Germania nazista – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sulla transitorietà delle forme e delle decisioni politiche nella stagione delle emergenze https://www.carmillaonline.com/2021/02/17/sulla-transitorieta-delle-forme-e-delle-decisioni-politiche-nella-stagione-delle-emergenze/ Wed, 17 Feb 2021 22:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64968 di Sandro Moiso

Andrea Salvatore, Carl Schmitt. Eccezione / Decisione / Politico / Ordine concreto / Nomos, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 88, 9,00 euro

«Temo i lettori superficiali» (Carl Schmitt, Interrogatorio n. 2161, Norimberga 29 aprile 1947)

Il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985), comunque lo si voglia considerare, continua ancora oggi a porre questioni di estremo interesse. La lettura di queste riflessioni intorno all’opera del filosofo, giurista e politologo, offerte da Andrea Salvatore, docente di Filosofia politica presso il dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Sapienza, permette di coglierne i motivi di [...]]]> di Sandro Moiso

Andrea Salvatore, Carl Schmitt. Eccezione / Decisione / Politico / Ordine concreto / Nomos, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 88, 9,00 euro

«Temo i lettori superficiali» (Carl Schmitt, Interrogatorio n. 2161, Norimberga 29 aprile 1947)

Il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985), comunque lo si voglia considerare, continua ancora oggi a porre questioni di estremo interesse. La lettura di queste riflessioni intorno all’opera del filosofo, giurista e politologo, offerte da Andrea Salvatore, docente di Filosofia politica presso il dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Sapienza, permette di coglierne i motivi di attualità, sdoganandolo di fatto dall’ambito quasi esclusivamente giuridico e dall’area del pensiero politico conservatore o fascista in cui a lungo è stato relegato.

Certo la sua adesione al regime nazista fin dal maggio del 1933 e il fatto che egli abbia mantenuto la sua carica di docente presso l’Università Humboldt di Berlino, da quello stesso anno fino al 1945, non hanno certo contribuito a suscitare a “sinistra” l’attenzione nei confronti del suo pensiero. Eppure, eppure… le sue riflessioni sulle dinamiche politico-giuridiche che rendono attuative e condivise le norme che regolano lo Stato e la società moderna rimangono tutt’ora decisamente interessanti, proprio per la spregiudicatezza delle sue formulazioni.

Va detto subito, piaccia o meno, che il pensiero di Carl Schmitt non ammette alcuna possibilità di cambiamento sostanziale di un sistema politico-giuridico dato in assenza di un suo rovesciamento. Al contrario del pensiero riformista in passato o politically correct e liberal odierno che hanno invece preteso o ancora pretendono che ciò possa avvenire senza scosse. In questo senso, al di là delle intenzioni del giurista e filosofo tedesco, a seguito di una lettura più attenta e meno prevenuta, molte delle sue formulazioni possono rivelarsi utili, rivelatorie e dirompenti, tanto quanto lo sono state per lungo tempo quelle di Niccolò Machiavelli sul potere e la formazione dello Stato moderno1.

Andrea Salvatore prende in esame i concetti più significativi, riassunti nel titolo del saggio, che stanno alla base della sua opera, ma qui, per necessaria concisione e brevità, si proverà a commentarne sinteticamente soltanto due: eccezione e decisione. Attualissimi, soprattutto in una situazione caratterizzata da un’autentica pandemia emergenziale quale è quella in cui stiamo tutti vivendo.

La prima è, nel pensiero di Schmitt, fondativa della sovranità ovvero del potere dello Stato, qualsiasi sia la forma politico-istituzionale che questo assume: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»2. Infatti, come afferma Salvatore fin dall’Avvertenza, il politologo tedesco è:

l’Apostolo dell’Eccezione, lo stregone venerando e terribile che evoca e raduna le forze demoniache del caos, che richiama l’origine artificiale e periclitante di ogni ordinamento, che disvela il nulla a fondamento dell’ordine moderno e delle finzioni concettuali chiamate, legittimandola in qualche modo e misura, a puntellare la struttura dell’istituzione principe della storia occidentale: lo Stato3.

L’eccezionalità e la facoltà/forza di deciderne gli aspetti formali e strutturali costituiscono quindi le condizioni che devono sostanziare ogni governo poiché, se nelle fasi “normali” o non periclitanti, la normativa vigente è sufficiente a governare l’esistente e a dirimerne le contraddizioni, è proprio nella gestione di una fase inaspettata, e dunque potenzialmente pericolosa, che si esprime la vera autorità, riconosciuta come tale.

Soffermiamoci solo per un istante a riflettere sull’eccezionalità e sull’emergenza in cui da anni siamo immersi. Governi tecnici, Dpcm, restringimento delle libertà personali, militarizzazione dei territori e della società, obblighi e, non dimentichiamolo mai, politiche securitarie manifestatesi attraverso i respingimenti massivi alle frontiere oltre che nelle missioni militari all’estero dedite formalmente a garantire la sicurezza dei cittadini, sono diventati il pane quotidiano della vita politica e sociale.

La pandemia e la sua dichiarazione a livello planetario, oltre che nel micromondo italico la nascita del governo Draghi, ne costituiscono soltanto l’ennesimo e più aggiornato corollario. In un contesto in cui da anni crisi economica, ambientale e sociale agitano acque in cui le vecchie norme di navigazione sembrano non essere più sufficienti a ridefinire una rotta verso la salvezza.
Il mare è in tempesta e i porti un tempo considerati sicuri sono in fiamme precludendo così l’uso delle vecchie mappe e dei punti di riferimento più consueti.

L’eccezione è di per sé un evento non previsto, un’alterazione del corso normale delle cose, uno scarto, un’eccedenza rispetto alla serie ininterrotta di fattispecie omogenee necessarie per il darsi
di un dato ordine. A seconda dell’intensità e dell’estensione di tale fenomeno deviante, si avranno delle ripercussioni sull’ordinamento giuridico più o meno rilevanti […] Nel caso in cui l’incidenza delle situazioni eccezionali sia tale da compromettere l’osservanza generalizzata della norma, e
dunque la sua vigenza, si ha quello che Schmitt definisce uno stato di eccezione […].
In quanto eccezionale, si tratta di una casistica assolutamente minoritaria, tale per cui – lo ripetiamo, ché non pochi sono gli equivoci sorti al riguardo – la concezione classica della sovranità, come anche l’architettura costituzionale che su di essa si è venuta costruendo nei secoli, nella pressoché totalità dei casi si rivela perfettamente adeguata alle circostanze; vale a dire che essa dà esaustivamente conto di come funzionano le cose e predispone tutti gli accorgimenti giuridici necessari a che le cose funzionino.
[…] Il problema, come detto, si pone per il semplice – ma decisivo – fatto che di tanto in tanto si danno delle circostanze eccezionali in cui l’esercizio della sovranità, che di norma risulta efficace nelle modalità previste dall’ordinamento vigente, smette di risultare tale e si rivela dipendente da qualcosa d’altro, cui dunque spetta la qualifica di autentico sovrano.
Quando si dà una situazione del genere? Si dà ogniqualvolta si venga a creare uno stato di cose, una situazione concreta, che rende di fatto inoperanti, il che significa inosservate (e talvolta finanche inosservabili), le norme di un certo ordinamento. Detto altrimenti, si è di fronte a una condizione eccezionale, data dal fatto che le prescrizioni di legge che fino a quel momento avevano dato prova di riuscire a regolare efficacemente i rapporti sociali si rivelano all’improvviso inefficaci, vale a dire non più in grado di assicurare un ordine effettivo (quali che siano le ragioni di detta inefficacia).
Ora – ed è questo lo snodo decisivo – che si dia una condizione tanto anomala da assurgere a stato di eccezione è questione che non dipende di per sé da una qualche evidenza «esterna», la cui effettiva presenza possa essere fatta dipendere dal riscontro di un criterio oggettivo (tasso di crimini commessi, incidenza delle diserzioni, carenza di beni essenziali, sistematicità del ricorso alla violenza, ecc.). Si tratta al contrario di una condizione sì fattuale, ma che si dà o non si dà del tutto indipendentemente da ogni risultanza altra rispetto alla disponibilità degli attori sociali a credere o non credere che essa si dia […].
Ciò non significa che lo stato di eccezione sia un concetto del tutto arbitrario, men che meno rilasciato alle idiosincratiche elucubrazioni dei singoli. Significa semplicemente che una situazione di emergenza, in cui le norme che regolano un dato contesto sociale sono poste in discussione al punto da venire disattese in misura più o meno ampia, diventa uno stato di eccezione se e solo se qualcuno è in grado di ottenere l’assenso, finanche un mero accondiscendere, da parte di un numero sufficientemente ampio di individui circa il fatto che quel qualcosa che si ha di fronte è realmente uno stato di eccezione.
Questo qualcuno – che come indica chiarissimamente la definizione schmittiana può essere chiunque (una carica istituzionale, un capopopolo, un condottiero, un dittatore, ecc.) – è il vero sovrano. E lo è proprio perché (e nella misura in cui) si dimostra in grado, in una concreta situazione storica, di decidere, nelle modalità accennate, se ci si trova di fronte a uno stato di eccezione […] Ciò comporta che questo chiunque è in grado di decidere, tra le altre cose, se l’attribuzione della sovranità prevista dall’ordinamento vigente sia da considerarsi ancora in vigore o meno. Dal che consegue che il titolare della sovranità indicato dalla norma non può essere, quantomeno non in ogni circostanza, il vero titolare della sovranità4.

