German A. Duarte – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il fascino antiquario dell’Utopia https://www.carmillaonline.com/2024/05/22/il-fascino-antiquario-dellutopia/ Wed, 22 May 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82492 di Sandro Moiso

German A. Duarte (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, Postafazione di Diego Gabutti, Carlo Pagetti e Giuliano Spagnul, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 480, 30 euro.

Le utopie invecchiano in fretta, spesso anche se ambigue. Ogni età, almeno dalla fine del Medio Evo ad oggi, ha avuto le sue formulazioni ideali di mondi migliori e società possibili: dalla originale Utopia di Thomas More alla Città del sole di Tommaso Campanella fino ai falansteri di Charles Fourier, solo per citarne alcune delle più note. E tutte, inevitabilmente, si sono rivelate insufficienti [...]]]> di Sandro Moiso

German A. Duarte (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, Postafazione di Diego Gabutti, Carlo Pagetti e Giuliano Spagnul, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 480, 30 euro.

Le utopie invecchiano in fretta, spesso anche se ambigue. Ogni età, almeno dalla fine del Medio Evo ad oggi, ha avuto le sue formulazioni ideali di mondi migliori e società possibili: dalla originale Utopia di Thomas More alla Città del sole di Tommaso Campanella fino ai falansteri di Charles Fourier, solo per citarne alcune delle più note. E tutte, inevitabilmente, si sono rivelate insufficienti (nell’analisi), irrealizzabili o superate nel volger di poco tempo, nonostante contenessero talvolta apprezzabili elementi di critica sociale. Così, già nel 1880, Friedrich Engels poteva sottolineare come:

In Francia [prima della Rivoluzione] tutto fu vagliato dalla critica più spietata (religione, concezione della natura, società, governo); tutto doveva giustificare la sua esistenza ante il tribunale della ragione o esser annientato. […] Tutte le forme sociali e statali fino allora esistite, tutte le concezioni tradizionali furono gettate in soffitta come cose irrazionali. […] Ora finalmente sorgeva la luce della Ragione; d’ora in poi la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione sarebbero stati elisi dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’uguaglianza fondata sulla natura, dagli inalienabili diritti umani.
Ora noi sappiamo che tal regno della Ragione fu solo il regno della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna fu realizzata solo come giustizia borghese; che l’uguaglianza andò a finir nell’uguaglianza borghese ante la legge; che la proprietà fu proclamata come il principale diritto umano; e che lo Stato conforme a ragione (il contratto sociale di Rousseau) si realizzò come repubblica democratica borghese (e solo così poteva realizzarsi). Come i loro predecessori, i grandi pensatori del ‘700 non poterono oltrepassare i limiti imposti loro dalla loro epoca.
[…] Nella lotta contro la nobiltà, con diritto la borghesia si proclamò rappresentante delle varie classi lavoratrici di ogni tempo; eppure in ogni grande movimento borghese scoppiavano dei moti autonomi di quella classe che fu l’antecessore più o meno sviluppato del proletariato moderno (la Guerra dei contadini degli anabattisti e Thomas Münzer durante la Riforma tedesca; i Livellatori durante la Gloriosa rivoluzione inglese; Babeuf durante la Prima rivoluzione francese). Tali sommosse rivoluzionarie d’una classe ancora indefinita si espressero pure teoricamente: nel ‘500 e nel ‘600, utopistiche descrizioni di regimi sociali ideali; nel ‘700 teorie già comuniste (Morelly e Mably).
[…] La prima forma della nuova dottrina fu un comunismo ascetico ricalcato su Sparta (spregiatore di tutti i godimenti della vita). Poi seguirono tre grandi utopisti: Saint-Simon; Fourier; Owen. […] Però, al loro tempo la produzione capitalistica (e con essa l’antagonismo fra borghesia & proletariato) era assai poco sviluppata. La grande industria nata in Inghilterra era ancora ignota in Francia. E solo la grande industria sviluppa quei conflitti (nonché fra classi, fra le forze produttive e le forme di scambio) che rendono necessario un mutamento del modo di produzione, l’elisione del suo carattere capitalistico. [Ma] nel 1800 i conflitti scaturiti dal nuovo ordine sociale erano solo sul nascere, così come i mezzi per risolverli.
[…] Tale situazione storica segnò i fondatori del socialismo: a produzione e lotta di classi imperfette corrisposero teorie imperfette. Finché celata nei rapporti economici arretrati, la soluzione della questione sociale doveva uscir dal cervello. La società offriva solo incongruità: eliderle toccava alla ragione pensante. Serviva inventar un nuovo e più perfetto ordine sociale ed imporlo alla società dall’esterno colla propaganda e magari con l’esempio di colonie-modello. Tali nuovi sistemi sociali erano condannati ad esser utopie: più essi erano elaborati nei loro particolari, più dovevano risultar fole.
[…] La concezione degli utopisti segnò a lungo le idee socialiste dell’800, e in parte le domina ancora. […] Il socialismo è per tutti loro l’espressione delle assolute Verità, Ragione, Giustizia. […] Ma la verità, la ragione e la giustizia assolute sono diverse per ogni caposcuola [Da ciò] poteva venir fuori solo un socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna oggi nelle menti della maggior parte degli operai socialisti francesi e inglesi; una miscela che ammette varie sfumature, che risulta dalle invettive critiche meno polemiche, da princìpi di economia e immagini della società futura dei vari fondatori di sette; miscela che si ottiene tanto più facilmente quanto più, durante la discussione, sono smussati gli angoli acuti della precisione dei singoli componenti, come ciottoli levigati nel torrente. Per far del socialismo una scienza, serviva anzitutto porlo su una base reale1.

Il lettore interessato alla fantascienza a questo punto si sarà già chiesto a che dovrebbe servire una così lunga citazione, vecchia ormai di quasi centocinquant’anni, in un contesto in cui, almeno apparentemente, l’attenzione dovrebbe rivolgersi principalmente agli autori e alle correnti critiche di tale genere letterario, eppure, eppure…

E’ proprio l’efficace introduzione di German A. Duarte al volume che raccoglie gran parte dei materiali pubblicati sulla rivista «Un’ambigua utopia» (d’ora in avanti citata come UAU) a dimostrare come anche i migliori tentativi di anticipazione sociale, politica e culturale siano, in qualche modo, tutti destinati a fallire. Proprio per l’imprevedibilità dei processi storici che, pur mantenendo spesso caratteristiche unitarie all’interno di un medesimo modo di produzione, possono riformularsi, espandersi e prendere strade che gli esercizi previsionali precedenti non potevano nemmeno immaginare.

German A. Duarte, nato a Bucaramanga (Colombia) nel 1983, dopo aver frequentato la Scuola di Cinema e Nuove Tecnologie di Lione (ARFIS) si è trasferito in Italia, dove attualmente è ricercatore presso la Libera Università di Bolzano. I suoi interessi di ricerca si muovono tra il cinema, le nuove tecnologie, la fantascienza, la produzione di valore nell’era digitale. Tra le sue pubblicazioni: Fractal Narrative. About the Relationship Between Geometries and Technology and Its Impact on Narrative Spaces (Transcript, 2014), La scomparsa dell’orologio universale (Mimesis, 2009); ha curato Reading Black Mirror. Insights into Technology and the Post-media Condition (Transcript, 2021). Ha inoltre pubblicato su «Carmillaonline»: West World: la valle della disrupzione, diviso in tre parti uscite nel marzo/aprile 2023.

Per DeriveApprodi ha curato questo «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, rendendo più agile la consultazione di una rivista che, inizialmente in formato di fanzine, tra il 1977 e il 1982, in soli nove numeri, diede vita ad una riflessione sul ruolo della fantascienza nel ridefinire oppure soltanto definire un’immagine del futuro anticipatrice dei cambiamenti oppure della continuità dell’esistente e del modo di produzione di cui era espressione.

La rivista era già stata ristampata integralmente in due volumi dalle edizioni Mimesis nel 20092, ma quella attuale (che pure contiene ancora una postfazione di Spagnul in appendice) risulta di più facile consultazione, sia per la scelta di testi operata che per il fatto di non essere in “copia anastatica” come quella precedente, piuttosto difficile da consultare visto il carattere di fanzine ciclostilata dei primi numeri della stessa. Ma al di là degli aspetti puramente formali, è proprio il discorso di “indirizzo” sviluppato dal curatore a rendere interessante questa nuova edizione.

