prospettive di poterla affittare. Così la

feci buttare giù, e le carte di cui vi ho dato un estratto vennero trovate in una cassapanca dimenticata sotto la finestra della camera da letto più bella.

 

Ovviamente la storia narrata è finzione, e il conte Magnus di James uno dei più raggelanti vilain della letteratura – tanto più nel suo restare una figura tanto storicamente minore quanto misteriosa. Inserendosi a buon diritto in una schiera di loschi figuri per allusione che corre idealmente dall’Hugo Baskerville di Arthur Conan Doyle (The Hound of the Baskervilles, 1901-1902) ispirato almeno in parte a un altro cattivissimo locale, Richard Cabell (morto 1677), fino al pessimo Arnold Hawthorne veterano della Guerra di Corea ne L’ultima profezia (The Prophecy) di Gregory Widen, 1995. Il che non impedisce di chiedersi cosa sia il conte Magnus. Anzitutto uno stregone diabolista dedito all’alchimia (quella del sangue?), e redivivo; non probabilmente un vampiro come qualche antologista l’ha forzato a essere, inserendo il racconto in raccolte tematiche, ma in qualche modo un non-morto venuto da plaghe tra il sogno e l’inconscio. Molto di più non è possibile dire, e il gioco all’allusione tanto ben apparecchiato da James funziona anche per questo.

Ma un elemento appare interessante. De la Gardie non è un nome fittizio, il casato esisteva realmente ed ebbe un ruolo di rilievo nella storia svedese: e possiamo non stupirci troppo a scoprire che è esistito anche il conte Magnus, contemporaneo della regina Cristina e mecenate delle arti su cui esiste peraltro una certa documentazione anche illustrativa. Certamente una figura lontana da quella descritta da James, anche se pure la sua tomba si trova in un mausoleo – quello appunto De la Gardie – presso un edificio sacro, l’abbazia cistercense di Varnhem, nei pressi di Skovde, vicino a Skara nella zona di Västergötland (Vestergothland) della Svezia meridionale, dove appunto si trova la tomba del conte Magnus nella storia. MRJ visitò Varnhem nel 1901 e scrisse “Count Magnus” nel periodo seguente. Il Magnus storico e quello fittizio sono in effetti piuttosto distanti: quello fittizio è “un uomo straordinariamente brutto”, cosa che non si può dire dei ritratti giovanili dello storico conte Magnus Gabriel de la Gardie (1622-86), anche se poi appare essersi ingrossato. Tra i favoriti della regina Cristina (si vociferava di uno o due figli avuti assieme, ma la notizia non è certa), raggiunge incarichi di grande importanza, è tra i principali comandanti svedesi nella Guerra dei Trent’anni, poi responsabile della casa della regina, maresciallo del regno, presidente della Camera del Collegio e presidente senatoriale nel Västergötland e Dalsland… e tali incarichi lo rendono uno degli uomini più ricchi del paese. A un tratto cade in disgrazia, ma poi torna in sella e diventa cancelliere.

Non c’è alcuna prova che Magnus Gabriel de la Gardie nutrisse interessi per alchimia o arti oscure, al di là delle passioni esoteriche e alchemiche della regina, coltivate specialmente con il passare degli anni e che la vedono conservare una copia del Monas Hieroglyphica di John Dee e parti del famigerato Picatrix. MRJ potrebbe invece aver visto a Uppsala (agosto 1901, dove vede il patto col diavolo del giovanissimo Daniel Salthenius citato in “Number 13”) alla Biblioteca dell’Università il Codex Argenteus della Bibbia di Ulfila, VI secolo, da Magnus acquistato e donato alla Svezia nel 1660.

Ma per quanto libero, il nesso non sembra ridursi al ripescaggio di un nome pittoresco. Il conte Magnus di James ha una magione che lo scrittore cita con il nome di Råbäck che pure non è il suo. In una tenuta di Råbäck nel Västergötland MRJ si era fermato, e di lì aveva scritto una lettera ai genitori (10 agosto 1901), ma altre tenute degli storici De la Gardie sembrano più congrue, in particolare Ulriksdal (in origine Jacobsdal), poco fuori Stoccolma, in effetti raffigurato in Suecia Antiqua et Hodierna di Erik Dahlberg (la “Dahlenberg’s Suecia antiqua et moderna” del racconto) e alla quale Ulrika Eleonora (1688-1741), sorella del re Carlo XII e per breve periodo regina di Svezia nel 1719-20 era particolarmente legata (come nel racconto a Råbäck). Ma chi è il fondatore di Ulriksdal cui potrebbe corrispondere un più calzante prototipo storico di Magnus? Nient’altri che suo padre, il conte Jacob Pontusson de la Gardie (1583-1652), statista e uomo d’arme, conquistatore di Mosca nel 1610, condottiero contro i polacchi in Livonia, poi uno dei reggenti durante la minore età della regina Cristina: qualche suo interesse esoterico sembra documentato, forse per l’alchimia e sicuramente per le rune, perché risulta dedicatario di Adulruna rediviva, opera mistica sul tema di Johannes Bureus, e sembra le usasse per istruzioni cifrate militari. Se poi ci spingiamo fino alla cattedrale di Tallinn in Estonia, troviamo una tomba con scene di battaglia come quelle descritte, appartenuta a Pontus de la Gardie (1520-85), padre di Jacob e nonno di Magnus. Ovviamente il conte Magnus di James resta un personaggio letterario come un altro conte di un’opera quasi coeva, Dracula di Bram Stoker, con buona pace di chi lo identifichi in un personaggio o nell’altro. Ma il puzzle di notizie artistiche e storiche liberamente mixate conduce a un’ironia metatestuale che in MRJ abbiamo imparato a conoscere e riconoscere.

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Owen il pacifista (Victoriana 50) https://www.carmillaonline.com/2024/03/30/owen-il-pacifista-victoriana-50/ Sat, 30 Mar 2024 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81863 di Franco Pezzini

Una storia di fantasmi può essere una protesta contro la guerra, e così pare che il grande compositore e pianista Benjamin Britten abbia inteso fare con la sua opera 85 in due atti Owen Wingrave, scritta nel 1970 su libretto di Myfanwy Piper a partire dal racconto di Henry James. Ideale precedente era stata la loro collaborazione (1954) sull’opera sempre jamesiana Il giro di vite, ma Owen Wingrave – commissionato a Britten dalla BBC nel 1966 – gli permetteva di far riflettere sulla Guerra del Vietnam e le posture interiori che suscitava.

Il racconto “Owen Wingrave” di Henry [...]]]> di Franco Pezzini

Una storia di fantasmi può essere una protesta contro la guerra, e così pare che il grande compositore e pianista Benjamin Britten abbia inteso fare con la sua opera 85 in due atti Owen Wingrave, scritta nel 1970 su libretto di Myfanwy Piper a partire dal racconto di Henry James. Ideale precedente era stata la loro collaborazione (1954) sull’opera sempre jamesiana Il giro di vite, ma Owen Wingrave – commissionato a Britten dalla BBC nel 1966 – gli permetteva di far riflettere sulla Guerra del Vietnam e le posture interiori che suscitava.

Il racconto “Owen Wingrave” di Henry James era apparso sul numero di Natale del “Graphic”, 1892, e verrà rivisto per la “New York Edition”: e inizia con un vivace scontro verbale, di cui solo poco per volta riusciamo ad afferrare l’oggetto. Il giovane, dotatissimo, brillante Owen Wingrave ha infatti sconvolto il suo istitutore, il napoleonico Spencer Coyle – un professionista che “preparava aspiranti per l’esercito, accogliendone tre o quattro alla volta, e facendo operare su di loro lo stimolo irresistibile che costituiva a un tempo il suo segreto e la sua fortuna” (seguo la stessa edizione citata qui). Mostrando ora, “davvero senza intenzione, una superiore saggezza che lo irritava”, ha infatti effettuato delle scelte in autonomia per il proprio futuro, rifiutando una “carriera magnifica” nell’esercito. Coyle lo invita a prendersi una vacanza a Eastbourne per tornare in sé (tanto ha il tempo, è molto avanti con gli studi), ma rifiuta di considerare chiusi i loro rapporti: e in realtà quella vacanza dell’allievo serve soprattutto a Coyle, per ricomporsi. Emerge che una zia del giovane è arrivata in città, e lui invita Coyle ad andare a trovarla: no, lei non sa ancora nulla della sua decisione, gli sembrava giusto parlarne prima con l’istitutore.

Ma Wingrave non parte subito, si dirige al parco di Kensington che dalla dimora dove Coyle tiene a pensione i discepoli non dista molto. Raggiunge il parco e si mette a leggere le poesie di Goethe. È sollevato dopo giorni di tensione al pensiero di quel colloquio con l’istitutore, ed è “caratteristico della sua natura che la liberazione assumesse la forma di un piacere intellettuale”. Anzi gli bastano pochi minuti di quella ricreazione per dimenticare tutto, “l’enorme dispendio di energia, il disappunto del signor Coyle e perfino la formidabile zia di Baker Street” che presto dovrà affrontare. In effetti, quando James cercherà di ricostruire la genesi del racconto, ricorderà di essere stato seduto – un pomeriggio estivo di molti anni prima – ai giardini di Kensington, e una splendida figura di giovane si era seduta vicino a lui leggendo un libro. Poi in realtà il tema, la mistica e le ossessioni sul soldato – vedremo che Owen, a dispetto del suo pacifismo, ne è immagine autentica nell’affrontare pericoli e disagi – vengono dalla lettura, nei giorni successivi la morte della sorella, delle memorie del generale napoleonico Marcelin de Marbot, tradotte in Inghilterra nel 1892. Troverà interessanti anche le memorie del feldmaresciallo visconte Wolseley, e, da non-combattente, tratterrà comunque viva memoria di scene della guerra di Secessione. I temi della famiglia e della guerra, le emozioni contraddittorie di un pacifista nonviolento che però ammira gli uomini d’azione, i fantasmi di un passato militare che approdano ai discendenti precipiteranno in questa storia – come attestano gli appunti fin dall’inizio – in chiave fantastica. Vedremo in che modo.

Intanto Coyle sta interpellando il miglior amico di Wingrave, il giovane Lechmere, anche lui sotto le sue cure formative ma non brillante quanto Wingrave e dunque tanto meno stimolante per l’istitutore. Che pure finisce ora col confrontarsi con lui: Wingrave rifiuta di andare alla scuola di guerra, rinuncia alla carriera militare ed è contrario “alla professione delle armi” che ha costituito una sorta di religione di famiglia. Coyle gli domanda se abbia conosciuto la signorina Jane Wingrave, la zia di Owen, che Lechmere definisce terribile e viene corretto dall’istitutore: “Formidabile, vorrete dire, ed è giusto che lo sia; perché, in certo qual modo, nel suo aspetto stesso, da quella brava vecchia zitella che è, rappresenta le tradizioni e le gesta dell’esercito inglese. Rappresenta la forza d’espansione del buon nome britannico”. Dunque Coyle intende coordinare ogni influenza per opporsi alle scelte del giovane, e cerca anche l’appoggio di Lechmere: questi conosce le idee dell’amico, anche se non sapeva volesse ritirarsi, e non si mostra così tranchant come Coyle sull’opinione che il mondo avrebbe di quel ritiro. Comunque ritiene di poter ricondurlo alla ragione.

Poi Coyle chiede un colloquio alla formidabile zia. Ovvio, ribatte lei alle osservazioni dell’istitutore sull’enorme intelligenza del giovane: ovvio che lo sia, in famiglia hanno avuto un solo idiota, Philip Wingrave, primogenito del defunto fratello di lei, imbecille, deforme e relegato in una clinica privata. Le speranze del casato di Paramore si sono dunque concentrate sul secondogenito, bello e pieno di doti eccellenti: ed erano stati i soli figli dell’unico rampollo del vecchio Philip Wingrave. Owen padre era rimasto ucciso sul campo da una sciabola afgana, il terzogenito e la moglie erano morti e Owen jr., rimasto a Paramore col nonno, era stato oggetto di premure particolari della zia nubile.

L’istitutore aveva un particolare ricordo di lei, quando il ragazzo gli era stato affidato per prepararlo alla carriera militare della tradizione di famiglia. Sir Philip viveva in una casa immiserita e tetra ma piena di dignità: per quanto vecchio e tremante, il vecchio militare era circonfuso della leggenda di storie impressionanti. Nell’occasione di quel primo incontro, Coyle aveva conosciuto anche altre due persone: un’amica vedova della signorina Wingrave – la scialba signora Julian, sorella di un gentiluomo caduto nella rivolta indiana, che era stato il fidanzato poi mollato dalla signorina – e la figlia diciottenne, “molto impertinente con Owen”. La morte dell’ex fidanzato aveva spinto la zia di Owen in preda ai rimorsi a espiare quell’abbandono preoccupandosi della sorella di lui e prendendola con sé come governante non remunerata, da poter maltrattare a proprio piacimento. In effetti, l’impressione della zia sull’istitutore non era risultata “tra le più fuggevoli di una giornata, singolarmente gremita per lui del senso di perdite dolorose, di lutti, di memorie, di nomi mai pronunciati, di lontani lamenti di vedove, di echi di battaglie e di notizie penose”. Al punto da lasciarlo un po’ turbato sulla professione a cui avviava i giovani allievi: e Jane Wingrave (col suo aspetto distinto e spigoloso, e il sembiante di genio d’una stirpe di soldati) lo faceva sentire anche peggiore. Non che la signora avesse caratteristiche da virago: erano invece gesti e toni di voce a rimandare al “supremo valore della famiglia”, con un vanto sproporzionato fino alla volgarità nei confronti degli antenati.

Ma per l’istruttore lei rappresenta ora un potente sostegno. “Avrebbe voluto che il nipote avesse una ristrettezza mentale anche maggiore, invece d’essere quasi diabolicamente ossessionato dalla tendenza a guardar le cose nei loro reciproci rapporti”: noi diremmo, nel rispetto della complessità. Certo, non è chiaro a Coyle perché la signorina arrivando a Londra prenda alloggio in Baker Street, che non è zona di abitazioni (Sherlock Holmes a parte). Ma un’unica cosa per lei conta…

Riceve dunque Coyle in una “grande stanza fredda e sbiadita”, dove l’unica comodità personale è offerta da un grosso catalogo dell’Unione militare per l’Esercito e la Marina: e alla notizia da lui recata l’unica reazione è l’indignazione. Dotata di troppo poca fantasia da lasciarsi prendere dalla paura e invece dell’abitudine a guardare il pericolo in faccia, resta inaccessibile al timore che il nipote dia pubblico spettacolo di sé, e persino alla sorpresa o ad altri sentimenti futili e delicati: si indigna della faccenda come farebbe se il nipote “si fosse permesso di fare dei debiti o di innamorarsi di una ragazza di bassa condizione”, ma tanto sa che nessuno prenderà in giro lei. Coyle ammette di non essersi mai interessato tanto a un discepolo, e la signorina trova il tutto ovvio: se gli piace tanto, lo tenga dunque tranquillo. Del resto, più lui parla dell’indipendenza intellettuale di Owen, più lei vede ciò come prova che il nipote sia un Wingrave e un soldato. Solo quando Coyle spiega che Owen svilisce la prospettiva di una carriera militare, lei stupefatta ordina di mandarlo da lei. L’istruttore spiega che era ciò che intendeva fare, ma la esorta a prepararsi al peggio, perché facilmente non riuscirà a convincerlo. La formidabile zia osserva allora di avere “un argomento molto forte”, e fissa Coyle, che perplesso la esorta a utilizzarlo. Solo, mette le mani avanti, il giovane andrà a Eastbourne per rilassarsi un po’: al che lei ribatte che non lo trattino come un invalido, di soldi per lui ne spendono già abbastanza. Lo porterà con sé a Paramore, “lì sarà trattato come si merita, e ve lo rimanderò col cervello raddrizzato”.

L’educatore riflette però che quella donna “è un granatiere”, e la sua mancanza di tatto rischia di peggiorare la situazione. “In conclusione, la difficoltà grande è che il ragazzo è il migliore di tutti loro”. Risultato confermato dai discorsi a cena, davanti all’imbarazzato amico Lechmere e al preoccupato Coyle. Che comincia a pensare che la rozzezza di quella famiglia sarebbe troppo per il giovane sottile che ha diritto di pensare con la sua testa. Poi lo invita a recarsi a Baker Street a incontrare la zia, e il giovane accetta – con un coraggio, al netto di ogni preoccupazione certamente provata, che Coyle deve riconoscergli. Qualcosa che rivela una sua sostanziale natura di soldato: “Molti giovani di fegato si sarebbero sottratti a un rischio di quel genere”. E uscito Owen, Lechmere commenta “Ha le sue idee, e come!”: hanno parlato, e l’amico ha spiegato come i suoi scrupoli riguardino la “crassa barbarie” della guerra. Con una particolare ostilità verso i grandi generali e in particolare versi Napoleone, “una canaglia, un criminale, un mostro”. Coyle vuol sapere cosa Lechmere gli abbia risposto, e questi spiega di avergli obiettato che “era un cumulo di sciocchezze”: e resta invece stupefatto che Coyle ammetta una verità parziale del discorso del discepolo pacifista. Tutto è nato comunque da una serie di letture sui grandi condottieri, che – come chiarito da Owen – gli hanno aperto gli occhi con un’ondata di disgusto. “Ha parlato della ‘smisurata tragedia’ delle guerre, e mi ha domandato perché le nazioni non fanno a pezzi i governanti che le promuovono”, con un odio speciale per Bonaparte. Che, ammette Coyle, era davvero una canaglia e un cialtrone; comunque Lechmere ha avvisato l’amico che i suoi scrupoli di coscienza sarebbero stati visti come un mero pretesto di chi non abbia il temperamento militare. Coyle immagina già che cosa Owen abbia risposto, “Al diavolo il temperamento militare!”: al che Lechmere aveva risposto sdegnato prendendo le difese della professione. Coyle è contento di come Lechmere abbia reagito, e lo invita a incalzare l’amico; gli offre anche un cicchetto, ma si rende conto che il giovane ha qualcosa fermo sullo stomaco. Un po’ ingenuotto, chiede conferma all’istruttore che Owen da lui tanto ammirato non stia semplicemente cercando di sottrarsi ai pericoli – ed è sollevato dalla risposta netta di Coyle, “Ma neanche per idea!”.

Il terzo capitolo inizia una settimana dopo questi fatti. Coyle riceve un invito – da allargarsi a sua moglie e al giovane Lechmere – all’antica tenuta di Paramore, dove Jane Wingrave non è riuscita ad avere la meglio sul nipote. A Coyle viene da sorridere, pensando che va “piuttosto a difendere il suo ex scolaro che ad accusarlo”: sua moglie, che lui scherzando accusa d’essere innamorata di Owen, accetta volentieri, e così l’altro allievo. Ma per l’istruttore “Quella brevissima seconda visita, che cominciò il sabato sera, doveva rimanere l’episodio più strano della sua vita”.

Trovatosi un attimo solo con sua moglie – dovevano vestirsi da sera – entrambi commentano “la sinistra tetraggine diffusa per tutta la casa”. La signora si rammarica d’essere venuta, “la casa aveva un aspetto cattivo, strano, sinistro” e la mette a disagio il fatto che la signorina Julian – la diciottenne figlia della quasi-governante – si atteggi con modi affettati come la persona più importante là dentro, mentre Owen pare invecchiato di almeno cinque anni. Evidentemente, osserva Coyle, per pressioni ambientali, gli hanno tagliato i viveri: e lui finisce col parteggiare per l’allievo, cosa che la moglie fa esplicitamente (“era troppo buono per diventare un soldataccio, e quel soffrire per le sue idee era un segno di nobiltà”). In effetti mezz’ora prima Owen si era concesso la familiarità di prendere a braccetto l’istitutore, mostrando “che aveva indovinato da chi poteva aspettarsi la maggiore bontà e comprensione”. Il tutto sotto l’occhiuto spiare della signorina Wingrave, a controllare che l’istitutore non venisse corrotto dall’ex-allievo. Questi tradisce – Coyle è molto diretto – “un’aria strana, malata” e parla della forza di resistenza che ha dovuto esercitare in quel contesto, un obiettivo interiore che il suo istruttore dovrebbe apprezzare. Certo, ha passato ore terribili con il nonno, “che lo aveva aggredito in un modo da fargli rizzare i capelli in testa”, mentre la zia – in modo diverso – è “egualmente oltraggiosa”. Si vergognano di lui e lo accusano di infangare pubblicamente il loro nome, unico in trecento anni a tirarsi indietro, parlando degli scrupoli di lui “come voi non parlereste di un dio dei cannibali”. Tra le pressioni c’è la minaccia di diseredarlo, ma non è questo che lo tormenta – del resto è chiaro che il ragazzo non è un debole o un vigliacco, e i suoi attacchi a chi propone la “stupida soluzione della guerra” sono aperti e duri. No, a turbarlo è altro,

 

l’atmosfera di questa casa. Ci sono strane voci che sembrano borbottare contro di me… dire cose terribili mentre passo. […] Ho ridestato gli spettri. I ritratti stessi mi guardano con occhi di fuoco dalle pareti. Ce n’è uno del mio trisavolo (quello di cui conoscete la straordinaria vicenda, il quadro appeso al secondo pianerottolo dello scalone) che addirittura si agita sulla tela, si sporge un po’ in avanti, quando m’avvicino. Devo pur salire e scendere le scale; è molto sgradevole! Mia zia li chiama la cerchia familiare: siedono là, aggrottati e feroci, costituiti in corte di giustizia. Sono tutti qui dentro, è una sorta di presenza paurosa che non lascia via di scampo, e si prolunga a perdita d’occhio nel passato. Quando tornai qui con lei l’altro giorno, la signorina Wingrave mi disse che non potevo avere l’impudenza di fare certi discorsi qui dentro. Ho dovuto farli a mio nonno, invece; ma ora che li ho fatti mi sembra che la questione sia conclusa. Voglio andarmene, anche se sarà per non tornare mai più.

 

Quanto alla signorina Julian, risponde Owen a una domanda di Coyle, la sua opinione è la stessa della cerchia familiare Wingrave, e della propria – visto che il padre di lei era morto combattendo. Per cui odia Owen, che tradisce quel legato di armi e ferocia patriottarda… Coyle non crede che la ragazza possa odiare il coetaneo, ma ci crede la moglie di lui, che ha notato il contegno perfido della diciottenne verso il giovane, e invece il suo ostentato civettare con il giovane, sciocco Lechmere. Coyle pensa che la ragazza non avrebbe vantaggio ad alienarsi Owen, dunque deve trattarsi di atteggiamenti innocenti, ma la moglie gli ricorda che Owen è caduto in disgrazia, dunque non è più l’erede… L’istitutore allora le racconta del minaccioso ritratto del trisavolo che infesterebbe la casa, e la moglie protesta che avrebbe dovuto fargliela conoscere prima.

Nella prima versione del racconto, la moglie chiedeva a Coyle: “Vuoi dire che la casa ha uno spettro?”, ma nella versione definitiva il testo suona “Vuoi dire che la casa ha notoriamente uno spettro?”, in riferimento alle prove della ricerca psichica al tempo di moda. Comunque la storia rimonta ai tempi di Giorgio II, quando il collerico colonnello Wingrave aveva impartito a un figlio ancora in età di crescita una tale botta sulla testa che il ragazzo era morto – la storia era stata messa a tacere “e i funerali si svolsero tra mormorazioni soffocate”. Ma la mattina seguente il colonnello, “uomo forte e sano”, era stato trovato stecchito – senza ferite o espressioni strane sul viso – nella stanza dell’altra ala (la cosiddetta camera bianca) in cui il corpo del figlio era stato composto prima del trasbordo al cimitero. Una morte inspiegabile, “Si suppone che andasse nella stanza durante la notte, prima di coricarsi, preso da un accesso di rimorso o affascinato da una qualche allucinazione paurosa”: e solo allora emerse la verità sulla fine del ragazzo, ma come conseguenza “nella stanza non dorme mai nessuno”. Una stanza – spiega Coyle che l’ha rapidamente visitata – in sé vuota e triste, niente di speciale.

La moglie resta molto impressionata, e davanti al ritratto del famigerato vecchio colonnello appeso sulla scala – una figura simile deve infestare la casa – dichiara che l’anziano Sir Philip gli somigli in modo prodigioso. Coyle si sorprende a rammaricarsi di non aver insistito di più per la gita di Owen a Eastbourne… A cena, per fortuna, l’ambiente della chiusa e tetra cerchia familiare si stempera per la presenza di estranei, tra i quali il pastore e sua moglie e un giovane venuto a pescare. Ma l’indomani ci sarebbe stato l’arduo confronto con l’arida Jane Wingrave – per cui insomma Coyle rischia di dover dire cosa davvero pensi su quella penosa situazione.

Owen cerca di non turbare l’apparente armonia, e finge di non essere stato messo “al bando”: ma la sua faccia ridente rivela all’istruttore tutta la sofferenza di un agnello destinato al sacrificio. Con “una mancanza di logica che era soltanto superficiale”, Coyle si rammarica che il giovane sia un tale combattente; e intanto osserva la bella Kate Julian e il suoi modi in fondo fuori luogo – sul piano della prudenza come del decoro – per una dipendente senza mezzi, ma con uno spirito incapace di precauzioni. Troppo indifferente per essere aggressiva, Kate ha “l’aria di pensare che poteva prendersi il lusso di comportarsi come meglio le piaceva”, senza nulla da perdere o da guadagnare. Probabilmente perché è protetta dell’anziano Sir Philip – ma qual è il rapporto con Owen? Certo non d’indifferenza, e tanto meno – giudica Coyle – di avversione. Non si tratta di Paolo e Virginia, anche se i due giovani sono cresciuti idealmente con una simile dinamica fraterna, sia pure inframmezzata da periodi di lontananza dell’uno e dell’altra. Mentre il candido giovane Lechmere appare fin troppo colpito da lei.

Si giunge così al quarto e ultimo capitolo, avviato dall’avvicinarsi di Kate a Coyle: senza preamboli, gli annuncia di sapere cosa sia venuto a fare, ma è inutile. Non riuscirà a far niente con Owen. Lo ammirano tanto, per questo sono tanto disperati. Lei adora “la carriera delle armi e [vuole] un gran bene al [suo] vecchio compagno di giochi”, ma evidentemente lui non desidera accontentarla, e la giudica “un’impudente sfacciata” per avergli detto “che il suo modo di comportarsi non era certo quello di un gentiluomo!”. Ma cosa avrebbe detto “se non ci fosse stato nessun precedente?” domanda Coyle, Kate ribatte di non capire, “credevo che aveste il compito di fabbricare dei soldati” e lui risponde che con Owen non occorre fabbricare nulla, “a parer mio Owen è, nel più alto senso del termine, un guerriero”. La ragazza ribatte impaziente “Allora lo dimostri!” e gli volge le spalle: Coyle la lascia andare, “c’era qualcosa nel suo tono che lo irritava e anche, non poco, lo disgustava”. Poi insiste per mandare a letto il giovane Lechmere – che vagheggerebbe di dormire nella stanza infestata, evidentemente per far colpo sulla ragazza – e la moglie vuol essere accompagnata a letto.

Iniziano i congedi per la notte, ma Kate si guarda bene di salutare Coyle, pur gettando un’occhiata a Owen. Il vecchio pestifero Sir Philip ne rifiuta sprezzantemente l’aiuto per recarsi in camera, neanche il giovane avesse falsificato una cambiale. Poi Coyle, ordinato nuovamente a Lechmere di andarsene a letto e di guardarsi dal fare qualunque sciocchezza nottetempo, chiede a Owen di mettere a letto il suo amico e “chiuderlo a chiave dal di fuori […] Lechmere ha una curiosità morbosa circa una delle vostre leggende… delle vostre stanze storiche. Soffocatela mentre è ancora sul nascere”. Owen svaluta a falso la storia della camera infestate, Lechmere obietta che non è sincero e lo sfida a passare la notte lì dentro, Owen ribatte “So chi vi ha detto questo” – ovviamente Kate – e conclude che “lei non sa”, non sa niente. Dopodiché promette a Coyle che rincalzerà le coperte a Lechmere, e l’istruttore si sente indiscreto perché la sua presenza pone involontariamente a disagio i discepoli.

Raccomandato loro di non rendersi ridicoli, incrocia Kate sulle scale: sta tornando giù perché ha perso un turchese, l’unico gioiello che possiede, e gli amici di cui sente il vociare l’aiuteranno nella ricerca. Coyle raggiunge la moglie, ma poi non si sveste e inquieto passa nel corridoio. La stanza di Lechmere è chiusa, a differenza che mezz’ora prima: ma poi sente dall’interno un suono dalla finestra, bussa e, quando il giovane apre, gli spiega che vuol verificare non si esponga a emozioni eccessive. L’ingenuotto risponde che “ce n’è da vendere”, Kate è scesa e lui l’ha lasciata intenta a litigare con Owen, che lei accusa di mentire. Lechmere ammette di aver avuto “la stupidità di tirar fuori di nuovo la storia della camera stregata e quanto [gli] dolesse la promessa […] di non tentare la prova”. Coyle ribatte che non si può cacciare “il naso in quel modo nelle case degli altri”, ma il giovane ribatte che Kate ha creduto al coraggio che avrebbe dimostrato. Ma ha poi aggiunto, “Non ci si può aspettare altrettanto da un uomo che ha preso la sua straordinaria decisione”, una palese sfida a Owen. Ha già passato la notte prima in quella stanza, dice il giovane, senza veder nulla: Kate non gli ha creduto, altrimenti le avrebbe raccontato qualcosa, ma all’affermazione di Owen di non curarsi del parere di lei ha accennato che la sua impressione è che volesse ingannarla – in sostanza che non fosse vera la storia della sua notte là dentro. In realtà l’amico – che ritiene Kate sia attratta dal giovane che sta maltrattando – sospetta che sia un altro l’elemento taciuto da Owen, cioè il fatto che al contrario vi abbia visto o sentito qualcosa… E alla domanda di Coyle, sul perché non ne avrebbe parlato, risponde “Forse è così terribile che non ci sono parole”. Comunque all’accusa di mentire, Owen ha risposto alla ragazza “Conducetemi lì voi stessa e chiudetemi dentro!”. Lechmere non sa se l’abbia fatto.

Coyle non sa dove sia la stanza di Owen e non può controllare; torna in camera, dove la moglie nota la sua incapacità di riposare. In quell’atmosfera oppressiva, non riescono a dormire e parlano dell’accaduto a lungo:

 

Verso le due la signora Coyle s’era fatta così nervosa sul conto del loro giovane amico perseguitato, e così presa dalla paura che quella perfida ragazza si fosse valsa della proposta di lui per sottoporlo a una prova abominevole, che supplicò suo marito, per quanto la cosa potesse turbarlo, di andare a dare un’occhiata. Ma Spencer, a mano a mano che il fascino della notte calava sopra di loro, avevo innaturalmente finito col ridursi a una trepida accettazione della prontezza con la quale Owen si era dimostrato disposto ad affrontare Dio solo sa quale inumana tensione nervosa: cimento tanto più estenuante per una sensibilità già eccitata, in quanto il povero ragazzo sapeva, dalla prova della notte precedente, quale sforzo disperato avrebbe dovuto sostenere.