A tutto ciò, per chiarire il ragionamento schmittiano, occorre aggiungere che:

Ecco dunque che, più che decidere sullo stato di eccezione, il sovrano decide dello stato di eccezione: decide cioè se esiste in concreto, qui e ora, una condizione tale da rendere di fatto inefficaci le prescrizioni di legge normalmente in essere (vale a dire, decide se lo stato di eccezione sussiste o meno) e, nel caso, cosa fare per rendere nuovamente vigente un ordine, sia esso lo stesso di prima o un altro (vale a dire, decide come superare la situazione di anomia che connota lo stato di eccezione).
La prima decisione (o, se si vuole, la prima parte della decisione) si concreta nel convincere – in modi che Schmitt lascia volutamente indeterminati, essendo qui decisivo il fatto dell’assenso, non le modalità del suo conseguimento, sicché i confini tra convinzione e costrizione possono farsi più sfumati – un numero sufficientemente ampio di individui del fatto che almeno parte significativa delle leggi vigenti sono, in quel dato frangente, in concreto inosservabili o, se anche osservate,
comunque inefficaci […]5.

E’ evidente come questo percorso sia esattamente quello messo in pratica da anni con l’opera di convincimento dell’opinione pubblica e di trasformazione del precedente stato diritto una volta che questo sia riconosciuto come obsoleto, se non pericoloso, da una significativa maggioranza di individui.
Però è proprio in queste osservazioni, probabilmente mutuate dalla necessità di giustificare l’avvento al potere di una forza altra rispetto a quella precedentemente dominante (nel caso specifico di Schmitt l’avvento del Nazismo a discapito della socialdemocrazia liberale che aveva retto le redini della Repubblica di Weimar fino all’avvento della grande crisi degli anni Trenta), che si apre una possibilità altra, una lezione per chiunque voglia chiudere con i governi precedenti oppure con il modo di produzione dominante.

Se non ci si accontenta del piagnisteo “democratico” tutto teso a rivendicare il mantenimento o il ritorno all’ordine precedente, per ingiusto e assassino che questo sia, si può intravedere all’interno della stessa dinamica (fatto mai negato da Schmitt, soprattutto nei suoi scritti successivi al secondo conflitto mondiale) la possibilità dell’iniziativa orientata alla rottura e alla destituzione del sistema per sostituirlo con un differente ordine politico e sociale.

Nell’eccezione, infatti, si apre la possibilità della rivolta indirizzata al rovesciamento di un sistema politico, economico, sociale che proprio nel suo agire ha dovuto riconoscere la propria incapacità di far fronte alle emergenze che esso stesso ha contribuito a creare. In altre parole la rivoluzione esce dall’utopia e diventa un campo del possibile, perché proprio là dove si manifesta formalmente la forza della sovranità, data quasi per scontata, si dimostra invece la sua intrinseca debolezza. A patto di aver saputo precedentemente resistere al richiamo delle sirene del partecipazionismo e dell’interventismo sociale interclassista, ancora tutte tese alla conservazione dell’esistente.

La dialettica del confronto amico/nemico che caratterizza il pensiero politico di Schmitt, aborrita da una Sinistra che trovò anni fa in Fausto Bertinotti il suo portavoce e tutor, può infatti chiaramente riassumere in sé la realtà profonda del conflitto sociale e delle contraddizioni insuperabili che sono sottese alla formazione e alla funzione di ogni governo di una società divisa in classi.
Così è il rischio per la stabilità dei governi a costituire la vera posta in gioco delle partite e delle campagne di opinione emergenziali messe in atto ormai in continuazione. Ma la partita ultima non è per la sicurezza dei cittadini nei confronti di pericoli esterni e neppure per la loro reale salute: la partita vera è quella che si gioca intorno ad un sistema che non può, e non intende, più garantire la sicurezza economica e sanitaria alla maggioranza dei suoi cittadini e che, ben conscio di questo, in nome della necessità di continuare l’opera di valorizzazione e concentrazione dei capitali, si chiude e si blinda sempre più nello stato di eccezione.

Qualsiasi prospettiva di ritorno allo stato di cose precedente è destinato a rivelarsi dunque sempre più illusoria e conservatrice mentre la stessa epidemia emergenziale (ovvero l’insieme di campagne e misure promosse per stabilizzare la sovranità del capitale, oggi sempre più anonimo e impersonale, come dimostrano i fallimenti a catena dei partiti parlamentari e delle loro inutili strategie) pone le basi e offre l’opportunità per spingere lo scontento e l’azione della maggioranza verso nuove e inaspettate direzioni6. A patto di saper cogliere il momento più opportuno per destituire il comandante della nave ormai incapace di dirigerla nell’interesse di una parte significativa, socialmente e politicamente, della comunità umana stessa.

E’, quest’ultimo, lo spazio del conflitto. Spazio che viene delimitato tra due parti: quella conforme all’esistente e quella deviante, ovvero tesa a soluzioni destinate a ridiscutere o addirittura ribaltare l’ordine normativo ed economico dato. E proprio all’interno di questo spazio conflittuale si pone il problema della decisione e del decisionismo schmittiano. Infatti, come afferma l’autore della sintesi del pensiero del filosofo e giurista tedesco: «Schmitt vuol dire decisionismo e decisionismo vuol dire Schmitt»7.

Cosa fare, infatti, qualora il deviante non intenda conformarsi? La soluzione che per esclusione ne deriva – separare il deviante dal gruppo dei non-devianti – rappresenta, ad avviso di Schmitt, la struttura formale e insieme il contenuto di ogni decisione politica: come vuole l’etimo latino del termine (de-cidere, in opera anche nel lemma tedesco, Ent-scheiden), decidere significa essenzialmente separare qualcosa da qualcos’altro, dividere, tagliar via. La decisione è dunque anzitutto un taglio, una cesura, una linea divisoria che rompe (con) l’unità originaria al fine di neutralizzare il conflitto che in essa insorge. Il conflitto viene risolto separando i contendenti; più precisamente, separando una parte (la deviante) dalle restanti (le conformi). La situazione normale si crea pertanto escludendo da un dato contesto quegli elementi la cui compresenza rende di fatto impossibile il darsi o il perpetuarsi di una situazione omogenea. Decidere significa, in altre e potenzialmente più sinistre parole, eliminare il disomogeneo.
L’eliminazione del disomogeneo può essere conseguita, a sua volta, in molti modi, secondo uno spettro di interventi assai diversificato. L’obiettivo fondamentale, comune alle diverse modalità di intervento, resta quello di assicurare che chi adotti comportamenti devianti che possono concretamente mettere a rischio la vigenza di un funzionante e risolutivo insieme di norme […] sia messo in condizione di non arrecare danno a quella compossibilità delle condotte – in questo, a livello pratico, si esaurisce l’omogeneità richiesta da Schmitt – che è condizione necessaria per il darsi e perpetuarsi di un ordine e dunque di un ordinamento. Un sistema di autonomie costituzionali, un assetto federale, il riconoscimento di determinati diritti a minoranze di varia natura, la concessione di statuti speciali (e finanche di una più o meno ampia indipendenza politica): pur limitandoci a quelli più propriamente giuridici, la gamma degli interventi, come si vede, è assai variegata. E tuttavia, nuovamente in conformità alla predilezione schmittiana per il caso-limite, se è vero che la tipologia degli interventi atti a garantire la separazione delle forme di vita mutuamente incompatibili è piuttosto ampia, resta il fatto che, almeno in caso di una inefficace o impossibile attuazione di simili misure, il ricorso alla violenza non può mai essere escluso8.