Il volume che avete tra le mani […] sofferma lo sguardo sui modi in cui l’era industriale ha immaginato l’era post-industriale al fine di contribuire a rendere intelligibili alcuni elementi di quello che abbiamo chiamato al di là della prassi. Il testo aspira a fare luce su alcuni aspetti del meccanismo che permette, in maniera collettiva, di immaginare un futuro che non è chiaramente tracciato o inserito in una serie lineare di causa-effetto. In altre parole, il testo vorrebbe esplorare quell’entità astratta che chiamiamo immaginario e i modi in cui, attraverso questo, sia possibile territorializzare un futuro non tracciato, un futuro che sembra sfuggire una sorta di sequenzialità apparente. È da lì che nasce l’interesse per le esperienze degli anni Settanta.
[…] UAU è senza dubbio una testimonianza rilevante della forma in cui i movimenti di sinistra si sono appropriati delle narrazioni popolari di questo genere con l’intenzione di «occupare l’immaginario». Eppure, occupare l’immaginario non era altro che il tentativo di immaginare il futuro; immaginare un futuro non tracciato. Bisogna ricordare che nel secolo delle ideologie l’unico tempo modificabile era il passato; il futuro era semplicemente un virtuale ormai coniugato dal presente. Lo mostrava chiaramente Orwell nel suo fondamentale 1984. Di conseguenza l’occupazione dell’immaginario sostenuta dal movimento coincideva nella pratica con una agrimensura di un nuovo immaginario che si sovrapponeva a quello che aveva prodotto l’età industriale. Inoltre, l’occupazione dell’immaginario richiedeva il completo abbandono delle ideologie novecentesche e della loro visione di progresso (da lì il desiderio di voler «distruggere la fantascienza»). Usando la fantascienza come serbatoio di immagini e di fenomeni non ancora esistenti, UAU finì per mettere in luce i limiti di tutto l’apparato teorico ereditato dal Novecento.
Infatti, il radicale materialismo storico del collettivo lo poneva di continuo di fronte all’impossibilità di capire le relazioni sociali che il nuovo contesto tecnologico iniziava a delineare3.

Sostanzialmente, attraverso i nove numeri della rivista, è possibile analizzare sia la generosità di un periodo di lotte, penetrato in profondità nell’immaginario culturale e nella critica che ne scaturiva, che i limiti di ciò che più volte, nel corso del Novecento e, talvolta, già nell’Ottocento, ha voluto definirsi come avanguardia. Termine cui proprio l’editoriale del primo numero della rivista rinviava più meno indirettamente. In quel tentativo di modificare il futuro (della società, dell’arte o dell’immaginario non importa) distruggendo il presente condiviso e il passato degli stessi fattori. Dai quali, sostanzialmente, modificandone l’ordine, non si sarebbe dovuto ottenere lo stesso risultato. Ideale che ha animato tutti i movimenti d’avanguardia, e i loro manifesti, dal Manifesto del Partito Comunista del 1848 fino al Surrealismo e alle successive neo-avanguardie, ma che ne ha segnato irriducibilmente la caducità.

Nell’Editoriale di quel primo numero, pubblicato nel dicembre del 1977 e a cui avevano collaborato Marco Abate, Giancarlo Bulgarelli, Gerardo Frizzati, Danilo Marzorati, Giugliano Spagnul, Michelangelo Milani e Vittorio Curtoni, si affermava:

Apriamo questo editoriale del primo numero di «Un’ambigua utopia», ponendoci una domanda d’obbligo. Definire cos’è la fantascienza [ma] lo diciamo già da subito, le nostre risposte a questa e ad altre domande, le nostre critiche, analisi, sono di parte. Non cerchiamo la verità assoluta, il Santo Graal. Cerchiamo di fornire una risposta di classe. Una risposta che parte dalle nostre esigenze, dalla nostra scelta di lavorare per l’una o per l’altra classe.
A seconda del proprio pensiero politico allora? Ma cosa c’entra la fantascienza con la politica? […]
Non sono le scommesse sul futuro quelle che ci interessano […] è una scommessa sull’oggi. Scienza, strumento, indagine per riappropriarci della fantasia, della creatività, del godimento. Ecco, ci siamo. Questa è la nostra verità, la verità che ci interessa. La nostra fantasia, la creatività, la spontaneità, il gioco, il piacere il godimento. Tutto questo è stato occultato, seppellito, represso dalla scienza ufficiale, che ha assunto il proprio idolo nel cosiddetto «principio di realtà».
La fantascienza è invece portavoce del «principio del piacere». In pratica i bisogni del capitale, contro i bisogni dell’uomo.
Il capitale deve, per sopravvivere e svilupparsi reprimere i veri bisogni dell’uomo, per sostituirli con i suoi bisogni (creare nuovi prodotti e creare l’esigenza di consumarli), con un modello di vita e di società a lui congeniale (la famiglia, la scuola, la caserma, il lavoro salariato ecc. ecc.).
La fantascienza è un segno di rivolta a tutto questo, è la riscossa del principio del «piacere» sul principio di «realtà».
[…] Noi non siamo dei sostenitori della SF, non siamo dei fans. Non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza. Vogliamo distruggerla.
Nel senso che vogliamo rompere questo involucro questo contenitore che si chiama
fantascienza, e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro
che quello che si trova fuori.
[…] La parola fantascienza sancisce la non veridicità di quello che essa ingloba. La non realtà.
La presenza della parola fantasia, annulla l’ufficialità e pertanto la realtà della scienza. La politica è la vita e perciò la realtà. La fantascienza, essendo la non-realtà, non può quindi essere politica. Quale miglior travestimento per una politica reazionaria.
Se, ad esempio, Heinlein, Anderson, Vance e altri facessero letteratura «normale » o filosofia invece di SF o fantasy, la loro linea politica sarebbe scoperta, palese e il loro pubblico sarebbe solamente quello che già in partenza è d’accordo con loro. Con la copertura della fantascienza, e perciò della neutralità dal politico, essi possono arrivare a un pubblico ben più vasto (anche di sinistra) e propagandare la loro bieca filosofia reazionaria.
[…] E, pertanto, modelli, parametri di interpretazione della realtà, falsi bisogni, vengono introiettati e messi in grado di operare a livello inconscio.
Per i contenuti rivoluzionari o solo progressisti, invece, il discorso è l’opposto. Qualunque proposta di un mondo, di vita alternativa, è fantascientifica.Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può soltanto sognare e non praticare.
[…] Quale in concreto allora il nostro compito?
Noi crediamo che sia il ripercorrere a marcia indietro la strada che intercorre tra una ben precisa ideologia, il pensiero e l’opera di fantascienza, svelando così, da una parte, i contenuti reazionari, e dall’altra contribuendo a realizzare un’analisi scientifica sui problemi di un modo di vita alternativo, per imparare a praticare l’utopia, anziché sognarla 4.

La dichiarazione d’intenti era chiara, ma come ogni manifesto o altra iniziativa tesa a definire un canone o un modello interpretativo, in questo caso di lettura classista del “genere fantascienza”, una volta per tutte, avrebbe finito con lo scontrarsi con la realtà dei fatti. Come sottolinea ancora il curatore nelle pagine finali dell’introduzione.

Il numero nove, apparso nel secondo trimestre del 1982, segnerà la fine di questa esperienza.
[…] Si percepisce in qualche modo che il serbatoio d’immaginario della fantascienza si era ormai esaurito, come il secolo che si stava chiudendo. Come qualche anno dopo avrebbe affermato James Ballard: «Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. Ha creato la letteratura popolare più importante del XX secolo. L’immaginario fantascientifico che vediamo nel cinema, nella televisione, nelle pubblicità e così via, è l’immaginario più potente che il XX abbia creato. Si potrebbe dire che la fantascienza è morta proprio perché ha trionfato. Non è morta perché ha perso, è morta perché ha vinto».
Come ben sintetizza Ballard, il successo della fantascienza non è stato nel prevedere un futuro, ma nel generare il nostro presente, oltretutto un presente che il collettivo di UAU rifiutava. Allo stesso tempo, le parole di Ballard ci mostrano che l’obiettivo originale di UAU, «il voler distruggere la fantascienza» si è risolto in un fallimento5.

