Gérard Genette – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il soprannaturale come strumento di libertà https://www.carmillaonline.com/2022/04/06/il-soprannaturale-come-strumento-di-liberta/ Wed, 06 Apr 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71296 di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti [...]]]> di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti letterari sui quali è imbastita la sua tessitura narrativa. Il romanzo giunge solo ora alle stampe ma è stato scritto circa vent’anni fa, sul finire degli anni Novanta, da uno dei più originali scrittori e saggisti contemporanei, Paolo Zanotti, scomparso prematuramente nel 2012.

La vicenda si svolge a Pisa, nell’ambiente universitario della seconda metà degli anni Novanta (lo stesso vissuto dall’autore e, fra parentesi, anche dal sottoscritto). A creare scompiglio fra i personaggi principali del racconto (Florian, regista del teatro “Sant’Andrea”, la sua fidanzata Emilia, l’ingegnoso Luca, il poeta Giacomo, il “seduttore punito” Simone, Oreste e Lodovico, padri rispettivamente di Florian e di Emilia), a un certo punto, sopraggiunge una bellissima ragazza sconosciuta, Ortensia, la cui identità è sfuggente e non definibile dal momento che assume anche nomi diversi a seconda della situazione, Viola, Lisa, Arabella. Ortensia è un personaggio fluido, nomadico, caratterizzato da una propensione naturale all’erranza, soprattutto notturna, aperto a una pluralità di ruoli e di identità ed è caratterizzato da tratti soprannaturali tanto da essere connotato, in diversi momenti, come una vampira. Anche un altro personaggio, Emilia, possiede in sé una fluidità di genere che si oppone al rigido schematismo maschile-femminile. A un certo punto, infatti, per mezzo di una vera e propria metamorfosi transgender, la ragazza si tramuterà – fasciandosi i seni e indossando abiti maschili, quasi come la protagonista del film Titane (2021) di Julia Ducournau – nel fantomatico fratello Edoardo, che ha abbandonato da anni la casa paterna per vivere all’estero.

E sul palcoscenico pisano (importanti, come vedremo, sono i riferimenti al teatro) agisce una sarabanda di personaggi che sembrano muoversi ininterrottamente da una parte all’altra della città, in un impianto narrativo tenuto saldamente insieme da una struttura di tipo picaresco. Il soprannaturale, però, non si insinua nella narrazione solo tramite il personaggio di Ortensia: ci sono altri personaggi evanescenti, eterei, onirici, connotati anche da una venatura a metà fra il diabolico e il buffonesco, come Tancredi, il gatto parlante di Florian, con tanto di stivali, che si esprime con una elegante cadenza francese da moschettiere, o come Titti e Osvaldo, i “fratellini infernali”, o il personaggio ambiguo e sfuggente di Francesco Paolo o, ancora, il misterioso Hermann Salice Contessa.

Chissà se, tra le fonti di ispirazione di Zanotti, figura anche Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrittori russi contemporanei, nato a Kiev nel 1891. L’atmosfera fiabesca e onirica che si respira in Trovate Ortensia!, venata di soprannaturale, ricorda molto quella che ci avvolge se sfogliamo le pagine del capolavoro dell’autore russo. Secondo Francesco Orlando, “il soprannaturale è qui prima di tutto scatenamento dei precedenti leggendari dentro il quotidiano”1. Nella quotidianità della Mosca degli anni Trenta fanno irruzione una serie di personaggi dai tratti soprannaturali: Woland, un misterioso professore straniero esperto di magia nera (che altri non è se non il Diavolo in persona) e i suoi accoliti, tra cui incontriamo l’enorme gatto Behemoth che, insieme a Korov’ev (Fagotto) crea scompiglio in tutta Mosca con i suoi poteri magici; poi Azazello, che porta sempre un pince-nez con un vetro rotto, Hella, un vampiro femmina il cui nome è un chiaro riferimento a “Hell”, “inferno” e, infine, Abadonna, signore della guerra e servo di Woland. Secondo Orlando, questo romanzo “propugna anche di fatto una solidarietà tra soprannaturale e letteratura, dimensione privilegiata del diritto alla fantasia e alla libertà”2.