Ed è proprio in queste considerazioni che ritroviamo lo Schmitt più scomodo, non per la sua esperienza nella Germania nazista, ma per la sua intransigenza politica e filosofica:

Se c’è uno Schmitt più che mal sopportato da una parte più che consistente delle scienze sociali è il dissacrante teorico che insiste sul fatto, a suo giudizio tanto inoppugnabile quanto generalmente passato sotto silenzio, che non tutte le pratiche, le forme di vita, le condotte, possono essere incluse, vale a dire consentite, all’interno di un medesimo contesto politico […]. Il che significa che l’obiettivo o la promessa di un’inclusione assoluta, di marca democratica o meno, si rivela un’utopia o un inganno.
La politica, compresa la politica democratica, è – se non soprattutto, certamente anche – esclusione.
[…] Certo che si può escludere in modi molto diversi e che tale diversità fa un’assoluta differenza, ma resta il fatto che nessun sistema politico è in grado di aggirare la necessità dell’esclusione9.

Qualsiasi sistema può sopportare un certo grado di diversità, da qui la politica odierna dei diritti individuali e identitari, ma non può sopportare una devianza che ne neghi l’autorità e il diritto ad esercitare il governo della società. La riforma coincide dunque spesso con una politica di conservazione che determini sempre meglio i limiti di ciò che è consentito e di ciò che non è consentito. Secondo Schmitt:

Una caratteristica fondante, costitutiva e inaggirabile della decisione è la sua totale arbitrarietà. La decisione è arbitraria nel senso che l’unico vincolo che essa deve rispettare è quello di assicurare condizioni fattuali che rendano possibile la vigenza di una situazione normale tramite l’esclusione degli elementi a ciò ostativi. Per il resto, si è liberi di decidere come meglio si ritiene opportuno al fine di assicurare tale obiettivo.
Detto altrimenti, a patto che si riveli efficace, la scelta dei tempi, dei mezzi, delle modalità e dell’estensione, come anche di ogni altra variabile in gioco, è totalmente insindacabile e interamente rimessa a chi si dimostri in grado di far valere la propria decisione.
La decisione, in sostanza, deve «semplicemente» preoccuparsi di assicurare un ordine quale che sia: come assicuri tale ordine è del tutto irrilevante. In questa prospettiva, è legittima qualsiasi decisione che si sia rivelata – e fintantoché si riveli – in grado di creare una forma politica, vale a dire di assicurare la stabilità di un determinato assetto sociale nelle condizioni possibili in un dato contesto: se riesce in questo tentativo, qualsiasi agire politico è per ciò stesso legittimo/legittimato, indipendentemente da ogni altra circostanza, criterio, limite, condizione […] E’ evidente – o almeno lo è per Schmitt – che non esiste una condotta di per sé normale (quasi si trattasse di un dato di natura), rispetto alla quale ogni azione che non vi si conformi si configura come un caso di devianza. Detto altrimenti, ogni condotta è deviante rispetto a ogni altra: assumere una certa condotta come normale è sempre una forma, inevitabile quanto innegabile, di prospettivismo. Non si insisterà mai abbastanza – non foss’altro perché in più occasioni è lo stesso Schmitt a negarlo – sul fatto che in una prospettiva decisionistica ogni identità non può che essere l’esito artificiale di un processo di costruzione. In primo senso, dunque, la decisione è arbitraria perché risulta del tutto indifferente quale decisione si prenda, tra le tante possibili e nonostante le differenze considerevoli che è ben probabile sussistano tra esse.
Arbitrarietà come infondatezza. La decisione è arbitraria in quanto non può essere né dedotta né ricavata né indirizzata sulla base di un qualche fondamento o principio superiore: «In senso normativo, la decisione è nata da un nulla»10. Ancora più chiaramente: «La decisione sovrana è il principio assoluto, e il principio assoluto non è altro che decisione sovrana»11. A seguito dell’azione diserbante del processo di secolarizzazione, la decisione – che pure si impone come fondativa di un ordine, in una sorta di destituzione istituente – non può avere altro fondamento e altro principio di legittimazione che la sua stessa efficacia, con la cui effettività, inevitabilmente contingente, essa sta e cade12.

«Con la cui effettività inevitabilmente contingente, essa sta e cade», parole definitive per disvelare tutta l’arbitrarietà e la provvisorietà di un sistema politico quale quello vigente e degli inutili ed ormai inascoltabili peana sulla democrazia perduta.
La transitorietà della forma Stato e della sacralità delle sue istituzioni parlamentari, la loro valenza atemporale, apparentemente sovrastorica, sono qui completamente messe a nudo. Senza alcuna remora e senza pietà.

Tutto è inevitabilmente destinato ad essere travolto dalle tempesta già in atto. Si tratti di pandemia, guerra o crisi economica le nostre “decisioni” dovranno essere altre e dirimenti rispetto al tempo della “guerra civile globale” già dichiarata dai governi e dagli Stati ai loro cittadini e dal capitale alla specie nel suo insieme. Anche soltanto sotto questo aspetto, la lettura di Schmitt potrebbe dunque rivelarsi ancora tutt’altro che inutile e/o superata.


  1. Il paragone non è peregrino considerato che Schmitt ha dedicato proprio al fiorentino una delle sue opere: Machiavelli (con testo tedesco a fronte), a cura di G. Cospito, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2014  

  2. Carl Schmitt, Teologia politica (1934) ora in C. Schmitt, Le categorie del politico, (a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera), il Mulino, Bologna 1972, p.33  

  3. Andrea Salvatore, Carl Schmitt. Eccezione/Decisione/ Politico/Ordine concreto/Nomos, DeriveApprodi, Roma 2020, p.7  

  4. A. Salvatore, op. cit., pp. 12-14  

  5. Ibidem, p.17  

  6. A tal proposito si veda; Jack Orlando, Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, Il Galeone Editore, Roma 2020  

  7. A. Salvatore, op. cit., p.25  

  8. Ibidem, pp. 26-27  

  9. ibid., p.29  

  10. C. Schmitt, op. cit., p.56  

  11. ibidem, p.26  

  12. A. Salvatore, op. cit., pp. 30-33  

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Il razzismo, la democrazia e il male assoluto https://www.carmillaonline.com/2020/09/16/il-razzismo-la-democrazia-e-il-male-assoluto/ Wed, 16 Sep 2020 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62585 di Sandro Moiso

James Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019, pp. 180, 20,00 euro

E’ un tema spinoso, un argomento scottante e soprattutto un terreno minato quello in cui si avventura James Q. Whitman, docente di Diritto comparato presso la Yale Law School, nell’analizzare i rapporti tra le leggi razziali e razziste americane (riferibili come “leggi Jim Crow”) e l’insegnamento che ne trassero e l’uso che ne fecero i legislatori nazisti che diedero vita alle leggi di [...]]]> di Sandro Moiso

James Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019, pp. 180, 20,00 euro

E’ un tema spinoso, un argomento scottante e soprattutto un terreno minato quello in cui si avventura James Q. Whitman, docente di Diritto comparato presso la Yale Law School, nell’analizzare i rapporti tra le leggi razziali e razziste americane (riferibili come “leggi Jim Crow”) e l’insegnamento che ne trassero e l’uso che ne fecero i legislatori nazisti che diedero vita alle leggi di Norimberga nel 1935.
Molti studiosi, storici del diritto e non, avevano già in precedenza rilevato il collegamento tra i due regimi giuridici, ma, quasi tutti, hanno cercato poi di sminuirne il valore o, almeno, di separare e distanziare nettamente le due realtà, tendendo a negare che le Leggi Jim Crow possano davvero avere avuto importanza nella costituzione del modello nazista.