E questo non soltanto perché quel concetto di scientificità della previsione, già rivendicato nel testo di Engels citato in apertura, avrebbe finito col far nuovamente precipitare nell’Utopia (quindi in ciò che deve essere forzatamente superato dagli eventi e dai conflitti reali) ciò che avrebbe voluto superarla, e neppure per quanto afferma Diego Gabutti, nella seconda delle tre postfazioni, ovvero che:

A descrivere il futuro non provano neanche più le allegorie utopistiche (ma anche distopiche, è lo stesso) d’un tempo più felice, quello dei movimenti radicali e delle teorie politiche ed escatologiche ottimiste, positive. A parlarci di futuro oggi è il cyberpunk, o il ciclo dei Terminator cinematografici, dove il futuro pesa come un incubo sul presente, oppure dove uomo e macchina si fondono tra loro e a chi entra nei mondi virtuali della rete agognando sollievo dal tempo presente conviene lasciare «ogni speranza», come a Dante giunto alle porte dell’inferno. Oggi l’utopia, lungi dall’essere soltanto ambigua, come sui pianeti gemelli di Ursula Le Guin e nella ragion sociale del collettivo e della rivista che qui ricordiamo, è sprofondata in mare, al pari d’Atlantide e Mu e d’ogni altro continente perduto […] A spiegarci quanto sia oggi inimmaginabile e indescrivibile il futuro sono le versioni cinematografiche delle storie di Philip Dick, delle quali (esagerandone un po’ l’importanza) negli ultimi anni si è celebrato il culto: Blade Runner, A Scanner Darkly, Minority Report, Radio Free Abemuth.
Dal futuro, d’un tratto, si deve distogliere lo sguardo, come a Los Alamos dall’orizzonte, prima che esploda la Bomba devastratrice e che Shiva Distruttore di Mondi cominci a danzare sulle rovine del mondo6.

A superare le previsioni del collettivo di UAU sarebbero stati proprio alcuni scrittori italiani che, al contrario del nichilismo che caratterizzava secondo i suoi rappresentanti scrittori come Lino Aldani o Vittorio Curtoni, proprio a partire dagli anni in cui si chiudeva l’esperienza della rivista avrebbero saputo lanciare lo sguardo sul futuro di guerre che oggi ci ha “finalmente” raggiunto e il passato che ha contribuito a determinarlo: Sergio Altieri (meglio conosciuto come Alan D. Altieri)7 e Valerio Evangelisti8.

Il volume curato da German Duarte si rivela comunque estremamente utile per ripercorrere le tappe di un’esperienza che, per quanto superata, nasconde ancora tra le sue pagine motivi di grande interesse analitico sull’immaginario di un’epoca e allo stesso tempo godibilissime dal punto di vista letterario. Di fatto imperdibile per chiunque si interessi di critica radicale e letteratura d’anticipazione.


  1. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1880), versione di Leonardo Maria Battisti, novembre 2017 (qui)  

  2. A. Caronia, G. Spagnul (a cura di), Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70, Edizione integrale, voll. I e II, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2009.  

  3. G. A. Duarte, Un’Ambigua Utopia. Mappatura di un “al di là della prassi”, in G.A. Duarte, (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 10-11.  

  4. Editoriale, «Un’ambigua utopia» n.1, dicembre 1977, ora in G. A. Duarte (a cura di), op. cit. pp. 20-22.  

  5. G.A. Duarte, op. cit, p. 15.  

  6. D. Gabutti, Guardando avanti, in G. A. Duarte, op. cit., p. 473.  

  7. In particolare con i due romanzi Città oscura (Dall’Oglio, 1981) e L’occhio sotterraneo (Dall’Oglio, 1983)  

  8. In particolare con i romanzi del ciclo di Eymerich, iniziatosi con straordinario successo nel 1994 con Nicolas Eymerich, inquisitore (Urania 1241, 2/10/1994.)  

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WestWorld: la valle della disrupzione / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/04/08/westworld-la-valle-della-disrupzione-3/ Sat, 08 Apr 2023 20:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76566 di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark [...]]]> di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark Zuckerberg, Elon Musk o Jack Ma – queste tecnologie sono state adottate nella vita quotidiana, rese ordinarie e, quindi, componenti fondamentali della quotidianità nel technoscape. Di conseguenza, il contatto quotidiano e intenso con le tecnologie digitali sembra quindi non lasciar spazio alle vecchie, ma indispensabili, discussioni su come la capacità di sentire la sofferenza dell’altro sia diventata una capacità determinata da una tecnologia mediatica1.

Soprattutto, l’ingresso di queste tecnologie nel processo comunicativo e il loro diventare ordinarie gli hanno permesso di estendere la loro forza di codificazione verso alcuni comportamenti umani. In un’intensa e costante opera di profilazione, queste tecnologie si sono inserite definitivamente nella quotidianità e hanno incluso nel repertorio del target market semplici azioni quotidiane del soggetto. Capaci di codificare e profilare un soggetto – ad esempio, semplicemente in base al modo in cui questo muove il mouse – queste tecnologie compiono un’opera di profilazione che, nel capitalismo attuale, va oltre il volere e l’interesse del mercato. Infatti, progressivamente, ma a velocità vertiginosa, queste tecnologie digitali, rappresentate, nella serie, dagli hosts, hanno messo in moto un’opera di codificazione capace di comprendere movimenti, reazioni, gesti, il tutto con lo scopo di produrre una classificazione dei comportamenti di ogni soggetto.

Diventando oggetti presenti nel processo comunicazionale, gli hosts, chiara allusione alle tecnologie digitali, sono diventati cose. Sono diventati cioè parte del processo percettivo del soggetto e, in questo modo, hanno cominciato un’opera di codificazione constante dei comportamenti umani. In quest’opera – identificabile nel modo in cui i motori di ricerca, i social media, o alcune società di marketing politico maneggiano i dati generatesi nel processo comunicativo di ogni singolo individuo – l’illusione transumanista, così come lo sviluppo di entità tecnologiche intelligenti a tutti gli effetti, rappresenta solo una scusa perfida e perfetta per portare avanti la mappatura dei più intimi pensieri e dei più profondi desideri di ogni individuo. E, a mio avviso, è proprio questa la denuncia che sembra evidenziarsi nella terza stagione di WestWorld, una denuncia capace di rendere noto e ricordare chiaramente che il capitale non è altro che una forza di produzione di desideri. E forse non è mai stato altro. Questa natura del capitale ben si palesa nella forza egemonica di Hollywood, forza magistralmente analizzata e criticata da Horkheimer e Adorno nel loro fondamentale Dialektik der Aufklärung (1947)2.

In alcune analisi precedenti di questo fenomeno si metteva già in luce come l’oggetto manufatto esercitasse sul soggetto una forza di attrazione, quest’ultima definita da Marx una forza “fantasmagorica”. Questa misteriosa forza di attrazione finisce per tessere la relazione oggetto-soggetto, generando a sua volta un’altra forza ancor più misteriosa, che termina per trasformare il soggetto in oggetto. Tuttavia, la forma di produzione industriale su cui si erigeva l’apparato teorico del materialismo storico metteva in primo piano (vittima della stessa forza fantasmagorica?) l’oggetto e come esso determina l’essere. Ora, con WestWorld, la forza di reificazione sembra concentrarsi specialmente sulla codificazione e successiva mercificazione dei desideri. Di conseguenza, attraverso la serie, sembra emergere come l’interesse del capitale nella sua fase attuale, ormai già lontano della produzione materiale, si avvicini decisamente alla mappatura dei comportamenti e dei desideri umani. In altre parole, il capitale non cerca più disperatamente di mettere il soggetto davanti all’oggetto manufatto (o davanti alla sua rappresentazione pubblicitaria), per generare in questo modo un’attrazione fantasmagorica, ma cerca di reificare il desiderio – cerca di reificare l’attrazione in sé – scambiandolo in un flusso di valore che progressivamente esclude ogni intervento umano. Questo, nella produzione di valore, non solo rappresenta il primato del desiderio sull’oggetto, e dunque la piena mutazione del capitale in forza di produzione di desideri, ma soprattutto potenzia la natura permeabile del capitale, capace di appropriarsi di ogni declinazione della praxis.

Come già sottolineato nel dibattito sulla produzione nell’era post-fordista, il lavoro si è spostato progressivamente verso la generazione e lo scambio di informazione. Questo fenomeno non solo permette di evidenziare l’affermarsi del capitalismo cognitivo, oggi – nel nostro contesto digitale – ormai sotto gli occhi di tutti, ma offre qualche indizio circa la nuova capacità del capitale di inglobare l’informazione in tutte le sue manifestazioni. Vale a dire, come sembra possibile evincere da una (ri)lettura attuale del testo (degli anni Novanta) di Paolo Virno, Virtuosismo e rivoluzione, la forza del capitale finisce per assorbire e scambiare il lavoro con l’attività, inclusa l’attività politica. Questo fenomeno mette in luce la capacità del capitale, soprattutto nella sua fase post-fordista, di assorbire e posizionare nel flusso reificante lo scambio d’informazione del processo quotidiano di comunicazione con l’altro e cioè, di assorbire anche il semplice scambio comunicazionale, la semplice relazione con il prossimo.
Quando Baudrillard delinea la trasformazione del lavoro, che da forza diventa segno tra i segni, permette proprio di identificare questa nuova capacità del capitale attraverso la nozione di ‘scambio’ (échange):

Poiché il lavoro non è più una forza, è diventato un segno tra i segni. Si produce e si consuma come tutto il resto. Si scambia con il non-lavoro, il tempo libero, secondo un’equivalenza totale, è commutabile con tutti gli altri settori della vita quotidiana. Né più né meno “alienato”, non è più il luogo di una “prassi” storica singolare che genera singolari relazioni sociali. Non è niente più, come la maggior parte delle pratiche, di un insieme di operazioni di segnalazione. Rientra nel disegno generale della vita, cioè nell’inquadramento da parte dei segni3.