 

Augurandosi che Owen sia andato davvero nella stanza, in modo da svergognare tutti quanti, Coyle resta però in scacco: non può farsi trovare a esplorare la casa al buio ma non riesce ad andare a letto, fermandosi a leggere nello spogliatoio; si assopisce ed è destato da un grido d’orrore dalla stanza di sua moglie.

Echeggia però un altro grido, “Aiuto! Aiuto!”, e lui corre in quella direzione, verso una parte lontana della casa, tra porte che si aprono, voci agitate e le prime luci dell’alba.

 

Alla svolta d’un corridoio, s’imbatté nella bianca figura d’una ragazza svenuta su una panca, e come illuminato da una rivelazione capì all’istante, continuando nella sua corsa, come Kate Julian, presa troppo tardi dal gelo del rimorso per la sfida beffarda cui il suo orgoglio l’aveva spinta, dopo essere andata a liberare la vittima della sua derisione, fosse fuggita via barcollando, costernata dalla visione della catastrofe di cui era stata causa, catastrofe davanti alla quale egli si trovò un momento dopo, sgomento, sulla soglia d’una porta spalancata. Owen Wingrave, vestito come lo aveva visto poche ore prima, giaceva morto nel luogo stesso dove il suo trisavolo era stato trovato. Aveva in tutto e per tutto l’aspetto del giovane soldato caduto sul campo della vittoria [nella prima versione, l’ultima frase suonava: “Sembrava un giovane soldato caduto sul campo di battaglia”].

 

Si è osservato che il fantasma è in questo racconto il fantasma di famiglia, il senso del passato come peso morto con cui l’orribile famiglia Wingrave vuole coartare il rampollo Owen – etimologicamente “giovane soldato”, in scozzese e gallese – perché prosegua la tradizione guerrafondaia. Il titolo del racconto in effetti è “The young soldier wins his grave”, “Il giovane soldato conquista la sua tomba”.

Ovviamente esiste una chiave psicologica di interpretazione del racconto, con il giovane pressato dalla famiglia, sminuito non solo da questa ma dalla ragazza che in prospettiva avrebbe potuto sposare, convinto obiettore di coscienza e dotato di un rigore da soldato nel portare avanti le proprie convinzioni. Il fantasma non lo vediamo e potrebbe non esserci: è più uno spirito oppressivo della famiglia. Anzi, quando James trasforma il testo in un atto unico teatrale (1908) e la versione viene portata in scena a Londra da Gertrude Kingston, questa fa comparire in scena una figura biancastra ondeggiante: informato mentre è in America, James scriverà una lettera sdegnata per quella soluzione tanto pacchiana che forza l’interpretazione.

In compenso la versione teatrale vede nascere una querelle con Bernard Shaw, che – semplificando molto l’argomentazione – accusa il finale di colpevole pessimismo. Per James, che descrive il peso della famiglia e della tradizione, la morte di Owen è una vittoria da soldato, nel segno stesso dello spirito di famiglia ma come invertendone la polarità; per Shaw, si è detto, è una vittoria di Pirro, perché lo spirito di famiglia vince contro Owen, uccidendolo. Shaw si ribella al finale per motivi ideali, James forse guarda l’amarezza dell’esistente: ma diciamo che il suo finale condanna senza appello gli altri personaggi e alla fine lo stesso Coyle. Tutti quanti dovranno trascinarsi il rimorso, non solo la velenosa superficialotta Kate: tutti quanti diverranno fantasmi di loro stessi, destinati a morire consunti dalla propria gretta visione del mondo e da una sconfitta che Owen ha così reso pubblica.

In questi tempi di pornografia bellica, di disegni di legge su leve diffuse – e inutili, in contesti dove tutto viene giocato su armi a lunga gittata e il numero dei morti civili è in percentuale sempre più alto – e la riflessione sull’obiezione di coscienza viene soffocata da paura, orgogli fallocratici, letture losche dei rapporti tra popoli e sbrodolature su pretesi mondi al contrario, non sembra inopportuno rileggere questo racconto di James.

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Notti buie e tempestose (Victoriana 47) https://www.carmillaonline.com/2023/11/18/notti-buie-e-tempestose-victoriana-47/ Sat, 18 Nov 2023 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79401 di Franco Pezzini

Ben prima di Snoopy, a celebrare l’espressione “Era una notte buia e tempestosa” (“It was a dark and stormy night”) era stato il romanzo Paul Clifford, 1830, opera di un genio della comunicazione, l’arcivittoriano Edward Bulwer-Lytton (1803-1873). Genio perché, trovandosi costretto a dispetto dello status elevato a lavorare per vivere, divenne scrittore “popolare” – nel senso di un successo diffuso, tanti compravano i suoi romanzi vicino alle stazioni per distrarsi dalle fuliggini dei viaggi in treno – battendo un po’ tutti i generi narrativi con successi degni di nota e [...]]]> di Franco Pezzini

Ben prima di Snoopy, a celebrare l’espressione “Era una notte buia e tempestosa” (“It was a dark and stormy night”) era stato il romanzo Paul Clifford, 1830, opera di un genio della comunicazione, l’arcivittoriano Edward Bulwer-Lytton (1803-1873). Genio perché, trovandosi costretto a dispetto dello status elevato a lavorare per vivere, divenne scrittore “popolare” – nel senso di un successo diffuso, tanti compravano i suoi romanzi vicino alle stazioni per distrarsi dalle fuliggini dei viaggi in treno – battendo un po’ tutti i generi narrativi con successi degni di nota e una cura ai contesti narrati (storici, soprattutto) davvero nuova. Per non parlare dei racconti, delle opere teatrali (quelle nate in tale forma e quelle in prosa o musicali derivate dai suoi scritti, fino a raggiungere infine gli schermi) e persino di una produzione lirica non enorme ma – con qualche storcinaso di Poe –  significativa. “Arcivittoriano” perché, vissuto sotto il regno della grande regina, incarnò dell’epoca valori e disvalori, entusiasmi e curiosità, anche attraverso relazioni di rilievo (si pensi alla sua amicizia con Dickens, che portò i due a scambiarsi oculati consigli letterari). Impossibile affrontare lo studio della realtà vittoriana senza confrontarsi in qualche modo con lui.

La rimarchevole produzione bulweriana di testi ampi comprende romanzi storici come il sempreverde Gli ultimi giorni di Pompei (The Last Days of Pompeii, 1834) e avventure criminali (per esempio Paul Clifford), romanzi di costume e – ciò che qui particolarmente interessa – novel di tema fantastico: una varietà il cui tessuto intrinseco rivela già una ricchezza di linguaggi diversi disinvoltamente ibridati. Emblematico per esempio il celeberrimo Gli ultimi giorni di Pompei, che integra a un’abile regia da kolossal catastrofistico alla Roland Emmerich spunti dei romanzi devoti (la presenza dei cristiani) e d’avventure, e di quelli esotici/esoterici (i culti di importazione egizia, tramite il personaggio del losco Arbace dal nome un po’ fascista, mago immigrato e sacerdote di Iside). O, altro esempio interessante, Zanoni (1842), dove romanzo storico – sulla rivoluzione francese, vista ovviamente con gli occhi inorriditi di un conservatore britannico –, storia iniziatica – sulla sapienza di gruppi come i Rosacroce o fraternità assai più antiche – e romanzo avventuroso-fantastico approdano a un esito narrativamente godibile ancor oggi.

Il canone fantastico di Bulwer-Lytton comprende poi la novelette dell’agosto 1859 “Gli infestati e gli infestatori, o la casa e il cervello” (“The Haunted and the Haunters; or, The House and the Brain”, sul Blackwood’s Edinburgh Magazine), pragmaticamente scorciata nel 1864 in forma di racconto per la pubblicazione da parte dell’autore di un diverso romanzo su un soggetto consimile, Una storia singolare (A Strange Story, 1861-1862); e il famoso La razza futura (The Coming Race, 1871), poi riproposto come Vril: The Power of the Coming Race, che ispirerà scrittori, teosofi e – si dice – esoteristi del sottomondo protonazista con la suggestione di una fantomatica forma di energia chiamata Vril e l’idea di una razza superiore insediata in un mondo sotterraneo. I richiami al nome di Bulwer-Lytton negli studi e nelle disinvolte (e talora confusive, penso a certe pagine di Giorgio Galli) affabulazioni sul nazismo magico vanno peraltro contestualizzati senza fantasie nel quadro di una produzione più ampia e di un immaginario romantico.

Già Zanoni aveva consacrato la fama di Bulwer-Lytton come grande esperto di esoterismo – in modo un po’ simile a quanto avverrà nel secolo successivo con Dennis Wheatley – fino agli equivoci del griffarlo quale patrono di coevi ordini rosicruciani: vero che egli nutrì genuini interessi per l’occulto (si pensi ad alcuni oggetti di utilizzo magico in bella evidenza nelle vetrine della sua teatralissima proprietà di Knebworth, coronata di draghi e gargolle) e accolse in Inghilterra il mago francese Éliphas Lévi di cui leggeva affascinato la trattatistica: ma le storie bulweriane sono assai più frutto della sua fervida e colta fantasia che di rivelazioni iniziatiche tra le righe.

“Gli infestati e gli infestatori, o la casa e il cervello” riguarda appunto l’impossessamento spettrale di una casa a Londra quale strascico dell’opera di un sinistro personaggio in precedenza insediatovi: a collegare nuovamente, come in Zanoni, il mondo vittoriano con la precedente età gotico-romantica di parrucche, trine e misticismi. L’avventura nella casa infestata rappresenta qui una delle prime trascrizioni ottocentesche del topos, e a detta di M. R. James potrebbe essere debitrice dei resoconti sui raggelanti eventi nel mulino della famiglia Proctor, a Willington (dal 1835 in avanti). Concediamoci pure qualche spoiler, per analizzare comparativamente i testi.

Tutto inizia con la proposta del narrante di fermarsi a dormire in una casa che ormai da parecchi anni fa fuggire tutti gli inquilini – l’unica signora che vi si è fermata è morta (male) qualche tempo prima. Dunque il Nostro vi si insedia assieme al suo allegro e fedele servitore F. e a un coraggioso bull-terrier, che però appena entrato inizia – bell’avvio – a graffiare la porta per uscire… Rincuorato e coccolato, si stringe al padrone invece di correre avanti, e i due uomini provvedono a una perlustrazione dell’edificio dalle cantine in su: ma scesi nel lugubre cortiletto si accorgono che a fianco delle loro impronte nella mota fuligginosa prendono a comparirne improvvisamente altre, come di un bambino a piedi nudi. Poi in salotto una sedia si muove, e commentano che è meglio dei tavolini delle sedute spiritiche… anche perché sulla sedia il narrante prende a intravedere una sagoma umana, azzurrognola e indistinta. Via via i fenomeni strani si moltiplicano, e soprattutto emerge un sentore come di esalazione tossica dal pavimento. Il narrante trova un paio di lettere in un cassetto, le sfila ma qualcosa cerca di portargliele via…

A un esame prontamente condotto, le lettere risultano scritte da un uomo – evidentemente un marinaio – alla propria partner, e vi si evoca a presenza di un inquietante segreto.

 

«Quel che è fatto, è fatto; e ti dico che contro di noi non esiste nulla, a meno che i morti non possano risuscitare». Qui, con calligrafia migliore (quella di una donna), era sottolineato: «lo fanno!».

 

Ma alla fine della lettera datata per ultima, la mano femminile ha scritto: “Scomparso in mare il quattro giugno, lo stesso giorno di…”.

Gli eventi successivi della notte sono sufficienti a terrorizzare fino alla fuga il bravo F., a sconvolgere il cane tanto da spingerlo a tuffarsi sul muro cercandovi un’inesistente breccia e lasciar solo il Nostro – che regge per un insieme di orgoglio e curiosità, ma anche per una certa consuetudine da appassionato a esaminare fenomeni straordinari. Non stupiamoci, lo spiritismo conosce all’epoca un’impennata, le esperienze di confine fioccano e i bollettini dei devoti traboccano di storie affascinanti. La teoria del Nostro

 

è che il Soprannaturale è in verità l’Impossibile, e che ciò che viene chiamato soprannaturale è soltanto un qualcosa che appartiene a leggi della natura da noi finora ignorate. Perciò, se davanti a me spuntasse un fantasma, non avrei nessun diritto di dire che “il soprannaturale esiste”, ma dovrei dire che “contrariamente a ciò che comunemente si pensa, l’apparizione di un fantasma fa parte delle leggi della natura, cioè non è soprannaturale”.

 

E nelle presunte evocazioni di spiriti, ammettendone in astratto l’ipotetica verità, resta il dato oggettivo del corpo vivente e materiale del sensitivo, grazie alle cui capacità i fenomeni si verificano. Per lo spiritismo, come per il mesmerismo, occorre considerare la presenza di entità materiali come fluidi. Donde per i fenomeni in corso un interesse del Nostro “più scientifico che superstizioso”: come ora per l’ombra che va a oscurare la luce, il gelo intenso che sopravviene, la sensazione di due occhi a fissarlo, e una sorta di forza che lo schiaccia al suo posto come una volontà opposta alla sua. Di qui un’impennata di orrore – le candele si affievoliscono, il fuoco si ritrae – che lui cerca di non far trascolorare in paura, finché la stanza non sprofonda nel buio. Lasciamo al lettore la delizia di farsi inquietare da Bulwer-Lytton attraverso vari altri fenomeni, bolle di luce, apparizioni, occhi maligni, entità larvali caotiche come creature al microscopio… Ma negli occhi dell’ombra c’è una volontà, un potere intensamente demoniaco: e dopo una convulsione che fa tremare la stanza, la fiamma torna a prendere il proprio posto e la stanza torna tranquilla. Peccato che il cane sia morto, e non di terrore: ha, molto concretamente, il collo spezzato.

Al mattino, con la luce, il Nostro torna a casa e riceve una lettera dal domestico, ancora stravolto, che sta partendo per l’Australia. Recuperato poi il bagaglio che aveva portato alla casa, torna a restituire le chiavi al proprietario e gli offre conto del contenuto delle lettere trovate. Ipotizza alla base dei fenomeni una sorta di realtà similmesmerica ma di forza superiore (“magica”), estesa tramite il residuo terreno di un defunto, cioè lo spettro di una forma morta – senza nulla in comune con l’anima, e senza alcunché di soprannaturale vista che si tratterebbe di mere idee trasmesse da un cervello all’altro. Come appunto a monte dei fenomeni della casa sta un cervello plausibilmente inconsapevole, a fronte della varietà amorfa e differenziatissima di esperienze sperimentate da quanti abbiano cercato di passarvi del tempo. Certo un cervello malefico, per uccidere il cane: il Nostro si è salvato solo opponendo resistenza mentale. Consiglia dunque di abbattere le pareti della piccola stanza di fianco a quella dove lui ha cercato di dormire, e diretta verso il cortile.

Successive ricerche, a partire dalle lettere ritrovate nella casa, conducono alla ricostruzione di una loschissima storia sulla donna che aveva tenuto la casa, cioè l’ex-proprietaria divenutane affittuaria. E allo sventramento della stanza, la scoperta di una botola rivela un locale insospettato: oltre a qualche mobile malconcio, ospita i resti di un sontuoso abito con trine del secolo prima e una cassaforte di ferro murata. All’interno, oltre a oggetti di uso esoterico, una miniatura – si dirà poi che “sembra avere almeno cento anni” – dai colori intatti, di un uomo di quarantasette o quarantott’anni che fa pensare a un serpente, di aspetto avvertibilmente crudele e potentissimo. Il narrante (qui l’allusione favolosa è funzionale alla maggiore verosimiglianza) vi riconosce il ritratto di un certo personaggio storico,

 

un uomo di un rango inferiore solo a quello reale, il quale nel corso della sua esistenza aveva fatto parlare molto di sé. Di lui, la storia dice poco o niente; ma andate a guardare tra le lettere dei suoi contemporanei e scoprirete riferimenti alla sua audacia selvaggia, al suo libertinismo spavaldo, al suo spirito inquieto, al suo gusto per le scienze occulte. Morì mentre era ancora nel pieno delle sue forze e, riferiscono le cronache, fu sepolto in terra straniera. Morì in tempo per sfuggire al braccio della legge, poiché era accusato di delitti che lo avrebbero condotto dinanzi al boia.

Dopo la sua morte i suoi ritratti, che erano numerosi, poiché egli era stato un grande mecenate, furono raccolti e distrutti, probabilmente dagli eredi, che sarebbero stati ben felici di far scomparire anche il suo stesso nome dal loro splendido lignaggio.

 

A chi si riferisce l’autore? il personaggio è di fantasia, un mischione tra Cagliostro e il conte di Saint-Germain dalla vita improbabilmente lunga, i diabolisti dell’Hellfire Club, magari dissipati libertini come Sade o il conte di Charolais e forse – ipotizza Skey – il vampiro Lord Ruthven di Polidori: Conan Doyle potrebbe aver tratto da lui i tratti rettiliani del suo professor Moriarty… insomma, un personaggio estremo in tutti i sensi.

Il primo problema è che “tra gli anni in cui era vissuto quel terribile nobiluomo e l’epoca cui senz’ombra di dubbio risaliva la miniatura correva un intervallo di più di due secoli”; e il secondo sta nel fatto che il proprietario della casa è certo di aver conosciuto quell’uomo – un certo francese “de V.”, un brutto personaggio – in India. Sul retro della miniatura c’è un pentacolo con la data 1765; e aprendola è inciso “Mariana a te. Sii fedele per la vita e per la morte a…”, seguito dal nome di un “brillante ciarlatano, che aveva fatto grande sensazione a Londra per un anno o giù di lì” e ne era fuggito per l’accusa di aver assassinato l’amante e un rivale. Ma la cassaforte rivela altri oggetti strani, una sorta di bussola magica e un portafogli con una pergamena di maledizione sulla casa e i suoi abitanti – che il proprietario provvede a bruciare. Fermandosi anzi ad abitare nella casa, che dopo l’eliminazione della camera segreta diventa un luogo tranquillo e ameno. Qui si chiude la versione più tarda del racconto, che lo esaurisce nel tema della dimora infestata: certo per colpa di chi ha commesso alcuni atroci delitti, ma sulla base dell’innesco di una precedente maledizione.

Però poco tempo dopo i due uomini stanno ancora parlando dell’argomento, quando vedono dalla finestra un personaggio dal viso identico a quello della miniatura e al “de V.” dei ricordi del proprietario. Si precipitano fuori, ma gli occhi da serpente e il sembiante di orgogliosa dignità del tipo impediscono al narrante di chiedergli alcunché: e l’altro si defila.

La sera stessa, il Nostro si reca a un club, e nota un amico in dialogo proprio con il personaggio in questione. Dall’amico scopre che l’interlocutore è un uomo straordinario, grande studioso dell’Oriente e incredibile ipnotizzatore: si chiama, piuttosto banalmente, Richards. Il narrante gli viene presentato, e constata come costui sveli qualcosa di antico nel modo di parlare e comportarsi, e un ghigno sinistro. Ma quando i due si trovano soli e il Nostro gli accenna alla miniatura con un suo ritratto, lo sguardo ammaliante di Richards lo blocca come quello d’un serpente, strappandogli di bocca parole che non pensava di utilizzare e un’inattesa parola d’ordine. Richards accetta il confronto.

Il Nostro lo interroga così su telepatia e poteri del pensiero, che potrebbe riesumare azioni e pensieri maligni sedimentati (i crimini consumati da altri nella casa, a spiegare la pirotecnia di fenomeni dell’infestazione) e l’altro risponde sornione che un mortale con tali poteri sarebbe un uomo diabolico. In genere sì, ribatte il Nostro: chi ha la peculiare, rara costituzione psichica del mago presenta stigmi poco tranquillizzanti, ma assieme a una capacità straordinaria di concentrare la volontà su un singolo oggetto. Il fatto è che un simile egotista, con passioni selvagge e privo di limiti e affetti, osservatore acuto, calcolatore attento, “vuole continuare a vivere”, e perciò arresta per volontà la sclerotizzazione fisica che chiamiamo vecchiaia – badando solo a fingere ogni tanto di morire, e ricominciando prudenzialmente l’esistenza in un’altra parte del mondo. In questo senso, la filiera narrativa da cui sorge il sinistro Richards (cui trasparentemente il Nostro si riferisce) è in fondo la stessa dei vampiri multi-vita del primo ottocento, Ruthven e Varney, che muoiono più volte per tornare alla vita in grazia di raggi lunari o con altri sistemi. Mentre l’enfasi sulla volontà richiama i racconti sul mesmerismo in Poe e in altri autori.

A quel punto il Nostro smaschera il mago, che però incassa soave: da un secolo va alla ricerca di uno come lui, e riconosce in lui la veggenza – prodigiosamente presente in quell’attimo. Dunque Richards lo interroga, sfruttandone l’incidentale potere oracolare secondo la consolidata tradizione del mesmerismo; e apprende che la morte gli verrà infine per disgrazia, dopo molto tempo da allora, tanto che nel frattempo avrà avuto ancora modo di soggiogare razze e troni. La morte lo afferrerà a nord, in una scena con una nave incagliata tra i ghiacci sotto un cielo rosso di meteore che fa pensare alla Ballata del vecchio marinaio: là il mago – qualunque sia il suo nome a quel tempo, e unico superstite dell’equipaggio – conoscerà un appannamento senile della propria incredibile volontà e sarà preso dal terrore… Poi però ordina al Nostro di dormire e annuncia che tornerà a Damasco.

Il narrante perde i sensi, trova l’amico divertito che proprio lui sia caduto in quella trance mesmerica da cui si credeva intangibile: ma, cercato all’albergo dove aveva alloggio, Richard si è ormai reso irreperibile. Ha tuttavia lasciato al Nostro un messaggio: ha stabilito su di lui un potere, e non potrà parlare dell’episodio per tre mesi, al termine dei quali “il sortilegio sarà levato. A parte ciò, vi risparmio. Visiterò il vostro sepolcro, un anno e un giorno dopo che esso vi avrà accolto”. Bontà sua.

Fin qui la novelette, con la sua originalissima chiusa: ma il romanzo Una storia singolare si presenta in forma piuttosto diversa. Certo, in entrambi i casi l’interesse dell’autore non è tanto rivolto agli effetti più o meno impressionanti del rapporto con apparenti poteri magici, quanto alle relative cause e al brain, il cervello che sta dietro ai medesimi: tuttavia nel romanzo cambia l’equilibrio di fondo. Non vi si parla di case infestate; a cercare una nuova vita in Australia non è un servitore ma il protagonista; Damasco anche lì fa parte dell’oscuro passato del vilain, ma questi è una figura assai meno tradizionalmente connotata del serpentino Richards; a tenere in vita non è tanto la volontà – una volontà rabbiosa nell’uomo-serpente, legata al mesmerismo – ma arcani elisir come quello citato in Zanoni, mentre il mesmerismo in quanto tale è roba da vecchi dottori illusi; ci sono sentimenti forti in gioco. Però soprattutto, viene da pensare, la speculazione “teorica” vi ha un ruolo diverso. Concludiamo la lettura della novelette e non siamo certi che il narrante abbia capito tutto, il tipo di riflessione è molto letterario e quasi da narrante inaffidabile: il vilain è ancora vittorioso e sarà sconfitto solo in prospettiva. Al contrario nel romanzo il mago sarà sconfitto in scena, e l’analisi dei meccanismi “magici” è condotta seriosamente con le glosse di un ricco, inusuale apparato di note e rinvii bibliografici. Il narrante del romanzo, al di là dei suoi errori, è insomma persona assai più seria del ricercatore un po’ naïf della novelette. Ma se i testi sono insomma distanti, perché sforbiciare il primo? L’autore ha tenuto a sostenere la riflessione più solida del novel, contro quella vagamente paradossale della novelette di cui ha preferito ripudiare gli esiti?

Di nuovo, in Una storia singolare troviamo trasfusi – come negli altri romanzi – più linguaggi diversi: in questo caso, il romanzo d’amore, la storia filosofico-religiosa (l’autore considera quest’opera la più alta e profonda della propria produzione) e il romanzo esoterico, più qualche elemento che flirta col poliziesco e una robusta quantità di satira di costume. Quest’ultima sviluppata particolarmente nella prima metà: il mondo di L. – plausibilmente la città di Lincoln – dove il narrante protagonista, il giovane dottor Allen Fenwick deve barcamenarsi tra i pazienti di una Città Bassa e di quella “alta” di Abbey Hill, non necessariamente più ricca ma più potente e con pretese di status, è letto con acuti connotati di satira sociale.

A spiccare è la regina assoluta del Colle, la moglie del colonnello Poyntz, un personaggio di straordinario rilievo che Wilde avrebbe arruolato per le sue ingestibili madame (come la Zia Augusta di The Importance of Being Earnest) se attorno non avesse già goduto a sufficienza di modelli reali. Così, è la machiavellica, severa e ironica signora Poyntz a sostenere, per propri personalissimi interessi e gelosie (il profilo complesso risulterà di fascinosa sottigliezza, possiamo immaginare nel ruolo una Judi Dench), l’onesto Fenwick nello scalzare la concorrenza di un medico modaiolo mesmerista, il dottor Lloyd: il rigore alla CICAP di Fenwick contro pratiche non scientifiche verrà posto alla prova in tutti i modi possibili nel corso della vicenda, costringendolo a prendere atto dell’esistenza di realtà altre pur non banalizzabili, e tali da approcciarsi con necessaria elasticità culturale in vista di nuovi paradigmi.

Attaccato dagli amici di Lloyd – che nel frattempo è morto, dopo aver cercato di suscitare in Fenwick acuti sensi di colpa (e il romanzo gioca abilmente sul tema della colpa che noi rifiutiamo ma lascia come un’ombra sulla nostra vita) – e insidiato dalla maneggiona signorina Brabazon che mirerebbe a impalmarlo, Fenwick si innamora invece della fin troppo angelicata (fino all’insopportabilità) Lilian Ashleigh: con iniziale successo, anche grazie all’appoggio della signora Poyntz. Successo minato però rapidamente da una serie di difficoltà: in particolare per l’apparizione di un giovane bellissimo e selvatico, il fascinoso e losco Margrave aureolato da livide voci filtrate dall’Oriente.

Non è il caso in questa sede di addentrarsi dettagliatamente in vicende che vedono il povero Fenwick sospettato di omicidio, lasciato da Lilian, stranito da fenomeni misteriosi: Margrave lo salva dalle accuse con apparente generosità ma resta un personaggio sfuggente e ambiguo, quasi impastato dell’imbarazzo che Todorov giudicherà caratteristica costitutiva del fantastico. In questo senso equivoco, al teurgo buono caldeo Zanoni del romanzo del 1842 l’autore qui contrappone vent’anni dopo un adepto cattivo pure venuto dall’oriente, attraverso vicende convulse e oblique che lasciano il lettore spiazzato quasi quanto il protagonista. Travolto da meccanismi sociali che la macchinatrice Poyntz ha stavolta indirizzato contro Lilian – ormai moglie del Nostro – il giovane medico romperà i ponti con la società perbenista di L. e partirà per il mondo selvaggio dell’Australia, dove si consumerà l’ultimo confronto con Margrave: gli ultimi capitoli precipitano in visioni sconcertanti, oniriche e febbrili quasi da Tentazioni fiamminghe, alla ricerca di un elisir che permetterebbe al mago di perpetuare ulteriormente la propria vita e – spera Fenwick – a lui di salvare la giovane moglie da morte e follia.

A fianco del mago in queste ultime scene è, significativamente, una Ayesha il cui nome ispirerà un lettore eccellente di Bulwer-Lytton (nonché segretario di suo nipote Henry Ernest Gascoyne Bulwer in Sudafrica), H. Rider Haggard, per la carismatica eroina di La donna eterna (She: A History of Adventure, 1886-1887 e seguiti). Mentre non casualmente nel Nosferatu di Murnau, 1922, la figura corrispondente a Van Helsing, lì studioso coltissimo ma d’imbarazzante inefficacia, verrà chiamata professor Bulwer: in ricordo appunto dello scrittore di storie singolari e dalla celebrata erudizione esoterica. Ad assassinare l’interprete di questo Bulwer, l’attore austriaco John Gottowt (1881-1942) sarà – con buona pace delle storie sul Vril – un agente della feccia d’una presunta razza superiore.

 

I libri. Le opere di Bulwer-Lytton sono state edite nel tempo, e sono a tutt’oggi reperibili, presso diversi editori italiani. Per questo pezzo ho utilizzato:

Edward Bulwer-Lytton, Una storia singolare, pp. 653, € 21,90, Landscape Books, Rocca Priora 2022.

Edward Bulwer-Lytton, Gli infestati e gli infestatori, o la casa e la mente, in: Gabriele Scalessa (a cura di), Gli inquilini del piano di sopra. Case infestate nelle ghost stories, Nova Delphi, Roma 2016: contiene la versione scorciata del racconto, in una bella antologia.

Edward Bulwer-Lytton, La casa e il cervello, a cura di Malcolm Skey – inglese (1944-1998), uno dei massimi curatori di gotico apparsi nell’editoria nostrana –, Theoria, Roma-Napoli 1985: contiene invece la versione estesa del testo.

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La vita privata (Victoriana 45) https://www.carmillaonline.com/2023/10/28/la-vita-privata-victoriana-45/ Sat, 28 Oct 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79236 di Franco Pezzini

[Anche questo ottobre riprendono a Torino i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: il programma comprende la seconda stagione dell’Odissea e la seconda di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, entrambe a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro. Si propone qui parte del contenuto di una delle ultime puntate dell’anno passato. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura [...]]]> di Franco Pezzini

[Anche questo ottobre riprendono a Torino i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: il programma comprende la seconda stagione dell’Odissea e la seconda di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, entrambe a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro. Si propone qui parte del contenuto di una delle ultime puntate dell’anno passato. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, Einaudi, Torino 1988, e per l’edizione italiana di Maria Luisa Castellani Agosti.]

Il racconto di Henry James “The Private Life” è un testo molto strano, godibilissimo a leggersi – quasi una commedia brillante – ma destinato a perdere moltissimo con un riassunto. Il tentativo sarà di recuperarne comunque la potenza allusiva e di metafora, condotta attraverso soluzioni narrative nuovamente assai singolari: il racconto di fantasmi diventa così una felice formula per una satira sociale che sa graffiare più a fondo, raggiungendo la meditazione sull’identità. Il racconto, attestano i Taccuini, viene immaginato il 27 luglio 1891: la stesura precede “Nona Vincent” e probabilmente anche “Sir Edmund Orme” anche se il testo viene pubblicato dopo, sull’Atlantic Monthly nell’aprile 1892 e in seguito nella raccolta The Private Life and Other Stories (1893) – seguiamo qui la forma rivista per la “New York Edition” (1907-1909, add. 1917).