Invece, fin dalla Prefazione, Whitman afferma che:

Si dice spesso che il razzismo americano sia incompatibile con i valori della democrazia americana – e in particolare che lo schiavismo su base razziale abbia rappresentato una macchia sulla Fondazione, una contraddizione con le promesse della nuova repubblica. Ma […] democrazia e razzismo andavano a braccetto agli albori della storia americana […] E’ dura convincere le persone ad accettare di essere tutte uguali. Una delle strategie migliori per ottenere questo risultato, come sappiamo, è di farle unire contro un comune nemico razziale -convincendo bianchi poveri e bianchi ricchi, ad esempio, a unirsi nel disprezzo per i neri. John C. Calhoun, un personaggio oggetto di una lusinghiera biografia nazista nel 1935, descrisse i punti chiave di questa strategia nel 1821. Lo schiavismo su base razziale, diceva, era necessario in quanto si trattava della “migliore garanzia di eguaglianza fra i bianchi. Esso produce fra loro un livello di parità […]”.
Anche la politica nazista era una politica che promuoveva una forma di egualitarismo nello stile di Calhoun – egualitarismo per quelle persone che i nazisti consideravano membri del Volk, a spese di quelli che non lo erano. Quando esaminavano la mostruosa legislazione razziale americana all’inizio degli anni ’30, i giuristi nazisti stavano esaminando un qualcosa le cui fondamenta politiche non erano poi così diverse dalle loro. Entrambi i paesi erano culle di un egualitarismo fatto di risentimento razziale.1

Nelle pagine successive l’autore ci ricorda poi che, il 5 giugno 1934, i più importanti giuristi della Germania nazista si erano riuniti per progettare quelle che sarebbero poi diventate le Leggi di Norimberga, vero impianto legislativo su cui si sarebbe fondato, fino alla sua caduta, il regime.
In queste l’esclusione dai diritti dei cittadini non ariani, la loro emarginazione e successiva proibizione dei matrimoni misti, si sarebbe accompagnato ad una vera e propria definizione e creazione del “vero” cittadino nazista e della sua bandiera.

Fu una riunione importante, e uno stenografo presente produsse una trascrizione letterale, un documento che la diligentissima burocrazia nazista conservò a testimonianza di quello che era un momento cruciale nella creazione del nuovo regime razziale […] Nel corso dei minuti iniziali, il Ministro della Giustizia Gürtner presentò un promemoria sulle leggi americane sulla razza, una nota redatta con grande accuratezza dai funzionari del ministero proprio in vista di quell’incontro; e durante la discussione i partecipanti tornarono più volte ai modelli americani di legislazione nazista. E’ assolutamente sbalorditivo scoprire che tra i presenti, i nazisti più radicali fossero i più appassionati sostenitori della lezione che l’approccio americano offriva alla Germania. Questa trascrizione, inoltre, non è l’unica testimonianza dell’attenzione dei nazisti alle leggi razziali americane. Fra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 molti nazisti, fra i quali persino lo stesso Hitler, mostrarono grande interesse per la legislazione razzista degli Stati Uniti. Nel Mein Kampf Hitler lodava l’America come niente di meno che “l’unico stato” che fosse riuscito a progredire in direzione di quell’ordine razzista che le Leggi di Norimberga miravano a realizzare […] Per dirla con le parole di due storici del Sud, negli anni ’30 la Germania nazista e il Sud degli Stati Uniti si guardavano “come allo specchio”: si trattava di due regimi apertamente razzisti e di straordinaria crudeltà. Nei primi anni ’30 gli ebrei tedeschi erano braccati, picchiati e talvolta assassinati sia da bande organizzate che dallo Stato stesso. Negli stessi anni, i neri del Sud americano erano a loro volta braccati, picchiati e talvolta assassinati.2

Certo nella vulgata comune la vicinanza tra i due sistemi è una realtà negata e difficile da digerire.

Quali che siano state le analogie fra i regimi razzisti degli anni ’30, per quanto disgustosa possa essere la storia del razzismo americano, siamo abituati a pensare al nazismo come a un orrore senza precedenti. I crimini nazisti rappresentano l’abominio, l’orribile sprofondare verso quello che viene spesso definito “male radicale”.3

Eppure, eppure… la realtà è, secondo l’autore, che l’interesse dei nazisti per l’esempio americano di leggi razziali «fu duraturo, significativo e in certi casi persino entusiasta. Sicuramente volevano imparare dall’America».
Prova ne sia che appena dopo la proclamazione della Legge sulla cittadinanza del Reich, di quella sulla protezione del sangue e dell’onore tedesco e di quella sulla bandiera del Reich, quarantacinque avvocati nazisti salparono per New York sotto gli auspici dell’Associazione nazionalsocialista tedesco dei giuristi. Il viaggio fu una ricompensa per gli avvocati, che avevano codificato la filosofia legale basata sulla razza del Reich.

Lo scopo dichiarato della visita era quello di ottenere “uno speciale spaccato del funzionamento della vita legale ed economica americana attraverso studi e conferenze”. I precedenti americani ebbero così modo di informare altri cruciali testi nazisti, tra cui il Manuale socialista nazionale per la legge e la legislazione. Un saggio fondamentale in quel volume, le raccomandazioni di Herbert Kier per la legislazione razziale, dedicava un quarto delle sue pagine alla legislazione degli Stati Uniti, che andava oltre la segregazione includendo le regole che governano gli indiani d’America, i criteri di cittadinanza per filippini e portoricani e gli afroamericani, i regolamenti sull’immigrazione e divieti contro l’incrocio di razze in circa 30 stati. Nessun altro paese, nemmeno il Sudafrica, possedeva un insieme così sviluppato di leggi pertinenti.

Non si confonda quindi il lettore nel pensare agli Stati Uniti degli anni Trenta, quelli dell’età di Roosvelt e del New Deal e poi avversari del nazismo e dell’espansionismo nipponico dopo l’attacco di Pearl Harbor, come al regno della democrazia e del diritto. Il Partito Democratico aveva una buona parte delle sue radici e del suo elettorato proprio in quel Sud in cui le leggi segregazioniste erano particolarmente diffuse mentre, nello stesso periodo, anche i bianchi poveri e i piccoli contadini sfuggiti alle tempeste di polvere dell’Oklahoma avrebbero dovuto fare i conti con una nuova forma di segregazione di classe nei campi che “accoglievano” i migranti interni in California. In attesa di essere impiegati come manodopera e braccianti a bassissimo costo nelle grandi imprese agricole del Golden State.

Lavoro coatto nella sua forma schiavista (o quasi) che dagli afro-americani si era esteso al proletariato bianco, non troppo dissimile da quello che sarebbe diventato poi d’uso comune per i prigionieri di guerra e gli internati dei campi di concentramento che, nel corso del secondo macello imperialista, avrebbe caratterizzato economie e società di gran parte dei paesi belligeranti. Non soltanto in Germania.

Come afferma Whitman, l’intento della sua ricerca «è quello di raccontare una storia trascurata: la storia di come i nazisti, al momento della redazione delle Leggi di Norimberga, andarono a scavare nella legislazione americana in cerca di ispirazione. Ma è anche quello di interrogarci su cosa questo ci dica della Germania nazista, della storia moderna del razzismo, e soprattutto dell’America».

Molto spesso ricerche come quella del Whitman sono state tacciate, a torto o a ragione, di costituire una sorta di reductio ad Hitlerum, ovvero una tattica tendente a screditare qualcuno o qualcosa comparandolo ad Adolf Hitler o al nazismo tout court. Per alcuni interpreti tale tattica potrebbe poi avere, in alcuni casi, anche la funzione di ridurre le responsabilità politiche e morali del nazismo dimostrando che anche altri avrebbero operato in passato nello stesso modo.

Peccato però che anche tale interpretazione potrebbe servire a mascherare le responsabilità dei disastri militari, politici, economici e sociali (oltre che morali) tipici del modo di produzione attualmente dominante, la cui distruttività non è merito soltanto di singoli individui (Hitler o Trump, solo per citarne due fin troppo facili da indicare) o partiti, ma soprattutto delle insopprimibili regole di divisione di classe e di appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta che ne costituiscono le fondamenta, fin dal suo primo apparire nel XVI secolo.