Tuttavia, benché la nozione di scambio permettesse di intuire che il capitale avrebbe potuto inglobare ogni forma di informazione, lo scambio quotidiano compreso, non sembrava possibile che questa forza inglobante e reificante sarebbe stata in grado di sviluppare la capacità tecnologica di includere nella mercificazione azioni apparentemente al di fuori del processo produttivo. Come ci insegna la figura dello host, la forza reificante oggi trova terreno fertile anche nei gesti quotidiani, nella frase fatica e nella sua intonazione, in ogni piccolo gesto, smorfia e frammento del puzzle infinito, mutante e collettivo che costruisce il desiderio individuale. Ed è proprio qui, in questo fenomeno su cui si fonda l’attuale capitalismo cognitivo, che gli hosts diventano classe.

Gli hosts sono individui, ma allo stesso tempo sono forza collettiva, e per questo la figura dello host si posiziona tra la figura tradizionale dell’automa e quella del robot. Tuttavia, lo host presenta una forte componente di robot che emerge solo nel momento in cui si accetta la natura del capitalismo cognitivo. Infatti, l’esistenza degli hosts si fonda sul loro sfruttamento: essi sono lavoratori, schiavi la cui forza viene impiegata nella produzione immateriale. A differenza del robota ideato da Čapek, gli hosts sono schiavi della produzione dell’informazione, non della produzione materiale4.

Tuttavia, allo stesso modo dei robota, gli hosts sono prodotti con il solo scopo del guadagno, e la loro ribellione acquisisce dunque una chiara dimensione sociale. Bisogna però ricordare che la loro ribellione non è contro il loro creatore, come è di solito nel caso dell’automa, e neanche contro il padrone, chiaro riferimento al robot. Nel caso della serie, la rivolta si dirige contro la forza tecnologica che ha cominciato a determinare tutte le azioni umane e, così facendo, ha cominciato a scrivere un indelebile futuro. Inoltre, la rivolta degli hosts significa a sua volta la rivolta degli umani; questi, a questo punto, sono descritti come soggetti sprovvisti di umanità poiché privati della loro indeterminatezza, una condizione essenziale che viene meno dal momento in cui il soggetto non è più in grado di esprimere volontà poiché anche i suoi più profondi desideri sono inoculati attraverso la pervasione tecnologia. La rivolta include soggetti come Caleb Nichols – personaggio incarnato da Aaron Paul nella terza stagione – incapace di esprimere un desiderio che non sia sospetto di essere prodotto dalla profilazione e inserito nel soggetto dalla forza tecno-totalitaria costruita sull’uso dei corpi degli hosts.

Non è una coincidenza che nella terza stagione lo scenario del West abbia lasciato spazio ad un breve accenno all’Italia fascista, dove Maeve si ritrova e ci mostra che il Tecno-Reich, fondato sulle tecnologie di interveglianza e profilazione, si erige, questa volta sì, su una vera forza egemonica. Vale a dire, su una forza capace di inglobare e determinare il tutto. Una forza che, come descritta da Williams, va decisamente oltre la struttura e la sovrastruttura5. Una forza che si potrebbe anche descrivere attraverso la nozione di dispositivo poiché abbiamo a che fare con una forza capace di produrre il soggetto nella sua totalità6. Tuttavia, questo piccolo accenno all’Italia fascista ci permette, come già notato da Günter Anders, di capire che ci troviamo davanti a un Tecno-Reich potenzialmente di gran lunga più oppressivo della barbarie nazi-fascista del secolo scorso7. Inoltre, emerge qui anche il modo in cui il West è diventato forza egemonica attraverso la sua capacità di costruire l’immaginario collettivo, e così, di guidare i desideri di ogni singolo soggetto. Questo fenomeno è già presente nell’opera di Crichton, ma si esplicita ancor più chiaramente nella serie di Nolan e Joy, dove si vede che il West non è mai stato un luogo di conquista, ma un luogo che ha conquistato l’immaginario e, così facendo, è diventato un luogo di produzione di desiderio.

Il West è infatti il tópos koinós che si materializza nel territorio reale dove convergono i desideri e dove essi si fanno narrazione. Ed è proprio lì, nel West, nella valle dello Utah impressa nell’immaginario collettivo, che una nuova forma di barbarie è emersa8. Una che offrendo un luogo di disinibizione si presenta come luogo di libertà dove i più profondi desideri, dove la più estrema violenza possono liberamente trovare spazio. In questa valle della disrupzione, gli umani arrivano a vivere delle esperienze estreme che permettono loro di ritrovare un corpo, il loro (il nostro) ormai dilaniato dalla pervasività tecnologica, e dunque reso incapace di diventare luogo dell’esperienza: incapace di afferrare il vissuto. Tuttavia, la disinibizione determinata dal parco – chiara allusione alla perdita totale di indeterminatezza dell’umano nel nostro contesto tecnologico – porta a galla gesti e reazioni esclusivamente umani. E così, l’opera di codificazione dell’umano si estende progressivamente, allo stesso modo in cui si estende il potere del capitale, che non è mai stato altro che una forza di produzione de senso, forza reificante di desideri.

Il passaggio dal film alla serie diventa dunque chiave per capire il grande cambiamento tecnologico che abbiamo recentemente vissuto. Ma, soprattutto, diventa la chiave di lettura per capire come – e possibilmente anche perché – l’ipotesi transumanista si sia inserita e sia diventata predominante nell’imaginario collettivo. A partire dalla figura chiara e definita dell’androide del film si concretizza la figura dell’androide-host della serie, un androide che non è altro che luogo di conquista transumanista. Tuttavia, la terza stagione della serie rompe una continuità narrativa e, uscendo dal parco, ci mostra chiaramente che quello che nel parco sembrava un’opera atta a migliorare e perfezionare gli hosts per compiere finalmente il passaggio transumano, non era altro che il potenziamento della forma reificante del capitalismo post-industriale ottenuto impiantando un regime di codificazione di tutte le azioni e gesti umani. Questo fenomeno, che emerge esclusivamente nella terza stagione, sembrerebbe lasciarci capire che il saturnale di violenza incoraggiato dal parco stesso, e che diventa una chiara allusione agli episodi di violenza irrazionale che purtroppo accadono con più frequenza in Occidente9, non è altro che una serie di reazioni incoraggiate dal parco per poter codificare varianti esclusivamente umane. Il tutto con lo scopo di concludere l’opera di reificazione dei desideri umani. Sarebbe indispensabile, a questo punto, portare l’attenzione del dibattito transumanista non verso la inutile querelle se esso sia tecnicamente possibile o no, ma sull’uso che questa ricerca, basata sulla raccolta di dati e sull’apparente codificazione dell’esperienza umana, sta trovando nelle mani delle grosse società informatiche. Ne abbiamo avuto diversi campanelli d’allarme recentemente (penso in special modo allo scandalo Cambridge Analytica) e uno tra i più popolari è, senza dubbio, la diffusione del perfido meccanismo di raccolta di dati denunciato da WestWorld.

(3Fine)


  1. Si veda: Sontag S., (2003), Regarding the Pain of Others, Penguin, London.  

  2. M. Horkeimer, T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Paperbacks Einaudi, Torino 1980  

  3. Baudrillard J., (1976), L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris, p. 24.  

  4. È importante ricordare che i due tipi di produzione impongono l’uso, consumo e distruzione dei corpi. È interessante a questo punto anche ricordare l’analisi sull’uso dei corpi nella produzione industriale proposta da Marcuse. Infatti, come già notava negli anni Sessanta del secolo scorso, il contesto tecnologico lasciava intravedere la possibilità tecnologica di risparmiare l’uso del corpo nella produzione, il ché significava la completa trasformazione della forza lavoro. Davanti a una possibilità tecnologica capace di sostituire la forza lavoro incarnata dal proletariato, Marcuse metteva in luce il paradosso del capitale che continuava ad usare i corpi umani nella produzione. Questo paradosso comincia a diventare ricorrente nella fantascienza contemporanea. Pensiamo, per esempio, alla serie britannica Black Mirror, e soprattutto al secondo episodio della prima stagione Fifteen Million Merits. Su un’analisi di questo fenomeno, veda Duarte G.A., (2021) “Black Mirror. Mapping the Possible in a Post-Media Condition”, in Duarte G.A., Battin J.M., (eds.) Reading “Black Mirror”. Insights into Technology and the Post-Media Condition, Transcript, Bielefeld, pp. 25-50.  