La storia si svolge in Svizzera, dove un gruppo di esponenti del mondo culturale di Londra si trova fortuitamente riunito. Ci sono Lord e Lady Mellifont, il grande scrittore Clare Vawdrey e l’immensa attrice Blanche Adney: gente tanto richiesta in società da doverla “prenotare” con sei settimane di anticipo e che ora invece è per caso tutta lì. Anche il narrante fa parte dello stesso mondo ma in quel contesto la compagnia è quasi stupita dallo scoprire le persone più “umane” di quanto non sembri a Londra.

Un giorno, riuniti sulla terrazza dell’albergo per prendere “secondo lo strano uso tedesco, il caffè prima del pasto”, notano quasi di sfuggita la lunga assenza di Lord Mellifont e della signora Adney. Il fatto è che Clare Vawdrey – nome d’arte Clarence – sta parlando, e tutti lo ascoltano: un uomo cordiale, sano e ciarliero, che non parla mai di sé e per nulla avido di omaggi. Ma a un tratto Lady Mellifont chiede al narrante se abbia idea di dove suo marito e la signora Adney siano finiti. Milady è sempre pallida, incolore e sempre vestita di nero: “Nascondeva un segreto” e appare rassegnatamente malinconica. Il narrante spiega che si sono allontanati per una passeggiata un’ora prima, e le propone di chiedere informazioni al marito della signora Adney. Questi è un piccolo compositore, già modesto violinista nel teatro dove lei recitava e di cui aveva favorito la carriera; una specie di buon bambino cinquantenne che sostiene al meglio la parte di marito della diva, rendendola presente nella propria musica, anche se non è in grado di scrivere per lei un testo teatrale. Ma Lady Mellifont preferisce non far vedere di essere inquieta, come – ammette – è di solito quando il marito si allontana a lungo, “Non so esattamente che cosa temo: ho la sensazione generica che non debba più ritornare”.

Poco dopo vedono apparire la signora Adney senza di lui, ma con l’aria tranquilla: l’ha lasciata – spiega – pochi minuti prima, è rientrato in casa. Il narrante coglie però negli occhi dell’attrice, un messaggio come “Sì, ma un incidente c’è stato. Ve lo dirò forse più tardi”. La moglie conclude che Milord sarà andato a vestirsi per il pasto: e poi il narrante ci descrive questo nobiluomo di straordinaria presenza, uomo di mondo dall’impeccabile abbigliamento, con “un costume per ogni funzione e una morale per ogni costume”, di cui il romanziere Vawdrey conosce tutta la vita “quasi dai suoi primi passi nel mondo” sgranata in aneddoti – come di consueto le narrazioni su Lord Mellifont, sempre amabile e imperturbabile.

 

Personalmente, quando si parlava di lui, avevo sempre l’impressione che si parlasse di un morto: la conversazione era contrassegnata da quella particolare accumulazione di fatti significativi. La sua reputazione era una sorta di obelisco dorato, come fosse stato sepolto lì sotto: la somma di leggende e di reminiscenze di cui egli sarebbe un giorno stato oggetto si era cristallizzata in anticipo.

L’ambiguità derivava, suppongo, dalla circostanza che il solo suono del suo nome e l’aria della sua persona, l’aspettativa generale che egli creava, avevano in certo modo un tono così romantico e anormale. L’esperienza della sua urbanità veniva sempre dopo; la previsione, la leggenda, impallidivano di fronte alla realtà. Ricordo che la sera di cui parlo quella realtà mi colpì come suprema. Il più bell’uomo del tempo non avrebbe potuto competere con lui, e sedeva tra noi come un tranquillo direttore d’orchestra, il quale domini col modo armonioso del braccio un’orchestra ancora un po’ grezza. Guidava la conversazione con gesti non meno irresistibili che vaghi; si sentiva che senza di lui non avrebbe avuto niente che si potesse chiamare “tono”. Era questo essenzialmente il suo contributo in qualsiasi occasione – il suo contributo, soprattutto, alla vita pubblica inglese. […] Egli era tutto stile.

 

A confronto, la conversazione di Vawdrey fa “pensare al cronista di fronte al poeta”.

L’attrice, quarantenne, vorrebbe che Vawdrey scrivesse una commedia tutta per lei, portandola a quel ruolo eccelso che ha finora soltanto sognato, sulla base di un canovaccio di trama più sottile. Il problema, a giudizio del narrante, è che il romanziere ormai maturo non è in grado di scriverla. Meraviglioso è il ritratto “di questa donna incantevole, che era bella senza bellezza e completa con almeno una dozzina di deficienze”, da tutti ammirata, sorta di dipinto uscito dalla cornice per le strade del mondo, perpetua sorpresa e anzi miracolo per una società senza acume.

In realtà Vawdrey, a cui lei piace, ha iniziato a scrivere una commedia per lei, e per la stessa ragione tira in lungo l’opera: ora afferma di aver composto il terzo atto. Il problema è che ha passato il tempo a tener banco, prima ha giocato a biliardo, il giorno prima aveva detto di non aver prodotto nulla… per cui gli amici mostrano la loro perplessità. “Non credo di saper bene quando lavoro” commenta lo scrittore, e si proclama in grado di ripetere la scena a memoria… ma in realtà nessuno gli crede troppo. Viene ammannita anche un’introduzione musicale al suono del violino del marito della diva, ma al momento di recitare i versi il romanziere proclama soave di vergognarsi molto (non ne ha l’aria) ma di non ricordarli affatto. Se lui non è costernato, lo è la compagnia, però a salvare la situazione interviene Lord Mellifont: racconta un episodio personale, la volta in cui aveva dimenticato gli appunti per presentare qualcosa davanti a una folla immensa, ma il brillante successo dell’esibizione aveva fatto dimenticare il suo imbarazzo. Così la diva esorta il marito a suonare ancora e il narrante propone al romanziere di mandare qualcuno a prendere il fantomatico manoscritto: quello spiega che un manoscritto non c’è, scriverà l’indomani, ma poi alla confusione dell’altro corregge il tiro. “Se c’è qualcosa, è sul mio tavolo”. Poi la musica di Adney assorbe l’attenzione di tutti.

Però il narrante vuol chiedere qualcosa alla diva. Forzando un po’ il senso del discorso del romanziere, sostiene di aver avuto il permesso di andare a prendere il manoscritto: e lei lo scongiura di farglielo avere. Lui le chiede per contropartita di spiegargli cosa sia accaduto con Lord Mellifont durante la gita – che qualcosa sia successo gliel’ha letto in viso. La voce pubblica, commenta lei colpita, lo definisce in effetti “uno scrutatore di cuori, quella cosa frivola che si chiama ‘osservatore’”. Lei però esita a raccontare la “cosa veramente strana” accaduta; lui le propone un altro enigma, Vawdrey non ha scritto un verso. Lei ribatte di prendere le sue carte e vedranno: andare, intende, nella sua stanza a prelevare i fogli per scoprire. Poi riprende il dominio di sé, stanno dicendo un mucchio di sciocchezze: però gli raccomanda di prendere le carte.

In realtà l’operazione viene rallentata, una signora chiede al narrante una firma ricordo sul suo “album dei compleanni”, e lui è tanto confuso da non ricordare la propria data di nascita. Ma nel frattempo la compagnia si è sciolta, se Vawdrey è andato a letto lui non vuole disturbarlo – però poi realizza che può essere ancora sveglio. La signora Adney è uscita con amici nella notte alpina, il Nostro vagheggia di procurarle il manoscritto e di farglielo trovare al rientro. Raggiunge dunque la stanza di Vawdrey, l’ultima in fondo al corridoio del secondo piano: la mano corre al pomo della porta ed entra nella stanza buia senza bussare.

Davvero molto buia, sta già per accendere un fiammifero quando balza indietro con un sussulto e il balbettio di una scusa: “uno sguardo di qualche secondo mi aveva rivelato una sagoma d’uomo, seduto a un tavolo davanti a una delle finestre”. Di primo acchito l’ha scambiato per una coperta gettata sulla sedia, si è persino domandato se non abbia sbagliato stanza ma poi crede di riconoscere Vawdrey. A quel punto esclama: “Ehi, dico, siete voi Vawdrey?” ma quello non risponde e una luce in corridoio permette di riconoscere davanti a lui l’uomo che è convinto di aver lasciato in conversazione dabbasso con la signora Adney… “Mi voltava un poco la schiena ed era chino sul tavolo nell’atteggiamento di chi scrive, ma la sua identità mi penetrò attraverso ogni poro”. Il narrante si scusa, credeva che si trovasse dabbasso (una scusa un po’ bizzarra per essersi fatto trovare lì…), ma l’altro non dà segno di sentirlo e lui indietreggia fino alla porta, chiudendosela dietro. “Stavo lì, con la mano ancora sul pomo della porta, sopraffatto dall’impressione più strana che avessi mai provato in vita mia”. Perché il romanziere scriveva al buio e non gli aveva risposto? Attende dunque invano il rumore di qualche movimento all’interno ma tutto tace e lui scende, diretto alla porta dell’albergo. Gli altri devono essere rientrati: dopo pochi minuti va a letto.

Tale la prima parte del testo, e la seconda inizia con il sonno agitato del narrante. Ripensando alla sua esperienza è ancora più impressionato, ma tiene a chiedere a Blanche Adney chi fosse con lei sulla terrazza la sera prima. Desiderio che però stranamente evapora all’arrivo dell’alba di una giornata che si preannuncia splendida: per cui se ne esce dopo il caffè e si fa una passeggiata solitaria tra le montagne, con ampio spazio a un riposino sull’erba. Rientra nel tardo pomeriggio per la cena, e dopo essersi cambiato raggiunge gli altri a tavola. È curioso di vedere se Vawdrey lo fisserà in modo strano, ma il romanziere non mostra di considerarlo: dunque a fine pranzo raggiunge l’attrice proponendole un giretto all’esterno. E lì, tra dialoghi impagabili a cui solo una lettura del testo jamesiano può rendere giustizia, le domanda chi fosse lì fuori in terrazza con lei la sera prima, verso le dieci. Lei risponde che era Vawdrey, le ha parlato un po’ della sua commedia… Ma il Nostro vuol sapere di più, e all’ironico stupore della signora Adney a quelle domande risponde che “mentre voi e il vostro compagno eravate occupati nel modo che avete descritto, il vostro compagno era anche intento a scrivere nella sua stanza” (corsivo mio). Lei si ferma, gli occhi scintillano nelle tenebre: chiede se stia mettendo in dubbio il suo racconto, ma viene tranquillizzata. Realizzano così che – in modo del tutto paradossale – un Vawdrey le recitava la scena facendo ammenda per il fiasco in sala e senz’ombra di dubbio un altro, il suo doppio (“Oh, le eccentricità del genio!” commenta lei dopo un accurato interrogatorio dell’interlocutore) scriveva al buio nella propria camera. Una figura in fondo, commenta il Nostro, che “somigliava all’autore delle mirabili opere di Vawdrey. Gli somigliava infinitamente di più che non gli somigli il nostro stesso amico”. Che non mostra altrettanto genio nella conversazione…  Insomma, “Sono due. […] Uno esce, l’altro rimane a casa. Uno è il genio, l’altro il borghese, e noi non conosciamo personalmente che il borghese. Parla, va in giro, è enormemente popolare, vi fa la corte…”. La invita anzi a vedere coi suoi occhi andando in camera di lui, ma lei lo giudica sconveniente, “col tono delle sue battute migliori”. “Tutto è conveniente in un caso del genere”, ribatte il narrante.

Scorgono però in distanza Lord Mellifont, e ciangottando l’attrice commenta che “se Clare Vawdrey è doppio, e sento il dovere di dire che più ce ne sono meglio è, Sua Grazia ha il male contrario: non è nemmeno intero” – e domanda se l’abbia mai visto da solo. Certo, ma – emerge – sempre in modo da stabilire una relazione: Milord che va a trovarlo o il reciproco, ma con tanto di preannuncio. Mentre, spiega lei, “Dovete prenderlo alla sprovvista”, per esempio piombandogli in camera… e non vedrà niente. Mentre ora lo vedono lì, perfetto come per promuovere la candidatura elettorale delle Alpi, aureolato delle sue perfezioni, e il narrante comprende:

 

egli mi apparve così essenzialmente, così cospicuamente e uniformemente nella luce dell’uomo “pubblico” che lessi in un lampo la risposta all’enigma di Blanche. Era tutto “pubblico” e non aveva una corrispondente vita privata, così come Clare Vawdrey era tutto privato e non aveva una corrispondente vita pubblica. Avevo sentito soltanto la metà del racconto della mia compagna; tuttavia, mentre ci univamo a Lord Mellifont – ci aveva seguiti perché la signora Adney gli era simpatica, ma si pensava sempre di lui che accettasse la compagnia altrui piuttosto che cercarla – , mentre partecipavamo per mezz’ora della prodiga ricchezza del suo discorso, sentii, con una duplicità nella quale non era ombra di rossore, che noi lo avevamo, per così dire, smascherato.

 

Il tutto con un certo fondo di indulgenza:

 

Lo avevo segretamente commiserato per la perfezione con la quale recitava la sua parte, mi ero domandato quale vuoto quella maschera coprisse in realtà, che cosa gli rimanesse nelle ore spietate in cui l’uomo è solo con se stesso, o, peggio ancora, solo con quel se stesso anche più severo che è la sua legittima moglie. Com’era in casa e che cosa faceva quand’era solo? C’era qualcosa in Lady Mellifont che giustificava questi dubbi, qualcosa che suggeriva come anche per lei egli dovesse continuare a essere l’uomo “pubblico”, e lei assediata da dubbi della stessa natura. Non li aveva mai risolti: ecco il motivo della sua perpetua inquietudine.

 

Ma lui rappresenta per lei e per la servitù “l’eroe”: però quando nessuno poteva ammirarlo “Probabilmente si abbandonava, riposava; ma quale vuoto spaventoso doveva mai essere necessario per compensare tanta pienezza di presenza!”. E ora loro sono soltanto due, “ma non mi era mai apparso più ‘pubblico’”, più perfetto nei modi, più notevole nel tatto, più evidente “l’unicità assoluta della sua identità”.

La signora Adney gli deve ancora il suo aneddoto, ma quella sera non riescono a parlarne: lei resta incantata ad ascoltare Vawdrey che le legge la famosa scena finalmente composta. Il momento giunge solo l’indomani, quando lei accetta una passeggiata con il narrante. In quel contesto ammette di essere affascinata dal secondo io dello scrittore, la teoria del doppio spiega tutto e la incanta, tanto più che la scena è “Magnifica, e [lui] legge stupendamente” (salvo l’impressione di lei che sembrava trattarsi dell’opera di un altro). E parlano un po’ di “quale risorsa fosse nella vita un simile sdoppiamento di personalità”. Distante dal marito, lei ammette di essersi innamorata di un tale personaggio: “Disgraziata, egli non ha passioni”, ribatte algido il narrante ma lei spiega che è proprio per quello, un’attrice “non può prendersi il lusso di essere ricambiata”, in fondo il suo matrimonio gradevole e fortunato è “rovinoso”. E ascoltando quei versi lei sentiva solo un “folle desiderio di conoscerne l’autore”…

Poi, messa alla stretta sul racconto che deve al complice di indagini, cerca di ricordare i dettagli mentre entrano in un’incantevole valletta tortuosa: e a un tratto viene loro incontro Lady Mellifont. Pensava che il marito fosse là per dipingere, ma non l’ha trovato. Commentano che, se raggiunto, lui salterà fuori: la nobildonna si allontana, dicendo che non è il caso gli riferiscano che lei l’ha seguito. “Ha dei sospetti, sapete” commenta allora il narrante con l’attrice. Se non lo raggiungono, non ci sarà nessun dipinto. E finalmente la diva racconta l’episodio di qualche giorno prima. Non le era riuscito di trovare Milord, che d’altra parte non sapeva di essere cercato: “Appare non appena si accorge della presenza di qualcun altro”. Avevano passeggiato insieme, racconta, ma quando lei si era staccata per tornare all’albergo s’era accorta d’essersi portata via il temperino di lui: allora è tornata indietro, ma la valle non presentava possibilità di nascondersi e lui non c’era – come lì, nella valle davanti a loro. Forse per un momento di fatica, al ritorno alla solitudine, l’estinzione di lui era stata completa. “Era svanito, aveva cessato di esistere”. Ma appena lei l’aveva chiamato ecco l’uomo pubblico era riapparso dove avrebbe dovuto essere: poi certo, lei può essersi sbagliata – ammette alle obiezioni poste dall’interlocutore – ma ha la ferma convinzione del contrario. Per questo Blanche vorrebbe che il Nostro facesse una capatina in camera di lui. Che obietta non osi farlo nemmeno la moglie: no, ma in realtà lo desidererebbe, spiega l’attrice, perché nutre dei sospetti. Possibile che lui, d’altro canto, si sia accorto di aver suscitato stupore con la sua sparizione e riapparizione nella valle della passeggiata: ma alla domanda su quale aspetto avesse, ribatte “Esattamente quello che ha ora!” (corsivo mio) perché lui è apparso brandendo il proprio album degli acquarelli. Si mette in posizione, poi inizia a parlare e intanto dipinge, “Tutta la natura s’inchinava davanti a lui, e gli elementi stessi aspettavano”. E quando tornano in albergo, prima lo vedono alla finestra della sua stanza e poi non più, “Ridissolto […] Nell’immensità del cosmo” dopo la fatica della performance di poco prima a loro uso e consumo. Il quadro lasciato a Blanche si rivela però senza firma.

A sua volta Vawdrey è ora uscito per una passeggiata, ma a giudicare dalle nubi avrebbe fatto bene a portarsi dietro un ombrello. Blanche chiede al narrante se può portarglielo lui e fare in modo che restino fuori più tempo possibile: vorrebbe riuscire nel frattempo a vedere nella stanza il Vawdrey genuino.

Il Nostro calcola che prima di uscire ha tempo di fare una capatina fino al salottino di Lord Mellifont, con la scusa di chiedergli che firmi il suo quadro. Però, quando si trova davanti alla porta, si rende conto che bussando rovinerebbe tutto: un ingresso improvviso sarebbe l’unico modo per coglierlo nella sua assenza paradossale. E ha già la mano sul pomo quando Lady Mellifont appare dalla propria stanza… Non pronunciano parola ma corre tra loro uno scambio di pensieri e a un tratto lui riconosce sulle labbra di lei un quasi del tutto silenzioso “Non fatelo!”.

 

Se il mio esperimento le appariva sotto l’aspetto di un atto di violenza, ero pronto a rinunciarvi; pure, mi parve di cogliere nel suo viso spaventato una rivelazione anche più profonda, una possibilità di disappunto se io avessi ceduto. Era come dicesse: – Se ve ne assumete la responsabilità, fate pure. Sì, per mezzo di un altro sarei disposta a sorprenderlo; ma non dovrebbe mai sapere che io ci sono entrata per qualcosa.

 

Lui le spiega la storia della firma mancante al dipinto che tiene tra le mani come scusa. Lei prende la tela con un’evidente lotta interiore, rientra in camera sua e poi torna, avendo vinto la tentazione: se le lasciano il dipinto, lo farà firmare dal marito. Incassato il fallimento del progetto, il Nostro osserva per stemperare che il tempo sta cambiando: lei ribatte che in quel caso loro partiranno subito. Inattesamente poi gli stringe la mano, con un gesto che lui interpreta come: “Vi ringrazio dell’aiuto che avreste voluto darmi, ma meglio lasciare le cose come sono. Se sapessi, chi mi potrebbe più aiutare?”. E lui conclude che Milady è sicura, ma non vuole fare la prova.

Corre a portare l’ombrello allo scrittore e poco dopo devono assieme cercare riparo sotto un temporale di straordinaria violenza. Si rifugiano allora in una baracca per il bestiame e restano bloccati per un’ora, durante la quale il narrante resta ampiamente deluso da Vawdrey: “Non so esattamente come mi raffigurassi un grande scrittore esposto al furore degli elementi, non so dire quale atteggiamento alla Manfredi mi aspettassi dal mio compagno”. Ma certo non trova trascinante il sentirsi ammannire una serie di storie insulse, oltretutto già sentite, sulla famosa Lady Ringlose e sul noto critico signor Chafer: alla luce dei lampi, chiarissimo che

 

per i rapporti sociali quel mirabile genio trovava sufficiente una sua personalità di seconda scelta. Senza dubbio la società non meritava di meglio, ma la distinzione comportava un disprezzo che non poteva non riuscire umiliante per un ammiratore. Il mondo era volgare e stupido, e l’uomo genuino sarebbe stato uno sciocco a esibirsi davanti ad esso quando poteva chiacchierare e pranzare per delega.

 

Inutile pensare a una deroga soltanto per il Nostro…

Quando rientrano trovano gli amici un po’ preoccupati per la loro lunga assenza, Vawdrey si è inzuppato e va a cambiarsi – e Blanche lo guarda in modo studiatamente freddo. Il narrante la segue in sala, “non era mai stata così bella”. Entusiasta, gli bisbiglia – “col più rapido dei bisbigli, che fu al tempo stesso il grido più alto che avessi mai sentito” – di aver avuto la parte tanto sperata: è andata nella stanza di Vawdrey, quello vero, “È stata l’ora più bella della mia vita”… Poi, liquidati come irrilevanti Lord Mellifont e la firma sotto il suo quadro e invitato il narrante ad andare a cambiarsi, esce, entusiasta: trova l’innocuo marito, “Stavamo parlando proprio di te, amor mio!” e provvede a baci e abbracci.

Quando però il Nostro scende a mangiare scopre che il cattivo tempo ha già smembrato la compagnia: i Mellifont sono partiti, Blanche lo farà il giorno dopo, Vawdrey – la versione farlocca – domanda al narrante perché la diva abbia preso a detestarlo.

Tornati a Londra devono riconciliarsi perché Vawdrey termina la commedia e Blanche la interpreta. Evidentemente non un capolavoro, e l’attrice resta alla ricerca della gran parte da sostenere. Per la verità, il narrante ne avrebbe in mente una, ma lei sfortunatamente non lo corteggia: l’indagine ha permesso loro di avvicinarsi, ma solo in via transitoria. Come in fondo col marito di lei, si tratta di alleanze sociali, che nulla hanno in comune con pulsioni più genuine e viscerali – almeno da parte dell’attrice – in un mondo che è una gran recita. Lady Mellifont invece ha sempre una parola gentile per il Nostro, “ma questo non mi consola”.

In questo caso le apparizioni sono quelle speculare, dunque opposte, del doppio di una persona, Vawdrey, e – con trovata narrativa geniale, originalissima, ma in realtà con precedenti lungo il corso della storia della letteratura  – di un’altra persona quale semplice simulacro, proiezione di un’identità sociale e che esiste solo in pubblico ma svanisce in privato. Inevitabile pensare alla storia di Elena presente a Troia solo come simulacro mentre la sua identità autentica è in Egitto, o in generale alla lunga storia del Doppelgänger in letteratura. L’aspetto che rende tanto straordinario questo testo, con la sua coppia di anomalie parallele, è anche l’ironia che lo pervade. Vawdrey è ispirato a una figura reale, Robert Browning, grande poeta e uomo tanto comune – cordiale, dogmatico, pieno di opinioni risapute e giudizi usuali: quasi due personalità distinte, e James fatica a comprendere come abbia potuto conquistare Elizabeth Barrett. Browning muore nel dicembre 1889 a Venezia e James, presente alla funzione per lui all’abbazia di Westminster, ne scriverà un omaggio anonimo su The Speaker. Il tema peraltro si collega a tutta una riflessione condotta da James sulla doppia personalità.

A questo modello ne contrappone però un altro, l’uomo che esiste solo in pubblico, il pittore vittoriano – il massimo esponente dell’arte classica nel periodo – Frederic Leighton, baciato dal successo in tutti i campi, e tuttavia alla morte subito dimenticato. Era solo una figura pubblica.

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Un caffè con la contessa (Zona-Carmilla III) https://www.carmillaonline.com/2021/06/26/un-caffe-con-la-contessa-zona-carmilla-iii/ Sat, 26 Jun 2021 20:45:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66912 di Franco Pezzini

(Il contributo che segue è stato presentato a un convegno co-organizzato tempo addietro dall’editore Odoya sul tema del caffè).

In una serie di incontri sul tema del caffè un intervento sulla narrativa gotica dell’Ottocento può sembrare un intruso. In realtà un nesso c’è, in relazione all’immaginario di un’epoca e a ciò che il caffè evoca a lettori vittoriani, ma in fondo sottotesto ancora a noi, che di quel mondo abbiamo recepito nelle nostre categorie profonde una serie di sogni e suggestioni.

Come noto, Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) è il [...]]]> di Franco Pezzini

(Il contributo che segue è stato presentato a un convegno co-organizzato tempo addietro dall’editore Odoya sul tema del caffè).

In una serie di incontri sul tema del caffè un intervento sulla narrativa gotica dell’Ottocento può sembrare un intruso. In realtà un nesso c’è, in relazione all’immaginario di un’epoca e a ciò che il caffè evoca a lettori vittoriani, ma in fondo sottotesto ancora a noi, che di quel mondo abbiamo recepito nelle nostre categorie profonde una serie di sogni e suggestioni.

Come noto, Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) è il primo e – in pratica – l’unico scrittore occidentale dell’Ottocento ad aver dedicato a una bevanda non alcolica, il tè, una storia di fantasmi. Nel racconto lungo “Green Tea” il motore degli eventi è appunto il tè verde – curiosamente proprio un tipo di tè cui in generale si attribuiscono effetti benefici, che sembrano confermati da studi recenti: nella vicenda l’abuso di tale bevanda determinerebbe per uno sventurato ed erudito reverendo l’apertura dell’occhio interiore, permettendogli la percezione degli “spiriti incorporei” e conducendolo al suicidio. Il testo, edito inizialmente nel 1869 sulla rivista di Dickens All the Year Round, è un gioiello di eleganza narrativa e sorniona ambiguità, con un occhio alle stesse abitudini dell’autore (che, come attesta il figlio minore,

 

Risvegliatosi verso le due del mattino si preparava del tè molto forte – ne beveva tantissimo – poi scriveva ancora un’ora o due, in quel periodo strano della notte in cui la vitalità umana viene meno e in cui si dice che le potenze occulte abbiano il sopravvento

[S. M. Ellis, “Joseph Sheridan Le Fanu”, The Bookman, 51, no. 301, ottobre 1916, p. 20, cit. in Malcolm Skey, Introduzione a Joseph Sheridan Le Fanu, Racconti del soprannaturale, a cura di M. Skey, Theoria, Roma-Napoli 1990, p. VII]

 

– qualcosa che può dirla lunga su un certo filone della produzione di Le Fanu); e vara almeno tre novità clamorose nella ghost story. Anzitutto, il fantasma in azione è il primo – almeno a mia conoscenza – a fare la sua comparsa in tram, più precisamente su un omnibus vuoto la sera. In secondo luogo risulta provocatorio il tipo di vittima, rappresentante di una categoria di uomini di Dio ormai incapaci di gestire il rapporto con lo spirito: tenta solo blande terapie salutiste, si consuma nell’orrore e invoca Dio un po’ in ultima istanza, con una debolezza che sconfina nella poca convinzione. E in ultimo, provocatorio è anche il profilo dell’esperto chiamato dalla vittima, il dottor Hesselius capostipite di tutta una schiera di detective dell’impossibile fino a Dylan Dog e al duo di X-Files: in realtà un supponente cialtrone, pronto a deresponsabilizzarsi allegramente davanti al cadavere cullandosi nel ricordo di ben altri suoi successi.

Fin qui il tè. Ma il caffè? Facciamo un passo indietro.

 

 

  1. “Our coffee and chocolate”

Le Fanu è stato giudicato il più grande scrittore vittoriano di ghost stories. Un’etichetta che non deve suonare riduttiva: tanto più dopo gli eventi del bicentenario dalla nascita (1814/2014) si sta acquisendo a livello collettivo il dato della ricchezza di sfaccettature della sua opera, aperta a una pluralità di generi e di squisita qualità letteraria. E anche in Italia si inizia a smarcare questo versatile, eclettico, colto scrittore irlandese dall’etichetta un po’ riduttiva “autore di Carmilla” con cui per anni è stato semplicisticamente etichettato: dove però si guardava non tanto a quel suo romanzo breve tardo e bellissimo, quanto a tutta una serie di film birichini di succhiasangue lesbiche più o meno a esso ispirati. È invece con questo rispetto per la complessità di un profilo autorale che proprio a Carmilla vorrei tornare sul filo della provocazione di questo convegno: e per quanto il romanzo in questione sia noto – la storia di una vampira adolescente, che insidia l’amica Laura prima di essere distrutta da un gruppo di vecchi, tutti di sesso maschile – non pare inutile riassumerne le caratteristiche in chiave introduttiva. Così capiremo cosa c’entri il caffè.

Come ha scritto qualcuno, Le Fanu è troppo furbo per credere agli esseri soprannaturali, troppo intelligente per non credervi. Così, nell’ambito di una vicenda tutta giocata sul potere vampirico della malinconia, la vergine funesta Carmilla emerge quale doppio della narratrice, la coetanea Laura: emerge e anzi erompe evocata dalla solitudine di lei e da un inconosciuto, divorante desiderio – un volto oscuro, sovversivo e irresistibilmente seduttivo che le allusioni del romanzo (ben più di certe scollacciate rivisitazioni filmiche) circonfondono di pericolosa minaccia sessuale. Laura è prigioniera in un mondo di vecchi, e forse non a caso la vicenda è ambientata in quella Stiria (regione oggi divisa tra Austria e Slovenia) la cui “little capital” Graz era chiamata scherzosamente “Pensionopoli”, in quanto classico luogo di ritiro di ufficiali e funzionari come suo padre (inglese ma a servizio dell’amministrazione asburgica). Nessuna sorpresa dunque se proprio il Mondo Vecchio da cui la narratrice aveva cercato scampo tramite Carmilla muoverà per stroncare quella pericolosa, irrisolta ribellione: una realtà profonda che Laura, non-morta alla vita, non riesce a razionalizzare e la condanna alla deriva schizofrenica del rimpianto.