Anche il soprannaturale che pervade le pagine di Trovate Ortensia! dischiude una dimensione di fantasia e libertà: apre al lettore un immaginario liberato e trasforma i momenti quotidiani di una città in una sospensione magica e incantata, attraversata in alcuni momenti da connotazioni veramente orrorifiche e infernali. Come già accennato, i personaggi sono persi in un vortice nomadico e picaresco, impegnati in scorribande cittadine che diventano viaggi onirici e fiabeschi in spazi senza confini. Come sempre osserva Orlando, rifacendosi alle teorie freudiane, “come i giochi del bambino, la letteratura apre uno spazio immaginario fondato sulla sospensione o neutralizzazione della differenza tra vero e falso, uno spazio in cui vige il diritto di rispondere al piacere dell’immaginario”3. In uno spazio aperto ad un immaginario liberato si muovono anche i piccoli protagonisti di Bambini bonsai (2010), in cui Zanotti racconta con grazia e maestria il viaggio di Pepe e altri bambini in un futuro post-apocalittico e eco-distopico, verso la “casa-nave” di Petronella. In Trovate Ortensia! non sono solo i tratti soprannaturali a dischiudere una dimensione di fantasia e di libertà ma anche la stessa struttura “polifonica” della narrazione. Sono anche le svariate voci che agiscono nel racconto a offrire spazi di libertà, sono anche i diversi registri stilistici e lessicali, aperti verso un pastiche quasi gaddiano che bene ingloba nella narrazione parole ed espressioni del vernacolo pisano (i cui termini sono spiegati in un glossario alla fine del libro), a plasmare nuove aperture verso il piacere dell’immaginario. E, non da ultimo, a permettere le vie di accesso a una fantasia liberata è anche la natura enciclopedica dell’opera, cui si è già accennato, quella pluralità di generi e di autori che si nascondono dietro la tessitura narrativa.

Una natura enciclopedica che è riscontrabile fin dal titolo, il quale è una vera e propria citazione da Rimbaud, da H, un componimento delle Illuminazioni – nel quale l’enigmatica figura femminile è caratterizzata da “mostruosità” e “gesti atroci” – che si conclude proprio con le parole “trovate Ortensia” (“trouvez Hortense”). Del resto, un preciso rimando a Rimbaud lo possiede anche il personaggio di Florian, caratterizzato, durante uno dei suoi vagabondaggi per la città, come un “Pollicino rêveur incapace di rintracciare il filo della prossima mollica”. In La mia bohème, è lo stesso poeta francese a definirsi come un “Petit-Poucet rêveur” (“Pollicino sognatore”) mentre vagabonda per strade e osterie nelle notti di settembre. Il romanzo ritrovato di Zanotti è costellato anche da criptocitazioni, le quali, parafrasate, si inseriscono quasi naturalmente all’interno della narrazione, perfettamente inglobate e ‘naturalizzate’ nel testo ospitante. Ad esempio, nel momento in cui Francesco Paolo, nel suo giardino, è intento a sfogliare un libro sul Madagascar, sopraggiunge Ortensia come un’apparizione fantasmatica e l’autore commenta: “Perché gli spettri ti possiedano non c’è bisogno di una stanza, non c’è bisogno di essere una casa”, frase che appare quasi come una parafrasi dei seguenti versi di Emily Dickinson: “Non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro” (One need not to be a chamber – to be Haunted / One not to be a House”).

Una spiccata letterarietà di fondo non risparmia neppure certe descrizioni trasognate dei personaggi. Nel momento in cui Emilia e Florian si incontrano per la prima volta, la reciproca attrazione che li travolge è rivestita di connotazioni romantiche venate di letteratura. Infatti, “Emilia era bella come una reincarnazione di Emilia Viviani, la Rapunzel dell’Ottocento rinchiusa nel convento di Sant’Anna e amata dal poeta Shelley esiliato a Pisa: Emilia Viviani, l’«anima amante che si slancia fuori del creato e si crea nel infinito un Mondo tutto per essa diverso assai da questo oscuro e pauroso baratro»”. Se Florian, nel guardare Emilia, possiede un filtro romantico e letterario, anche la ragazza, nel momento in cui vede il giovane per la prima volta, non è da meno: “E a questa apparenza di anima bella corrispondevano pensieri altrettanto romantici, se anche Emilia era riuscita allora a vedere in Florian, nei suoi riccioli e nella sua barba che sapeva di mare l’ultimo fiore di una lunga genìa di viaggiatori, pirati, avventurieri, liberatori della Grecia, garibaldini, anarchici cavalieri dell’ideale, partigiani, sessantottini e più in generale combattenti per la libertà”. Anche le descrizioni della città di Pisa sono incastonate in una dimensione letteraria e incantata. Se nella frase “in questo periodo, le notti di Pisa hanno qualcosa delle notti bianche”, la città toscana è immediatamente accostata all’immaginifica Pietroburgo di Dostoevskij, in quest’altro brano un po’ più lungo, la città, sotto lo sguardo di Ortensia, si trasforma letteralmente in uno scenario da romanzo:

Per le strade di Pisa, intanto, Ortensia cammina col suo passo ciondolante, eppure svelto e snello. Di tanto in tanto, senza fermarsi, sorride e ridacchia. Percorre via Vittorio Veneto, e poi via Battelli e via De Amicis fino all’arco e a piazza Gondole. Di lì inizia la scenografia notturna di via Santa Marta, e infine si arriva all’Arno. Dal ponte della Fortezza il fiume si vede più largo che dal ponte di Mezzo. Ci si può anche scendere e trovare un piccolo lembo di terra tra erbosa e sabbiosa. Ortensia si ferma sul ponte, ma guarda in alto. Al di sopra dell’Arno incombe un cielo romanzesco: metà turchino intenso, metà blu cobalto – forse domani pioverà (e forse è quello che stanno pensando tutti). Nella parte più chiara del cielo, le stelle vanno a comporre un percorso prefissato. Un aereo ne costeggia alcune e poi, sotto forma di automobile, si scontra con una stella più luminosa. Ortensia ridacchia e sorride, sorride e ridacchia, poi guarda al vecchio palazzo del lungarno Galilei, si rabbuia e se ne va (pp. 112-113).

Come in un esperimento di geopoetica, le vere strade di Pisa si trasformano in uno scenario narrativo e romanzesco. Con Trovate Ortensia! possiamo insomma divertirci a seguire un personaggio letterario sulla mappa reale di una città, come fa Umberto Eco con Parigi per scoprire “dove abitava quell’individuo reticente e misterioso che era Aramis”4 oppure a ripercorrere dal vero quelle stesse strade nella Pisa contemporanea che, da quella seconda metà anni Novanta, non è poi cambiata così tanto.

Una ben salda caratterizzazione letteraria (e musicale in quanto, in un’occasione, si trasforma quasi nella Marinella della celebre canzone di De André) la possiede anche Ortensia. Nella sua veste di personaggio etereo e fantasmatico viene infatti più volte avvicinata a una vampira. Non a una vampira qualunque, ma a Carmilla, la protagonista dell’eponimo romanzo di Joseph Sheridan Le Fanu del 1872, a cui si ispira anche il nome di questa webzine. I riferimenti alla vampira del romanzo dello scrittore irlandese vengono attuati anche tramite un sottile gioco allusivo, in quanto “Carmilla” è il nome di un locale di Pisa, molto frequentato dagli studenti nel periodo in cui si ambienta il romanzo. Ad esempio, a proposito di Viola-Ortensia così si esprime Luca: “Luca, per sdrammatizzare, gli disse che l’aveva scampata bella, perché questa Viola – che non a caso, beh, era finita al Carmilla – doveva essere tipo una vampira aliena che deve accoppiarsi, e all’uopo cerca il maschio più adatto […]”. E anche di fronte alle avances del “seduttore” Simone, Ortensia ha una reazione quasi vampiresca: “La reazione di Ortensia a queste effusioni si dimostrò, anzi, persino eccessiva, specie quando si chinò sul collo di Simone e iniziò a succhiarlo e baciarlo metodicamente, quasi a fargli male”. Successivamente, la ragazza appare preda di una misteriosa malattia – simile a quella da cui è afflitta Carmilla – che la illanguidisce e la fa dormire molto, rendendola ancora più evanescente ed eterea. Tra l’altro, ammalata, viene condotta a casa di Emilia, la quale le si affeziona nello stesso modo in cui, nel romanzo di Le Fanu, Laura, che vive con il padre in un castello isolato della Stiria, si affeziona alla languida e bellissima protagonista. E, non a caso, una volta che Ortensia si sarà ristabilita, Emilia progetta di portarla proprio al “Carmilla”: “Progetto per il prossimo fine settimana: la metto in tiro e la porto al Carmilla”. Un diretto rimando a Carmilla di Le Fanu è poi attuato da Florian, in riferimento alla possibilità che Arabella e Ortensia possano essere la stessa persona: “Però, se è veramente il suo vampiro, doveva averci il nome anagrammato: Carmilla-Mircalla. Ortensia, invece, non c’incastra con niente”. Si può ricordare che un riferimento alla protagonista del romanzo dello scrittore irlandese lo incontriamo anche in un racconto di Zanotti dal titolo La cella geografica (adesso, insieme ad altri racconti usciti sul “Caffè illustrato” fra il 2004 e il 2010, incluso nella raccolta L’originale di Giorgia e altri racconti, pubblicata nel 2017): qui, l’io narrante riveste di connotazioni quasi demoniche e soprannaturali una sua amica d’infanzia di nome Camilla, chiamata appunto con i due appellativi dei doppi di Carmilla, Mircalla e Millarca, anagrammi del nome della fanciulla vampiro.