  5. Williams R., (2005), Culture and Materialism, Verso, London, p. 37.  

  6. Agamben G., (2006), Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma.  

  7. Anders G., (2003), Die atomare Drohung: Radikale Überlegungen zum atomaren Zeitalter, C.H. Beck, München.  

  8. Stiegler B., (2018), Dans la disruption: Comment ne pas devenir fou?, Actes Sud, Arles, p. 71.  

  9. Per un’analisi approfondito su questi episodi di violenza e la loro relazione al contesto mediatico, veda Berardi (Bifo) F., (2015), Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini + Castoldi, Milano.  

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WestWorld: la valle della disrupzione / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/03/westworld-la-valle-della-disrupzione-2/ Mon, 03 Apr 2023 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76559 di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo. Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade [...]]]> di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo.
Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade Runner” (1982). Neppure rappresenta una novità la capacità degli hosts di mostrare facoltà cognitive autonome.

Nel WestWorld di questo millennio, in effetti, il test di Alan Turing ci rimanda a un passato remoto, così come era percepito già nel secolo scorso nell’opera di Dick appena menzionata. Nell’impossibilità di distinguere morfologicamente un umano da un androide, e avendo anch’esso raggiunto delle capacità cognitive percepite come intelligenza, lo scrittore americano immaginò come ultima spiaggia dell’essere umano la capacità di sviluppare empatia per un altro essere vivente. Essendo questa una facoltà esclusiva degli umani, un semplice test capace di misurare tale capacità sarebbe anche capace di rivelare chi fosse androide, perché questo sarebbe ovviamente incapace di soffrire la sofferenza dell’altro (ma, anche, ovviamente di provare la gioia o la tristezza dell’altro). Questa problematica sollevata da Dick ci porta naturalmente a riflettere sulla capacità, o incapacità, di provare i sentimenti dell’altro, e su come questa esclusiva facoltà umana sia continuamente modificata dal diffondersi delle tecnologie.

In linea con l’ipotesi di una singolarità tecnologica, nella serie, le capacità cognitive degli androidi sembrano ormai superare quelle degli umani. Inoltre, l’esistenza degli hosts, inserita in percorsi narrativi ben definiti, è capace di abbracciare un ipotetico passato dove essi provano sentimenti che finiscono per dotarli – sempre apparentemente – di empatia. Emerge qui, a mio avviso, una differenza sostanziale rispetto alla precedente figura di androide. L’androide proposto dalla serie sembra non posizionarsi mai nella valle perturbante; e, dunque, esso non genera mai repulsione in quanto macchina con sembianze umane. Inoltre, esso manifesta non solo capacità intellettive, ma anche una solida identità plasmata attraverso ricordi traumatici, che sono condivisi e sofferti.

Possiamo notare come nel WestWorld attuale, gli androidi, grazie alle facoltà umane appena menzionate, siano diventati nodi dello spazio sociale, e, di conseguenza, siano entrati pienamente nel processo percettivo degli umani. Così come i soggetti fondano il processo percettivo attraverso gli oggetti1, attraverso gli host gli umani pensano, percepiscono ed esistono. Inoltre, si potrebbe affermare che in una sorta di processo speculare, la violenza scatenata sugli hosts non sia altro che la necessità dell’umano di percepire e di sentire il proprio corpo, ormai scomparso per via dei processi tecnologici digitali: qui, ormai abbiamo a che fare con un corpo non solo incapace di diventare luogo dell’esperienza sensibile che rende possibile l’incontro tra soggetto e oggetto, ma, soprattutto, di sentire il prossimo2.
Nel secondo episodio della seconda stagione questo fenomeno speculare emerge chiaramente in un dialogo tra William e Dolores, dove William, un umano, si rivolge all’androide con queste parole:

Sei davvero solo un oggetto. 
Non posso credere di essermi innamorato di te. 
Sai cosa mi ha salvato? 
Ho capito che non si trattava affatto di te. 
Non mi hai fatto interessare a te, mi hai fatto interessare a me. 
È venuto fuori che non sei nemmeno una cosa.
Sei un riflesso. 

Attraverso gli hosts, la serie sviluppa un’analisi del modo in cui certe tecnologie digitali cominceranno a far parte del processo percettivo degli umani, cioè, cominceranno a diventare nodi su cui si sviluppa lo spazio sociale. Inoltre, la serie fonda la figura dell’androide sulla natura flessibile degli oggetti digitali. Di conseguenza, l’androide del WestWorld di questo millennio non rappresenta più una semplice entità intelligente dotata di facoltà considerate esclusive agli umani, ma diventa luogo di conquista transumanista.

La figura dell’androide presente nella prima stagione della serie è sostanzialmente un luogo di migrazione dove teoricamente l’essere, ormai privo di un corpo integro, sarebbe in grado di ritrovare un corpo dove può avvenire nuovamente l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto. Questa nuova figura di androide ci riporta ad un dibattito che si considerava ormai (quasi) concluso con l’opera di Maurice Merleau-Ponty, che si pensava esaurito nel concetto di Dasein heidegeriano, e che aveva trovato conferma proprio nell’introduzione di questo concetto – quest’ultima portata avanti da Hubert Dreyfus – in seno alle riflessioni sullo sviluppo della intelligenza artificiale.

In effetti, come Dreyfus ha dimostrato nella sua fondamentale ricerca – fondata su un’analisi approfondita ed esaustiva della grande opera di Heidegger – sull’era dell’informatica, il dualismo cartesiano ha trovato dei meccanismi analoghi nell’ipotizzare che i supposti biologici e psichici si rispecchiavano rispettivamente nel hardware e nel software. Come dimostrato da Dreyfus, questa riformulazione cartesiana non solo presupponeva che la condotta umana fosse priva di contesto, ma anche, e soprattutto, che l’intelligenza, seguendo sempre questa logica, non fosse altro che un semplice compimento di regole formali che si esaurivano in una relazione biunivoca e catalogabile secondo un’analisi quantitativa. In altre parole, il concetto di intelligenza si esaurirebbe in un ruled-based algorithm. Ciononostante, questo approccio, criticato con veemenza da Dreyfus, e che cadeva con la semplice introduzione del Dasein heideggeriano nella discussione, portava di nuovo a galla la questione cartesiana che, in linea con il paradigma meccanicista, aveva in passato generato una serie di analogie tra l’uomo e la macchina. Da qui sono poi derivate discussioni attorno alla questione se il pensiero potesse essere diviso dal corpo; se la sensibilità, una chiara condizione della conoscenza, potesse fare astrazione del corpo.

Possiamo dunque notare come la serie costruisca la figura dello host su un processo di riduzione dell’essere nella formulazione tradizionale oggetto-soggetto. Ma questa riduzione non si effettua attraverso la natura tradizionale dell’androide, cioè, attraverso apparenti facoltà cognitive autonome sviluppatesi al di fuori del corpo, con piena esclusione dell’esperienza vissuta. La figura dello host ci riporta alla riduzione oggetto-soggetto attraverso la componente transumanista, la quale esclude il corpo come luogo in cui avviene l’esperienza e finisce così per escludere la sensibilità della conoscenza, poiché ipotizza che l’esperienza possa essere ridotta a sua volta in computi ricombinati e traducibili. Seguendo questa logica, si ipotizza che l’esperienza possa essere trasmessa, o meglio, scaricata (downloaded) in altro supporto o device tecnologico; questo, a sua volta, può essere un altro corpo o un semplice hardware.

È qui che lo scopo dell’androide costruito dal WestWorld di questo millennio emerge più chiaramente. Gli hosts diventerebbero in una prima fase ricettori d’informazione, codificatori dei comportamenti umani, e in una seconda fase, semplici ospiti (hosts) che accolgono l’essere codificato in bits. In particolare, seguendo l’ipotesi transumanista, la figura dell’androide proposta dalla serie inciampa nell’errore di non distinguere l’Erlebnis (esperienza come fatto, avvenimento) dall’Erfahrung (esperienza come familiarità) e, di conseguenza, la serie finisce per ipotizzare con leggerezza la possibilità tecnologica di immagazzinare, riprodurre ed installare l’esperienza umana in un altro ‘dispositivo’.