A ben vedere la vicenda di Carmilla (pubblicata a puntate sulla rivista The Dark Blue, 1871–72) rappresenta una ghost story di confine, e nell’ambiguità del personaggio è compresa una dimensione spettrale, fantasmatica e inafferrabile sopravvissuta persino al cinema in una certa libertà dagli stereotipi vampireschi del canone (pseudo)stokeriano. Si può dunque serenamente concordare con critici come Malcolm Skey nel riconoscere a Le Fanu piuttosto che a Dickens lo scettro di principe della ghost story vittoriana: ancora in età postfreudiana la collezione di doppi e spettrali persecutori evocati da Le Fanu sul crinale ambiguo tra psiche e oltretomba appare portatore di genuine inquietudini ai lettori. Ma inquietudini, appunto, a un livello molto particolare: in Carmilla non ci sono “buoni”, visto che da un lato la giovane vampira resta un mostro dal profilo sadiano (emblematiche le sue posizioni gelidamente illuministe), e dall’altro nel parallelo accanimento dei suoi avversari emerge tutto il vampirismo di una senescenza che non è solo dato biografico ma culturale e sociale. Una rifrazione di meccanismi molto concreti, come entro uno specchio oscuro: e non a caso In a Glass Darkly è appunto il titolo della raccolta cui Le Fanu raccorderà nel 1872 non solo Carmilla ma anche “Green Tea” e altri testi di persecuzioni spettrali.

È comunque nel micromondo dello Schloss stiriano dove si consuma il dramma che noi troviamo citato per due volte il caffè. La prima è al cap. III, quando si descrive il fin troppo sontuoso soggiorno dove Laura e le governanti sono use prendere il tè perché il padre inglese “con le sue solite inclinazioni patriottiche […] insisteva che la bevanda nazionale dovesse fare regolarmente la sua comparsa insieme ai nostri caffè e cioccolata” [“with his usual patriotic leanings […] insisted that the national beverage should make its appearance regularly with our coffee and chocolate”]: a mettere insomma in scena una sorta di contrapposizione tra il tè filobritannico del padre e gli esotici, ma per Laura nostri – vedremo in che senso – caffè e cioccolata. La seconda volta è all’inizio del cap. VI, dopo uno strano malessere di Carmilla, l’enigmatica ragazza lasciata ospite allo Schloss dopo un incidente in carrozza da una madre troppo indaffarata: tornate in salotto, riferisce la narratrice, “ci sedemmo davanti ai nostri caffè e cioccolata, anche se Carmilla non ne prese affatto” [“had sat down to our coffee and chocolate, although Carmilla did not take any”], mentre il padre di Laura arriva – anche qui – a prendere la solita tazza di tè. In apparenza si tratta di menzioni non particolarmente significative: ma in realtà entrano in tutto un tessuto d’ambiente a suggerire qualcosa d’interessante.

In tempi recenti lo studioso Matthew Gibson è riuscito a individuare il testo primo d’ispirazione per la narrazione di Le Fanu: non una storia del sovrannaturale e tanto meno di vampiri, ma un memoriale di viaggio, Schloss Hainfeld; or a Winter in Lower Styria (London and Edinburgh, 1836), a firma del capitano inglese Basil Hall. Ospite per molti mesi con i propri familiari nello Schloss stiriano di un’anziana amica di suo padre, Hall potrebbe essere una spia o (se preferiamo) un osservatore britannico, come tanti di quei capitani ottocenteschi a zonzo per il mondo i cui coloriti resoconti giungono al pubblico dopo un filtraggio di informazioni più capillari e importanti ai servizi di Sua Maestà – ma il fascino del memoriale Hall non riguarda chissà quali eventi. Da un lato sta piuttosto in una narrazione d’ambiente in un paese e tra mura dove il tempo sembra essersi fermato, e della cui alterità questi educatissimi inglesi annotano con curiosità usi e costumi; dall’altro, come Gibson rileva dall’analisi del testo, è possibile ravvisarvi una fitta serie di elementi ispiratori per il tessuto di Carmilla, a partire proprio dalla contessa potenziale modello (per motivi diversi) dei personaggi speculari di Carmilla e Laura.

Benché titolare, in quanto vedova di un aristocratico stiriano, di quello strano castello e dei benefici connessi, la contessa Purgstall è scozzese di nascita, all’anagrafe Jane Anne Cranstoun, amica di Sir Walter Scott e ispiratrice per la sua traduzione della Lenore di Bürger: dunque a cavallo tra le due culture un po’ come la Laura di Le Fanu, che è figlia di un padre britannico e di una madre stiriana. Sentendosi vicina alla fine, la contessa fa di tutto per render gradito il soggiorno agli Hall e trattenerli al castello: stanca di tanti dolori (ha perso il marito e l’unico figlio giovanissimo), bloccata nel letto da dove dirama lettere al mondo e direttive alla servitù, questa eccentrica, brillante, ingombrante, simpaticissima dama non vuole morire tra servi stranieri, lontana da qualcuno che condivida la sua cultura d’origine; e in effetti, dopo un lungo tira-e-molla di partenze annunciate e rinviate, gli Hall finiranno col lasciare il castello soltanto dopo che la contessa ha chiuso gli occhi. Non è questa la sede per indagare le connessioni tra Carmilla e il memoriale; e limitiamoci a interpellarlo per quanto riguarda il rapporto tra il tè filobritannico e gli stranieri “coffee and chocolate”.

Per quanto riguarda la cioccolata, bevanda che come sappiamo viene dalle Americhe, dal punto di vista del lettore britannico la suggestione prima è di esotismo, anche se l’antico olmeco kakawa è ormai tra Sette e Ottocento molto diffuso in Europa. Le prime botteghe del caffè, nella Venezia settecentesca, offrono anche cioccolata, a unire le sorti delle due bevande; e una grande produttrice come Torino (in quel Piemonte che aveva ricevuto il cacao insieme a Caterina, figlia di Filippo II di Spagna, moglie nel 1585 del duca Carlo Emanuele I di Savoia) esporta cioccolata non solo nella vicina Francia ma in Svizzera, Germania e persino in Austria. È dunque anche possibile che sia torinese la cioccolata di cui parla il testo: avendo appreso che la figlia maggiore degli Hall apprezza molto tale bevanda a colazione, la contessa fa acquistare per lei il cacao necessario non nel vicino smercio di Feldbach ma nel capoluogo Graz.

 

Così un uomo fu effettivamente spedito a cavallo, alle tre del mattino successivo, fino a Gratz, a una distanza tra le trenta e quaranta miglia, per procurarsi un particolare tipo di cioccolata realizzata secondo una ricetta da principessa dei Salmi. In modo analogo, quando scoprì che alcuni di noi preferivano il tè al caffè, non si accontentò di quello del villaggio, o anche di quello prodotto a Vienna, ma scrisse subito a un commerciante di Trieste di mandarle non una libbra o due, ma un’intera cassa del tè migliore e di più recente importazione!

Le nostre proteste contro questo tipo di stravaganza furono del tutto vane […]

 

Questo passo, l’unico nel memoriale Hall a citare la cioccolata, è interessante anche perché la associa alle altre bevande, ed è probabilmente sull’onda di questa suggestione che Le Fanu abbinerà cioccolata e caffè contrapponendole al tè.

Hall cita solo poco più spesso il caffè: oltre che nel passo riportato (cap. IX), lo menziona a proposito della difficoltà sul continente di trovare una prima colazione decente, col risultato spesso di lasciar perdere e prendersi una “tazza di caffè e un avanzo di pane in silenziosa disperazione” (cap. IV) – dove comprendiamo che non ci è abituato e vi si adatta come a un uso straniero. In altri due passi menziona il termine in forma composta: accennando cioè prima alla coffee-room in Irlanda in cui ha appreso una certa “drinking song”, una canzone da bevitori che ora lo vediamo usare con un certo successo quale ninna-nanna per il figlio più piccolo (sempre cap. IX); e poi nel richiamare un racconto della contessa dove una coffeehouse in un indeterminato “south of Europe” – plausibilmente in Italia – è teatro di una vendetta (cap. X).

Si potrà obiettare che non è molto su cui lavorare, e in effetti Le Fanu gioca il tema delle bevande anzitutto quale elemento di atmosfera. Del resto ai suoi tempi le coffeehouse appaiono modicamente esotiche quanto oggi un pub in Italia: già a fine Seicento ne esistevano parecchie in Gran Bretagna (la prima a Oxford, 1652, e tra la fine del secolo e l’inizio del successivo più di tremila nella sola Inghilterra), per cui due secoli dopo al tempo di Le Fanu fanno ormai parte del panorama consueto di esercizi pubblici. Eppure la menzione del caffè presenta un significato più significativo, legata alla scelta del set stiriano e all’individuazione stessa dei suoi fantasmi.

 

 

  1. Genere ed esotismo

Laura parla di “our coffee and chocolate”, probabilmente nel senso generico dei nostri soliti caffè e cioccolata: e possiamo immaginare lei, le governanti e poi la stessa ospite Carmilla intente a fare merenda nel sontuoso salotto con brocche e dolcini. Ma a ben vedere, grattando un po’ sotto la superficie, la simbolica contrapposizione evocata riguarda idealmente due ambiti o piani diversi. Da un lato una contrapposizione – potremmo dire – di genere, tra l’unico abitante maschio del castello (almeno dall’ottica classista ottocentesca, la servitù non conta) che beve tè, e le donne che bevono caffè (e cioccolata); dall’altro un’opposizione a livello culturale di usi etnici, tra l’inglese con la bevanda patriottica e tutti gli altri, compresa la figlia mezzosangue (la madre di Laura era stiriana).

Dal primo punto di vista si può osservare che a rigore anche i patriarchi amici del padre di Laura bevono probabilmente caffè, e per contro il tè rimanda all’ombra materna della patria britannica; ma fermandosi al micromondo quotidiano dello Schloss la bipartizione di genere sembra netta. Carmilla è tutta una saga di padri troppo presenti e per contro di madri sfuggenti, fantasmatiche (la madre morta di Laura, se vogliamo la stessa patria britannica lontana) o vampiresche: qualcosa di estremamente interessante se ricordiamo che Le Fanu era un padre vedovo e molto preoccupato dei propri figli (la sua giovane moglie malata di nervi era morta in circostanze non chiarite nell’aprile 1858 il giorno dopo un “hysterical attack”, lasciandogli addosso dolore e sensi di colpa). In scena allo Schloss sono dunque le regole chiare, socialmente consolidate del mondo paterno, quello del tè che per i lettori del romanzo è un po’ l’emblema della normalità imperiale britannica. Ma sotto quella superficie, tra sogni e incursioni spettrali, si entra nella realtà delle madri – e anche le bevande sono diverse.

Fin qui sul genere, fronte che in Carmilla vede poi innescare una serie di discorsi (pensiamo solo al tema della sessualità omoerotica che ha reso famoso il romanzo) che però porterebbero lontano dall’argomento caffè; mentre c’è anche l’altro livello della contrapposizione tra le due bevande, cioè un piano etnico e in definitiva geopolitico. Il memoriale Hall accenna un po’ fuggevolmente che la Stiria si trova in un punto strategico dello scacchiere europeo, un punto caldissimo del limes dell’impero asburgico nei secoli precedenti ma ancora al tempo una zona critica sulle soglie dell’irrequieta Ungheria e dei Balcani. E a rendere un po’ tutto questo sul piano iconico è la descrizione nel memoriale dell’impressionante rocca in rovina di Riegersberg (per inciso, proprio di proprietà dei Purgstall) meta di una gita pittoresca della brava famigliola, ma per secoli bastione di difesa contro l’incombente minaccia ottomana. Qualcosa che in chiave allusiva evoca alla fantasia del lettore Le Fanu una serie di suggestioni sul senso di un’ombra perturbante, ormai non-morta ma torpidamente infettiva, sorta di radice di mali pronti a esplodere nel presente: un’associazione sottostante l’apparente idillio Biedermeier tra tazze di tè e caffè del mondo di Laura. Cioè l’associazione tra Turchi e vampiri, rimarcata nel romanzo attraverso elementi diretti e indiretti.

Certo in Carmilla i portatori del morbo vampirico sono gli stiriani ungheresi Karnstein, e si è letto nell’apologo una metafora delle preoccupazioni politiche dell’irlandese protestante Le Fanu di lealtà britannica per l’insorgere del nazionalismo ungherese: la Stiria insomma come proiezione/trasfigurazione fantastica dell’Irlanda e dei rischi di una parallela questione nazionale praticamente nel cuore dell’impero britannico. Ma a monte la vampiresca instabilità dell’area è associata all’ombra dei turchi: qualcosa che nel tardo Ottocento può avvicinare il “Grande Malato” d’Europa – come lo zar Nicola I chiamava sogghignando l’Impero ottomano che tanto terrore aveva sparso, mentre ora perde colpi – all’immagine del vampiro, parassita non-morto, minaccia di un mondo ormai passato e ombra disturbante (putredine amministrativa, dominio autocratico, motivo d’instabilità internazionale) attraverso la polveriera balcanica.

Sarà Stoker con Dracula (che per inciso cita tre volte il caffè, e la prima è il conte stesso a lasciarlo pronto per Harker) a evocare emblematicamente l’ombra ottomana nel contesto di una storia di vampiri, ma attingendo a novelle e romanzi precedenti: e appunto anche a Carmilla, dove però il motivo turco è giocato in modo implicito, allusivo e – potremmo dire – perturbante. I richiami più evidenti sono nella menzione della “Serbia turca” tra i paesi afflitti dalla credenza nel vampirismo, e nell’immagine intravista di sfuggita (nella carrozza che conduce Carmilla al castello, cap. III), e che oggi avvertiamo come politicamente scorrettissima, di un’“orrenda donna nera con una specie di turbante colorato in testa” [“hideous black woman, with a sort of coloured turban on her head”] che annuisce, ghigna e stringe i denti. Da un cenno enigmatico di Carmilla, quella megera moresca con tanto di turbante potrebbe chiamarsi Matska, forse ricollegabile a una costellazione di termini dell’Europa orientale significanti “gatta” (bulgaro machka o matska, lo sloveno mačka): se in effetti le vampire del clan Karnstein sembrano metamorfizzare in gatte, in quel caso si tratterebbe di una “Gatta turca”. Ed è suggestivo notare che per esempio a Celje nella Stiria slovena un albergo si chiami ancora Turška Mačka, “Gatta turca”, a evocare (ovviamente senza alcuna connessione con Le Fanu) un animale dai connotati reali – le specie turche di gatti a pelo lungo – che insieme interpella l’immaginario. Ma a fronte di questo gioco di allusioni non sembra una forzatura riconoscere anche nel caffè, bevanda tipica del levante turco, un tassello del mosaico. Fin dal mondo antico la nerezza è associata all’esotismo. Si pensi agli Etiopi “faccia-bruciata” distinti in due stirpi e collocati ai confini ultimi meridionali e orientali del mondo: passati tanti secoli, in un immaginario solo apparentemente più moderno, aperto a un planisfero geograficamente ma non miticamente più ampio, anche le bevande dei confini del mondo, caffè e cioccolata, sono nere. Qualcosa che sedimenta nello stesso immaginario sugli Ottomani, nella cui amministrazione sono presenti funzionari di etnie diversissime e anche di colore. La tradizione del caffè viennese troverebbe radice, lo sappiamo, nell’accidentale scoperta a Vienna liberata dal secondo assedio turco, 1683, di strani frutti tra le masserizie nemiche: e insomma una bevanda esoticamente mora – in contrapposizione al colore chiaro del tè – e associata proprio al conflitto con gli Ottomani pare ben evocativa di questo referente turco un po’ sottotesto e perturbante, ma attivo nell’immaginario dei lettori di Le Fanu.

Di più. Un gruppo di aristocratiche “orientali” accompagnate da una mora turchesca, magari una nutrice che avrebbe trasmesso loro l’infezione vampirica, nei sottocodici delle fantasie occidentali riconduce al tema dell’harem. Un harem come quello evocato dalla principale raccolta pittorica europea di esotismo “all’ottomana”: le Turqueries collezionate guarda caso in Stiria (prima al castello di Vurberk, oggi in quello di Ptuj), da una famiglia guarda caso britannica-stiriana, i conti di Herberstein e Leslie, di origine scozzese. Non sappiamo se Le Fanu ne fosse a conoscenza – magari anche da qualche fonte dei giornali su cui lavorava, perché Hall non ne parla – ma se così fosse, avrebbe potuto ispirargli l’episodio di Carmilla sul restauro dei ritratti dei Karnstein coevi, guarda caso, alla collezione Herberstein-Leslie. Una parte della quale è stata anche esposta a Trieste, nell’ambito del ciclo di eventi I turchi in Europa (2006): e ne facevano parte ritratti di dignitari e parecchie figure femminili, idealizzazioni di donne dell’harem del sultano a firma di un pittore stiriano, e databili almeno in parte al 1682. C’era anche il ritratto di un kizlar agasi, capo delle guardie dell’harem, nero e col turbante: una figura ovviamente classica dell’amministrazione ottomana, e le cui rifrazioni nell’immaginario occidentale costelleranno arti figurative e letteratura per tutto l’Ottocento – basti pensare alla novella di Théophile Gautier, “La morte amoureuse”, 1836, dove un simile personaggio è al servizio della gentile vampira Clarimonde. Non è necessario immaginare che Le Fanu si sia ispirato a Gautier, trasformando il moro di Clarimonde nella spiacevole “black woman” intravista sulla carrozza di Carmilla, ma il bacino di suggestioni è il medesimo. D’altra parte, a fronte dell’immagine autoritaria offerta da Le Fanu della madre di Carmilla accompagnata da una simile megera moresca, si può pensare anche a un altro caposaldo della letteratura fantastica: cioè quel Vathek di William Beckford (1782, pubblicato 1786) dove, in un contesto più marcatamente orientale e che avvertiamo ancora più affrontante per le nostre categorie ideali, l’altrettanto autoritaria madre del protagonista si accompagna a donne nere orride, mute e guerce. Il muto sogghignare della “black woman” di Le Fanu potrebbe suggerire una derivazione diretta. Ma in ogni caso, come nota Joan DelPlato nel suo studio ormai classico Multiple Wives, Multiple Pleasures. Representing the Harem. 1800-1875 (1953), la bevanda classica che l’immaginario ottocentesco associa all’harem, luogo di torbido assoggettamento e sensualità arcaiche, è proprio il caffè.

Che, gravido di tutta una simile fantasmagoria di suggestioni, non stupisce ora di trovare presentato come opposto al britannicissimo tè. Un riferimento che, persino al di là della volontà dell’autore, ben si armonizza con un intero tessuto di sottocodici: a richiamare l’idea di un passato che non passa – le minacce dal predatorio Oriente, le sue corruzioni, instabilità e fascinose sensualità – e tutti i relativi turbamenti.

 

 

  1. “Una temporanea animazione”

Tanto più che potrebbe sussistere un’altra associazione simbolica.

Si è citato il Vathek di William Beckford, una delle opere seminali dell’immaginario ottocentesco sull’Oriente, e che per esempio influisce potentemente su Byron. Ma proprio Beckford in un’altra opera sembra offrire una chiave interessante. Nella versione definitiva del suo travelogue in fittizia forma epistolare Italy; with Sketches of Spain and Portugal, 1834, con memorie dal Grand Tour 1780-81 (già apparse come Dreams, Waking Thoughts, and Incidents, 1783, e profondamente rivedute), fornisce tra l’altro un resoconto vivissimo del suo soggiorno a Venezia mezzo secolo prima, luglio-agosto 1780: e nota come gli “Asiatics” trovano gli usi della città lagunare

 

molto simili ai loro. Poltrire in un caffè per ore, assaporare a lungo un sorbetto, sono abitudini che si accordano perfettamente con gli usi degli abitanti dell’Impero Ottomano, i quali passeggiano impettiti per Venezia, abbigliati nei costumi tipici, fumando le loro pipe esotiche, senza suscitare alcuna sorpresa o meraviglia, come invece accadrebbe nella maggior parte delle capitali europee.

[Lettera V, in: William Beckford, Lettere veneziane, a cura di Paolo Pepe, La scuola di Pitagora, Napoli 2012, p. 63].

 

La Venezia descritta da Beckford è in effetti una città fortemente orientale, al punto da veder presentata San Marco con una “grande moschea” (Lettera III). Ma a interessarci anche di più è un altro riferimento, a proposito di un incontro del giovane viaggiatore con alcuni gentiluomini veneziani

 

in uno dei loro casini. L’ampio appartamento guardava sulla piazza; era formato da cinque o sei stanze arredate con gusto decisamente frivolo, senza fasto né eleganza; c’erano luci dappertutto. Le signore che incrociai esibivano abiti succinti e acconciature scomposte; nei loro occhi si leggeva la trama di innumerevoli avventure. Gli uomini, invece, se ne stavano abbandonati sui sofà o vagavano per le stanze.

L’intero consesso sembrava sul punto di addormentarsi quando venne servito il caffè. Questa bevanda magica indusse una temporanea animazione, e per un momento la conversazione procedette con tocchi di piacevole stravaganza; ma fu davvero questione di attimi: ogni scintilla si spense e non restarono che carte e stupidità.

[…] Solo verso l’una la compagnia fu al completo; la lasciai alle tre – quasi tutti addormentati sui tavoli da gioco, fra tazzine di caffè.

[Ivi, Lettera III, p. 43]

 

E più avanti, parlando in generale dei veneziani (del bel mondo, s’intende), Beckford incalza:

 

Sfibrati da precoci dissolutezze, i loro nervi non riescono a esprimere una vitalità naturale; al massimo, e solo a momenti, una frenesia febbrile e del tutto artificiale. Gli assalti del sonno, rintuzzati solo grazie a un uso smodato di caffè, li lasciano fiacchi e svogliati; la facilità, inoltre, con cui si può essere trasportati da un luogo all’altro in gondola contribuisce non poco ad accentuare la loro indolenza. Sotto questo aspetto, secondo me, non si discostano molto dalle cadenze dei loro vicini orientali che, fra l’oppio e gli harem, trascorrono la vita in uno stato di perpetuo torpore.

[Ivi, Lettera III, p. 45]

 

Il lettore di Vathek, scritto dopo quel viaggio, può facilmente ricollegare a tale scene il finale del romanzo: da un lato, il salottino dell’inferno con tanto di sofà dove alcuni dannati conoscono una temporanea, angosciatissima dilazione alla pena per il tempo di narrare “innumerevoli avventure”; e dall’altro il vagare frenetico e idiota, febbrile e quasi sonnambulico tra le sale di Satana/Eblis di quanti invece già stanno scontandola. Proprio a quella scena, tra l’altro, Beckford intendeva raccordare i cosiddetti Episodes – alcuni pervenuti, altri autocensurati o incompleti – che avrebbero dovuto diramare labirinticamente la trama in forma di Mille e una notte ad alto tasso erotico e omoerotico. E guarda caso a Venezia Beckford – cui le frequentazioni omosessuali causeranno un lungo esilio dalla patria – aveva intessuto una “fatale intimità” con un giovane nobile (non sappiamo se di casato Vendramin o Corner), una “passione criminale” che ve lo farà tornare nel 1782. Una storia insomma simile a talune degli Episodes e censurata come quelli, perché le diverse versioni del travelogue non ne dicono nulla di esplicito (a parlarne è la corrispondenza epistolare).

Che Le Fanu, autore di un caposaldo della narrativa omoerotica come Carmilla, conoscesse il Vathek e la fama omosessuale di Beckford può dirsi certo; non sappiamo però se ne avesse letti i travelogue o ricordasse questi scorci di lettere veneziane. Sia come sia, la fiacchezza e il torpore dei nobili lagunari descritti ricorda quello della linfatica, astenica, languida contessina Carmilla; e quel “caffè […] bevanda magica [che] indusse una temporanea animazione, e per un momento la conversazione procedette con tocchi di piacevole stravaganza” richiama insieme i caffè allo Schloss e le saltuarie riprese della giovane ospite, temporaneamente rinfrancata da un umore di diverso contenuto chimico, ma come quello capace di rintuzzare il sonno e rianimare.

Menzionate di sfuggita e in apparenza come tocchi di colore, quelle tazze di caffè nello Schloss stiriano di un caposaldo del gotico dell’Ottocento restano dunque al centro di una vertigine di allusioni e suggestioni che però esondano dallo specifico d’epoca. A ricordarci che in fondo il linguaggio del fantastico, recettore di ansie privatissime ma anche storico-sociali nel contesto dell’epoca di scrittura, resta una forma efficace, un linguaggio-laboratorio prezioso per parlare oggi delle nostre inquietudini personali e collettive, dagli scontri sul tema del gender alle diffidenze verso un orizzonte multiculturale.

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Lo spazio dell’immaginario nella notte della felicità https://www.carmillaonline.com/2020/04/27/lo-spazio-dellimmaginario-nella-notte-della-felicita/ Mon, 27 Apr 2020 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59696 di Paolo Lago

Tabish Khair, La notte della felicità, traduzione di Adalinda Gasparini, Tunuè, Latina, 2020, pp. 121, € 14,50.

La notte della felicità di Tabish Khair è un romanzo meravigliosamente sospeso fra ambiguità e lucidità. Come scrive Tzvetan Todorov, “ci sono testi che mantengono l’ambiguità fino alla fine, il che vuol dire anche al di là. Richiuso il libro rimarrà l’ambiguità”. Todorov si riferisce al Giro di vite di Henry James, il quale “non ci consentirà di decidere se dei fantasmi si aggirano nella vecchia proprietà o se si tratta di allucinazioni [...]]]> di Paolo Lago

Tabish Khair, La notte della felicità, traduzione di Adalinda Gasparini, Tunuè, Latina, 2020, pp. 121, € 14,50.

La notte della felicità di Tabish Khair è un romanzo meravigliosamente sospeso fra ambiguità e lucidità. Come scrive Tzvetan Todorov, “ci sono testi che mantengono l’ambiguità fino alla fine, il che vuol dire anche al di là. Richiuso il libro rimarrà l’ambiguità”. Todorov si riferisce al Giro di vite di Henry James, il quale “non ci consentirà di decidere se dei fantasmi si aggirano nella vecchia proprietà o se si tratta di allucinazioni dell’istitutrice, vittima del clima inquietante che la circonda”. Anche il romanzo di Khair che, come leggiamo nel risvolto di copertina, si situa vicino alle “ghost stories ‘senza fantasma’ di James, Du Maurier e Byatt”, mette in scena un clima di ambiguità attraversato però da uno sfondo sociale guardato con estrema e disincantata lucidità.

La narrazione si affida all’espediente del manoscritto ritrovato, utilizzato assai spesso in letteratura, da Potocki fino a Poe e Manzoni. L’incipit è costituito da un’apostrofe al lettore, il quale viene descritto nell’entrare in una stanza di un albergo a cinque stelle di Mumbai, in India: “Comincia così… Entri nella stanza. Chi sei? Potresti essere chiunque”, vale a dire “un uomo d’affari o un amministratore delegato di passaggio per una sola notte”, “un medico di successo”, “un comune turista”, “uno scrittore” al quale viene offerto il pernottamento dagli organizzatori di un festival letterario, “un dipendente, magari uno dei responsabili di livello più basso, mandato a verificare che il bar sia rifornito come si deve”. Basta che questo “chiunque” o “quasi chiunque” apra il primo cassetto del comodino accanto al letto per trovare una risma di carta tutta scritta a mano, accanto a una Bibbia e a un Bhagavad Gita. Il titolo del manoscritto “è accattivante” ed è stato barrato: “L’infinità spettrale delle piccole distanze”. Il fascino di questo titolo, probabilmente, sta in due parole che si pongono in serrato contrasto: “infinità” e “piccole”. Inoltre, l’aggettivo “spettrale” introduce il tema di un fantastico e di un immaginario incastonato nella realtà scontata e quotidiana come a voler dire che nel “piccolo”, nel consueto, si può riscoprire un’inedita e inesausta fonte di immaginario. L’autore del manoscritto è Anil, uno dei protagonisti del romanzo. È un uomo razionale, un ricco capo d’azienda che vive in una casa elegante e gira in auto con l’autista. È lui ad aver scritto quelle fitte pagine. La sua azienda si è accresciuta e ha raggiunto un buon successo grazie anche all’aiuto di un suo dipendente musulmano, Ahmed, divenuto nel tempo il suo braccio destro. Ahmed è un uomo schivo e silenzioso, connotato da una calma e da una saggezza fuori del comune. La sera della festa musulmana di Shab-e-baraat, Anil accompagna Ahmed a casa sua a causa di un forte temporale e viene invitato dal suo dipendente a entrare per assaggiare un gustoso dolce, l’halwa, preparato dalla moglie Roshni.

Appena varca la soglia della casa di Ahmed, il personaggio si ritrova quasi proiettato in un’altra dimensione, in cui vige il fantastico e l’immaginario: “Mi sembrò davvero, allora, di entrare in una sostanza più densa e vischiosa, qualcosa di più resistente, come quando ci si tuffa in una piscina, o si tratta di un pensiero che solo ora associo al mio ingresso in quella casa?”. È come se Anil fosse entrato all’interno di una “eterotopia”, cioè uno “spazio altro” che, secondo l’analisi di Michel Foucault, si configura come un luogo reale, separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo”. Lo spazio della casa di Ahmed è come attraversato da una “sostanza più densa e vischiosa, qualcosa di più resistente”, quindi, per certi aspetti, si potrebbe anche configurare come uno spazio di resistenza, uno spazio, per utilizzare un termine di Foucault, di “contestazione”. In cucina, la moglie sta preparando l’halwa e non si mostrerà al suo ospite per rispettare l’osservanza musulmana della purdah, la pratica che vieta agli uomini di vedere le donne. La presenza di Roshni assume quindi una consistenza spettrale, immaginifica, relegata entro la soglia di una sostanza incorporea. Ma è un avvenimento – che qui non sveleremo – che mette in crisi la razionalità di Anil. È in virtù di esso che il ricco capo d’azienda comincia a nutrire forti sospetti nei confronti di Ahmed, addirittura sulla sua sanità mentale. Come sempre ricorda Todorov riguardo a Aurélia di Gérard de Nerval, il romanzo dello scrittore francese costituisce “un esempio originale e perfetto dell’ambiguità fantastica”: “il raggio d’azione di questa ambiguità è certamente quello della follia”. Forse – continua Todorov – questa follia si configura, in realtà, come una “ragione superiore”. E, lentamente, anche ne La notte della felicità, Anil verrà inglobato dalla “follia” di Ahmed che lo guiderà come una sorta di “ragione superiore”.

Di fronte al ‘perturbamento’ innescato da una dimensione e da un avvenimento per lui incomprensibili, Anil si affida alla razionalità. Ingaggia infatti un suo amico a capo di un’agenzia di investigazioni per cercare delle informazioni sulla vita di Ahmed, il quale si è improvvisamente trasformato in un ‘diverso’, uno ‘strano’, un potenziale nemico per il suo placido e regolato ordine borghese. Il ricco e razionale Anil, di fronte a una dimensione segnata dallo strano, dalla follia e dall’immaginario, risponde con la razionalità dell’investigazione e dello spionaggio. Lo stesso Foucault ricordava che la dimensione dell’eterotopia si contrappone alla rigidità geometrica e razionale della “polizia”, del controllo, dello “spionaggio”. Considerando la nave come “l’eterotopia per eccellenza”, lo studioso francese afferma che “in una società senza navi i sogni si inaridiscono, lo spionaggio si sostituisce all’avventura e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”. Ahmed, la sua casa e sua moglie Roshni sono quasi gli alfieri di un mondo di sogno, di una “notte della felicità” in cui l’immaginario forse ancora riesce a resistere. Lo “spionaggio” inizia quindi a scandagliare la vita di Ahmed e la narrazione del ‘manoscritto ritrovato’ è intercalata da periodi contrassegnati da uno stile piano e oggettivo, da referto, i quali si inseriscono nel più ampio racconto relativo alla vita del personaggio, segnato da momenti più poetici e immaginifici.