A ben guardare, poi, è proprio l’America di oggi, quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni attraverso i canali televisivi e tutti gli altri media, a confermarci la ferocia del razzismo sotteso dalla libertà americana. Una pur rapida disamina dei recenti atti di violenza poliziesca nei confronti della popolazione afro-americana ci conferma infatti ancora che gli Stati Uniti, dalla loro originaria fondazione fino all’uccisione di George Floyd e a quelle successive verificatesi a Kenosha, Los Angeles e Washington, hanno fondato la loro struttura sociale su una rigida divisione etnica basata su quella che è stata definita “linea del colore” e, anche all’interno delle etnie escluse, su una ferrea divisione classista tra chi ha e chi non ha.

Lo stesso estensore della Dichiarazione di indipendenza, Thomas Jefferson, poteva infatti lanciare l’idea di una indefinita ricerca di uguaglianza e felicità cui sarebbe stato destinato il popolo americano, pur mantenendo nelle sua piantagioni 250 schiavi, dimostrando così nei fatti (nonostante la sua successiva promessa di contribuire a liberare tutti gli schiavi mai veramente andata in porto) come segregazione razziale e sfruttamento o sterminio delle altre etnie ad opera dell’uomo bianco non fossero che l’altra faccia della medaglia del progressismo liberale. Cosa che già anche Marx aveva notato, nel 1847 in Miseria della filosofia, affermando che la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo4.

Anche se è pur sempre indubitabile che se gli Stati Uniti sono entrati negli anni ’30 come l’ordine razziale più consolidato del globo, i percorsi di Norimberga e le leggi Jim Crow si sono svolti in modo molto diverso, uno culminante nel genocidio di massa, l’altro, dopo molte lotte, in conquiste dei diritti civili. Ma, come ha rilevato Ira Kratznelson, politologo e storico americano specializzato nell’analisi dello stato liberale e delle disuguaglianze negli Stati Uniti presso la Columbia University, in una recensione del libro di Whitman: «nessuna di queste conquiste, nemmeno la presidenza di un afroamericano, ha rimosso le questioni di razza e cittadinanza dall’agenda politica. I dibattiti attuali su entrambi i punti ci ricordano chiaramente che i risultati positivi non sono garantiti. Le stesse regole del gioco democratico – elezioni, open media e rappresentanza politica – creano possibilità persistenti di demagogia razziale, paura ed esclusione». Per cui occorre ricordare che se Donald Trump, da un lato, minaccia l’uso della forza e delle armi per riportare l’ordine nelle città in rivolta, dall’altro il candidato “democratico” Joe Biden, nel discorso tenuto proprio alla Grace Lutheran Church di Kenosha il 3 settembre, non ha mancato di ribadire che: “Non conta quanto sei arrabbiato, se fai razzie o appicchi il fuoco, devi poi risponderne. Punto. Non puo’ essere tollerato, su tutta la linea”.

Il male, quello vero che ci attanaglia in ogni luogo e in ogni momento, ha il volto di un modo di produzione giunto alla sua fase terminale e che sopravvive grazie al mantenimento delle sue strutture più arcaiche e odiose, destinate a reprimere e dividere subdolamente la massa di coloro che dovrebbero affossarlo per sempre. Di queste strutture, ed eterne exit strategy per il capitalismo, certamente il razzismo, negli Stati Uniti di Trump e dei suoi predecessori oppure qui nell’Italietta di Salvini, Minniti, Meloni, Di Maio e Conte, costituisce ancora uno degli aspetti più insopportabili e verminosi.

N.B.
In memoria di Michael Reinoehl, “100% Antifa” come era solito definirsi, ucciso dagli agenti federali giovedì 3 settembre a Lacey, Stato di Washington, per essersi attivamente opposto alla manifestazione suprematista di Portland la settimana precedente.


  1. J.Q. Whitman, Il modello americano di Hitler, pp.11-12  

  2. J.Q. Whitman, op. cit. pp.15-16  

  3. Ivi, pag. 16  

  4. Per una più approfondita disamina dell’evoluzione del pensiero e dell’analisi di Marx sullo schiavismo si veda: J. Bellamy Foster, H. Holleman e B. Clark, Marx e la schiavitù, Monthly Review, qui  

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Quando la narrativa per l’infanzia serve per uccidere https://www.carmillaonline.com/2018/04/26/la-narrativa-linfanzia-uccideva/ Wed, 25 Apr 2018 22:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44814 Ivano Palmieri (a cura di), EDUCARE ALL’ODIO. L’antisemitismo nazista in tre libri per ragazzi, Cierre edizioni, Verona 2018, pp. 190, € 19,50

[In tempi oscuri come quelli che stiamo vivendo, in cui qualche giornalista può inneggiare ai massacri compiuti a Gaza dall’esercito israeliano lungo la buffer zone (qui)), è bene ricordare come nel corso del ‘900 la propaganda più razzista e intollerante sia spesso passata attraverso la deformazione dell’immaginario delle giovani, se non addirittura giovanissime, generazioni. Con esiti, come ben ci ricordano i lager nazisti, devastanti. Sia per le menti che per i comportamenti dei soggetti esposti a tale [...]]]> Ivano Palmieri (a cura di), EDUCARE ALL’ODIO. L’antisemitismo nazista in tre libri per ragazzi, Cierre edizioni, Verona 2018, pp. 190, € 19,50

[In tempi oscuri come quelli che stiamo vivendo, in cui qualche giornalista può inneggiare ai massacri compiuti a Gaza dall’esercito israeliano lungo la buffer zone (qui)), è bene ricordare come nel corso del ‘900 la propaganda più razzista e intollerante sia spesso passata attraverso la deformazione dell’immaginario delle giovani, se non addirittura giovanissime, generazioni. Con esiti, come ben ci ricordano i lager nazisti, devastanti. Sia per le menti che per i comportamenti dei soggetti esposti a tale tipo di narrazione. Narrazione spesso accompagnata, come ben dimostra il testo curato da Ivano Palmieri, da illustrazioni allo stesso tempo “accattivanti” (per l’uso del colore e per i richiami alla tradizione della letteratura per l’infanzia del primo novecento) ed “agghiaccianti” per il loro esplicito e spietato contenuto.
Una sensazione che oggi si potrebbe provare di fronte a decine di video giochi, spesso in uso delle generazioni più giovani, in cui il nemico è sempre rappresentato come privo di qualsiasi umanità e meritevole, quindi e soltanto, di essere ucciso. Giochi che preludono già alle guerre future e alla formazione di soldati destinato ad uccidere attraverso l’uso dei droni. Lontani e privi di qualsiasi coscienza etica, come in un videogioco appunto.
Riportiamo perciò, qui di seguito, un significativo estratto dallo scritto di Arnaldo Loner, “La brutale rottura di un’armonia”, che introduce la ripubblicazione integrale dei tre testi presi in esame nell’elegante, terribile e interessantissimo volume curato da Palmieri. Soprattutto per tutti coloro che, oltre che alla storia dell’antisemitismo, vogliano interessarsi alla formazione dell’immaginario collettivo in epoca moderna. S.M.]

La produzione nel Terzo Reich dei tre libri illustrati antisemiti oggetto del presente volume e destinati a bambini e ragazzi, pubblicati negli anni dal 1936 al 1940 dall’editore della rivista nazista «Stürmer» Julius Streicher, rappresenta un qualcosa di assolutamente nuovo e sconvolgente.
Naturalmente, come è buona abitudine di ogni dittatura, il nazismo non si era disinteressato dell’infanzia e dei giovani in età scolare anche prima del 1936. La ben oliata macchina propagandistica del ministro Goebbels non poteva certo trascurare il mondo giovanile. Subito dopo l’avvento al potere nel 1933 di Hitler cominciarono ad apparire numerosissimi sillabari e libri di scuola in cui venivano celebrati il nazismo, i suoi gerarchi e la sua ideologia con abbondanza di svastiche, di divise, di adunate e cortei. La figura del Führer era dominante. Veniva rappresentato con disegni e fotografie a colori nei più diversi atteggiamenti, da quello marziale di supremo comandante a quello di padre del popolo, sorridente e tenero nei confronti di bambini adoranti che gli porgevano mazzi di fiori.