Come già accennato, anche la dimensione teatrale riveste una notevole importanza in Trovate Ortensia!. Punto culminante della polifonia espressiva che anima l’intera narrazione è la messa in scena finale al “Sant’Andrea” del Racconto d’Inverno di Shakespeare: il teatro pisano si configura come lo spazio affabulatorio verso il quale convergono le erranze narrative del racconto e che vedrà riuniti tutti i personaggi. Il paradigma teatrale, nel romanzo di Zanotti, non è però rappresentato soltanto dal modello illustre di Shakespeare (pure se diverse opere dell’autore inglese appaiono come importanti ipotesti nel senso delineato da Gérard Genette). Esso compare anche, se così si può dire, in una sua dimensione più umile e popolare incarnandosi in una vera e propria rappresentazione di teatro vernacolare pisano attraversata dal registro stilistico più basso e buffonesco. Memorabile è la scenetta domestica, dominata da trovate comiche espresse con termini dialettali e popolari, che vede protagonisti il signor Lodovico, sua figlia Emilia, il signor Oreste e suo figlio Florian. Lodovico arriverà poi a trasformarsi quasi in un re che tiene imprigionata la figlia nella torre del suo castello per impedirle la frequentazione del pretendente Florian. Allora si scateneranno duelli, singolar tenzoni, avventure degne di un romanzo cavalleresco, monologhi drammatici in una granduignolesca mescolanza fra alto e basso.

Ogni dimensione narrativa appare dolcemente pervasa da un soprannaturale che, alleandosi con la letteratura, come osservava Orlando riguardo al Maestro e Margherita, permette il dischiudersi di un irrinunciabile diritto alla fantasia e alla libertà. È qui, credo, che risiede l’aspetto più significativo di Trovate Ortensia!, un vero e proprio gioiello letterario che finora era rimasto nascosto e che adesso, come un dispettoso e salvifico folletto, è riemerso dalle brume degli anni Novanta. E davvero, ai giorni nostri, c’è più che mai bisogno di una letteratura che, per mezzo di un immaginario venato di soprannaturale, possa offrire inediti slanci di liberazione a percorsi fin troppo obbligati. E allora ci rendiamo conto di quanto ci manca, oggi, la magica penna di Paolo Zanotti.


  1. F. Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, Einaudi, Torino, 2017, p. 159. 

  2. Ivi, p. 162. 

  3. Ivi, p. 22. 

  4. U. Eco, Lo strano caso di via Servandoni, in Id., Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, Bompiani, Milano, 1995, p. 124. 

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Un’Odissea post-apocalittica https://www.carmillaonline.com/2021/12/16/unodissea-post-apocalittica/ Thu, 16 Dec 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69662 di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi reali identificabili nel viaggio dell’eroe. D’altronde, si è sospettato anche che l’autore dell’Odissea si sia avvalso di un modulo narrativo e cosmologico assai diffuso nel Mediterraneo antico e definito dagli studiosi come «viaggio cosmico», in cui l’eroe di turno è chiamato a dimostrare le sue doti superumane percorrendo i territori più estremi e pericolosi dell’universo1.

Un’allusione al viaggio di Odisseo, ‘riambientato’ in un oscuro nord devastato da una catastrofica guerra, è stata attuata recentemente da Gianluca Di Dio col suo romanzo La Sublime Costruzione. L’allusione è una delle pratiche letterarie che, secondo Gérard Genette, rientrano all’interno della definizione di intertestualità perché essa si configura come «un enunciato la cui piena intelligenza presuppone la percezione di un rapporto con un altro enunciato al quale rinvia necessariamente l’una o l’altra delle sue inflessioni, altrimenti inaccettabile»2. Il viaggio di Odisseo diviene una sorta di macrotema al quale vengono attuate diverse allusioni che prendono corpo sotto le vesti di cinque tappe in cui incorrono i protagonisti del romanzo. Come accennato, nel futuro imprecisato narrato nel libro c’è stata una guerra catastrofica e il protagonista, Andrej Nikto, insieme all’amico Årvo Kettula, dalla sua devastata cittadina intraprende un lungo viaggio nella notte nordica a bordo di una gigantesca corriera bianca che conduce le persone verso una specie di fantomatico cantiere, dove si sta costruendo la «Sublime Costruzione» nel quale tutti potranno trovare un lavoro adatto a loro. Del resto, come avverte l’autore sotto la voce dell’io narrante Andrej, si tratta di una storia «simbolica, farneticante, totalmente esagerata». La ripresa del viaggio odisseico assume perciò tonalità simboliche che vanno a rappresentare «una storia comune, che non si distingue tra passato e futuro, una storia che ogni volta si distrugge per poi riaccadere di nuovo».