Uno di questi momenti è sicuramente rappresentato dalla descrizione della visita al cimitero in cui riposa il padre di Ahmed. A sua madre Ammajaan viene proibito l’ingresso perché, viene detto, i costumi sono cambiati e la legge islamica ne proibisce l’ingresso alle donne. Ahmed, con la consueta calma, cerca in tutti i modi di far entrare la madre, fino a una vera e propria pratica di resistenza: accompagnare e sorreggere Ammajaan, anziana e stanca, nel percorrere a piedi una squallida e sporca ferrovia per raggiungere un posto, fuori dal cimitero, dal quale si può vedere da lontano la tomba del padre. Di fronte all’assurdo divieto di potersi recare a rendere omaggio alla tomba del padre (che ci può far pensare, per certi aspetti, agli odierni e disumani divieti, in tempo di emergenza da Covid, di recare l’ultimo saluto ai propri cari defunti), viene attuata una pratica di resistenza lenta e silenziosa:

Riesci a immaginarlo? Puoi vedere questa vecchia, col suo equilibrio ormai instabile, camminare lentamente, barcollando, sui binari e tra i binari, quei binari dove si deposita tutto quello che viene buttato dai treni, quei binari che gli indiani poveri usano per defecare, quei binari sui quali, da un momento all’altro, potrebbe arrivare un treno in corsa? E suo figlio che la sorregge, le orecchie tese per udire il minimo rumore di un motore che si avvicina, che si trattiene dal farle fretta e allo stesso tempo vuole che si muova il più velocemente possibile… E poi raggiungono il posto e lei già da lontano riconosce la tomba, congiunge le mani e offre la stessa, immutata preghiera. Poi si voltano e tornano indietro per la stessa via dalla quale sono venuti.

All’interno del racconto, elegantemente ricreato dalla bella traduzione di Adalinda Gasparini, appare anche la dura realtà sociale dell’India contemporanea, attraversata da plaghe di povertà ancora irrisolte e caratterizzata da crudeli scontri sociali, come quelli che vedono la sanguinosa contrapposizione fra indù e musulmani. Attraverso la ricostruzione della vita di Ahmed svolta dal detective appare perciò sotto i nostri occhi anche uno spaccato di vita indiana con le sue usanze e le sue abitudini. Ma la razionalità che scandisce i referti oggettivi ricostruiti dal detective si scontrerà, alla fine, con un nuovo turbine dell’immaginario. Se Anil, infatti, aveva costruito la sua intera esistenza su una base razionale, pratica e realistica, dovrà rifare i conti con se stesso. Il fantastico e l’immaginario, per mezzo di una sorta di oggetto magico, un “portapranzi d’acciaio come quello che Ahmed si portava sempre in ufficio”, lo avvolgeranno completamente in maniera quasi impercettibile. Quindi, accingendosi a narrare la sua storia, egli attua una via di fuga dal suo mondo razionale, freddamente basato sull’economia e sul lavoro (“Ignora la mia storia se vuoi, estraneo, io però non posso ignorarla. E non posso nemmeno raccontarla nel mio solito mondo”). E allora, ‘perturbato’ da Ahmed, questo angelico ed etereo alfiere dell’immaginario che ha sconvolto la sua vita fatta di certezze, Anil, dopo essere quasi riuscito ad entrare in un nuovo spazio liberato, vergherà il suo racconto per poi abbandonarlo in una stanza d’albergo e consegnarlo come un lascito al nostro sguardo di lettori.


Riferimenti bibliografici:

Michel Foucault, Utopie Eterotopie, trad. it. Cronopio, Napoli, 2011.

Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, trad. it. Garzanti, Milano, 2011.

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Hill House: l’infestazione di un classico https://www.carmillaonline.com/2019/04/13/hill-house-linfestazione-di-un-classico/ Fri, 12 Apr 2019 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52030 di Walter Catalano

The Haunting of Hill House è un classico della narrativa americana, opera di una delle scrittrici più originali e sensibili della scena statunitense: Shirley Jackson, nata a San Francisco nel 1916 e morta a Bennington, Vermont, nel 1965. Con Flannery O’Connor, Sylvia Plath, Ursula K. Le Guin e Margaret Atwood, la Jackson rappresenta quanto di meglio la letteratura al femminile di lingua inglese abbia prodotto nel corso della seconda metà del ‘900. Incidentalmente Shirley ha scritto varie opere, brevi e lunghe, che possono essere inquadrate – seppure in [...]]]> di Walter Catalano

The Haunting of Hill House è un classico della narrativa americana, opera di una delle scrittrici più originali e sensibili della scena statunitense: Shirley Jackson, nata a San Francisco nel 1916 e morta a Bennington, Vermont, nel 1965. Con Flannery O’Connor, Sylvia Plath, Ursula K. Le Guin e Margaret Atwood, la Jackson rappresenta quanto di meglio la letteratura al femminile di lingua inglese abbia prodotto nel corso della seconda metà del ‘900. Incidentalmente Shirley ha scritto varie opere, brevi e lunghe, che possono essere inquadrate – seppure in termini piuttosto lontani dalla narrativa di genere – nel campo del fantastico, del weird e dell’horror, ma risulta se non fuorviante, certo assai limitativo, confinare un’autrice di tale complessità nel ruolo banale di “maestra di Stephen King”, come molta stampa, non solo nostrana, ha fatto. Shirley è soprattutto la scrittrice del disagio femminile, le sue protagoniste – sempre, immancabilmente donne – sono sempre, immancabilmente angosciate, problematiche, conflittuali, come la Eleonor di Hill House, schizoidi e scisse come la Lizzie di The Bird’s Nest (in italiano Lizzie), vittime sacrificali e capri espiatori come nel capolavoro La lotteria – racconto pubblicato nel 1948 sul New Yorker che per primo le diede la notorietà – o stregonesche ed enigmatiche muse inquietanti come le sorelle Merricat e Constance dell’ultimo grande romanzo We Have Always Lived in the Castle.

La fama di scrittrice gotica di Shirley Jackson è legata soprattutto ai suoi due ultimi romanzi Abbiamo sempre vissuto nel castello del 1962 e soprattutto The Haunting of Hill House del 1959, testo che si confronta con il classico tema horror della casa infestata. La storia è stata spesso paragonata al capolavoro assoluto della ghost-story psicologica: Il giro di vite di Henry James; un parallelismo che risiede soprattutto nell’analoga, suprema e irrisolta ambiguità – l’elemento principale dell’unheimlich teorizzato da Sigmund Freud e del Weird e dell’Eerie individuati da Mark Fisher come categorie principali del fantastico moderno. I fantasmi – nella casa di Flora e Miles a Bly nell’Essex, come nella labirintica Hill House – ci sono davvero o sono solo la proiezione di una mente disturbata ? Sia James che la Jackson non danno risposta: ogni lettore dovrà cercarsi la sua. Il libro della Jackson è stato riconosciuto come modello da Ray Bradbury, Stephen King o Neil Gaiman. Richard Matheson ha persino riscritto una sua versione personale della storia, Hell House (1971), in italiano La casa d’inferno, romanzo da cui è stato tratto nel 1973 il discreto film Dopo la vita (The legend of Hell House), per la regia di John Hough. Qui parapsicologi e spiritisti si sfidano a dimostrare le loro tesi contrapposte – una razionalista, l’altra sovrannaturale – sul campo, confrontandosi con i fenomeni misteriosi di una casa ugualmente demoniaca: ma il romanzo fallisce proprio nella sua mancanza di ambiguità; i fantasmi alla fine ci sono davvero, Matheson, assume un punto di vista preciso, spiega, dà una risposta univoca e la risposta non convince: l’autore forse crede davvero all’infestazione, ma il lettore no.

Hill House, invece è infestata solo in quanto luogo in cui gli incubi interiori si manifestano, in cui le personali fantasie di regressione terminano in eterna solitudine – è forse l’ennesima metafora – carsicamente onnipresente in tutta l’opera della Jackson – del tormentato, simbiotico, devoto eppure al fondo infelice matrimonio di Shirley con Stanley Heyman, intellettuale radical ebreo, tre anni più giovane di lei, critico letterario, recensore su The New Yorker, e docente universitario (autore di due monumentali lavori di saggistica, The Armed Vision: A Study in the Methods of Modern Literary Criticism, del 1947 e The Tangled Bank: Darwin, Marx, Frazer and Freud as Imaginative Writers, del 1962: testi critici di tutto rispetto ma non certo dei best seller); uomo tendenzialmente egoista e fedifrago, poco incline alla condivisione delle routinarie incombenze familiari e domestiche il cui peso ricadeva quasi interamente sulla moglie, e molto proclive all’avventura erotica e sentimentale con le proprie ex studentesse (con una di queste avrà una intensa relazione pubblica che sprofonderà Shirley in una grave crisi psicologica a base di agorafobia e crisi di panico; un’altra diventerà la sua seconda moglie un anno dopo la morte precoce e improvvisa di Shirley, per un arresto cardiaco nel sonno provocato probabilmente da un uso eccessivo di alcool, antidepressivi e barbiturici). La casa è infestata solo in quanto forza viva che si adatta ai suoi abitanti e risponde in base alle loro personalità e alle loro storie: pur “non sana”, stabilisce circostanze che, per sovrannaturali che possano apparire, costituiscono “condizioni di assoluta realtà”, come viene enunciato da subito in uno degli incipit più perfetti di tutta la letteratura americana: “Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola”.

La protagonista del romanzo Eleonor Vance, trentaduenne che ha passato tutta la sua vita adulta a prendersi cura della madre inferma – la cui recente scomparsa l’ha finalmente liberata dal giogo ma l’ha costretta a vivere con la sorella che odia – è invitata a unirsi al gruppo di ricercatori che si stabilirà a Hill House e, infelice e solitaria com’è, coglie al volo l’occasione. Il dottor Montague – bizzarro antropologo e ricercatore sperimentale sui fenomeni paranormali – ha selezionato in base alle precedenti esperienze psichiche verificate in loro, una dozzina di persone: in ultimo ne ha scelte due. Una è Eleonor, che da bambina aveva vissuto un episodio poltergeist, una pioggia di pietre sulla sua casa per tre giorni dopo la morte del padre; l’altra è Theodora, una chiaroveggente con sconcertanti poteri empatici, l’esatta antitesi di Eleonor, è un’artista dalla vita bohemienne, solare, allegra e provocante, di tendenze allusivamente lesbiche. Oltre al dottore e alle due medium sarà presente anche Luke Sanderson, l’erede della proprietà, la cui zia – la padrona di Hill House – lo ha inviato, a nome della famiglia, a presenziare alle investigazioni. La casa ha un passato di catastrofi e di sfortune: la moglie del primo proprietario e costruttore, Hugh Crain, morta per il ribaltamento della sua carrozza nella rimessa; la seconda moglie scomparsa in seguito ad una misteriosa caduta; le sue due figlie ed eredi, spietatamente in lotta fra loro per il possesso della proprietà, finché una delle due non si è impiccata alla garitta della torre. Nel cuore della casa, proprio sulla soglia della stanza che un tempo era la nursery, c’è un angolo sempre inspiegabilmente gelato, tipico segnale d’infestazione. Le manifestazioni sovrannaturali iniziano già dalla seconda notte di permanenza: misteriosi colpi alle pareti che ricordano ad Eleonor quelli della madre malata che la chiamava dalla camera accanto alla sua, misteriosi messaggi scritti con gesso e sangue sulle pareti che chiedono di aiutare Eleonor a tornare a casa. Quando arriva la moglie di Montague, una buffonesca medium, che tenta di contattare gli spiriti tramite una specie di tavoletta Ouija, il messaggio è di nuovo rivolto a Eleonor: “Cosa vuoi ?” – chiede la medium. “Casa” – le viene risposto. Ad un certo punto ogni personaggio esprime la propria definizione di paura: “Abbiamo solo paura di noi stessi”, dice il dottor Montague; “Di vederci come siamo senza travestimenti”, dice Luke; “Di sapere quello che davvero vogliamo”, dice Theodora; “Io ho sempre paura di essere sola”, dice Eleonor. Proprio la notte successiva Eleonor si sveglia all’improvviso, stringendo la mano di Theodora addormentata accanto a lei; la voce di un bambino piagnucola: “Ti prego non farmi male. Ti prego fammi tornare a casa”. Eleonor urla e accende la luce rendendosi conto che Theodora non dormiva accanto a lei ma in un letto all’altro capo della stanza. “Mio Dio, la mano di chi stavo stringendo ? ” – si chiede Eleonor. L’episodio non è solo un eccezionale causa di brividi per il lettore, ma una metafora estremamente esplicita. “La paura e la colpa sono sorelle” dirà il dottor Montague, ed Eleonor confesserà di aver ignorato il richiamo della madre la notte prima della sua morte, così Shirley elaborerà il velenoso rapporto con Geraldine, sua madre, le cui insistenti e spietate critiche – sul suo aspetto fisico trascurato, sul suo look informale, sulla sua accentuata pinguedine – l’avevano condizionata ad accettare di essere sminuita e tradita da Stanley, l’estraneo accanto al quale dormiva da anni. “La mano di chi stavo stringendo ?” – Nella splendida biografia Shirley Jackson: A Rather Haunted Life – alla quale sono debitore di gran parte delle notizie, aneddoti e citazioni qui riportate – l’autrice Ruth Franklin riferisce che nella conferenza Experience and Fiction, parlando di Hill House, la Jackson raccontasse di aver avuto degli episodi di sonnambulismo, durante la composizione del romanzo, una mattina ha ritrovato sulla sua scrivania, scarabocchiate sulla carta gialla dove amava scrivere le sue opere, le parole “Dead Dead”, ma – aggiunge la Franklin – nell’archivio di appunti e abbozzi relativi al romanzo, questo foglio non è mai stato ritrovato: ce n’è invece un altro molto simile alla descrizione ma in cui sono scarabocchiate le parole “Family Family”. “La casa è Eleonor”, spiegò la Jackson nello stesso testo, puntualizzando di non credere ai fantasmi: Eleonor che indulge in fantasie domestiche, che s’immagina in varie case viste durante il tragitto in auto verso la sua destinazione infestata, creando per ognuna una diversa situazione, una diversa famiglia; che mente al gruppo inventandosi la descrizione del suo appartamento ideale nel quale sostiene di abitare. Perfino Theodora ignorerà la sua richiesta di andare ad abitare insieme una volta lasciata Hill House: Eleonor così non ha alcun posto dove tornare, la sua paura di restare sola può acquietarsi solo arrendendosi a Hill House. “Sono a casa, sono a casa” penserà nei suoi ultimi momenti mentre guida a folle velocità intorno all’edificio, prima di andarsi a schiantare contro un albero. Ma il romanzo si chiude con le stesse parole dell’inizio: le fantasie di unità di Eleonor non saranno mai soddisfatte, così come la vana speranza di Shirley che il matrimonio avrebbe posto fine alla sua solitudine. Non c’è posto per Eleonor neanche fra i fantasmi di Hill House, con i quali s’immaginava in comunione. Qualunque cosa cammini là dentro, ancora cammina sola. L’unico momento in cui Eleonor ci ha svelato la sua vera natura repressa, il suo desiderio eternamente frustrato, è nello splendido episodio dell’incontro casuale con la bambina intravista in un ristorante: la piccola non vuole bere il tè in una tazza qualsiasi ma reclama la sua cup of stars e la madre cerca di convincerla a non fare i capricci e a bere lo stesso: “Non farlo, disse Eleonor alla bambina; insisti per avere la tua tazza di stelle; una volta che ti hanno incastrata e costretta ad essere come loro, non vedrai mai più la tua tazza di stelle; non farlo; e la bambina le lanciò un’occhiata e le fece un sorrisetto scaltro, tutto fossette, assolutamente consapevole e scosse la testa in direzione del bicchiere, cocciuta. Intrepida bambina, pensò Eleonor; saggia, intrepida bambina”.

Per chi volesse approfondire (e sarebbe cosa saggia), i romanzi della Jackson tradotti in italiano – tutti da Adelphi – sono tre: The Bird’s Nest del 1954 (per noi Lizzie, come il film con Eleanor Parker che Hugo Haas ne trasse nel 1957, il cui titolo italiano era La donna delle tenebre); We Have Always Lived in the Castle del 1962 (Abbiamo sempre vissuto nel castello per Adelphi, ma nel 1990 già la Mondadori nella collana Mystbooks l’aveva tradotto come Così dolce, così innocente). Del romanzo esistono una trasposizione teatrale e un musical, oltre ad un recente, mediocre, film omonimo diretto nel 2018 da Stacie Passon. Fondamentale anche la narrativa breve: Adelphi ha recentemente tradotto (per quanto in versione assai ridotta rispetto al volume originale Let Me Tell You del 2016) la raccolta di testi vari – narrativi, memorialistici e saggistici – Paranoia (2018); i tre racconti inclusi in La ragazza scomparsa (2019); e il classico La lotteria (2007), non pubblicando però il libro nella sua interezza ma selezionando solo quattro racconti che, estrapolati dal contesto, non restituiscono l’unità tematica di una silloge fondamentale nell’opera della scrittrice, The Lottery, or The Adventures of James Harris del 1949: il lettore non anglofono potrebbe cercare la quasi introvabile edizione Mystbooks Mondadori del 1991 che sotto il titolo di Demoni amanti, aveva pubblicato il volume completo nella traduzione di Riccardo Valla. Infine The Haunting of Hill House, del 1959, adattato come L’incubo di Hill House; ma oltre all’edizione Adelphi è ancora reperibile la vecchia traduzione per Urania del 1979, con il titolo La casa degli invasati, che riprende Gli invasati, titolo dell’edizione italiana del film The Haunting, con Julie Harris e Claire Bloom, diretto da Robert Wise, un vero capolavoro del cinema horror, eccentrico quanto il romanzo da cui è tratto, alla prima del quale la stessa Jackson presenziò con legittimo orgoglio a New York nel 1963. Esiste poi, purtroppo, anche un imbarazzante e ridicolo remake del 1999, Haunting – Presenze di Jan de Bont con Liam Neeson: la povera Shirley si è almeno risparmiata la visione di tale scempio.

Trasposizione del tutto diversa del libro, radicale nello stravolgimento sistematico di trama e personaggi ma rispettosa almeno dello spirito e della natura dell’opera, la serie TV di Netflix The Haunting of Hill House, diretta da Mike Flanagan nel 2018. Veterano dell’horror, Flangan, con alle spalle titoli nel complesso interessanti come Absentia (2011), OculusIl riflesso del male (Oculus) (2013), Somnia (Before I Wake) (2016), Il terrore del silenzio (Hush) (2016), Ouija – L’origine del male (Ouija: Origin of Evil) (2016) e soprattutto Il gioco di Gerald (Gerald’s Game) (2017), sempre per Netflix, trasposizione riuscita da un romanzo di Stephen King piuttosto difficile da adattare per lo schermo, e avvalendosi di un notevole cast composto da Timothy Hutton, Michiel Huisman (il Daario Naharis di Game of Thrones), Carla Gugino, Henry Thomas, Elizabeth Reaser e Kate Siegel, riesce a coniugare una degna tensione esistenziale e psicologica con i sani brividi del cinema di genere, senza per altro confermare l’iperbole del colpo di genio attribuitagli, fin troppo generosamente, da Stephen King.

Flanagan pur stravolgendo completamente il romanzo della Jackson mantiene, con un voice-over introduttivo, la descrizione di Hill House con la quale il libro inizia e finisce, ma introduce una significativa variazione: il “qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva da sola” si trasforma in “qualunque cosa si muove, si muove insieme”, una lettura ben diversa che sostituisce l’approccio critico e interlocutorio di Shirley con una visione più ottimista che già anticipa il finale consolatorio e quasi stucchevole della serie. Personaggi e trama vengono così reinventati: negli anni Novanta la famiglia Crain, composta da Hugh, Olivia e dai loro cinque figli, si trasferisce a Hill House, una vecchia tenuta da tempo abbandonata. Lo scopo dei Crain è ristrutturare la casa per poi rivenderla, un lavoro che si rivela più lungo e complicato del previsto. Fantomatiche presenze che evocano i tratti dei vecchi inquilini – la famiglia Hill, avvolta da un passato di sangue – iniziano a manifestarsi ai figli dei Crain, i maschi Steven e Luke e le bambine Shirley, Theo e Nell (i nomi, come si nota, riprendono quelli di vari personaggi del libro e della scrittrice stessa). Apparizioni sempre più invadenti e terrorizzanti, cominciano a minare la salute psichica di tutta la famiglia ed in particolare quella della figura apparentemente più solida e concreta, la mamma Olivia Crain, che una notte si suicida; il padre traumatizzato fugge precipitosamente da Hill House con i figli senza dare loro alcuna spiegazione sull’accaduto. Ventisei anni dopo, i figli dei Crain sono cresciuti e non hanno ancora capito che cosa sia esattamente successo quella sera: se i fantasmi dell’infanzia fossero reali o meno e perché la madre si sia uccisa. Ciascuno ha rielaborato il lutto in modo diverso: Steven scrive libri parapsicologici raccogliendo testimonianze sui fantasmi (pur non credendoci) ed ha avuto successo con la narrazione della sua stessa infanzia infestata dagli spettri, per questo è accusato dai fratelli di aver mercificato la loro privata e tragica storia di famiglia; Luke è un tossico che non fa che entrare e uscire da istituti di rehab ; Shirley ha aperto con il marito un’agenzia di pompe funebri; Theo è una lesbica promiscua con un dono paranormale nelle mani e di mestiere fa la psicologa infantile; Nell continua a subire le inquietanti visite notturne delle presenze della casa, in particolare quelle di una donna dal collo spezzato che crede abbia provocato la morte improvvisa del marito. Ognuno, in un modo o nell’altro, è ossessionato dai ricordi della comune fantomatica infanzia nella casa misteriosa, e l’inspiegabile suicidio di Nell, andatasi a impiccare proprio alla garitta della torre di Hill House, sarà l’occasione per fare i conti con il proprio passato. La narrazione si muove su due piani: da una parte la vita presente dei protagonisti, fatta di idiosincrasie reciproche, di quotidiane contraddittorie e ambigue relazioni familiari, di un rapporto conflittuale e irrisolto con il padre rifiutato; dall’altra i flashback di un passato che ritorna sotto forma di incubo visto dal punto di vista dei bambini, creando un’atmosfera onirica, in cui lo spettatore resta sempre nel dubbio se le apparizioni siano reali oppure solo fantasticherie.

Ogni membro della famiglia Crain rielabora il lutto per la perdita della madre in modo diverso. Steven, rifiuta categoricamente l’esperienza paranormale pur fondando sulla rielaborazione narrativa proprio di questa la sua stessa carriera letteraria. Shirley, la secondogenita, prova risentimento nei confronti della madre perché le rimprovera di aver rifiutato di curarsi dalle “visioni”. Theo, cerca di sfruttare la conoscenza dei propri traumi infantili per aiutare altri ragazzi ma è incapace di una relazione affettiva stabile e di un uso coerente delle facoltà PSI che ha avuto in dono. Luke cede alla disperazione, manifestata nella tossicodipendenza, e la gemella Nell all’accettazione, così non mette mai in dubbio la veridicità dell’esperienza medianica ma questo la conduce all’ossessione e infine al suicidio (il fantasma femminile dal collo spezzato che la perseguita fin da bambina non è che la proiezione del suo destino). The Haunting of Hill House resta fedele allo spirito della Jackson pur sconvolgendo completamente l’architettura narrativa della sua storia perché mette in relazione il paranormale – vero o presunto, vero e presunto – con la nostra interiorità: i fantasmi non sono manifestazioni immutabili del reale, ma rimodulazioni dei nostri sentimenti che dobbiamo fuggire o affrontare. Forse vengono chiamati in causa troppi temi, disposti in un ordito privo dell’adamantina nitidezza della prosa di Shirley Jackson: la malattia mentale, la solitudine, la tossicodipendenza, il rapporto conflittuale tra padri e figli, tra fratelli e sorelle, il suicidio, la sessualità. Una certa pesantezza rischia talvolta di aleggiare nelle parti meno riuscite ma la serie resta comunque orchestrata magistralmente dosando i momenti di tensione e quelli introspettivi, come nello straordinario episodio sei, il migliore di tutto lo show – quello del funerale di Nell nell’agenzia funebre della sorella Shirley, alla presenza di tutta la famiglia padre compreso – scandito in cinque fluidissimi e tortuosi piani sequenza di una raffinatezza piuttosto rara in una serie tv.

La commistione di kammerspiel, dramma familiare quasi checoviano e horror gotico (anche molto pauroso – ammettiamolo francamente – in alcune scene) funziona decisamente bene e assolve Flanagan da tutte le libertà presesi nei riguardi di un capolavoro difficilmente accostabile come il romanzo di Shirley Jackson. Il successo è stato unanime ( forse anche dovuto ad un finale positivo e rassicurante, esaltante l’unità ritrovata della famiglia, la cancellazione dei conflitti del passato, la riconciliazione fra i vivi e i morti e il superamento degli incubi: finale che non anticiperò ma che rappresenta il tradimento maggiore nei confronti dell’assai più problematica Shirley) ed a grande richiesta si è dovuto provvedere ad una seconda stagione, impossibile da realizzare riutilizzando ed espandendo situazioni e scenari ormai già perfettamente conchiusi. Il secondo capitolo della serie, dal titolo The Haunting of Bly Manor, si baserà quindi sul romanzo considerato il diretto antecedente di Hill House, Il Giro di Vite, forse la ghost-story più affascinante e morbosa mai scritta, pubblicata nel 1898 da Henry James. Ancora una vecchia casa di campagna infestata da fantasmi. Protagonisti questa volta saranno due giovani orfani e un’istitutrice che si dovrà occupare di loro e delle presenze vaganti nella dimora o forse solo nella sua mente agitata da turbamenti sessuali repressi. Un’impresa forse ancora più difficile di quella positivamente appena realizzata da Flanagan: la filmografia derivata dal jamesiano The Turn of the Screw è sterminata e conta almeno un capolavoro assoluto The Innocents (da noi Suspence) di Jack Clayton del 1961 con una straordinaria Deborah Kerr e una sceneggiatura firmata Truman Capote, o un film curioso e interessante come The Nightcomers (da noi Improvvisamente un uomo nella notte) del 1972 di Michael Winner e interpretato da un notevole Marlon Brando. Il confronto sarà titanico e la sfida per il giovane regista assai pericolosa. Chi vivrà vedrà.

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / III) https://www.carmillaonline.com/2018/09/07/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-iii/ Fri, 07 Sep 2018 21:13:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48629 di Franco Pezzini

La decollazione nel boudoir   (puntata precedente qui)

La donna dal collier di velluto è una storia di teste tagliate. Certo, lo erano anche le versioni di Irving e Borel, ma Dumas enfatizza il tema a più livelli. Anzitutto presenta una vicenda assai più articolata delle precedenti, passando dalla forma-racconto al romanzo e coinvolgendo il lettore con ben altra intensità emotiva – anche grazie alla sincerità malinconica dell’inizio. In secondo luogo innesta la storia fantastica in un’ampia panoramica sulla rivoluzione (al filtro di una  lettura ideologicamente non neutra, sul tema [...]]]> di Franco Pezzini

La decollazione nel boudoir   (puntata precedente qui)

La donna dal collier di velluto è una storia di teste tagliate. Certo, lo erano anche le versioni di Irving e Borel, ma Dumas enfatizza il tema a più livelli. Anzitutto presenta una vicenda assai più articolata delle precedenti, passando dalla forma-racconto al romanzo e coinvolgendo il lettore con ben altra intensità emotiva – anche grazie alla sincerità malinconica dell’inizio. In secondo luogo innesta la storia fantastica in un’ampia panoramica sulla rivoluzione (al filtro di una  lettura ideologicamente non neutra, sul tema non ci soffermiamo): e in particolare lo spettacolo della spaventosa fine sulla ghigliottina di Madame du Barry già prefigura al lettore in chiave di doppio visibile la successiva morte, questa non descritta e circonfusa d’ombre, della donna dal collier di velluto. Un’altra testa appare effigiata sulla tabacchiera del bizzarro medico-trickster conosciuto da Hoffmann all’Opéra – lo stesso che poi apparirà a sciogliere il collier nella fatale camera d’albergo: «una piccola testa di morto» (La donna, cit., p. 105), un «piccolo teschio di diamanti» (ivi, p. 106), estremamente rivelativo nelle mani di quel personaggio cangiante, sorta di medium o psicopompo a cavallo tra i mondi della vita e della morte, del delirio e dell’irruzione sovrannaturale. Inoltre, come vedevamo, la testa di Arsène rotola via come quella di Antonia sparisce dal ritratto, in un rapporto di parallelismo e oscura specularità. E infine, chiuso il romanzo, Dumas lo inserisce nel ’51 in quell’ampia raccolta Les mille et un fantômes, il cui primo “capitolo” omonimo – a sua volta costituito da un mosaico di racconti – ritorna con insistenza sul tema delle esecuzioni capitali e in particolare delle decapitazioni, fino ai più macabri dettagli medico-legali (una bella edizione, I Mille e un Fantasma, con i Brogliacci di Paul Lacroix e il saggio introduttivo I fantasmi di Dumas e Lacroix, a cura di Marco Catucci, è da poco apparsa per i tipi Robin, Torino 2018). Lo scrittore – con il complice Lacroix che gli porge una serie di storie nel segno del bizzarro e dello spettrale – sembra insomma particolarmente interessato a tale simbolica, ne esplora le suggestioni e la sviluppa in una serie di variabili. In effetti il tema della testa tagliata, separata dal corpo, reca una ricchissima serie di provocazioni. Solo a titolo di esempio, in rapporto a opere che negli ultimi decenni le hanno incalzate, pensiamo all’uso che ne fa Giuseppe Genna nell’intrigante e amarissimo thriller/noir Le teste (Mondadori, Milano 2009) o alla comparsa quasi contemporanea della traduzione italiana del grande saggio di Julia Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, uscito in Francia nel 1998 (Donzelli, Roma 2009).

D’altra parte un secondo elemento emerge molto chiaro: ne La donna dal collier di velluto, come nel primo testo della raccolta del ’51, le teste che rotolano sono tutte di donne. Non sembra un caso che Dumas inserisca a un tratto nel dialogo i nomi di Sade e di Justine: e proprio l’icona del supplizio femminile sembra qui costituire il punto d’incontro più inquietante – e peraltro consono alla spettacolarità feticistica odierna – tra strazio del corpo e provocazione sensuale, inabissamento psichico e terrori della Storia. A un livello generale, di salutare messa a fuoco degli aspetti equivoci di questa connessione estetizzante, rinvierei al bel testo di Adriana Cavarero, Orrorismo – ovvero della violenza sull’inerme (Feltrinelli, Milano 2007), e in questa dimensione non mi addentro – del resto il rapporto tra sadismo e agonie romantiche è stato abbondantemente studiato. Tale chiave, comunque, non esaurisce il discorso.