Però questo genere di pubblicazioni, abituale e tipico dei regimi totalitari – basta ricordare in proposito i libri di scuola del regime fascista – ha ben poco a che vedere con i libri antisemiti presentati qui. Se i testi scolastici nazisti, pur tra strombazzate di regime, si propongono in fondo di costruire una generazione forte e determinata, obbediente e disciplinata, quello cioè che dovrà essere l’“uomo nuovo” tedesco, i tre libri qui riproposti alzano bruscamente il tiro e vogliono fare di quest’uomo nuovo un persecutore e un assassino, costruendo solide fondamenta di disprezzo e di odio verso gli ebrei intesi come esseri subumani, indegni di esistere, pericolosi se esistono, che non si devono lasciar esistere. Quindi non sta tanto in molte pubblicazioni per bambini e ragazzi che si sono avute sotto il Terzo Reich, pur tronfie e ideologicamente marcate, la vera, brutale rottura con il precedente, armonico mondo dell’illustrazione infantile che ho descritto; ma sta qui, in questi messaggi colmi di ostilità, di intolleranza e di propositi distruttivi.

D’altra parte non dobbiamo nemmeno commettere l’errore di considerare questi tre libri come una parentesi, una semplice deviazione da un ordinato percorso propagandistico, perché non sono certo mancate nel periodo del potere hitleriano un gran numero di pubblicazioni di vario genere con feroce contenuto antisemita, ad iniziare proprio dalla rivista «Der Stürmer» di Streicher. Ma l’antisemitismo diretto ai bambini è qualcosa di più e di peggio. […] Questi tre libri costituiscono una vera e propria scuola dell’odio, dove nulla viene trascurato per colpire il bersaglio con la massima durezza.

Nel Fungo velenoso un intero capitolo viene dedicato al quesito: “Esistono ebrei perbene, ebrei rispettabili?” […] Dalle considerazioni che concernono l’intero popolo ebraico si passa, nelle opere in questione, a una specifica analisi per categorie al fine di rafforzare la tesi generale, e si esaminano gli ebrei per gruppi, per professione; ecco allora che gli avvocati calpestano ogni regola deontologica accordandosi per frodare i loro clienti, i medici molestano le pazienti, i padroni di casa mettono sul lastrico i loro inquilini, torve figure di pervertiti cercano di adescare i bambini. La valutazione generale sul popolo ebraico e la valutazione sui suoi singoli componenti concorrono a determinare il giudizio finale, che è poi il tema di un discorso pubblico di Streicher riportato nel Fungo velenoso: «Die Juden sind unser Unglück», “Gli ebrei sono la nostra disgrazia”. E nei due primi libri viene ripetuta e ribadita come un suggello finale, nel primo libro attraverso un vero e proprio logo con il viso ghignante ebraico e la stella di David, la massima «Senza soluzione della questione ebraica, nessuna salvezza per l’umanità».

Questo lavoro disumano e martellante di calunnia e di denigrazione trova un potente sostegno nelle illustrazioni, di cui viene fatto un uso distorsivo, in particolar modo nei primi due libri. Nel primo, Non ti fidare di una volpe… le immagini sono più scaltre, perché più raffinate: il segno è sottile, i colori brillanti. Nel secondo libro le immagini sono più cupe, le figure più grossolane; nel terzo si riducono a rapidi schizzi velenosi. E poiché le immagini rappresentano uno strumento essenziale nella manipolazione delle menti dei giovani, in tutti e tre i libri l’ebreo si staglia quasi sempre al centro del quadro, con caratteristiche somatiche che devono suscitare disgusto in contrapposizione ai lineamenti piacevoli e regolari di adulti o bambini dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Il suo corpo è grasso e deforme, è il corpo di una persona che non lavora e non combatte, tutta dedita invece a trame e raggiri; un corpo ben diverso da quello del giovane tedesco, fatto per la battaglia e per la vittoria. La postura dell’ebreo, la sua gestualità, il ghigno che gli distorce perennemente il viso esprimono odio per chi non è della sua razza, e sorda volontà di nuocere. Il tedesco deve allora imparare a difendersi da questo essere subumano e cattivo, e giungere prima o poi a spazzarlo via, dalla Germania e da tutto il mondo. I tre libri devono preparare l’humus per questa “nobile” guerra.

Ma l’opera di indottrinamento dei giovani è da attuare anche con la collaborazione dei genitori e degli insegnanti, come emerge dai libri stessi: nel Fungo velenoso una madre insegna al bambino a distinguere gli ebrei dalle persone normali come si fa per distinguere i funghi velenosi da quelli mangerecci e il maestro in classe fa disegnare alla lavagna il naso adunco degli ebrei. Del resto la sinergìa di strumenti di propaganda, soprattutto con parola scritta e illustrata, di attività scolastica e di insegnamento dei genitori era necessaria per formare sin dall’infanzia una generazione pronta a mettere in atto uno spietato programma eliminazionista, che prese come sappiamo forma precisa nella conferenza dei capi nazisti del 21 gennaio 1942 a Wannsee. Ed è di poco prima, pubblicato nel 1940, il terzo di questi tre libri, il Pudelmopsdachelpinscher, che predica lo sterminio con impressionante schiettezza e con estrema brutalità, concludendosi con un appello alla gioventù – si noti bene: non solo tedesca, ma di tutto il mondo – perché partecipi alla battaglia per la liberazione dell’umanità dalla “calamità” ebraica.

[…] Contrariamente al pensiero di alcuni antiquari tedeschi che, nei loro cataloghi di vendita, quando offrono al potenziale acquirente queste opere, scrivono in calce alla descrizione del libro – testuamente – «Può essere dato solo se viene provato l’utilizzo per un lavoro scientifico o per l’allestimento di una raccolta storica di libri per l’infanzia», quasi nel timore di un uso improprio da parte di qualche acquirente, siamo convinti che la pubblicazione di queste opere naziste, praticamente sconosciute nel nostro paese, possa rappresentare ad ogni effetto un importante contributo di conoscenza e venga così a potenziare quell’obbligo di memoria che rappresenta non soltanto un dovere verso chi patì tanta atrocità, ma anche una necessaria difesa contro il risorgere dei fantasmi del passato.

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Eroi dello sport https://www.carmillaonline.com/2016/06/13/30867/ Mon, 13 Jun 2016 21:30:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30867 di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano [...]]]> di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Daniele Marchesini.

Marchesini ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma e da molti anni si dedica all’analisi dello sport come fenomeno sociale e culturale, indagando svariati temi (Coppi e Bartali, le Mille Miglia, il Giro d’Italia, il ruolo dello sport nella formazione di un’identità nazionale, la relazione tra sport e totalitarismi). Il saggio più recente di Marchesini è uscito in una collana del Mulino, diretta da Carlo Galli, dedicata al tema dell’eroe in diversi ambiti e discipline.

Nelle prime pagine del volume Eroi dello sport Marchesini definisce l’oggetto della sua ricerca distinguendo tra il campione e l’eroe. Entrambi si caratterizzano per l’assoluta eccellenza delle loro prestazioni che suscitano ammirazione, ma questo non basta per fare di un campione un eroe. Oltre alle numerose promesse mancate, anche grandi protagonisti dello sport – come Indurain nel ciclismo o Phelps nel nuoto – pur accumulando vittorie e medaglie si sono fermati prima della soglia che si apre sullo spazio dell’eroismo sportivo. A differenza dei campioni, gli eroi sportivi assumono una rilevanza che esula dall’originario ambito di appartenenza, entrano nella memoria collettiva, ispirano ideali, rispecchiano valori e attese, costituiscono riferimenti culturali.
D’altronde, si può diventare eroi senza essere vincitori, come nel caso di Dorando Pietri. Il maratoneta carpigiano nel 1908 taglia per primo il traguardo nella gara dei giochi olimpici di Londra ma “perde la vittoria” (sono parole dello stesso Pietri, squalificato a causa dell’aiuto di medici, giudici e assistenti che lo sostengono in prossimità dell’arrivo). Tuttavia mentre Hayes, il vincitore della maratona, cade nell’anonimato, lo sconfitto Pietri “vince” sul piano dell’immaginario collettivo grazie alla trasfigurazione mitica dell’evento. La dimensione dell’eroe è infatti quella del mito, cioè di un sistema di comunicazione «definito non tanto dal suo oggetto, quanto dal modo in cui lo si costruisce e lo si trasmette» (p. 230).