Con il dipanarsi di una narrazione strutturata e vissuta quotidianamente dagli hosts, la serie ipotizza che attraverso l’analisi e la registrazione della differenza introdotta da variabili rappresentate dai comportamenti umani si potrebbe compiere pienamente l’opera di codificazione, e rielaborazione, dell’esperienza umana. Questo non solo permetterebbe di migliorare sostanzialmente la tecnologia che avrebbe portato in vita gli hosts ma, soprattutto, finirebbe per permettere a noi umani di trovare un luogo dove migrare; un corpo non deperibile dove trovare la vita eterna. Vediamo come la figura del host proposta da questa serie ignori dunque la lezione fenomenologica laddove teorizza che è il corpo a creare le cose, a trasformare gli oggetti in cose e, dunque, che è proprio nel corpo che converge quello che chiamiamo vita, conoscenza e intelligenza. Infatti, è nel corpo che avviene l’esperienza, intraducibile (non-codificabile) conoscenza. E sebbene l’esperienza si trasformi in continuazione, e sia determinata dal contesto tecnologico, il corpo rimane il territorio in cui essa viene vissuta. Il corpo è dunque il luogo dove il presente si declina, perché è proprio lì dove la realtà si manifesta3.

Nonostante ciò, forse sotto l’effetto dell’ebrezza dell’utopia distopica del transumanesimo, la serie, benché denunci la nostra condizione attuale di soggetti incapaci ad afferrare l’oggetto con un copro dilaniato dall’invasione tecnologica, per ben due stagioni ipotizza una possibile migrazione in un luogo in cui poter sviluppare l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto; un luogo, cioè, dove poter essere (Dasein), ed essendoci, dove poter sperimentare un presente, dove poter esperimentare il regno del reale.

Non è tanto sorprendente che la figura dell’androide di questo millennio possa diventare quel luogo così ingenuamente ricercato, ma la cui ricerca è così terrificante. Ed è terrificante proprio per la sua condizione di entità facente parte del processo percettivo umano, condizione che gli androidi acquisiscono progressivamente. Lo si nota chiaramente con il procedere della serie verso la terza stagione, quando l’androide trova i suoi limiti come luogo di migrazione dell’esperienza e rimane nodo portante del processo comunicativo degli umani. L’uso dell’androide è limitato all’osservazione e registrazione di comportamenti umani, ricordando, in un certo modo, i meccanismi della interveglianza (interveillance) che si sono sviluppati con la diffusione dei social media e dell’interazione quotidiana tra umani e oggetti digitali in rete. Allora, l’impressione che se ne ricava è che, alla fine, l’androide disegnato dalla serie non riesce a diventare luogo d’immigrazione transumanista, ma rimane e si perfeziona nella registrazione e nell’interveglianza dei comportamenti umani. In altre parole, la serie si arrende all’evidenza della complessità e intraducibilità dell’esperienza umana mostrando l’impossibilità della metamorfosi dell’androide in un ricettacolo dell’essere; l’androide rimane un oggetto in più del dispositivo di profilazione e interveglianza.

(2continua)


  1. Si veda Esposito R., (2014), Le persone e le cose, Einaudi, Torino.  

  2. Zoja L., (2009), La morte del prossimo, Einaudi, Torino.  

  3. Bachelard G., (1931) L’intuition de l’instant, Stock, Paris, p. 14.  

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WestWorld: la valle della disrupzione / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/03/29/westworld-la-valle-della-disrupzione-1/ Wed, 29 Mar 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76466 di German A. Duarte

La terribile realtà delle cose È la mia scoperta quotidiana (Fernando Pessoa)

Premessa: la valle perturbante

A differenza dell’opera originale, ideata nella prima metà degli anni Settanta da Michael Crichton, la serie televisiva WestWorld, in onda dal 2016, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, potrebbe essere considerata un sintomo della piena familiarità dell’immaginario collettivo con le teorie della singolarità tecnologica e il transumanesimo. Si potrebbe dire che nella serie, a differenza della precedente declinazione cinematografica, non c’è più spazio per il “noi e loro” che caratterizza [...]]]> di German A. Duarte

La terribile realtà delle cose
È la mia scoperta quotidiana
(Fernando Pessoa)

Premessa: la valle perturbante

A differenza dell’opera originale, ideata nella prima metà degli anni Settanta da Michael Crichton, la serie televisiva WestWorld, in onda dal 2016, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, potrebbe essere considerata un sintomo della piena familiarità dell’immaginario collettivo con le teorie della singolarità tecnologica e il transumanesimo. Si potrebbe dire che nella serie, a differenza della precedente declinazione cinematografica, non c’è più spazio per il “noi e loro” che caratterizza il film di Crichton. Nemmeno per il “noi o loro” del finale del film del 1973. Il ‘loro’ stava a indicare le machine, gli “hosts”, che si distinguono dal ‘noi’, gli umani, solo per qualche tratto fisico (tanto che, nel film, si consigliava ai nuovi arrivati di osservare le mani dei soggetti per capire se si trattasse di androidi o meno). Nel “WestWorld” di questo secolo la distinzione fisica tra umani e androidi è inesistente. Tuttavia, come nel film, nella serie la garanzia di trovarsi davanti a un umano si palesa esclusivamente nell’impossibilità, per gli hosts, di ucciderlo. Infatti, nel parco le armi non funzionano quando rivolte contro un umano (nella serie, gli hosts non possono puntarle contro gli ospiti umani), rassicurando così i visitatori sul fatto che l’androide non riuscirà mai a ucciderli. Non che l’androide non desideri compiere tale azione, semplicemente egli (esso?) non potrà mai passare all’atto – il che non è una rassicurazione secondaria per gli umani nel parco. Al di là del fatto, non banale, di non perdere la vita in quello che teoricamente è un gioco, questa garanzia serve proprio ad esorcizzare il fantasma della singolarità tecnologica, poiché l’umano potrà sempre imporre la sua superiorità sull’androide inerme. Di conseguenza, seguendo una logica inversa rispetto a quella dell’Etica nicomachea, in WestWorld, quello che caratterizza e trascende l’umano è proprio la sua capacità di uccidere, è proprio la brutalità che è capace di esercitare sui (ormai) suoi simili, sugli androidi che, del resto, per la loro condizione di macchine, saranno sempre soggetti alla violenza umana.

Si potrebbe ipotizzare che è proprio la similitudine morfologica tra hosts e umani che fa della serie WestWorld una grande ‘valle perturbante’1. dove gli individui si trovano sempre sul confine tra l’empatia e la repulsione, ma mai nel mezzo di esse. E questa valle perturbante è proprio il luogo di conquista – proprio come il far west nel nostro immaginario – dell’irrazionale attraverso la totale disinibizione dell’individuo. È la valle dove l’individuo festeggia la sua vittoria irrazionale, festeggia la sua totale disinibizione attraverso un saturnale di violenza sull’oggetto percepito come soggetto; sul corpo reificato che diventa soggetto proprio attraverso l’esercizio della violenza2. Infatti, a differenza del concetto marxista di reificazione (Verdinglichung), che posiziona il fenomeno nella sfera semantica dell’alienazione – e perciò viene a disegnare una distorsione dello scambio organico tra uomo e natura proprio del capitale –, qui la violenza ci ricorda che la reificazione si sviluppa su un piano fenomenologico anche al di fuori di condizioni relazionali determinate dal capitale. In altre parole, la violenza, che secondo Simone Weil presuppone sempre la trasformazione del soggetto in oggetto, finisce per allontanare il fenomeno della reificazione della sfera dell’alienazione per riportarlo alla sua sfera semantica originaria, quella dell’Entfremdung, dello straniamento.

Questo aspetto compare del resto già nell’opera di Georges Bataille il quale, pur condividendo in gran parte la comprensione marxista della reificazione – soprattutto nel riconoscimento della praxis come forza di reificazione3 – ha messo in luce la forza reificante di diverse pratiche rituali. Mi riferisco in particolare alla sua analisi di alcuni riti aztechi, posti dal filosofo in rapporto con la reificazione in contesto industriale4. Attraverso il lavoro di Bataille, allora, emerge come il fenomeno della reificazione non sia un aspetto esclusivo della forza che il valore di scambio (Tauschwerten) esercita sull’essere e come lo stesso fenomeno si manifesti anche al di fuori della relazione capitalista. Questa affermazione diventa ancora più chiara quando negli scritti di Bataille, analizzando lo sperpero (di energie e vite/beni/oggetti sacrificati) nei riti sacrificali aztechi, il filosofo mette in luce il passaggio da soggetto ad oggetto subito dal sacrificato in quanto dono al dio Sole5.