Tanto più che la testa (femminile) che cade è associata a un terzo elemento: una conseguenza fatale, inesorabile, che si abbatte sullo spettatore quasi folgorandolo – sia egli lo sciagurato Gottfried Wolfgang destinato alla follia, sia (a maggior ragione) l’Hoffmann che quel delirio, si immagina, proietterà nei suoi scritti come un’eredità virale. Ciò che Irving e Borel associavano alla pura epifania della Decapitata, Dumas lo riconduce a un meccanismo più complesso e interiormente devastante, legato a un giuramento sacro e a una morte a distanza, in rapporto con un Femminile che spiazza.

Ancora: il teatro di morte del romanzo si riferisce, come abbiamo visto, a un’epoca storica molto precisa. Un’epoca abbastanza vicina a Dumas – come ad altri narratori misuratisi sul tema – da recare un sapore di drammatica contiguità. Anzi un sapore che al narratore francese, erede dei valori di quella Rivoluzione, lascia un retrogusto amaro (o piuttosto dolciastro, ferrigno) e proietta ombre grevi. Tanto più che quei fantasmi, riproposti in infiniti memoriali, ma anche in tutta una ricchissima e pervasiva iconografia, sembrano strutturarsi secondo forme che accedono al mito.

Gli ingredienti, insomma, ci sono tutti. E come in quei giochi ottici dove dobbiamo rilasciare lo sguardo a cogliere un’immagine cifrata, e questa all’improvviso emerge in uno spessore virtuale nella confusione dei segni, il mostruoso rivela una prima immagine. Quel che Dumas sta richiamando sottotesto, attraverso echi e allusioni, è anzitutto il mostro che emerge in filigrana da infinite immagini dei giorni del Terrore: una Dea tremenda la cui icona è la testa tagliata e minacciosa, sollevata a segno pietrificante di un rito pagano. La Gorgone Medusa, insomma.

A dare la stura al sottotesto mitico di tanta iconografia è il terremoto simbolico dell’esecuzione di Luigi XVI. Spigolando tra le innumerevoli stampe raffiguranti l’esecuzione del re, ne troviamo per esempio una tedesca, anonima, esistente in numerose varianti e in realtà simile a modelli francesi ma più cruda. Un collaboratore del boia appare mostrare al popolo la testa mozzata del consacrato da Dio: si coglie la terribile energia della postura di quest’uomo, l’espressione allucinata e la sensazione che sia spaventato dalla testa che cerca di allontanare da sé, e quasi pietrificato dallo spettacolo che sta offrendo al popolo (cfr. La ghigliottina del Terrore. Catalogo della mostra curata da V. Rousseau-Lagarde e D. Arasse, Torino 17 febbraio – 10 marzo 1987, Polistampa, Firenze 1986, p. 67). Si noti che questo bozzetto lo troviamo riproposto in seguito – stessa postura del carnefice – in un’immagine relativa all’esecuzione di Robespierre. Il nostro Hoffmann avrebbe potuto trovarsi tra le mani proprio questa stampa, e la sua febbre interiore ne sarebbe stata certamente sollecitata.

Ma è proprio in seguito alla morte del re che si diffonde un tipo d’immagini anche più astratto e simbolico – anche questo poi riproposto per altri personaggi, Robespierre compreso. Particolarmente esplicito in una celebre acquatinta dell’editore rivoluzionario Villeneuve, il gesto del boia che solleva la testa mozzata del re, isolato però dal contesto,

 

si riduce a un avambraccio anonimo, rappresentante incontestabile della giustizia esercitata in nome del popolo. Viene così fissato una volta per sempre il valore di questo gesto dimostrativo che, nella tradizione delle immagini, è quello di Perseo che pietrifica Polidette mentre mostra la testa tagliata di Medusa. Nel rituale dell’esecuzione rivoluzionaria, l’esibizione della testa è destinata a terrificare, anzi, a pietrificare i nemici della patria. Di conseguenza, la testa del ghigliottinato diventa il suo vero volto smascherato nella morte e questo tipo di iconografia può essere definito “ritratto del traditore smascherato” [La ghigliottina del Terrore, cit., p. 51].

 

Nel senso che il volto dell’ultimo istante, come in un conato di terribile verità, coi suoi tratti e l’espressione assunta smaschererebbe il traditore: e in effetti, nel romanzo di Dumas, la testa tagliata è memoria e denuncia per Hoffmann del suo tradimento di Antonia e dei voti fattile.

Si noti che questo continuo ritorno delle immagini della morte del re e della sua testa, ostentata a pietrificare i nemici della patria, va ben oltre l’orizzonte delle stampe popolari: le troviamo su medaglie, coperchi di scatole e oggettistica varia, porcellane – dove magari la tazza cela l’immagine effigiata sul piattino sottostante, come nell’effetto moralizzatore della morte nascosta e poi rivelata delle anamorfosi…

Ma gli oggetti tradiscono lo spirito dell’epoca: e così, quando lo spiacevole medico dalla tabacchiera con la testa di morto brandisce un binocolo, la persona che si vede fissata attraverso quelle lenti, «chiunque fosse, trasaliva immediatamente e subito volgeva gli occhi verso chi la guardava, come se vi fosse stata costretta da un invisibile potere. E restava in tale posizione finché lo straordinario medico cessava di fissarla» (La donna, cit., pag. 109 – corsivo mio): restava cioè pietrificata da quello sguardo gorgonico. Certo qui Dumas strizza l’occhio all’Hoffmann narratore, ai cannocchiali dell’allarmante Coppola/Coppelius di L’uomo della sabbia, un figuro oniricamente bifronte come (scopriremo) questo medico che ha due diverse forme di apparizione. Ma il motivo della lente che ammicca a una visione diversa, e a una diversa messa a fuoco di quel mondo sottile ai confini indecidibili dell’incubo, per Dumas non si consuma nel semplice delirio. La gorgonizzazione legata alle lenti, infatti, non è imputabile solo alla personalità inquietante del medico: il binocolo, specifica questi, gli viene dall’amico Voltaire, dunque è in fondo, simbolicamente, la lente stessa dei Lumi. E come ad aggiungere un ulteriore livello di spiegazione, è a questo punto che il medico cita Justine di Sade: il suo accenno fuggevole a «una giovanissima donna che aveva letto quel romanzo» (ivi, p. 110) ed è «morta felicissima» (ibidem)«E l’occhio del medico scintillò di piacere al ricordo delle cause di quella morte» (ibidem) – reca il senso della saldatura tra Lumi, libertinismo e orrore che qui sembra costituire un sotterraneo specifico, personale e culturale, dello sguardo gelido di Medusa. Non a caso, subito dopo viene dato il segnale del secondo atto (siamo all’Opéra) e il medico annuncia: «Ora vedremo Arsène» (ibidem).

Quando poi la danzatrice appare – bellissima, con la flessuosità di una lucertola (ivi, p. 112) a richiamare un’affinità coi rettili non incongrua in una parente delle Gorgoni –  e Hoffmann si fa sfuggire un commento ammirato ad alta voce, lo sguardo di lei dal palco gli fa l’effetto di una scarica elettrica (ivi, p. 111): ancora una volta un occhio che folgora e mesmerizza, un occhio da basilisco o con effetto gorgonico. Evidente quando Hoffmann scopre di non poter quasi allontanarne lo sguardo, e per riuscirvi è costretto a «uno sforzo così doloroso che emise un grido, come se i nervi del collo, divenuti di marmo, gli si fossero spezzati in quel momento» (ivi, p. 114). Ma, come nota Hoffmann/Dumas, «una visibile correlazione si era stabilita tra i […] due sguardi» (ivi, p. 112) di Arsène e del medico, e anzi «vedeva distintamente i raggi che uscivano dai diamanti del fermaglio di Arsène [quello che trattiene il fatale collier di velluto viola] incontrarsi a mezza via con quelli che uscivano dalla testa di morto sulla tabacchiera del dottore in una linea retta, urtarsi, respingersi, e scaturire di nuovo in un fascio unico fatto di migliaia di scintille bianche, rosse e oro» (ivi, pp. 112-113). Uno scambio che parla il linguaggio del fato, e annuncia la sorte di Arsène ma insieme la potenza simbolica di un dramma, una sorta di riconoscimento del gorgoneion sulla strada di Hoffmann. Quella correlazione tra l’occhio del serpente e l’uccello che affascina (ivi, p. 121) inseguirà in forma allucinatoria Hoffmann anche in seguito: e ricordiamo che sarà proprio quel medico, alla fine del romanzo, a salire alla stanza riconoscendo il cadavere di Arsène. Suscitando nel lettore il dubbio che tutta la vicenda sia in realtà una rilettura a posteriori in chiave di delirio.

Scopriremo anzi che il fermaglio del collier di Arsène ha forma di ghigliottina. «Sì, ne fanno di graziose» commenta il dottore «e tutte le nostre donne raffinate ne portano almeno una» (ivi, p. 115). Ma il giovane si è fatto passare il binocolo, e attraverso quelle lenti fatali, per un bizzarro effetto ottico (ancora le lenti de L’uomo della sabbia), il giovane tedesco ha una sorta di amplesso con Arsène – un amplesso necrofilo in cui si sovrappongono le emozioni della giornata, l’immagine danzante diventa quella di Madame du Barry con la testa mozza, o viceversa Arsène appare danzando fino ai piedi della ghigliottina e tra le mani del boia. Il desiderio monta a tal punto che Hoffmann, dopo aver invano cercato soccorso nel talismanico ritratto di Antonia (altra testa), è costretto a fuggire dalla sala. Quando più tardi torna però davanti all’uscita degli attori per rivedere Arsène, «agitato da quella strana apparizione» (ivi, p. 119), non nota nemmeno il freddo e la neve che cade, trasformando «la redingote tedesca in una statua di marmo» (ibidem). Ancora insomma la pietrificazione: come nel dramma mitico della Gorgone ma in termini liberissimi, gli elementi dello sguardo fatale e della mutazione in pietra vengono cioè riproposti in una serie di suggestioni, fino alle estreme latitudini del concetto. Come quando più tardi Hoffmann, arricchitosi al gioco per farsi bello con Arsène, torna alla casa di lei e pregusta «la gioia di coprire con tutto quell’oro il bel corpo che gli si era svelato e che, rimasto di marmo davanti al suo amore, si sarebbe animato davanti alla sua ricchezza, come la statua di Prometeo quando ebbe trovato la sua vera anima» (ivi, p. 160). Dove il richiamo a un procedimento inverso alla pietrificazione gorgonica denuncia in fondo l’arida Arsène come vuoto simulacro, statua di pietra, proprio attraverso la squallida prospettiva di un’animazione per lucro.

Ma torniamo al Nostro pietrificato dal gelo. Arsène scompare immediatamente sulla carrozza di Danton, Hoffmann la insegue invano: e quando un paio di giorni dopo, ossessionato dall’immagine di lei, torna a teatro e apprende che i suoi gesti inconsulti durante e dopo lo spettacolo hanno segnato la rovina della diva e il suo allontanamento, il teatro e il medico stesso appaiono completamente diversi, privi di ogni lustro od orpello. Il visionario Hoffmann scopre così che l’ambiente visto due giorni prima apparteneva a una realtà passata – l’Opéra prima della rivoluzione, luccicante di gioielli ed eleganza – rievocata come per magia; il medico non ha tabacchiere preziose ed è un uomo qualunque, gli spettatori in sala sono poveracci, e persino i busti esposti (le ennesime teste) non raffigurano più Apollo e Tersicore come pareva a Hoffmann, ma Voltaire e Marat. Era la presenza di Arsène, spiega il medico, a trasfigurare tutto: «vi dico che l’amate, giovanotto, e che avete visto la sala attraverso il prisma del vostro amore» (ivi, p. 125). Eppure, ancora una volta, il discorso non si esaurisce qui: il dottore confida di non aver mai posseduto, neppure nei tempi più prosperi, una tabacchiera con pietre preziose come quella ostentata dal suo alter ego. Tutto ciò appartiene dunque a una dimensione sospesa tra l’allucinazione e qualche diverso piano della realtà: cioè Dumas rende partecipe il lettore, attraverso il suo gioco a più livelli, di una percezione sottotesto. Ed è con questo binocolo (per rifarci all’immagine già hoffmanniana delle lenti che colgono la realtà a una diversa distanza e profondità) che noi stiamo esplorando il romanzo, e troviamo la Gorgone. Come la Gorgone non si consuma in un’identità divina ma è al centro di una costellazione che comprende la testa tagliata e lo specchio, lo sguardo fatale, la pietrificazione e i serpenti, così anche qui ciò che rileva non è una banale identificazione tra Arsène e Medusa ma un contesto dinamico, un dramma mitico in cui i singoli elementi si compenetrano e si riassestano continuamente.

Così il dottore, come l’inquietante e indecidibile Coppola/Coppelius di L’uomo della sabbia riappare a Hoffmann qualche tempo dopo nel suo primo sembiante ingioiellato: spiega che il giovane avrebbe potuto rintracciarlo con facilità chiedendone l’indirizzo «al primo cimitero […] incontrato» (ivi, p. 131) e domandando del dottore dalla testa di morto (ibidem). Si definisce anzi il medico dell’Opéra (ibidem), ma alla fine del romanzo, davanti al corpo reclino di Arsène, spiegherà di essere il medico delle prigioni (ivi, p. 174): due ambiti in apparenza antitetici e saldati oniricamente attraverso la natura indecidibile di questa figura bifronte – ma con una tragica contiguità nel teatro del supplizio in piazza. Ridestandosi nell’Opéra ormai deserta dove si è assopito o passando nottetempo ai piedi della ghigliottina, Hoffmann si confronta con scene paradossalmente simili.

Comunque il giovane non si deve disperare per la scomparsa di Arsène, perduta nel labirinto di Parigi: ella infatti ha incaricato il medico di cercarle un pittore che la ritragga, e l’artista Hoffmann si offre con entusiasmo. Una carrozza tenebrosa chiamata dal dottore conduce il giovane a casa di Arsène, e la Bellissima appare da una porta nascosta «dietro uno specchio mobile» (ivi, pp. 135-136): come, viene da pensare, quello di Perseo. L’accesso all’immagine della Gorgone è possibile solo tramite uno specchio, e in queste pagine di epifania di Arsène il richiamo allo specchio torna ossessivamente. Arsène vuole farsi ritrarre in costume da Baccante, e la sconvolgente esperienza del suo denudamento vede una rifrazione entro gli specchi del boudoir; poi Hoffmann viene improvvisamente buttato fuori (è arrivato l’amante in carica), e umiliato comprende che per la mantenuta di lusso egli rappresenta un pittore qualunque, «una macchina da ritratti, come uno specchio che riflette i corpi che gli si presentano» (ivi, p. 142).

Ma anche la locuzione “macchina da/per ritratti” è significativa: proprio la ghigliottina è stata definita come “macchina per ritratti”, nel senso che isolando la testa del ghigliottinato, la mette sotto gli occhi dello spettatore. Suggestivo constatare come nel romanzo, in parallelo all’isolarsi “in ritratto” della testa mozza di Arsène, sparisce quella del ritratto di Antonia. D’altra parte proprio il citato tema del “traditore smascherato” riconduce a un ritratto-maschera in cui si condensa e riassume tutta la storia dell’individuo e il senso della sua vita (La ghigliottina del Terrore, cit., pag. 169). Una maschera: il che da un lato richiama all’uso, proprio durante la rivoluzione, di maschere funerarie rapidamente modellate sui tratti dei giustiziati, come volti ingrigiti dalla pietrificazione gorgonica; e dall’altro alla stessa Gorgone, figura-maschera anche nell’accezione più materiale. Un po’ tutta la Rivoluzione francese – ma in particolare la sua fase più drammatica, il Terrore – è all’insegna di questo volto di dea irriconosciuta in demone, dea-maschera o dea-testa, sorta di Bafometto corrucciato (e a proposito dell’idolo-testa Bafometto ricordiamo la mitologia sulla vendetta dei Templari consumata proprio in quei giorni con l’esecuzione del re Capeto). Un mostro immagine di un Femminile scatenato e sconvolgente: simbolica adatta, del resto, a quella Rivoluzione Francese in cui le donne si conquistano la «scena pubblica come vittime e come mandanti. Una furia da baccanti [ricordiamo che così voleva vestirsi Arsène per il ritratto] aveva soffiato sulla storia, e le donne volgevano a se stesse un volto inconoscibile, troppo vicino all’indistinto primordiale» (V. Papetti, La “debole mano” della signora Radcliffe, Introduzione ad Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho, Bur Rizzoli, Milano 2010, p. 23), tra aspersioni lunari di sangue, gioielli a forma di ghigliottine e carmagnole sfrenate in abiti da sacerdotesse – coi musicanti magari abbigliati da satiri. Se Dioniso aveva insomma casa in Francia nei giorni del Terrore, il volto terrifico della Dea lo accompagnava. E se la mutazione artistica del volto di Medusa, da grottesco com’era nell’arte greca a più semplicemente femminile, ancorché anguicrinito e cereo, appare diffusa fin dal Rinascimento, la svolta definitiva può ravvisarsi proprio «in un tempo tanto mitologico», come lo definisce Dumas (La donna, cit., p. 100), quale la stagione rivoluzionaria: quando cioè la Gorgone decollata assurge a figura della “libertà alla francese” come – per gli intellettuali oltremanica – la saggia ed equilibrata Atena del contraltare “all’inglese”.

Tra i mostri-femmina delle mitologie d’Occidente la Gorgone è forse il più emblematico. Una figura i cui protomodelli sprofondano in un passato lontanissimo, fino a quelle maschere neolitiche della Dea della morte che sembrano plausibili prototipi del gorgoneion, il pietrificante capo di Medusa, o persino più indietro. Il nome del resto che in greco suona una sorta d’epiteto (gorgós, “terribile”) potrebbe provenire dal sanscrito garjana, sorta di onomatopea di un ringhio bestiale (garg come urlo). Il tema della mutazione delle vittime in pietra legata alla fatalità della maschera sacra ben si sposa con la funzione (come per altri mostri ibridi) di protettrice di edifici. Ciò che non semplifica la comprensione agli imbarazzati mitologi del mondo classico, che si interesseranno particolarmente a Medusa, unica mortale di tre Gorgoni sorelle e caduta – in qualche passato remoto – sotto la spada falcata dell’eroe maschio Perseo. Comunque un mostro, bloccato nell’atto di una boccaccia apotropaica dal valore forse magico: eppure le sue caratteristiche (compresi i nessi del termine greco con una costellazione semantica legata all’idea di “regnare”, cfr. qui) finiscono col richiamarla a una dignità ben più alta, all’aspetto minaccioso della grande Dea della vita e della morte. Gli Orfici chiameranno non casualmente gorgoneion il volto della luna, e tale lascito lunare permarrà ancora nelle vamp spettrali romantiche e simboliste – compreso dunque lo spettro di Arsène. Perché, a grattare la vernice della maschera, la mostruosità di Medusa si rivela in fondo la minacciosità mitizzata, irriconosciuta della donna: e questo aspetto, in pulsioni, fremiti e polluzioni, erutterà nell’arte tra Otto e Novecento. Quando diventa oggetto di una vera e propria ossessione, spostando spesso l’attenzione dal contesto generale (Perseo sparisce) alla testa di lei: e non necessariamente tagliata, anche se il distinguo diventa relativo. Del resto nel mito gorgonico si intrecciano temi diversi e spesso (non sempre) equivoci: così, accanto al rapporto tra femminile e mostruoso – e tra donna e serpente – troviamo il motivo della fascinazione fatale (la femme fatale, appunto) che pietrifica in una succube passività; il tema dello specchio, che permette di contemplare l’incontemplabile, fino alle ultime interpretazioni come metafora per il cinema; la decollazione da parte dell’eroe virile… Lo stesso urlo (garg), permette di decrittare anche in questa chiave il soggetto androgino – del resto l’antica Gorgone aveva connotati spesso bisessuali in un’identità femminile – di un’intera nebulosa di opere di Edvard Munch: emblematico è il bozzetto conservato al Bergen Kunstmuseum dove vediamo solo la testa urlante tra una foresta di mani disperatamente sollevate. Un tema insomma che impatta con incredibile potenza sulla modernità, sia in forme artisticamente “alte” – per le quali si rinvia a Jean Clair nel suo celebre saggio Méduse. Contribution à une anthropologie des arts du visuel (Gallimard, Paris 1989, tr. it.: Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Leonardo, Milano 1989) – sia in altre di un immaginario molto più popolare.

Infatti il rapporto della Gorgone con il genere horror è molto più stretto di quanto spesso si creda. Si pensi alla decapitazione di dark lady letterarie come Milady de Winter (cioè ‘dell’inverno’, un nome adatto al volto oscuro della Dea) che lo stesso Dumas pone in scena ne I tre moschettieri; o alle vampire di letteratura e cinema, eredi e ipostasi della Terribile Femmina in un tripudio di vagine dentate e denti fallici, che inevitabilmente dopo il trattamento col paletto richiedono il taglio della testa. Ma si è già accennato alla Gorgone portata in scena da Fisher per la Hammer: un film che narra di uomini alla deriva, e di una donna che suo malgrado e senza saperlo, travolta da amnesie lunari, è posseduta dallo spirito del Mostro-Femmina. Ancora il Bram Stoker’s Dracula di Francis Ford Coppola, 1992, vede una delle vampire del castello del Conte dotata di una chioma medusea con serpenti. Nel romanzo, infatti, davanti a una di loro, l’ospite Jonathan Harker ha la sensazione di averla già incontrata, senza però ricordare dove: e se oggi sappiamo trattarsi di un riferimento alla vampira del racconto-frammento Dracula’s Guest (o meglio di un testo simile nelle prime cento pagine rimosse del romanzo), tra le possibili identificazioni c’era appunto Medusa – e probabilmente di lì gli sceneggiatori mutueranno la suggestione del film. Certo il riferimento a un ricordo sfuggente, un conosciuto/non riconosciuto dalle forti implicazioni erotiche reca per noi un senso molto preciso nel segno del Perturbante. E che questo si associ alla Gorgone, mostro sottotesto di una storia plurimillenaria e dello stesso romanzo di Dumas che abbiamo tra le mani, pare qualcosa di estremamente rivelativo.

[3-Continua]

 

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / II) https://www.carmillaonline.com/2018/08/31/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-ii/ Fri, 31 Aug 2018 21:33:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48518 di Franco Pezzini

Hoffmann in Love   (puntata precedente qui)

Quando Alexandre Dumas pone mano a La femme au collier de velours, 1849, in Francia le fantasie “alla Hoffmann”, storie oniriche e bizzarre popolate di spettri, non costituiscono più una novità. Anzi la stessa vicenda che qui Dumas narra non è, almeno a grandi linee, farina del suo sacco: tanto che lui dichiara di riferire semplicemente un racconto affidatogli dall’amico più anziano Charles Nodier, letterato elegante e fantasioso, eruditissimo bibliofilo e appunto cultore di storie strane, ormai sul letto di morte. «Adesso, la [...]]]> di Franco Pezzini

Hoffmann in Love   (puntata precedente qui)

Quando Alexandre Dumas pone mano a La femme au collier de velours, 1849, in Francia le fantasie “alla Hoffmann”, storie oniriche e bizzarre popolate di spettri, non costituiscono più una novità. Anzi la stessa vicenda che qui Dumas narra non è, almeno a grandi linee, farina del suo sacco: tanto che lui dichiara di riferire semplicemente un racconto affidatogli dall’amico più anziano Charles Nodier, letterato elegante e fantasioso, eruditissimo bibliofilo e appunto cultore di storie strane, ormai sul letto di morte. «Adesso, la storia che leggerete è quella che mi raccontò Nodier», afferma Dumas a chiusura del primo capitolo (ed. cit., p. 36).

Non possiamo escludere che sia così, e non solo – come vedremo – per il tono tanto solenne dell’affermazione. Ma se dovessimo identificare una fonte letteraria diretta a ‘La donna dal collier di velluto’ dovremmo fare qualche altro nome – e per esempio un soprannome che, guarda caso, ci richiama proprio alla galleria dei mostri. Sto parlando del truce Pétrus Borel detto “Le lycanthrope”, al secolo Pierre Borel d’Hauterive, maestro del nero nella Francia del primo Ottocento, nonché leader di quella bohème artistica del petit-cénacle dell’inizio degli anni Trenta che annoverava Gérard de Nerval, Théophile Gautier, Philothée O’Neddy, e altri nomi eccellenti. Si parlerà di Frenetismo per indicare la corrente di questi romantici – soprattutto Borel – che si compiacciono di cercare ispirazione in gotici come Walpole e “Monk” Lewis. E del resto quando nel ’43 Borel pubblica sulla rivista «La Sylphide» il racconto Gottfried Wolfgang – scritto probabilmente nel 1840 – si tratta proprio di un ripescaggio, una traduzione/appropriazione, di una storia nera in lingua anglosassone, cioè il racconto The Adventure of the German Student dell’americano Washington Irving.

Insomma, dietro Dumas troviamo Borel, e dietro a Borel c’è Irving – sotto lo pseudonimo di Geoffrey Crayon. È infatti così che l’autore americano firma la raccolta Tales of a Traveller, 1824, di cui fa parte The Adventure of the German Student. Si noti che l’opera è composta nel periodo in cui Irving vive in Europa, in particolare in Germania e a Parigi: dato non casuale ai fini del contenuto del racconto. Protagonista è lo studente Gottfried Wolfgang, imbevuto delle più visionarie dottrine metafisiche in voga in Germania, e tormentato dalla convinzione di una malvagia influenza che graverebbe su di lui. Gli amici pensano che la miglior cura per le sue ubbie consista in un cambio d’ambiente, e insomma fanno in modo che vada a finire gli studi in mezzo alle piacevolezze di Parigi. Peccato che, quando il giovane ci arriva, la situazione nella capitale francese stia esplodendo: si scatena la Rivoluzione, e Gottfried all’inizio è partecipe dell’entusiasmo collettivo. Visto però che è sensibile d’animo, gli eccessi e le stragi finiscono col disgustarlo: col risultato che ricomincia a vivere da recluso, ripiegato sui suoi studi di volumi dimenticati – al punto che Irving lo definisce «un ghoul letterario, nutrito nell’ossario della letteratura in dissoluzione» (Borel, nella sua traduzione-riscrittura, ripropone la definizione sostituendo solo il termine vampire al ghoul di Irving, e una traccia “ammorbidita” sembra trovarsi in Dumas nel riferimento a quel Nodier che «trovava fra i libri capolavori ignoti, che traeva dalla tomba delle biblioteche», p. 29). Questa è la situazione quando una notte di temporale, nel periodo più buio del Terrore, il malinconico Gottfried si trova a passare in Place de Grève, proprio vicino alla ghigliottina; e lì, alla luce dei lampi, si accorge di una donna vestita di nero, seduta sotto la pioggia proprio sui gradini che conducono al patibolo. Commosso dall’aria desolata di lei, la avvicina: e resta sconvolto riconoscendo in quella giovane donna bellissima la protagonista di certi sogni che hanno continuato a visitarlo, lasciandogli addosso un febbrile innamoramento per lei. Ora se la trova innanzi in carne e ossa, e possiamo immaginare il tumulto interiore. La donna accenna di non avere amici né casa – o meglio, accenna di averla nella tomba – e lo studente non trova di meglio che offrirle ospitalità nella propria stanza per la notte. Lei accetta, e quando Gottfried può contemplarla alla luce del locale è «più che mai intossicato dalla sua bellezza»: per inciso, unico ornamento alla semplicità dell’abito nero è «una larga fascia nera attorno al suo collo, fermata da diamanti» (Borel specificherà che è di velluto). Già affascinato, Gottfried scopre nella donna uno spirito affine, come lui entusiasta e appassionata; e quando le rivela di averla amata attraverso i sogni, ella confida un parallelo misterioso impulso verso di lui. Arrivano anzi a promettersi reciprocamente per sempre, e Irving lascia pensare che la notte dei due insieme corra piacevole. Al mattino lo studente lascia dormire “la sua sposa”, e corre a cercare un alloggio più spazioso in cui trasferirsi insieme: ma quando rientra e cerca di svegliarla, lei non gli risponde ed è fredda. Gottfried chiama allora aiuto, accorre un poliziotto… e riconosce il corpo per quello di una donna ghigliottinata il giorno prima. Col risultato che, quando scioglie la fascia nera dal collo, la testa rotola sul pavimento (in Borel è lo studente a rimuovere la fascia ma – pare strano per un autore dalla fama tanto nera – manca il rotolare della testa). Insomma, Gottfried precipita nuovamente nelle vecchie angosce, si convince che uno spirito maligno abbia preso possesso di quel corpo (si trattenga questo dettaglio), e restiamo sospesi tra l’ipotesi spettrale e quella della follia – anche perché il povero Wolfgang finirà col morire in manicomio. Per chi ama il genere, una memorabile versione a fumetti della storia di Irving curata da Archie Goodwin e Jerry Grandenetti (Creepy Archives, Vol. 3) era stata antologizzata a suo tempo nelle vecchie raccolte di Zio Tibia.

Può interessarci fino a un certo punto se Dumas conoscesse entrambe le versioni (Irving e Borel) e, nel caso, quale abbia letto per prima. Quel che rileva è il bacino da cui attinge, e a cui attingono altri per storie analoghe, in quel periodo o più tardi, come Paul Lacroix, Gaston Leroux eccetera.

E infatti Irving si era ispirato a storie precedenti. Lui la sua versione l’aveva sentita dall’irlandese Thomas Moore, a cui però era giunta da Horace Smith, amico degli coniugi Shelley che ne aveva reso una variante più simile ai modelli originali, Sir Guy Eveling’s Dream, 1823: dove la città era Londra e la donna non era stata ghigliottinata ma impiccata, e il segno da tener nascosto era quello della corda. Ciò nel mondo anglosassone.

Mentre in Francia la storia correva per i repertori di storie fantastiche di cui i lettori erano ghiotti, come le Histoire des Fantomes et des Démons qui se sont montrés parmi les hommes, ou Choix d’anecdotes et de contes, De faits merveilleux, de traits bizarres, d’aventures extraordinaires sur les Revenans, les Fantômes, les Lutins, les Démons, les Spectres, les Vampires, et les apparitions diverses, etc. di Gabrielle de Paban, 1819, autrice il cui nome può non dirci molto, ma che qualcuno ha proposto di identificare in quella Clotilde Marie Paban (1793-?) cugina e moglie di Jacques Collin de Plancy, esperto di cose occulte e fantastiche e autore del famoso Dictionnaire infernal, 1818 (e a quel punto capiremmo meglio). Comunque nel testo di Paban il racconto si intitolava Le Revenant Succube, a rinviare idealmente a quel mondo di letti infestati – dai demoni succubi, appunto – che da secoli conciliano fremiti, timori e pruriti. La storia era piuttosto simile ma ancora più breve, rimandava al novembre 1613 e al posto della ghigliottina c’era (anche qui) una forca.