pietriDeterminante nella costruzione dell’eroe sportivo è anzitutto la presenza di un pubblico che segue con grande passione le prodezze del campione e instaura una relazione stabile e fiduciaria con lui, identificandosi con le vicende che, nel bene e nel male, in campo sportivo e extrasportivo, punteggiano la sua carriera e la sua vita. L’eroicizzazione implica inoltre la presenza di un “cantore” capace di narrare le imprese del campione. Nel caso di Pietri è Arthur Conan Doyle – appassionato di sport e presente all’evento come cronista del “Daily Mail” – a celebrare la vicenda in un articolo che rappresenta il corrispettivo scritto della celebre immagine del maratoneta barcollante e distrutto dalla fatica: «Avvenne allora una cosa meravigliosa. Col viso d’un morto, Dorando si rialza, barcolla, le gambe riprendono lo strano incedere automatico: ricadrà? No. Oscilla, tentenna un istante, ed eccolo tagliare il traguardo, raccolto da venti braccia amiche! E’ arrivato all’estremo limite delle forze umane! Mai alcun romano dei primi giorni gloriosi si comportò meglio di Dorando alle Olimpiadi del 1908» (p. 233). Con il suo articolo, il creatore di Scherlock Holmes perfeziona e universalizza l’eroicizzazione di Pietri, trasformandolo in una celebrità mondiale ingaggiata, e profumatamente pagata, per le sue esibizioni in Europa e in America. I maggiori giornali scrivono di lui, il personaggio è acclamato ovunque e il pubblico accorre per vederlo in azione.

Passando in rassegna numerose esperienze sportive, Marchesini analizza gli aspetti culturali, i registri espressivi e i codici comunicativi che alimentano le retoriche della mitografia sportiva, in relazione ai contesti politici e sociali, alle dinamiche specifiche degli sport, al loro carattere individuale o collettivo, alle modalità della loro narrazione.
Un capitolo del saggio è dedicato al mondo classico, nel quale lo sport assume già una dimensione strutturata e caratteri tipici dei fenomeni sportivi moderni (professionismo, tifo, ideologia atletica, celebrazione dei vincitori ecc.). L’attenzione è rivolta però prevalentemente alla contemporaneità in quanto è la società di massa a favorire il radicamento, la diffusione e la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo, in un processo di «familiarizzazione» (p. 8) che lo rende sempre più pervasivo e che si intreccia con la vita quotidiana, con la dimensione politica, le dinamiche sociali, la sfera economica.

Nel primo scorcio del Novecento, i temi che fondano la rappresentazione eroica di figure come Pietri, impegnate in corse di fondo che comportano grande sofferenza, e dell’epopea degli albori del ciclismo, lo sport allora più popolare, sono legati alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure, difficili, povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale. Al pubblico che segue il Giro d’Italia o la Grande Boucle, su strade sterrate in tappe impervie e interminabili, il ciclismo «appare come una variante della lotta per la vita che coinvolge la maggioranza dei lavoratori che, in quegli anni, faticano “da sole a sole” nelle campagne (cioè dall’alba al tramonto), 12-14 ore nelle fabbriche, sette giorni su sette la settimana, in attesa di un avvio di legislazione sociale che interviene solo al principio del Novecento a disciplinare i casi più clamorosi di sfruttamento selvaggio» (pp. 78-79).

coppi-bartaliNel secondo dopoguerra, sono Gino Bartali e Fausto Coppi ad incarnare nuovamente lo sport della fatica come metafora della ricostruzione dopo le tragedie del conflitto mondiale. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico e “razionalista” Coppi).
In un contesto profondamente mutato – quello di un’Europa che sembra «appagata dai risultati di un benessere in continua espansione, che rende la bicicletta un oggetto antiquato» (p. 126) – occorrono altri ingredienti per costruire il mito. Se la grandezza di Coppi veniva esaltata con toni epici e favolistici dai radiocronisti e giornalisti dell’epoca (nel linguaggio sportivo prevaleva il campo metaforico del “volo” o della “regalità”, con espressioni come “dominare”, “librarsi”, “aquila”), le immagini utilizzate per descrivere Eddy Merckx – il ciclista in assoluto più vincente nella storia del suo sport: 445 vittorie tra il 1966 e il 1978 – esaltano invece la potenza atletica pura, con iperboli quali “mostro”, “robot”, “marziano”, «tendenti a suscitare ammirazione e sorpresa nell’ordine dei valori “tecnico-avveniristici”» (p. 126).
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

Oltre al ciclismo, lo sport più popolare nella prima metà del Novecento è il pugilato. Progressivamente addomesticata nella sua originaria carica di violenza e caratterizzata da contenuti di grande raffinatezza tecnica, nell’immaginario collettivo la boxe rimane comunque prevalentemente legata alla «messinscena del corpo forte» (p. 95). Se nel ciclismo il corpo si espone senza nascondimenti sul “cavallo di ferro”, nella boxe il corpo dell’atleta viene portato in prima scena, in uno scontro da solo a solo. Definito da Albert Camus come «lo sport assolutamente manicheo», un rito che semplifica tutto, il bene e il male, il vincente e il perdente, il pugilato mantiene un seguito popolare sino agli anni Sessanta-Settanta, segnati in Italia dalle figure di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti. Come ricorda Marchesini, il 17 aprile 1967 la sfida mondiale tra Benvenuti e Griffith al Madison Square Garden, titolo dei pesi medi in palio, fu trasmessa dalla RAI in diretta solo radiofonica «per non compromettere, a causa dei fusi orari, il sonno degli italiani e le loro capacità lavorative dell’indomani. Il miracolo economico da un po’ di tempo scricchiola e bisogna evitare di incentivare l’assenteismo in fabbrica e negli uffici. Nonostante le preoccupazioni educative e moralizzatrici della RAI monopolista, in più di 15 milioni quella notte puntano la sveglia e si alzano per ascoltare la radiocronaca del trionfo dell’italiano condotta da Paolo Valenti» (p. 98).
L’autore dedica ampio spazio anche alla figura di Cassius Clay, dai primi successi, all’adesione alla fede islamica, al rifiuto di arruolarsi nell’esercito e di partire per la guerra in Vietnam, sino all’incontro con Foreman per il titolo mondiale dei massimi: il 30 ottobre 1974 il pubblico che segue il match (60 mila persone) è tutto con lui «così come i neri di tutto il mondo, in una diretta televisiva che per l’epoca riuniva una platea infinita: 700 milioni di persone». All’ottavo round Muhammad Ali atterra Foreman e si conferma l’eroe non solo di uno sport che quel giorno «tocca vertici mai prima e mai più in seguito raggiunti di partecipazione emotiva, ma anche di ideali di libertà e giustizia» (pp. 219-220).

Quarant’anni prima, era stato il fascismo a utilizzare politicamente le potenzialità del pugilato, sfruttando l’immagine eroica di un altro peso massimo, il friulano Primo Carnera, «capace di sedurre affascinare eccitare il pubblico come una star del sistema divistico» (p. 159). Un capitolo del saggio di Marchesini è dedicato al rapporto tra lo sport e i regimi totalitari, i primi a cogliere le opportunità di controllo delle masse offerte dalla loro passione per lo sport. Il fascismo dà forma all’ideologia dell’“atletismo politico”: il coraggio, la lotta, la forza, l’agonismo sono valori che vengono piegati alla logica del regime e riassunti in una rappresentazione del corpo che mira alla definizione dell’“uomo nuovo” fascista. Oltre a Carnera, che esemplifica in modo evidente l’uso dello sport a fini propagandistici e di ricerca del consenso, altre figure che corrispondono alle aspettative del regime acquisiscono profili eroici: ciclisti come Bottecchia e Binda; Beccali, che trionfa nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932; piloti come Nuvolari e Varzi; i calciatori guidati da Pozzo che conquistano il titolo mondiale nel 1934 e nel 1938.

jesse_owens_berlino_1936Anche la Germania nazista imbocca la strada della mistica sportiva. Ma all’esaltazione dello sport come arena nella quale dimostrare la potenza del regime e la superiorità della razza ariana, culminata nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, tocca una micidiale eterogenesi dei fini: come è noto, a Berlino Jesse Owens – con le sue quattro medaglie d’oro – si afferma come “contro mito”, il “lampo d’ebano” che contraddice col suo stesso corpo, il colore della pelle e una straordinaria forza atletica i principi dell’ideologia hitleriana. Qualche anno dopo, al tempo dell’occupazione della Francia, il nazismo andrà incontro ad un altro inatteso fallimento nel tentativo di umiliare i francesi, oltre che sul piano militare, su quello della simbologia sportiva. Marchesini dedica pagine dense e appassionate alla vicenda del pugile Marcel Cerdan, un francese figlio di pieds-noir. Il 20 settembre 1942 i nazisti organizzano un incontro tra Cerdan e lo spagnolo Josè Ferrer, campione in carica dei welter: «Ferrer sale sul ring avvolto in una bandiera nazista e i suoi secondi indossano l’uniforme della gioventù franchista», «mentre i 16 mila spettatori, quasi in un mormorio, intonano la marsigliese nonostante la presenza di molti alti ufficiali nazisti a bordo ring»; Cerdan domina l’incontro e viene «acclamato come un liberatore dalla folla in delirio» (p. 102).