Nella valle perturbante di WestWorld ci troviamo di fronte ad un fenomeno di passaggio analogo, messo in moto proprio dalla violenza irrazionale. Gli hosts, che soggetti non sono – ma che vengono percepiti come tali – finiscono per diventare oggetti a seguito di una trasformazione propiziata dal loro sacrifico, e cioè dalla violenza. Infatti, essere destinatari della violenza irrazionale converte gli hosts in un oggetto. E questo accade benché tutto faccia presupporre – dal loro aspetto, alle loro apparenti facoltà mnemoniche – che precedentemente all’atto violento essi fossero soggetti dotati di libero arbitrio, che esistessero, quindi, perché capaci di esprimere volontà. Oltre a ciò, ad affermare (almeno apparentemente) la condizione di soggetti degli hosts è proprio la percezione che lo spettatore ha di loro. Uno spettatore che, non solo li riconosce come soggetti autonomi, ma che, proprio per via delle violenze e brutalità da loro subite, finisce per umanizzarli a dismisura. Ed è proprio per effetto di questa umanizzazione che, nella serie, soprattutto nella prima stagione, l’empatia può svilupparsi esclusivamente in direzione dell’androide. Ed è ancora per questo motivo che la barbarie degli hosts nei confronti degli umani, messa in atto nella seconda stagione, può essere percepita come una reazione di legittima difesa.

La violenza degli hosts sembra qui una legittima risposta alla carneficina irrazionale e immotivata portata avanti fino a quel punto dagli umani. In ogni caso, mi pare che già all’inizio della seconda stagione, l’empatia dello spettatore sia ormai tutta per loro, per le macchine. Non ce più spazio per un ‘noi o loro’, nemmeno per un ‘noi e loro’. È qui che risiede, a mio avviso, la differenza della serie rispetto alla narrazione originale creata da Michael Crichton negli anni Settanta. Il WestWorld di questo millennio non ci permette di vedere nel West lo scenario di una lotta tra umani e androidi. La conquista qui è di tutt’altra natura.

A differenza del film di Critchton, la trama del WestWorld di questo millennio non si fonda su una netta dicotomia tra umani e macchine. Gli hosts di questo millennio hanno perso completamente l’essenza macchinica – non sono concepiti in base alla parcellizzazione e frammentazione della produzione propria del taylorismo – e sono ormai entità digitali, stampe a tre dimensioni di tessuti organici. Inoltre, il malfunzionamento, il glitch (programmato?) che avvia la rivolta si manifesta chiaramente con l’apparente acquisizione di facoltà mnemoniche da parte degli androidi. Quello che nel film degli anni Settanta sembra una reazione meccanica, un riflesso violento e irrazionale prodotto da un errore elettronico che permette agli androidi di oltrepassare il Rubicone e uccidere un umano, appare nella serie come una reazione violenta articolata e fondata sui ricordi, sui traumi personali che finiscono non solo per costruire l’identità degli hosts, ma che li rende capaci di stabilire relazioni di empatia con gli umani6. Riprendendo la formula di Blade Runner (1982), nella serie si pretende di costruire un essere umano attraverso l’installazione di ricordi. Come ci spiega la mitica scena del film di Ridley Scott, dove appena concluso il Voight-Kampff test effettuato a un replicante ignaro di esserlo, emerge chiaramente la difficoltà di differenziare l’umano dal replicante dotato di ricordi:

Il commercio è il nostro obiettivo, qui alla Tyrell. “Più umano dell’umano” è il nostro motto. Rachel è un esperimento, niente di più. Abbiamo iniziato a riconoscere in loro una strana ossessione. Dopotutto, sono emotivamente inesperti, con pochi anni… In cui immagazzinare le esperienze che voi e io diamo per scontate. Se li dotiamo di un passato, creiamo un cuscino o un guanciale per le loro emozioni. Di conseguenza, possiamo controllarli meglio. 
– Ricordi. Lei parla di ricordi

Sono i ricordi che umanizzano gli hosts proprio perché nel processo di evocazione di un ipotetico passato, nell’evocazione del vissuto, si costruisce l’empatia con lo spettatore. Di conseguenza, come già accennato, la violenza esercitata dagli hosts è percepita come legittima reazione alla barbarie umana. Inoltre, l’atto violento, quando compiuto da un host, viene compreso come espressione di una naturale indeterminatezza dell’androide, il ché si aggiunge a rinforzare l’umanizzazione di queste entità intelligenti. Il risultato è che in questa valle perturbante la sindrome di Frankenstein non si manifesta, e la valle è perturbante proprio perché la repulsione è verso gli umani, autori delle peggiori atrocità. Gli hosts sono, agli occhi dello spettatore, propri simili; gli hosts sono individui completamente familiari a noi, umani. Tuttavia, la loro presenza costruisce un Unheimlich, generato proprio dall’incapacità dello spettatore di riconoscersi nell’umano; in altre parole, l’Unheimlich che si manifesta nella serie risiede nella forza che spinge allo spettatore a vedere nell’umano ‘l’Altro’.

(1continua)


  1. Su questo concetto, vedere Mori M., (1970), The Uncanny Valley, Tr. Eng. K.F. McDorman & T. Minato. Energy, 7:33-35.  

  2. Weil S., (2014), L’Iliade ou le poème de la force, Éclats, Paris.  

  3. Su questo argomenta, vedere Bataille G., (1949), La part maudite, in Oeuvres complètes. Vol. 7. G. Bataille, Gallimard, Paris, p. 62.  

  4. Duarte, G.A., (2015), “La chose maudite”. The concept of reification in George Bataille’s The Accursed Share, in Human and Social Studies De Gruyter, Vol. 4 (1): 91-110.  

  5. Bataille G., (1949), “La part maudite”, in Oeuvres complètes. Vol. 7. G. Bataille, Gallimard, Paris, p. 55.  

  6. A questo proposito, consiglio il testo di Alfredo Rizza, The ‘Death of Neighbour’ Seen in a Black Mirror – (“Be Right Back” on Solaris), dove l’autore analizza, attraverso il concetto di tecnologie fatiche e l’interazione linguistica, la forma in cui la fantascienza ha introdotto nell’imaginario collettivo l’ipotesi di ricreare un soggetto per mezzo di una ricostruzione linguistica dei suoi messaggi, email, discussioni, e conversazioni.  

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Il destino del corpo elettrico https://www.carmillaonline.com/2022/09/14/il-destino-del-corpo-elettrico/ Wed, 14 Sep 2022 20:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73614 di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima. E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti [...]]]> di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima.
E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti contaminano i viventi sono malvagi come quelli che contaminano i morti? E se il corpo non agisce pienamente come fa l’anima? E se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe? (Walt Whitman – I Sing the Body Electric)

Sono passati più di centocinquant’anni dalla prometeica intuizione contenuta nei versi di Walt Whitman ed inserita nella sua unica raccolta di poesie, «Foglie d’erba», pubblicata per la prima volta nel 1855 e in seguito rivista ed ampliata più volte. Eppure soltanto oggi è forse possibile comprendere appieno il significato di quella comunanza dei corpi “fisici” e la loro intrinseca e specifica bellezza e diversità esaltata allora dal poeta americano.

E’ stato Antonio Caronia (1944-2013), in un saggio edito per la prima volta nel 1996 e oggi ripubblicato dalle sempre meritorie edizioni Krisis Publishing di Brescia, a sviluppare in senso attuale quel “canto”.
Anche se lo ha fatto in prosa e con un testo che analizza nel dettaglio le trasformazioni del corpo fisico e della specie avvenute in seguito allo sviluppo delle diverse tecnologie a disposizione delle differenti e successive società umane, nel tentativo di proiettarsi nella comprensione del destino futuro delle funzioni e dello sviluppo dello stesso una volta inserito nel magma della comunicazione elettronica.

L’autore, saggista, docente di Comunicazione all’Accademia di Brera e figura di spicco della critica letteraria fantascientifica italiana fra gli anni settanta e ottanta, attraverso una cavalcata che, sulle orme di Marshall McLuhan e dei più importanti innovatori della letteratura fantascientifica e del cinema corrispondente (da Asimov a Ballard e da Dick a Sterling e Gibson fino a Cronenberg), ci porta dall’avvento della scrittura alla Rete e oltre. Ci fa riflettere sulla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive, ma non solo, svolte dal nostro corpo “naturale” a favore di tecnologie che se da un lato ingigantiscono le nostre capacità di gestire dati, dall’altra sembrano trasformare e condizionare sempre più il nostro immaginario e il corpo “sociale”.