Ancora precedente era la narrazione dell’episodio nell’anonimo Le Livre des prodiges, ou Histoires et Aventures merveilleuses et remarquables de Spectres, Revenans, Esprits, Fantômes, Démons, etc., rapportées par des personnes dignes de foi pubblicato dall’editore Pillot nel 1802, che però riproponeva quasi letteralmente il testo di un’altra opera anonima davvero seicentesca, Histoire prodigieuse d’un Gentilhomme auquel le Diable est apparu, et avec lequel il a conversé sous le corps d’une femme morte, advenue à Paris le 1er Janvier 1613, apparsa a Parigi per François du Carroy nello stesso 1613, che tornava allo stesso episodio, alla donna impiccata e al demone ne aveva posseduto il corpo per sedurre un giovanotto. Poi, davanti alla gente, quel corpo era sfumato (letteralmente) e forse il giovane aveva dato di testa. Il messaggio moraleggiante dell’opera seicentesca era di non farsi accalappiare dalle sconosciute (sappiamo che fin dai tempi delle empuse l’incontro per strada era stigmatizzato come pericoloso), con tutti i rischi della promiscuità: ma soprattutto col tempo prevale il piacere del frisson narrativo.

In questi ultimi anni alcuni studiosi hanno affrontato il tema, permettendo di recuperare elementi mancanti della filiera. In particolare Florian Balduc ha curato un preziosissimo Colliers de velours. Parcours d’un récit vampirisé (La Fresnaye-Fayel, Otrante, 2015); e Fabio Camilletti prima nello splendido contributo La Sposa, Arsène, o la Biblioteca all’antologia Jolanda & Co. Le donne pericolose (a cura di Fabrizio Foni e di chi scrive, Cut-Up, La Spezia 2017) e poi in un capitolo dell’ottimo Guida alla letteratura gotica (Odoya, Bologna 2018) ha analizzato le strutture di questa saga elusiva.

In questa sede non ci interessa seguire (anche se sarebbe un discorso affascinante) i giochi delle varianti tra un testo e l’altro, e un meccanismo genetico che solo con grossolana semplificazione potremmo ricondurre al plagio. L’idea del diritto d’autore come oggi concepito non esisteva, e Nodier – straordinario affabulatore, lettore coltissimo e onnivoro, bibliofilo raffinato che amava reinventare storie altrui nel segno di una scintillante originalità (e poco importa lo facesse a voce, nel corso delle celebri serate con la sua corte di ingegni, o piuttosto per scritto) – l’aveva persino teorizzato. Nel testo Questions de littérature légale, 1812 (Crimini letterari, Duepunti, Palermo 2010), parlando della scrittura, teorizza una disinvoltura negli imprestiti – diciamo pure nei plagi – purché condotti con eleganza. Pensiamo a quella straordinaria lanterna magica che è il suo Infernaliana, 1822, dove – ammiccando al successo della raccolta Fantasmagoriana su cui torneremo – pesca disinvoltamente da storie altrui, trattate con la libertà dei miti condivisi.

Si è detto che il protagonista della storia, nelle versioni di Irving e di Borel, è l’oscuro studente Gottfried Wolfgang; e il fatto che sia tedesco rinvia ovviamente allo stereotipo geografico gotico che fin dal Settecento vede la Germania associata ai più vari brividi orrifici. Ma Dumas – e già Nodier, se davvero è stato lui a fare da tramite – rafforza questa suggestione imputando il racconto a un giovane tedesco molto particolare, e cioè il futuro scrittore fantastico Ernest Theodor Amadeus Hoffmann. In sostanza il testo, molto più ampio e ricco dei precedenti, si presenta come un delizioso pastiche in cui compaiono a livelli diversi tre campioni della letteratura – Dumas stesso in termini autobiografici, l’amico più anziano Nodier quale narratore, e Hoffmann come attonito protagonista: un tessuto che conferma la capacità di Dumas di padroneggiare allarmanti fantasie oniriche e potenti quadri storici, e insieme di sperimentare nuove strutture narrative con estrema varietà di toni ed esiti originalissimi. Varietà di toni, appunto, a partire dalla malinconia che inquadra il romanzo e un po’ tutta la raccolta Les mille et un fantômes, in cui Dumas lo incastonerà nel ’51, un periodo greve di senso di morte. Il cenacolo romantico dell’Arsenal degli anni Venti (il primo, straordinario, sorto a Parigi, e che con Dumas accoglieva Victor Hugo e Lamartine, Musset e Delacroix e tanti altri) è ormai disperso, gli amici sono scomparsi o lontani; e il ritratto affettuoso di Nodier, animatore del gruppo, introduce una narrazione che Dumas immagina confidatagli dall’amico sul letto di morte. Dove il sapore di un’antica complicità nel gioco letterario rafforza l’evocazione di un mondo amato e finito, ma insieme sembra protestare davanti a quel capezzale la dignità della fantasia e del darle voce.

Con questa avvertenza ideale il lettore passa al racconto di Nodier, e ad un mutamento di registro narrativo verso il notturno hoffmanniano: figure angelicate o dai movimenti oniricamente burattineschi, sensibilità esasperate, una Germania al trapasso tra stile Pompadour e impennate romantiche quale avvio e conclusione dell’apologo. Certo la voce narrante lascia il dubbio su quanto quel clima appartenga ad allucinazione dello stesso Hoffmann – musicista, pittore, letterato, uomo dalle straordinarie ricchezze interiori e dalle travolgenti emozioni che cerca invano di ordinare a equilibrio. Ma insieme conduce sul binario (tanto caro a Dumas) dell’affresco storico innervato da una critica sferzante delle glorie rivoluzionarie di Francia.

Vediamo dunque il giovane Hoffmann che, dopo aver giurato alla soave fidanzata Antonia di non giocare d’azzardo (una delle attività più biasimate, nella narrativa d’epoca) e di restarle fedele, se ne parte ingenuotto per una sorta di turismo artistico a Parigi. La città però – siamo nel 1793 – è nel pieno del Terrore: e l’incalzare di bozzetti sulla brutalità ottusa e grottesca dei rivoluzionari, sul disgusto del sangue e la cupezza del presunto paradiso delle virtù (una Parigi grigia d’inverno, tagliata dai convogli della Vergine Ghigliottina) pare tanto più interessante alla luce dell’attenzione e del coinvolgimento di Dumas nei turbinosi moti politici del suo tempo.

L’orrenda morte di Madame du Barry, cui il giovane assiste suo malgrado, sembra recare alla peculiare sensibilità di Hoffmann un’infiammazione foriera di strane conseguenze. Attraverso l’esperienza visionaria all’Opéra, dove è ammaliato dalla danzatrice Arsène amante di Danton, e poi nel tripudio notturno di nudità e gioco del Palais-Royal, Hoffmann passa come Faust lungo i Sabba, trascinato all’infedeltà da un desiderio quasi compulsivo. Nel corso di un goffo incontro con Arsène – era stato convocato per farle il ritratto, non è riuscito a trattenere un bacio ed è stato buttato fuori per l’improvviso arrivo dell’amante di lei – Hoffmann ha capito che solo col denaro può conquistare quella mantenuta d’alto bordo: e si risolve a cercarlo al tavolo da gioco. È troppo preso dalle sue ansie per far caso all’accenno dell’amico Zacharias su una donna bellissima condotta al patibolo. Ma quando, carico di denaro vinto alla bisca, cerca Arsène al suo alloggio non la trova: così rientra scorato attraverso la Parigi notturna e passa (ecco riproporre la scena fatale) per la piazza della ghigliottina. Ovviamente incontra la figura accovacciata; e ovviamente è Arsène, con tanto di collier, che racconta come il suo amante sia stato arrestato e lei sia sfuggita fortunosamente. Ma «Queste parole erano dette con uno strano accento, senza gesti, senza inflessioni; uscivano da una bocca scolorita che si apriva e si chiudeva come mossa da una molla; si sarebbe detto un automa che parlava» (p. 165). Certo Dumas sta giocando con l’immagine di certe oniriche, inquietanti donne-automi dei testi di Hoffmann: e giustamente Camilletti sottolinea i nessi con uno dei racconti più celebri della produzione hoffmanniana, L’uomo della sabbia, con il rapporto tra un altro studente tedesco, Nathanael, e la ragazza-automa Olimpia.

Nei fatti, in questo contesto, Arsène appare una sorta di zombie, o un’ombra mossa a base di istantanee, come in certi B-movie di spettri marca USA. Comunque anche in questa versione il giovane offre ospitalità, mostra anzi di avere dell’oro: allora «L’occhio della ballerina gettò un lampo» (ibidem), e visto che Hoffmann è dubitoso di ospitare la diva nella sua stanzetta è lei a condurlo a un magnifico albergo, camminando «con un passo rigido e automatico che non aveva nulla in comune con l’affascinante morbidezza che Hoffmann aveva ammirato della ballerina» (p. 166). Anzi sulle scale dell’albergo Arsène deve appoggiarsi a lui comunicandogli una sensazione di gelo, e nella stanza si avvicina al fuoco accovacciandosi in modo che «sembrava intenta a reggersi con le mani la testa sulle spalle» (p. 168). Sembra rianimarsi solo di fronte all’oro che il giovane le offre; poi accetta di bere ma non di mangiare («– Non potrei inghiottire – ella disse», p. 170), mentre lui mangia e beve soprattutto per farsi coraggio, «perché qualcosa di gelido emanava dal corpo della bella convitata» (ibidem). E anzi, quando Arsène beve, «alcune gocce rosate cadevano di sotto al nastro di velluto sul petto della ballerina» (ibidem). Hoffmann inizia ad avvertire qualcosa di terribile, e il lettore già immagina dove si voglia andare a parare: l’abilità del narratore sta però nel protrarre il gioco sul terreno dell’onirico e forse dell’allucinazione etilica. Quando il giovane prende a suonare al pianoforte, Arsène sembra trasfigurarsi e inizia a ballare: travolto dal desiderio, Hoffmann le si unisce nella danza e alla fine crollano sul letto. Al mattino, al risveglio, il giovane trova però Arsène rigida e fredda, chiama soccorso: e il medico sopraggiunto (un’inquietante figura di trickster che ricorda il bifronte Coppola/Coppelius de L’uomo della sabbia) lo loda per «aver ricomprato questo corpo affinché non marcisse nella fossa comune» (p. 173). Allo stranito Hoffmann spiega che la danzatrice è stata ghigliottinata il giorno prima; e alle obiezioni del giovane di aver cenato, ballato ed essere andato a letto con lei, il dottore apre il fermaglio del collier. Il rotolare della testa di Arsène sconvolge Hoffmann, che fugge inorridito gridando di essere pazzo, è arrestato e interrogato, cerca invano di ritrovare l’albergo per dimostrare le sue ragioni – e viene salvato dal medico che lo fa passar per folle e poi fuggire. Alla storia segue però un ultimo colpo di scena con la notizia della morte di Antonia, folgorata dal non mantenuto giuramento di fedeltà (in L’uomo della sabbia il protagonista rischiava di uccidere la fidanzata), e l’evaporazione del ritratto di lei dal medaglione tra le mani del fedifrago.

Se il Fantastico, sembra dire Dumas, non è accessibile se non al prezzo di una trasgressione, a condurvi è un insieme di circostanze tutto nel segno del Femminile. La femme fatale è sicuramente uno dei più ricorsivi fantasmi del Romanticismo nero, ad accreditare la donna come essere misterioso, attraente ma pericoloso e a volte demoniaco. Eppure il quadro è meno scontato di quanto possa sembrare di primo acchito. La contrapposizione/rifrazione tra donna fatale, Arsène, e donna angelicata, Antonia, è talmente parossistica da condurre a un paradossale scambio dei ruoli: così, mentre la larva zombizzata con cui Hoffmann si apparta suscita una sorta di greve compassione, è Antonia a imporre al fidanzato un giuramento sull’Eucarestia dal retrogusto minaccioso di inesorabilità – quasi sia lei, in qualche modo, la vera donna fatale, oppure le due si confondano in un’unica donna musicale (Antonia canta come Arsène danza) schizofrenicamente scissa nel mondo allucinato del protagonista. In fondo entrambe le teste cadono, quella di Arsène materialmente, quella di Antonia sparendo dal ritratto.

In realtà Antonia, scopriremo, è spirata in occasione del bacio che il fidanzato infedele ha dispensato ad Arsène ancora viva: da morta, la danzatrice non danneggia Hoffmann più di quanto già non faccia la sua fragilità nervosa. Ma Arsène è già uno spettro in vita, vampirizzata da una dimensione di desiderio esaurita nell’utile (un amore per la ricchezza che l’accompagna persino post mortem – se il tutto, ovviamente, non è un’allucinazione): ed è interessante che Hoffmann stesso, pur di avvicinarla, accetti l’idea di un rapporto sostanzialmente mercenario o di consumo. Cui potrà seguire, non lo esclude, il ritorno da Antonia: con un sapore provocatoriamente moderno, la tentazione sembra insomma non assumere lo statuto abissale della passione che sperde in derive lontane, quanto piuttosto la maschera immatura dell’irresponsabilità qui e ora, da cui il ritorno si pretenderebbe sempre possibile.

La reazione un po’ stranita di Hoffmann verso Arsène-similacro (chiamiamola così) è in fondo simile – mostra Camilletti, alla cui ampia disamina naturalmente rinvio – a quella verso Olimpia di Nathanael, cui torna in mente (recita il racconto) «la leggenda della fidanzata morta». O, com’è più nota, della sposa morta, della sposa cadavere: leggenda di origine forse ashkenazita, trascritta nella raccolta Shivhei ha-Ari (XVI sec.), recuperata in chiave di apologo contemporaneo come Die Todtenbraut da Friedrich August Schulze nella raccolta Gespensterbuch curata con Johann August Apel (1811-15), di lì tradotta come La Morte fiancée da Jean-Baptiste Benoît Eyriès nell’antologia Fantasmagoriana (1812, la famosa lettura di Villa Diodati) e traghettata fino a Tim Burton. Di più: nel racconto di Schulze approdato in Fantasmagoriana si trovano gli elementi della danza forsennata, di un giuramento fatale, del collo coperto della misteriosa dama e persino di un ruolo ambiguo di sapiente (il medico-trickster). Visto che l’affabulatore Nodier conosceva Fantasmagoriana, non stupisce scoprire che lui narrasse splendidamente (attesta Victor Hugo) una storia della “morte mariée”, probabilmente il racconto di Schulze nella versione francese. E stupisce ancor meno che J.P.R. Cuisin riporti una simile storia, La morte mariée, nell’antologia Spectriana (1817, ennesima gemmazione dal successo di Fantasmagoriana) sostenendo che gli è stata narrata da «[u]n giovane Drammaturgo che pratica con successo la letteratura del nord»… Così che Arsène finisce con l’essere realmente una sorta di ipostasi dell’Arsenal, la leggendaria biblioteca di cui Nodier è a lungo bibliotecario: nel senso di avatar libresco di infinite storie sedimentate in modo sfuggente, fantasmatico (chi è il vero autore, e in quale percentuale?) in libri alla deriva del tempo.

Ora, la Sposa Cadavere è – anzitutto – una mancata sposa: e dunque infelice, frustrata, a richiamare l’antica figura dell’ά̉ωρος, colui che è morto prima del tempo prescritto – compresi coloro che sono morti senza potersi sposare come avrebbero desiderato. In particolare se fidanzati, e dunque bloccati nel tempo tra due patti solenni, fidanzamento e matrimonio, entrambi modificativi d’uno status: ma se il secondo patto definisce una condizione esistenziale, il primo confina in una situazione in progress, liminare e transitoria, e una morte in quel momento espone a gravi rischi. In quei rischi è probabilmente incappata la Filinnio di Flegonte di Tralle (rinvio alla spettacolare edizione dell’opera flegontea, Il libro delle meraviglie e tutti i frammenti, a cura di Tommaso Braccini e Massimo Scorsone, Einaudi, Torino 2013), la non-morta citata a monte di tutti i repertori vampireschi e poi ripresa in nero da Goethe in La sposa di Corinto, ma che nel suo pathos originario non ha nulla di oscuro; in quei rischi è di certo incappata la figura nota come danseuse nocturne (per esempio la Wili slava, fidanzata morta prima delle nozze che con le compagne costringe il maschietto che abbia la sventura d’incontrarle a danzare fino alla morte) la cui storia folklorica precipiterà nel libretto Giselle di Gautier e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges (1841).

Ma in secondo luogo la Sposa è un cadavere, che cerca un contatto anche fisico – con quanto di Perturbante ciò evochi. Anche nel dubbio radicale su una qualche certezza del confine tra ciò che vive e ciò che è morto: un’ossessione del tempo dei Lumi che però poi si riproporrà ancora per tutto l’Ottocento come terrore del seppellimento prematuro. Non sembra un caso, aggiungerei, che due ritornanti come la Berenice di Poe e la Lucy Westenra del Dracula siano entrambe promesse spose.

Al di là dunque dell’indubbio omaggio che Dumas – che amava i pastiche – fa alla memoria del vecchio amico, almeno virtualmente Nodier potrebbe aver reinventato la storia pervenutagli da chissà quali voci (Borel? Irving? Paban? gli autori anonimi precedenti?); e d’altra parte – scrivevo a suo tempo con eccessiva prudenza – “il racconto potrebbe persino rimandare, chissà, a una sorta di leggenda metropolitana dei giorni del Terrore”. Camilletti conferma, sulla base di una mappatura più ampia e del raccordo con un’intera costellazione di storie sulla Sposa Cadavere, che proprio di leggenda metropolitana si tratta, ma con radici ben più antiche: e richiama da un lato il bacino di leggende sull’autostoppista fantasma (torniamo alla Melissa di Danilo Arona) e dall’altro il filone parallelo della morta che va a ballare, che con la danza di Arsène e altre che vedremo presenta alcuni nessi. Tanto più che il meccanismo è sempre quello – classico delle leggende metropolitane – della storia che arriva dall’amico di un amico; tanto più che la storia del collier di velluto (e capi analoghi, secondo la moda delle rispettive stagioni) rimanda, fin dalle prime edizioni, a uno sfuggente contesto urbano. La città dove non ci conosce e dove chi incontriamo casualmente potrebbe ben essere un fantasma.

[2-Continua]

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Nel labirinto degli occult detective (Victoriana 23) https://www.carmillaonline.com/2017/05/25/nel-labirinto-degli-occult-detective-victoriana-23/ Thu, 25 May 2017 21:51:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38486 di Franco Pezzini

the-professor-4Da qualche mese in edicola è apparso un nuovo fumetto. Un bimestrale, “popolare” nel senso migliore del termine, e di taglio gotico classico – ma, per chiarirci, quello cinematografico dei film Hammer. E dove la caratteristica che subito salta agli occhi sta nel fatto che il protagonista, l’indagatore dell’occulto Mr. Benjamin Love – “The Professor”, donde il titolo della testata – sia costruito ispirandosi a tratti fisici e ad un certo numero di ruoli di Peter Cushing (nello specifico il Cushing giovane – in realtà ultraquarantenne – dei primissimi horror appunto [...]]]> di Franco Pezzini