Nel campo opposto, l’Unione Sovietica non esprime in quegli anni una significativa mitologia sportiva, anche per la diffidenza diffusa nel movimento socialista, sin dalle origini, verso lo sport, considerato un fenomeno borghese, destinato a “distrarre” le masse e a ostacolare la loro presa di coscienza politica. Negli anni dello stalinismo è il lavoro che assurge a mito nella esemplificazione estrema di Stachanov e Marchesini coglie giustamente il nesso tra lo stachanovismo e l’interesse per lo sport manifestato nel dopoguerra dall’Urss e dai paesi satelliti. Attraverso Stachanov «si fa strada nell’immaginario collettivo sovietico l’idea che il primato in quanto tale è possibile e accettabile, se inserito nel progetto di educazione e formazione dello spirito pubblico nazionale, e se obbedisce al ruolo di dimostrazione dei risultati che il socialismo reale rende concreti a vantaggio della comunità». Dopo Stachanov e attraverso la guerra, «nel pantheon d’oltrecortina» il testimone passa dal campione del lavoro al campione dello sport: «tramonta lo stachanovismo ma si afferma il culto dell’individualità straordinaria» (p. 164). Un culto tanto più importante nel momento in cui l’Urss viene ammessa alle Olimpiadi (per la prima volta a Helsinki nel 1952) e deve quindi dimostrare, anche sul piano sportivo, di saper competere con il capitalismo. Gli eroi sportivi sovietici o di altri paesi dell’Est (come Zatopek, Brumel, Bubka, Borzov e molti altri delle discipline olimpiche, nominati da Marchesini, ai quali si dovrebbero aggiungere alcuni calciatori come Jascin) vincendo e stabilendo primati difendono la causa del proprio paese, secondo quanto teorizzato dai dirigenti del movimento sovietico.

Tommie Smith John CarlosMolti altri esempi di “eroismo sportivo”, descritti in modo puntuale da Marchesini, mostrano le diverse sfaccettature del fenomeno e dei personaggi che lo hanno incarnato.
Le olimpiadi sono il palcoscenico di imprese che danno vita a nuovi eroi. A Roma nel 1960 Livio Berruti è un ragazzo “normale” che nulla ha dell’eroe, ma si trova vincere in una contingenza particolare (l’Italia del miracolo economico) che consente la trasfigurazione mitica; Abebe Bikila, primo africano a vincere un oro olimpico, diventa simbolo del «riscatto da condizioni di povertà e di emarginazione» di un continente «più di ogni altro brutalmente saccheggiato» dal colonialismo (p. 91). Nel 1968 a Città del Messico, in un contesto infiammato dai movimenti di contestazione, sul podio dei 200 metri Tommie Smith e John Carlos levano il braccio col pugno guantato del Black Power, un gesto che denuncia le intollerabili condizioni in cui vivono gli afroamericani. Tuttavia, secondo Marchesini, sono “eroi perdenti”: sanzionati pesantemente dai vertici olimpici, subiscono l’oblio istituzionale e l’emarginazione in una «società disposta a garantire rispetto solo in cambio di successi sportivi e sottomissione all’ideologia dominante» (p. 217).

In alcuni casi, la dimensione eroica non è connessa alla forza ma all’estro e alla fragilità. In Brasile, il paese che ha fatto del calcio una religione laica, al mito di Pelè (il calciatore «”apollineo”, cioè perfetto, esemplare, da manuale») si contrappone quello di Garrincha, soprannominato «torto» o «zoppo» a causa del «bacino visibilmente deviato» e della «deformità delle ginocchia»: il suo calcio è «”dionisiaco”, sovrabbondante, tutto genio e sregolatezza», basato sul dribbling con il quale irride l’avversario grazie a una finta che sembra quasi favorita dal suo difetto fisico. Dopo una lunga decadenza «fatta di depressione, alcol, ostinazione a giocare ancora in squadre sempre meno titolate», la sua morte «è annunciata come la scomparsa della “gioia del popolo” (a alegria do povo), secondo il titolo del film girato nel 1962 su di lui […] da Jaquin Pedro de Andrade, uno dei capofila del cinema novo» (pp. 187-188).

Oltre alle individualità, nel saggio di Marchesini spicca la dimensione eroica collettiva legata in particolare ad alcuni sport, come il rugby (è il caso ad esempio degli All Blacks neozelandesi, capaci di suscitare una forma di riconoscimento collettivo che supera le barriere razziali) e il calcio, dal “Grande Torino” che, all’apice delle vittorie, va incontro alla tragedia a Superga nella notte del 4 maggio 1949 (per la tifoseria granata Superga rimane il tempio di una sorta di culto civile) alla squadra del Manchester United che precipita in aereo il 6 febbraio 1958 (non a caso Bobby Charlton, miracolosamente sopravvissuto all’incidente, diventerà l’eroe non solo dell’Old Trafford, lo stadio della squadra, ma dell’intero paese, guidando la nazionale inglese alla vittoria nei mondiali del 1966).

oldtrafford113In diverse pagine del saggio l’autore ritorna sul tema della morte precoce che contribuisce ad eternizzare la grandezza dell’eroe, evidente negli sport motoristici, in cui il rischio è più presente (si pensi a Ayrton Senna, idolo nazionale in Brasile e pilota più amato dagli appassionati di automobilismo), o nelle vicende di campioni del ciclismo come Coppi e Pantani e del calcio come George Best (l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 in seguito a una cirrosi epatica per alcolismo, gli è intitolato l’aeroporto di Belfast e la sua immagine viene stampata su una serie limitata di banconote emessa dalla Ulster Bank). A non dimenticare i campioni morti servono stele, colonne votive, lapidi, busti che punteggiano le strade percorse o campeggiano nei luoghi che hanno conosciuto le loro vittorie. A questa “statuolatria”, come la definisce Marchesini, si accompagna la “stadiolatria” ovvero la rilevanza assunta nei contesti urbani del “monumentale sportivo”: stadi, piscine, palasport, villaggi degli atleti «sono i templi indispensabili all’eroicizzazione dell’atleta vincente, i luoghi sacri in cui celebrare i rituali del culto che ogni quattro anni trova nelle olimpiadi la sua massima espressione» (p. 8).

Attraverso queste ed altre storie si snoda il racconto di Marchesini che si apprezza per la qualità della scrittura, per i puntali ritratti di personaggi noti e di figure inconsuete (almeno per il lettore italiano, si veda tra l’altro il capitolo dedicato al cricket), per la ricchezza di riferimenti storici. Il taglio della ricerca, attenta agli intrecci tra la dimensione sportiva e quella sociale, tende a privilegiare figure assunte come modelli di identificazione collettiva con una funzione unificante di carattere nazionale. Si tratta di fenomeni di indubbia rilevanza, che lasciano però in ombra altri processi di “eroicizzazione” sportiva, costruiti e vissuti come modelli alternativi rispetto alle narrazioni condivise, o figure di “antieroi” riconducibili ad una dialettica con la dimensione epica dello sport, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Anche sul ruolo delle donne, che secondo Marchesini in ambito sportivo raramente innescano dinamiche di identificazione e mitografie (tema discusso nel capitolo dedicato all’“eroismo al femminile”) rimangono aperti percorsi di ricerca in una prospettiva di genere.

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