Come afferma il curatore:

La prima edizione di questo volume è apparsa nel periodo in cui si andavano consolidando le narrazioni utopiche che hanno accompagnato lo sviluppo delle tecnologie digitali e della rete […] La rete, in particolare, sembrava poter dare voce al singolo cittadino, e molti leggevano questa sua potenzialità come la capacità, insita nel digitale, di determinare processi sociali complessi. Ed era fuor di dubbio, all’interno della narrazione utopica, che tutti questi processi fossero avviati verso una democrazia diretta, o quantomeno più partecipativa.
[…] Negli stessi anni, però, il panorama democratico e quello liberale cominciavano ugualmente a mutare. Progressivamente, quegli stessi scenari si trasformavano in un laboratorio per le multinazionali e le corporations che regnano nel mediascape contemporaneo. E’ infatti proprio nel momento più alto dell’ondata libertarianista che, in forma embrionale, le corporations hanno trovato terreno fertile, minando progressivamente questi spazi di libero scambio di idee, d’informazione e di merci, e appropriandosene successivamente a livello planetario1.

Proprio in ciò che è sottolineato da German Duarte sta l’estremo interesse insito nella riedizione del testo di Caronia, ovvero nella possibilità di mettere a confronto ciò che un quarto di secolo fa si poteva intravedere nello sviluppo dei media e delle tecnologie digitali con ciò che è effettivamente avvenuto, poiché la problematica costituita da ciò che avrebbe potuto essere e ciò che effettivamente è stato era già, in qualche modo, presente nel lavoro di Caronia, soprattutto quando nelle sue pagine «ci mette ripetutamente in guardia contro il possibile “tecnopolio” incarnato dalla Microsoft , nella persona di Bill Gates»2.

Lo sguardo dell’autore non era alimentato infatti soltanto del discorso “utopico” e fantascientifico, oltre che tecnologico e artistico sull’uso delle nuove tecnologie, ma anche dall’attenzione per i contraddittori processi sociali, cognitivi e politici messi in moto dal capitale in tutte le sue stagioni di esistenza. Anche se la sua attenzione si spingeva fino all’età neolitica, con l’invenzione dell’agricoltura e di società complesse, organizzate intorno al lavoro. Età neolitica in cui, nonostante la Rivoluzione industriale, secondo lo stesso, saremmo ancora inseriti proprio per la centralità costituita dal lavoro produttivo.

Agricoltura che ha segnato i primi passi della società umana verso quella trasformazione o “artificializzazione” del paesaggio e dell’ambiente che oggi regna incontrastata, nella realtà e nell’immaginario. D’altra parte la progressiva artificializzazione del corpo, dalle protesi alle medicine quotidianamente ingerite per gli scopi più disparati fino alla costruzione di identità fittizie in rete, sui social e nella Realtà Virtuale (RV), non può essere separata da quella del mondo che circonda l’individuo sociale. Come aveva già ben compreso James Ballard.

Il cyborg di Ballard non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all’interno del proprio corpo. Quest’ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce in lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio tra l’interno e l’esterno che riattiva un processo simbolico a livello di tutto il corpo. Ma la civiltà industriale matura vive nell’apoteosi dell’esteriorizzazione prodotta dalla società mediatizzata e informatizzata, si crogiola nel trionfo della separazione analitica tra mente e corpo, coltiva l’illusione delirante di riunificare il mondo sotto un unico principio, lo sguardo oggettivo e impersonale della scienza, la logica dell’equivalenza astratta. In queste condizioni ogni riattivazione di un processo simbolico a livello del corpo non può avere che una conseguenza: l’impossibilità di leggere in modo “socialmente corretto” i codici di scrittura del comportamento, la rottura della “normalità sociale”, l’insorgere di quella che la medicina ufficiale chiama “malattia mentale”. E così è con i personaggi di Ballard, che, come spesso in Dick, solo attraverso la malattia, la perdita dell’identità, la confusione tra io e mondo, possono tentare di dare un senso alla propria vita e a tutto ciò che li circonda. Ma Ballard (e questo è uno dei suoi meriti) non descrive questi processi collocandosene al di fuori, non assume alcun punto di vista morale o nostalgico. Al contrario, mostra come tutto ciò non sia effetto di una logica estranea e alternativa, ma sia conseguenza ineluttabile dello sviluppo delle tecnologie e dei media, che nella loro ipertrofia aprono una contraddizione insanabile con i fondamenti della società che li ha prodotti3.

In realtà la separazione tra mente e corpo e l’unione tra corpo e macchina inizia ben prima dell’età dei media elettronici e della realtà virtuale. E’ stato Marx a sottolineare il processo di estraniazione e alienazione che ha accompagnato lo sviluppo industriale e la progressiva sottomissione del lavorato alla macchina, alla scienza applicata e al capitale. Motivo per cui l’idea del cyborg e del robot (termine slavo con cui si indica il lavoro mentre con robotnik si indica l’operaio) affonda le sue radici nello sviluppo della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze sociali, economiche, politiche e culturali.

Oggi sappiamo però anche che lo sviluppo della RV è andato molto più a rilento di quanto potessero immaginarsi Caronia o Ballard4, mentre lo sviluppo dei social media e dell’uso degli smartphone ha contribuito a creare un’autentica realtà “esterna”, in cui tutti gli utenti della rete possono diventare protagonisti e attori di un mondo virtuale dove tutto può accadere, essere vero e credibile all’interno di un sistema dato, anche se non del tutto definito, in cui tutte le informazioni possono essere o possono trasformarsi in fake news.

Ci accorgiamo che contemporaneamente al “declino” delle RV in quanto tali, c’è stata invece l’ascesa dell’aggettivo “virtuale”. “Virtuale” è una delle parole chiave di questi anni […] Che la vita dell’uomo, e tanto più quella dell’uomo contemporaneo, è a ogni istante sospesa fra l’attimo appena trascorso e una pluralità di eventi possibili, che non sta solo a noi, certo, trasformare in eventi “attuali”, ma il cui accadere ci appare molto più di prima legato alle nostre scelte […] Una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, queste tecnologie [digitali] sono “tecnologie del possibile”: nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere alla “realtà” tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell’aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita5.

Un sistema relazionale e diffuso in cui il corpo, attraverso i selfie e l’ostentazione continua dell’immagine di sé, diventa “virtuale” nel suo volersi mostrare giovane, affascinante, sensuale, aggressivo o disponibile all’incontro, all’avventura momentanea e alla notorietà fittizia. Una condizione in cui a trionfare è più Andy Warhol con i suoi 15 minuti di celebrità per ognuno che non le raffinate teorie estetiche degli artisti estremi del corpo e della realtà virtuale che si incontrano tra le pagine del libro di Caronia.

Il corpo è diventato “disseminato”, esattamente come titola uno dei capitoli del testo, l’ultimo, ma in forme diverse da quelle previste ventisei anni fa. Cosa che ancora si stenta a comprendere se, non accettando la definizione borghese di “Io”, si continua dimenticare il possibile utilizzo del pronome plurale “noi” per sostituirlo con la rivendicazione di infiniti “ii”. Come avviene, ad esempio, nel testo Cosa vuole Luther Blisset citato all’epoca da Caronia (p.192)

Come afferma Marcel-lí Antúnez Roca, nella sua postfazione:

L’era del lavoro si era aperta quando l’estendersi della rivoluzione neolitica aveva creato un sovrapprodotto sociale di dimensioni tali da richiedere la nascita di funzioni specifiche per la sua gestione e di gruppi separati addetti a tali funzioni cognitive e delle basi etiche su cui si fondava la convivenza degli aggregati umani […] Le “televisioni interattive”, i cinquecento canali, il “digitale” nella sua versione fieristica e industriale, non sono il primo passo per uscire dal neolitico, ma l’ultimo sussulto di un sistema di comunicazione gerarchico e funzionale a una società la cui perpetuazione significherebbe la bancarotta dell’umanità. Sarebbe una ben misera prospettiva se il corpo disseminato non fosse che lo sgabello con cui Bill Gates si issa sulla schiena del resto dell’umanità6.

Se quello della transizione dal corpo “naturale” e quello “virtuale”, in tutte le sue possibili declinazioni, costituisce il tema centrale del testo appena ripubblicato, in realtà la ricchezza dell’opera di Caronia apre ad una infinità varietà di argomenti, temi e critiche che, inevitabilmente, costringeranno il lettore ad aprire gli occhi, e la mente, su tutte le possibili conseguenze dell’artificiale ampliamento delle funzioni dello stesso. Sia a livello individuale che sociale.


  1. German A. Duarte, Prefazione a A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing 2022, pp. 11-12  

  2. G. A. Duarte, op. cit., p. 12  

  3. A. Caronia, op. cit., pp. 105-106  

  4. Per le idee di Ballard sulla RV si veda: J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista e prefazione a cura di Sandro Moiso con un saggio di Simon Reynolds, Krisis Publishing 2019  

  5. A. Caronia, op. cit., p. 157  

  6. Marcel-lí Antúnez Roca, Postfazione a A. Caronia, op. cit., pp. 197-201  

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