the-professor-4Da qualche mese in edicola è apparso un nuovo fumetto. Un bimestrale, “popolare” nel senso migliore del termine, e di taglio gotico classico – ma, per chiarirci, quello cinematografico dei film Hammer. E dove la caratteristica che subito salta agli occhi sta nel fatto che il protagonista, l’indagatore dell’occulto Mr. Benjamin Love – “The Professor”, donde il titolo della testata – sia costruito ispirandosi a tratti fisici e ad un certo numero di ruoli di Peter Cushing (nello specifico il Cushing giovane – in realtà ultraquarantenne – dei primissimi horror appunto hammeriani). Nelle prime tre storie “The Professor” fronteggia una dinastia di Lilith incarnate (lui viene dalla comunità ebraica, c’è di mezzo anche un golem), gli zombie e un terrorista mesmerista.
La qualità è molto buona, le storie godibili e il mondo tardottocentesco evocato con efficacia. L’ideatore è Andrea E. Corbetta, mentre sceneggiatori e disegnatori ruotano: per esempio i primi tre numeri hanno visto testi del giornalista e scrittore Carlo Martigli, del veterano di sceneggiature a fumetti Giancarlo Marzano e di un nome notissimo del thriller/horror in Italia, Cristiana Astori; alle matite erano Paolo D’Antonio, Francesco Mobili e Riccardo Innocenti. Un quarto numero (Martigli – De Carlo – Corbetta – Giorgiani) è ora in edicola.
Leggendo con piacere queste storie, auspicando alla saga lunga vita, e con tutta la complicità di chi ama Cushing e i film Hammer, si apprezza al contempo il coraggio dell’intrapresa – perché è chiaro che si tratta di una sfida grossa. Da un lato, lo sappiamo, il gotico/horror può contare in Italia su una percentuale significativa ma non enorme di lettori: i grandi fatturati arrivano con altri generi, e basta un giro in libreria per constatare il trionfo di narrativa salottiera o comunque molle (tanto fantasy di qualità discutibile, tanto “rosa” più o meno ibridato, tanto poliziesco facile – a penalizzare per ingolfamento gli autori bravi). D’altra parte la figura dell’occult detective, funzionale a offrire una cornice a “casi” virtualmente infiniti, ha però conosciuto nel tempo successi piuttosto differenziati, in relazione a provocazioni e rovelli di diversi momenti sociali.
Per capire meglio potenzialità e rischi della maschera in questione può essere interessante, mi pare, ripercorrere a grandi linee la genealogia dei suoi sviluppi dagli esordi nel mondo moderno. Assumendo forzatamente un’accezione ampia nel termine occult detective, a comprendere specialisti di diversa professionalità – medici, cattedratici, detective in senso proprio, esorcisti, ghostfinder, ammazzamostri… – che lettori e spettatori di generazioni diverse hanno associato a indagini sul preternaturale: concetto, quest’ultimo, a sua volta sfumato in una serie cangiante di fattispecie.
Il primo detective dell’occulto della letteratura moderna sembra rimontare al lontano 1817. Si tratta del chiaroveggente Doktor K. di Das öde Haus (La casa disabitata) nel secondo volume di Nachtstücke (Notturni) di E.T.A. Hoffmann: a rinviare cioè a quel mondo a cavallo tra Sette e Ottocento in cui magnetismo, mesmerismo e tentativi di conciliare mistica (non allineata) e nuove scoperte scientifiche vedono in effetti brulicare figure di indagatori del mistero. Eruditi talora ancora imparruccati, tra attrezzature galvaniche, fantasmagorie e veggenze, che però non sembrano suscitare nei narratori il demone della serialità; mentre è interessante che proprio la cornice narrativa di questo racconto veda declinare l’opposizione tra straordinario e prodigioso a monte di tutta una riflessione che condurrà a Todorov. Quasi come ad affidare all’occult detective il patrocinio sul nuovo fantastico, laico e moderno, sorto dalle convulsioni di un mondo.
Va però osservato che, nel contesto di un Romanticismo ormai dilagante, l’indagatore degli spiriti è spesso una figura indigesta o addirittura un vilain. Posto dinanzi al magico della realtà – in particolare quell’amore che è un rischio, apre mondi “altri” ed evoca relazioni particolari e irripetibili – ecco l’esorcista propenso a fare terra bruciata, a sterilizzare dimensioni vitali o che comunque alla vita danno sapore. Così l’Apollonio del Lamia di Keats, 1819/1820, tanto pronto a derubricare ad astrazioni banalizzanti in conformità con un mondo che inizia a mercificare tutto (niente a che vedere con l’antico Apollonio storico, lui sì dottore psichico seriale); così l’inesorabile padre Sérapion de La Morte amoureuse di Théophile Gautier, 1836, che ripropone in tonaca lo stesso modello, a fraintendere totalmente il senso dell’amore umano; così altre figure di Gautier, di Nodier…
Il personaggio dell’occult detective si fa comunque strada soltanto poco per volta, e definendosi nella sua forma moderna entro l’alveo della narrativa angloamericana (anche se occorrerebbero studi mirati su altre letterature). Così, nel periodo dagli anni Venti a metà del secolo in cui il gotico assume – senza sparire – un ruolo più defilato e umbratile dopo la prima grande stagione di successi, nel 1840 troviamo per esempio tale Dirk Ericson impegnato a risolvere un caso sovrannaturale nella novella del britannico (ma emigrato negli USA) Henry William Herbert The Haunted Homestead. Herbert è contemporaneo di Poe, che invece non si mostra interessato alla fattispecie (anche se i suoi mesmeristi ci vanno molto vicino); ma l’idea che un occult detective offra promettenti possibilità narrative inizierà presto a diffondersi grazie al combinato disposto del nascere dello spiritismo (1848, con il caso delle sorelle Fox – un anno prima della morte di Poe che non può assistere ai relativi sviluppi) e delle nuove saldature tra gotico e occultismo (si pensi solo ai contatti tra il politico e narratore Edward Bulwer-Lytton e il mago francese Éliphas Lévi). Il peso di questi fenomeni sullo sviluppo della ghost story e sulla rinascita a metà Ottocento del gotico sarà fondamentale.
Appare così nel 1853 (presuntamente in traduzione inglese da un originale tedesco di cui non si sa nulla, e non mancano dubbi) l’anonimo The Mysterious Stranger, dove vero e proprio proto-Van Helsing è l’eroe maturo, il cavaliere di Woislaw, privo di un braccio sostituito da una fantastica protesi in metallo (oro, nel suo caso – la mutilazione iniziatica sarà presente ancora in The Professor, con la mano artificiale del protagonista): il racconto ispirerà Stoker per Dracula e, può sospettarsi da alcuni indizi, Le Fanu per Carmilla. Nel 1855 appare l’Harry Escott di un paio di storie del grandissimo (e in Italia misconosciuto) Fitz James O’Brien; nel 1859 a studiare il mistero di una casa infestata è l’io narrante di The Haunted and the Haunters; or, The House and the Brain di Bulwer-Lytton, unica tra queste storie a trovare poi nel tempo periodiche riproposizioni anche per la statura dell’autore. Nel 1861 a indagare è il narratore di un racconto del versatile americano Bayard Taylor, The Haunted Shanty, e nel 1862 il ruolo viene ricoperto da tale Ralph Henderson nel romanzo The Notting Hill Mystery di Charles Felix (cioè l’avvocato e giornalista inglese Charles Warren Adams). Nel 1866, ancora, troviamo l’occult detective Mr. Burton del romanzo a puntate The Dead Letter di Seeley Regester (cioè la scrittrice americana Metta Victoria Fuller Victor), primo romanzo di crime fiction in America.
Per la maggior parte queste figure sono destinate a poca fama postuma, esaurendosi nei testi – pur importanti, a volte – dove sono nate: a differenza cioè di quanto avviene col primo dottore dell’occulto (in senso tecnico e seriale) universalmente noto, il dottor Martin Hesselius di Joseph Sheridan Le Fanu. E che eredita dai vecchi esorcisti romantici il senso del caso da gestire e del paziente da curare, ma anche una certa equivocità di profilo: in questo caso come personaggio inaffidabile e sussiegoso, grande collezionatore di storie (come detto una delle caratteristiche di successo dell’occult detective, figura-cornice per indefinite avventure) ma il cui unico intervento in diretta nel caso di esordio Green Tea, 1869, si rivela un fallimento vergognoso. Laddove però Apollonio & Co. si inserivano da oppositori in un orizzonte romantico che esaltava la potenza dei sentimenti e la vitalità del loro tracimare al di là di misure, credenze e ideologie confezionate, Hesselius mostra in scena l’ambiguità delle risposte in un’epoca che ha perso le antiche fedi e sta cercando goffamente di sostituirle. Attribuendo al suo polveroso dottore una collocazione cronologica nel passato – quello del Doktor K. di Hoffmann, alla grossa – Le Fanu fa reagire i dibattiti (magico-)scientifici di una generazione precedente con provocazioni sul proprio presente vittoriano: e all’umanitarismo da salotto insipido ed egoista contrappone sornione le soluzioni improbabili di Hesselius, nell’unica certezza di un disagio epocale – perché i fantasmi non si limitano a infestare i modaioli tavolini a tre gambe. In un tempo come il nostro in cui tanto si dibatte di post-verità, e i più accaniti a combatterla (magari piantonando il web con le guardie) sono a volte i portatori di verità altrettanto farlocche; in cui le grandi affettazioni di attenzione per chi soffre sono spesso teatri per vetrinette compiaciute, senza la minima presa a carico; in cui agenzie antiche e moderne tendono a sconfinare dai propri ambiti e piantare bandierine, insomma le avventure dello spudorato Hesselius hanno ancora molto da dire.
Del romanzo breve Carmilla, 1871-72, Hesselius è solo il collettore: ma tra i vecchi che distruggeranno la giovane vampira – e la bontà dei quali è segnata da tratti francamente equivoci – spicca la figura grottesca dell’erudito vampirologo barone Vordenburg, discendente dell’antico amante della contessina non-morta. Dove già la connotazione fisica dice qualcosa di un ruolo non esattamente eroico.
Impossibile seguire passo passo le apparizioni di detective dell’occulto che a questo punto emergono in racconti e romanzi, più o meno a ricalco dei ghostfinder spiritisti o dei detective-esoteristi che iniziano a proliferare: e va detto che in molti casi si tratta di voci narranti o personaggi esauriti in un solo testo. Limitandosi dunque ai più emblematici, ecco lo Strickland di Rudyard Kipling, cimentatosi per la prima volta su un caso sovrannaturale nel 1890 (ma apparso già in precedenza in altre avventure); il curiosone Dyson di Arthur Machen dal 1894, con il racconto The Inmost Light, e che incontreremo in più opere; il Lord Syfret protagonista di una serie di novelle dell’“eugenic feminist” (scrittrice e medico inglese, una figura interessantissima) Arabella Kenealy antologizzate nel 1896; l’Augustus Champnell del prolifico e brillante vittoriano Richard Marsh (all’anagrafe Richard Bernard Heldmann) che indaga su crimini – sovrannaturali e non – in romanzi e racconti a partire dal 1897; e, nello stesso anno, il detective dottor Maxwell Dean nel romanzo Ziska. The Problem of a Wicked Soul della popolarissima Marie Corelli.
Già questo breve quadro mostra che detective “ordinari” e dell’occulto non rappresentano necessariamente categorie contrapposte, in un orizzonte culturale sempre più aperto ai mondi altri e a un’accezione ampia di mistero. E intanto, a partire dal Dupin di Poe, ha preso piede l’idea che per indagare con efficacia sia necessario avere doti un po’ strambe, peculiarità caratteriali che flirtano con l’anomalia, fissazioni spiazzanti per tutto il resto dell’umanità: come in fondo è il caso del più grande degli sciamani del poliziesco, l’Holmes doyliano. Il suo autore condividerà la fede nella “Nuova Rivelazione” spiritista coi ghostfinder che invadono i salotti tenendo in una mano i saggi di Allan Kardec e nell’altra macchine fotografiche e attrezzature della “nuova” tecnologia; e se Holmes non mostra particolari propensioni per il mondo metafisico, può pur sempre inserirsi in qualche modo nella compagnia, con i casi per esempio del mastino dei Baskerville e del vampiro del Sussex. In entrambi il prodigio è demistificato sulla base di una lunga tradizione inglese – gli spettri delle Grandi Madri del gotico come Ann Radcliffe sono sempre fasulli – ma c’è un’indagine sull’improbabile: e “dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità” (Il segno dei quattro). Mentre il sovrannaturale irrompe piuttosto sul piano simbolico e metatestuale con la figura del professor Moriarty, il Napoleone del crimine arcinemico di Holmes, che presenta caratteri quasi metafisici.
A ispirarsi spudoratamente all’immenso collega è Sexton Blake, “l’Holmes dei poveri” apparso nel dicembre 1893 subito dopo l’eliminazione dell’Arcidetective da parte dell’esasperato Conan Doyle, e destinato a sua volta a una lunga carriera (che la ricomparsa di Holmes dieci anni dopo non metterà in crisi): ma a differenza del modello, Blake batte la doppia pista di indagini ordinarie e sovrannaturali. Decisamente più emblematico è però l’Abraham Van Helsing del Dracula, 1897, sorto anche lui in assenza di Holmes (al punto da far vagheggiare a qualche critico buontempone che il suo inglese da operetta celi in realtà ancora una volta l’Arcidetective camuffato): emblematico per vari motivi. Anzitutto perché si presenta come rifrazione compiaciuta e ironica dell’eclettico autore e insieme come memoria del padre omonimo (entrambi battezzati Abraham): e in effetti nell’eclisse simbolicissima, epocale dei genitori che si consuma nel romanzo, Van Helsing diventerà padre per elezione degli eroi giovani contro l’alternativo padre cattivo Dracula. Poi perché immagine di Uomo Nuovo – idealmente a fianco della Donna Nuova, Mina – che sa conciliare sapienza antica e moderna in una stagione culturale che tenta nuove, provocatorie sintesi. Ancora: perché, erede delle bizzarrie di Hesselius e dei detective, Van Helsing le ripropone quali connotati del suo ruolo di iniziatore (fool, buffo nel modo di parlare, gaffeur rovinoso), sciamano (per inversione sessuale almeno simbolica: è isterico, cioè afflitto dal “male delle donne”), trickster (sa essere brutale, conduce ad atti di rara ferocia e “sovversivi” della realtà comune ma proprio per permetterne la reintegrazione), ancora una volta in contrapposizione all’iniziatore/sciamano/trickster nero, il Conte. E ancora, perché il suo unico “caso” noto in tema di occulto – quello appunto celebrato nel Dracula – sarà base per una sua trasfigurazione su schermo in cacciamostri seriale.
Ovvio che tale ruolo culturalmente provocatorio di Van Helsing sulle soglie vertiginose del Secolo Nuovo non possa essere conservato nelle sceneggiature – come emerge fin dalle prime e più emblematiche trasposizioni. Il simil-Van Helsing del Nosferatu di Murnau è il professor Bulwer, dal nome che pare omaggio al narratore/occultista Bulwer-Lytton (interprete è l’attore ebreo tedesco John Gottowt, assassinato dalle SS nel 1942): ma Bulwer è presenza inefficace di fronte alla catastrofe, e sarà l’amore-sacrificio dell’eroina a spacciare il tiranno vampiro. Un decennio più tardi, nell’America infestata dalla Grande Crisi, Edward Van Sloan interpreta il Van Helsing “rassicurantemente gutturale” – come lo definisce Siegbert S. Prawer – della saga Universal: lucido nell’individuare i gangster dell’anima (si noti che i crocifissi, in questi film, vengono branditi come rivoltelle nei coevi polizieschi) venuti dall’Europa a infettare sangue esistenze & mercati, ma attento a non occupare troppo spazio alla giovane coppia icona della giovane America. A rendere il personaggio un vero protagonista è invece a fine anni Cinquanta l’ascetico Peter Cushing, che riceve il ruolo modellandolo (con trovate anche personalissime) fino a divenire il Van Helsing più carismatico della storia del cinema, e non stupisce che “The Professor” sia ispirato a lui. Certo, il suo Van Helsing abbina a una rasserenante affidabilità il vago fanatismo (specie nei primi film) di chi tiene sempre il paletto in tasca – ma tant’è, la dinamica dei giorni Hammer tra nostalgia vittoriana, Swinging London in arrivo e minacce del sesso (al cinema il primo a colori, come il sangue) porta un’esplosione di euforiche contraddizioni in Inghilterra e nel mondo. Non è strano che gli spettatori d’epoca partecipino a quelle liturgie fitte di allusioni censuratissime (dunque più potenti), ai ruoli contrapposti e alle opposte ambiguità del professore e del vampiro con pari intensità simbolica; e non è strano che lo spettatore odierno, pur faticando magari a porsi nell’ottica di quei giorni lontani, riesca a cogliere ancora la forza del rituale. Questo scarto (in forme variegate) dal modello stokeriano si ripropone per tutti i Van Helsing successivi, compreso quell’Anthony Hopkins di Bram Stoker’s Dracula fisicamente più filologico per somiglianza, per inglese caricaturale e isterismo, e tuttavia piuttosto espressione del neogotico sopra le righe degli anni Novanta (difficile per esempio trovare in lui quel sentimentalismo che nel Van Helsing di Stoker, Jung docet, copre la brutalità). Se il mito di Dracula è uno specchio oscuro in cui ogni società proietta timori e desideri più o meno confessati o inconfessabili, di trasposizione in trasposizione anche il ruolo dell’alternativa/nemesi al Conte acquisisce inevitabilmente connotati diversi.
Ma torniamo al crepuscolo vittoriano di Stoker: ed è lì, nell’alta marea dell’irrazionale tra i due secoli, nel tentativo positivistico di ricondurre anche l’occulto a sistemi di regole note, e nella suggestione (crescente negli anni successivi) che il disagio montante dell’uomo moderno possa trovare beneficio nel ministero di dottori laici dell’anima, che fermenta un terreno tale da far moltiplicare i figli di Van Helsing. Tra Teosofia, spiritismo e revival della magia cerimoniale (basti citare la Golden Dawn) inizia così l’età d’oro dei dottori psichici, e non si può in questa sede che citarne qualcuno (per qualche approfondimento rimando qui).
A ridosso del Dracula, dal 1898, troviamo scendere in campo l’occult detective Flaxman Low di “H. Heron” e “E. Heron” (cioè l’inglese Hesketh Hesketh-Prichard e sua madre Kate O’Brien Ryall Prichard), eroe – si tratterebbe di un famoso scienziato – di una serie di storie brevi. Nel 1899 compare a firma del letterato e umorista americano Gelett Burgess il curioso Enoch F. Gerrish, protagonista di varie avventure idealmente a monte di Ghostbusters; e nel 1902 inizia la serie sull’investigatrice chiaroveggente Diana Marburg di L.T. Meade (Elizabeth Thomasina Meade Smith, irlandese, autrice di storie per ragazzine) e Robert Eustace (all’anagrafe Eustace Robert Barton, medico e giallista britannico). Per venire a personaggi più noti in Italia, a partire dal 1910 il Ghost-Finder Thomas Carnacki dell’inglese William Hope Hodgson, coi suoi divertentissimi strumenti che combinano tecnologia d’epoca e magia – impagabile il pentacolo elettrico – è un personaggio emblematico di fantasie che reinventano il Ballo Excelsior in chiave occulta preludendo a sua volta a Ghostbusters. Del 1913 è il vecchio antiquario-esoterista Moris Klaw del pure inglese Sax Rohmer, che dallo stesso anno inizia a contrapporre alle più note diavolerie d’Oriente di Fu Manchu l’affidabile funzionario anglo-indiano Denis Nayland Smith di Scotland Yard (degli occult detective in qualche modo un cugino); e del 1914 il Ghost-Seer Aylmer Vance dei britannicissimi Alice e Claude Askew.
Ma a prescindere dalle convinzioni eventualmente esoteriche degli autori (come forse nel caso di Sax Rohmer) in generale gli occult detective citati sono frutto di fantasia e buona tecnica di fiction, mentre altri colleghi vengono più direttamente dal mondo della ricerca mistica, magica o psichica militante. Come il curioso Jim Shorthouse (1900) e il raffinato dottor John Silence (dal 1908), di Algernon Blackwood, legati – soprattutto il secondo – alle sue frequentazioni di ambienti esoterici, e il dottor Taverner della grande occultista e narratrice Dion Fortune (dal 1926, ma ispirato al suo mentore Theodore William Carte Moriarty morto tre anni prima e attivo tra i due secoli): si tratta di curatori d’anime piagate da attacchi che possiamo interpretare in vario modo. Pensiamo anche al Norton Vyse della pittrice e narratrice inglese Rose Champion de Crespigny (1919), alfiera entusiasta della ricerca psichica; e soprattutto al Simon Iff dell’ineffabile Aleister Crowley (dal 1916) che usa logica e magia per risolvere casi più o meno polizieschi. Ma all’Haddo ispirato a Crowley, William Somerset Maugham già contrapponeva un esoterista buono, l’inefficace dottor Porhoët in The Magician, 1908.
A questi personaggi citati in ogni repertorio, ed emblematici di un orizzonte dove fantasie sull’occulto montano prima tra fiati di guerra in progressivo avvicinamento e poi tra conteggi di morti (anche tra gli autori: gli Askew affondati con la nave nel 1917, Hope Hodgson caduto a Ypres nel 1918…), depressione postbellica e nuovi fantasmi, se ne accompagnano però moltissimi altri. E limitandoci a quelli di maggiore importanza perché seriali o almeno attivi in più di un’avventura, l’elenco è impressionante. Andrew Latter di Harold Begbie (dal 1904), Jack Hargreaves di Allen Upward (1905), Westrel Keen di Robert W. Chamber (1906), il dottor Ivan Brodsky di H.M. Egbert (dal 1910), il dottor Xavier Wycherley di Max Rittenberg (dal 1911), Semi Dual “the Occult Detector” di J.U. Giesy e Junius B. Smith (dal 1912), il dottor John Durston di William Le Queux, e il dottor Arnold Rhymer di Uel Key (entrambi 1917), Solange Fontaine di F. Tennyson Jesse, e Godfrey Usher di Herman Landon (entrambi 1918), Shiela Crerar di Ella M. Scrymour, e Derek Scarpe di A.M. Burrage (entrambi 1920), Damon Vane di Elliot O’Donnell (1922)… Detective dell’occulto figurano tra l’altro in novelle di Conan Doyle (come nel 1899 l’indagatore Dr. Hardarce di The Brown Hand, e nel 1902 Lionel Dacre in The Leather Funnel), e ancora di Kipling (Mr. Perseus di The House Surgeon, 1909). Difficile non vedere in tutto questo un preciso segno dei tempi: angosce, attrazioni magnetiche, fantasie consolatorie…
Nel 1925 appare poi sull’americano Weird Tales uno degli occult detective in assoluto più attivi, Jules de Grandin di Seabury Quinn, protagonista di ben novantatré avventure e massima espressione del modello nel pulp. A sua volta affiancato in America da frotte di colleghi: a partire ovviamente dai vari detective o dottori che indagano nei testi di Lovecraft (una tantum, non serialmente perché il Solitario diffida dei tecnicismi occultistici: il narratore di The Shunned House, 1924/1937; Thomas F. Malone in The Horror at Red Hook, 1925/1927; l’ispettore Legrasse e il professor Angell di The Call of Cthulhu, 1926/1928; il dottor Armitage di The Dunwich Horror, 1928/1929; eccetera, mentre per esempio il viandante psichico Randolph Carter è una figura dai connotati un po’ diversi), di Clark Ashton Smith (a partire dal narratore di The Ghost of Mohammed Din, 1910) e naturalmente di Robert E. Howard. Che innova la categoria con il cacciamostri puritano Solomon Kane (dal 1928), affiancato però da una serie di occult detective relativamente più tradizionali (l’io narrante di The Black Stone, 1931, e di The Thing on the Roof, 1932, gli eroi Steve Harrison e John Kirowan, entrambi apparsi nel 1834…). E a questi possiamo aggiungere, nei pulp e non solo, Pierre d’Artois di E. Hoffman Price (dal 1926), Gerald Canevin e Lord Carruth di Henry S. Whitehead (rispettivamente dal 1929 e dal 1930), il Dr. Lowell del romanzo serializzato Burn, Witch, Burn! di Abraham Merritt (1932), il giudice Keith Hilary Pursuivant e John Thunstone, entrambi dell’attivissimo Manly Wade Wellman (rispettivamente dal 1938 e dal 1943)… Per i narratori pulp come già per i predecessori su riviste la soluzione dell’occult detective semplifica notevolmente la costruzione di storie fantastiche, in quest’epoca più spudorate e ruspanti. D’altra parte, come già avvenuto con Holmes, vari indagatori “ordinari” si trovano alle prese con fantasmi fasulli, e tra questi per atmosfere spettrali e suggestioni goticheggianti merita almeno menzione il Gideon Fell di John Dickson Carr, forse ispirato a G. K. Chesterton (dal 1933).
Una situazione un po’ diversa è quella degli sviluppi inglesi, dove in più casi la fiction è robustamente coerente con convinzioni occultistiche. È il caso di Agatha Christie, con le figure della raccolta sul paranormale The Hound of Death and Other Stories (1933), in cui appaiono studiosi quali Mortimer Cleveland e il dottor Dr. Edward Carstairs; e di Margery Lawrence, col detective dell’occulto Miles Pennoyer (1945). Ma soprattutto del prolifico Dennis Wheatley: poi anzi assurto ad autorità in temi magici (ma da avversario), e autore di varie saghe imbevute di paranormale, fin dalla seconda avventura del suo reazionarissimo eroe duca di Richleau, The Devil Rides Out, 1934 (che Christopher Lee interpreterà su schermo nel 1968). Nei testi di Wheatley il sovrannaturale si sposa alla politica, e il candore con cui abbina magia nera e comunismo – per lui legati in un unico orizzonte di caos – conduce il tema della detection occulta verso dimensioni fantapolitiche. Del resto l’autore è un uomo dei Servizi, e un altro suo eroe è il colonnello Verney, un ufficiale responsabile del controllo di gruppi sovversivi e logge sataniche: la cui avventura più nota resta To the Devil – A Daughter, 1953 (donde il film 1976, dove però Verney diventa uno scrittore esperto di occulto – a sua volta come Wheatley, insomma – interpretato da Richard Widmark). Tra gli altri protagonisti di saghe del Nostro, il cui impatto sull’immaginario fantastico postmoderno è molto maggiore di quanto in Italia solitamente percepiamo, c’è però anche un più tradizionale investigatore del paranormale, lo svedese Neils Orsen, ispirato all’occultista Henry Dewhirst e alle storie di Carnacki (1943). Di un ulteriore fortunato autore britannico, Jack Mann alias E.C. Vivian, all’anagrafe Charles Henry Cannell, a sua volta creatore del detective dell’occulto Gregory Gordon George Green detto “Gees” (dal 1936), ignoro sinceramente se coltivasse convinzioni esoteriche.
La golden age dei dottori psichici si chiude con gli anni Trenta: le riviste di narrativa popolare negli USA e in Gran Bretagna hanno raggiunto il picco di massimo successo, e il cinema vede la poesia del fantastico offerta ormai a immense platee. Certo, non c’è ancora un target di affezionati all’horror, e a vedere i mostri Universal si reca un pubblico indifferenziato: non è strano dunque che la legione dei cacciaspettri resti confinata su carta, e su schermo sia in pratica il solo Van Helsing a divenire in qualche modo seriale (compare anche in Dracula’s Daughter e fornisce il calco – stesso attore, Van Sloan – per l’archeologo-esoterista dottor Muller di The Mummy).
Ma i tempi stanno cambiando. Nel decennio successivo, con la guerra, le riviste popolari entrano in crisi, gli horror su schermo sono costretti ad assumere connotati molto più poveri e ripetitivi. Almeno a grandi numeri si preferiscono eroi aitanti, da contrapporre a vilain sempre più legati al nemico: e i detective dell’occulto non sono necessariamente i protagonisti più adatti. È vero, non spariscono e parecchie serie continuano, ma poco nasce di nuovo e comunque il tema conosce una contrazione; e un ulteriore decennio più tardi la crisi dell’horror con la Guerra Fredda stornerà il fronte delle minacce verso lo spazio e il Pianeta Rosso comunista. Con l’eccezione degli eroi reazionari di Wheatley e pochi altri (indicativo è il ritiro di Jules de Grandin nel 1951), gli esperti di esoterismo lasciano il posto a quelli di (fanta)scienza.
È allora che in Inghilterra emerge un fenomeno nuovo. Dopo aver varato una certa quantità di titoli di SF una piccola casa produttrice, la Hammer, si risolve al salto – per il tempo rischioso – del ritorno al gotico: e in effetti può notarsi un rapporto abbastanza stretto tra il maturo, rassicurante Quatermass fantascientifico degli anni Cinquanta e il gotico Van Helsing/Cushing nel 1958 destinato a divenire seriale fino a proiettarsi nell’età contemporanea. In quella che sarà definita (non troppo correttamente) la “svirilizzazione dell’eroe” emerge del resto qualcosa di molto britannico: a conquistare la scena non è il giovanottone destinato a salvarsi con la bella – modello classico a stelle e strisce – ma un uomo maturo, responsabile e ascetico. Profilo quanto mai favorevole al ritorno dei dottori dell’occulto: tanto più che nel frattempo, in naturale controtendenza all’accentuata tecnologizzazione e alle paure di una scienza che ha prodotto l’atomica, una serie di posizioni alternative riprende forza. Non è questa la sede per uno studio sul progressivo fermentare – attraverso più rivoli, su tutte le tinte ideologiche – di una sensibilità “magica” nel corso degli anni Sessanta, ma l’impatto planetario dei film gotici Hammer, giunti all’apogeo tra le minigonne di Carnaby Street, vi ha senz’altro un ruolo di concausa: e il revival magico a cavallo col decennio successivo – vera e propria esplosione di occulto in tutte le possibili declinazioni, che correranno per circa un decennio – riporta a galla anche gli occult detective. Con infinite ristampe dei classici di cui nasce un fiorente mercato, ma anche figure nuove, dove il modello si adegua ai tempi con un pizzico di psichedelia (indimenticabili certe copertine). Figli di quest’epoca sono per esempio Lucius Leffing di Joseph Payne Brennan (dal 1962); il cantastorie John the Balladeer, detto Silver John, ancora di Manly Wade Wellman, che incontra sulla propria strada varie vicende sovrannaturali (dal 1963); la squadra dei Guardians di “Peter Saxon” (in realtà uno pseudonimo collettivo – dal 1966 circa); e poi il dottor Owen Orient di Frank Lauria (dal 1971), il decisamente più noto Titus Crow di Brian Lumley (dal 1974), il dottor Alex Caspian di John Burke (dal 1976). Un caso un po’ particolare è quello dell’Anton Zarnak inventato da Lin Carter forse già nei primi anni Cinquanta ma apparso poi in racconti suoi e di autori amici. D’altra parte, e al di là delle infinite trasposizioni dei classici, negli anni Settanta i detective dell’occulto si moltiplicano anche in TV (si pensi all’americano David Sorrell di Louis Jourdan in due film 1969-70, all’ispettore francese Paumier della Squadra dei sortilegi – La Brigade des maléfices – del 1971, al Carl Kolchak protagonista di film e serie TV americane dal 1972, al britannico Tom Kovack interpretato da Leonard Nimoy nel 1973, più vari altri) e ovviamente nel cinema. Tra i fumetti può poi almeno citarsi il Doctor Spektor di Donald F. Glut e Dan Spiegle (dal 1972).
Fin qui i dottori “laici”: ma occorre ricordare per questa fase anche l’uscita del romanzo (1971) e poi film (1973) The Exorcist, che fa saltare il tavolo dell’horror, segnando un vero spartiacque, e portando lo specialista in clergyman del confronto col sovrannaturale e la categoria possessione sotto i riflettori. Le peculiarità del filone ecclesial-demonologico consigliano comunque di non trattarlo in questa breve rassegna.
Il gotico, linguaggio insieme del mito e della sovversione, subisce però un tracollo con il cosiddetto riflusso e la normalizzazione del decennio Ottanta. L’horror non sparisce, ma abbandona le forme tradizionali ora verso una serie di declinazioni giovanilistiche o comiche (a volte geniali, come in Ghostbusters, 1984, ma più spesso scipite), ora inseguendo dimensioni più oniriche e psicologicamente disturbanti. Non stupisce che in questa fase emergano personaggi di detective dell’occulto come il tatuatissimo – contro il male – Harry D’Amour di Clive Barker (dal 1985) o, nel fumetto, il nostrano Dylan Dog di Tiziano Sclavi (dal 1986): abbandonati i mostri tradizionali, il detective dell’occulto deve fare i conti con il labirinto di dimensioni diverse, febbricitanti e disturbanti, in osmosi con la sua interiorità. Di quest’epoca è anche, in chiave narrativa, il David Ash di James Herbert (dal 1988) e qualcuno aggrega alla categoria pure l’investigatore olistico Dirk Gently di Douglas Adams (dal 1987); mentre nel fumetto vediamo nascere (nel 1984) John Constantine, le cui connotazioni gotico-occultistiche – per l’epoca, piuttosto controcorrente – sono frutto della sensibilità particolare di Alan Moore. Il decennio viene idealmente chiuso dalla serie Twin Peaks ideata da David Lynch e Mark Frost (1990-1991 con seguiti – T.P.: Fire Walk with Me, 1992, e altri in arrivo), dove l’eccentrico e brillante agente Dale Cooper dell’FBI (Kyle MacLachlan) dovrà fare i conti proprio con la categoria della possessione, come a prefigurare un ritorno ad antichi orrori. A confermare che l’occult detective non è in sé un personaggio gotico in senso stretto, ma con frequenza nella sua declinazione seriale attinge a mitemi di un mondo mitico-magico eminentemente valorizzato dal gotico.
Sempre procedendo a volo d’uccello, vediamo infatti il gotico riapparire con forza nei Novanta. Idealmente con il Van Helsing di Anthony Hopkins, 1992, che apre le porte a una stagione di revival degli antichi miti. In spirito diverso da quello del passato, perché il mondo è ormai cambiato: non più nel segno del recupero orgoglioso – certo pragmatico ma vagamente nostalgico – di epopee nazionali come ai tempi Hammer, ma piuttosto della scoperta postmoderna che il gotico “funziona” ancora, che ha ancora appeal per un mercato planetario. E la diffusione di internet e le nuove tecniche di home video lo coroneranno, movimentando la conoscenza dei “classici” e consolidandone il culto.
Certo, ad affrontare casi “occulti” è ora una diversificatissima serie di personaggi, dei più svariati registri e spessori di linguaggio: ma, anche limitandosi a qualche esempio (ed escludendo, per dire, tutto l’universo ora fiorente di anime e manga, che aprirebbe discorsi a parte), la semplice elencazione delle date di inizio avventure basta a rendersi conto di quanto il periodo sia nuovamente fertile. Nel 1990 appare la Ghost Hunter Miss Penelope Pettiweather di Jessica Amanda Salmonson (narrativa); nel 1991 il patinato Sir Adam Sinclair di Katherine Kurtz e Deborah T. Harris (narrativa); nel 1992 Buffy l’ammazzavampiri (cinema, ma protomodello per la ben diversa serie TV che partirà nel 1997); nel 1993 Anita Blake di Laurell K. Hamilton (narrativa), il duo Mulder & Scully di The X-Files (televisione, poi cinema) ed Hellboy (fumetto, poi cinema – anomalo come detective per il suo statuto diavolesco); nel 1994 l’inquisitore Eymerich di Valerio Evangelisti (narrativa, poi vari altri linguaggi); nel 1998 Ethan Proctor di Charles L. Grant (narrativa); nel 1999 i protagonisti della saga The League of Extraordinary Gentlemen di Alan Moore e Kevin O’Neill, più volte alle prese con l’occulto; nel 2000 Harlan Draka protagonista del Dampyr di Mauro Boselli (fumetto); nel 2007 Harry Dresden della serie The Dresden Files (televisione); nel 2009 il duo di ammazzamostri Claudio & Vergy di Claudio Vergnani (narrativa); nel 2011 Grimm della serie tv omonima (televisione)… E a questi possiamo aggiungere la quantità di indagatori dei romanzi di Danilo Arona, la cui attività è iniziata certamente prima, ma si fa in questa fase sempre più intensa.
Figure molto diverse, si ripete, non tutte propriamente “gotiche” ma che della tradizione gotica richiamano singoli aspetti; figure solo in parte raccordabili in costellazioni (Buffy e Anita Blake si rivolgono per esempio a pubblici affini), ma che comunque colpiscono e coinvolgono grandi masse di lettori/spettatori, suscitano studi popolari come accademici, costruiscono di avventura in avventura universi alternativi (si parla di Buffyverse, Anitaverse eccetera). Il periodo lo permette, e le creature dell’antico gotico e i loro indagatori/cacciatori sembrano rappresentare maschere efficaci per esprimere istanze e sogni epocali. Col risultato di dilagare ben oltre i limiti della cosiddetta sottocultura gothica, e di interessare anche grandi capitali: e, ferma restando la varietà di contesti e (si ripete) di spessori culturali, il boom finisce con l’essere veicolato dalle sorti della saga Twilight, che tra romanzi e film copre il periodo 2005-12 con un impressionante indotto (imitatori, glossatori, anche “esperti” spuntati come funghi). Il suo esaurirsi segna in effetti una contrazione non solo del “romanticismo sexy” in chiave vampirica, ma, per saturazione, di un po’ tutta l’attenzione per il gotico e i suoi miti. Qualcosa che non penalizza – è ovvio – personaggi efficaci, ma sposta drasticamente gli equilibri generali: ed è indicativo misurare in metri lineari nelle grandi librerie la quantità di spazio occupata dal gotico (vero, o più spesso farlocco) durante la stagione Twilight, e quella ben più contenuta attuale.
Un’altra ottima cartina tornasole è però il cinema. E se, guardandoci indietro, prendiamo in esame in termini panoramici lo sviluppo dell’immaginario a partire dagli anni Trenta – quando cioè le grandi platee in Occidente iniziano ad accedere alla celebrazione dei riti gotici su schermo – ci troviamo davanti uno schema alla grossa riassumibile così:

anni Trenta (dal 1931, Dracula di Browning): crescita del gotico;
– anni Quaranta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Cinquanta: contrazione/eclissi;
anni Sessanta (dal 1957, The Curse of Frankenstein di Fisher): nuova crescita del gotico;
– anni Settanta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Ottanta: contrazione/eclissi;
anni Novanta (dal 1992, Bram Stoker’s Dracula di Coppola): nuova crescita del gotico;
– anni Zero: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Dieci (dallo spegnersi del boom dei vampiri attorno al 2012): contrazione/eclissi.

Ed è in quest’ultima fase che ci troviamo ora. Dove “contrazione/eclissi” non significa una sparizione del gotico, ma solo l’entrata in una fase di recessione dalle mode – a dispetto anche di singole fortunatissime uscite, come la saga TV Penny Dreadful, con l’eroina Vanessa Ives di Eva Green che indaga in un sottomondo occulto (2014-16). E a parte alcune notevoli eccezioni prevale una stanca sensazione di già visto.
Possiamo aspettarci una nuova fase “up” (indicativamente) negli anni Venti? Difficile dire se il trend trentennale troverà ulteriori conferme, e difficile anche immaginare i connotati di una rinnovata crescita del gotico – che per esempio dovrà fare i conti con l’effetto-Legione dei fantasmi dell’era di internet, indefinitamente frantumati in sciami di grumi psichici come già adesso nei romanzi di Arona. I nuovi dottori potranno fronteggiare sempre più frequentemente simili emergenze, con un piede in Matrix e l’altro in The Exorcist: ma di più al momento è difficile dire.
In ogni caso The Professor arriva in questa stagione di “bassa”, e in attesa di una nuova fase “up” deve combattere per aprirsi la strada. E due riflessioni possono emergere.
Anzitutto si è visto che di società in società gli occult detective hanno recato diversissime provocazioni: le istanze dell’ordine soffocante e necrotizzante, la critica all’affidabilità delle agenzie riconosciute o il tentativo eclettico di rinnovarne l’approccio, l’apertura a una dimensione di mistero e la ricerca di guarigione dai propri demoni, la saldatura tra nostalgia e nuove euforie d’epoca, il recupero vintage di un linguaggio avvertito come simbolicamente forte… Ma al di là degli specifici il senso della maschera dell’occult detective, il successo del suo ruolo si misurano proprio in termini di provocazione, di shock culturale. Non semplicemente l’originalità delle azioni o la mossa inattesa (come in fondo per qualunque personaggio, per sostenere una buona storia), ma lo scarto dalle categorie del lettore/spettatore: all’imprevisto del monstrum, che viola l’equilibrio della realtà, segue cioè la risposta altrettanto imprevista (sul piano della logica prima che ancora delle azioni) da parte dell’occult detective. Detentore di una scienza di cui il lettore/spettatore deve poter cogliere qualcosa ma non tutto (come l’emergere della punta di un iceberg di cui si avverte la massa sommersa, che però resta invisibile: se il pubblico ha la sensazione di sapere quanto l’esperto, il personaggio fallisce), trickster e sciamano dalla vaga ambiguità, l’occult detective “funziona” quando spiazza. Serializzando, specie dopo un po’ di numeri, la sfida sta nel conservare tale carattere: ed è questo l’augurio che si rivolge a The Professor.
Ma c’è un secondo aspetto, più strettamente legato ai nostri tempi. Viviamo una stagione in cui le categorie di affidabilità e autorevolezza sono giustamente prese con le pinze, i quacquaraquà occupano poltrone dappertutto, la credibilità – a partire da quella umana – è merce rara: in questo senso la Nostra è molto più l’età di Hesselius che di Van Helsing. Ma se nella nostra vita abbiamo incontrato qualcuno con quella marcia in più, che con la sua competenza e maturità ha saputo cacciare qualche ombra che ci faceva male, che ha saputo calarsi nella casa infestata in cui in quel momento (può succedere) ci trovavamo, ecco l’occult detective di cui avremmo bisogno. E il volto di Cushing, l’affidabilità e insieme l’ambiguità dei personaggi da lui interpretati (a fronte della sua umanità personale, spesso ricordata) sembra felicemente ricordare in The Professor quel mix di sospetto e nostalgia che ci portiamo addosso.

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