Il viaggio di Odisseo si trasforma nella peregrinazione post-apocalittica di Andrej e compagni, rappresentati quasi come dei migranti in fuga dal loro paese devastato dalla povertà e dalla guerra, nonché segnato da catastrofi ambientali provocate dalla stessa guerra. Come ci ricorda Marco Malvestio, sono due i modi con cui la fantascienza racconta le possibili catastrofi del futuro: distopia e romanzo post-apocalittico. Se la distopia evidenzia l’eccessivo sviluppo di alcuni tratti negativi di una società (come la sorveglianza di massa o l’inquinamento), il romanzo post-apocalittico «rappresenta la sopravvivenza di individui e/o società umane dopo un evento catastrofico»3. Rifacendosi al critico Heather J. Hicks, Malvestio nota come i tropi narrativi, in questo tipo di romanzi, siano più o meno sempre gli stessi: bande di sopravvissuti che si trovano a percorrere ambienti urbani distrutti circondati da campagne abbandonate mentre tutto intorno si trova una società regredita e imbarbarita, caratterizzata da una violenza estrema4. Lo stesso sfondo narrativo lo ritroviamo, ad esempio, in altri recenti romanzi italiani. Possiamo ricordare Sirene (2007), di Laura Pugno, che racconta un futuro in cui la società degli umani è costretta a vivere al buio e in città subacquee; Bambini bonsai (2007), di Paolo Zanotti, dove però la dimensione di abbrutimento e violenza è rivestita di toni fiabeschi; Qualcosa, là fuori (2016), di Bruno Arpaia, che racconta la migrazione del protagonista, fra violenze e sopraffazioni, in fuga da un’Italia devastata dall’inaridimento del suolo dovuto al cambiamento climatico; Pietra nera (2019), di Alessandro Bertante, in cui il protagonista deve compiere un viaggio dalle tonalità iniziatiche attraverso una Milano imbarbarita e una pianura padana disseminata di bande violente; Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende  (2020), del collettivo Moira Dal Sito, raccolta di racconti a cura di Wu Ming 1 che mostrano una comunità palafitticola nella bassa ferrarese del futuro, ormai inondata dall’acqua, in cui dominano barbarie e violenze ma anche una solida organizzazione comunitaria.

Nel caso de La Sublime Costruzione l’impianto post-apocalittico della narrazione, in virtù dell’allusione a un ipotesto come l’Odissea, subisce un travestimento dai tratti quasi epicizzanti, allontanati in una lontana e irraggiungibile dimensione epica. Rispetto alle altre narrazioni che seguono questi tropi narrativi, quella allestita da Di Dio possiede una marcata impronta onirica e visionaria. Tutto avviene come in un grande sogno all’interno di una notte polare e ghiacciata. La meta finale, quella «Sublime Costruzione» il cui cantiere può offrire lavoro a tutti, assume importanti tratti utopistici. Dopo l’apocalisse, perciò, c’è ancora spazio per l’utopia: un luogo dove finalmente si può ricostruire una vita all’insegna della normalità. Del resto, la presenza di questo cantiere che offre lavoro a tutti, nella città del protagonista, viene pubblicizzata con manifesti e volantini lanciati dai camion di passaggio. La dimensione utopistica di questo luogo potrebbe far pensare al «Teatro naturale di Oklahoma», sulla cui immagine si chiude il romanzo incompiuto e postumo di Franz Kafka, Amerika (1927). Come il cantiere, anche il «Teatro naturale di Oklahoma», un’enorme organizzazione con musicanti, attori, trombettieri, impiegati d’ogni sorta e che può offrire lavoro a tutti assume connotazioni utopistiche in quanto potrebbe rappresentare, per molti immigrati come il protagonista del romanzo, Karl, la realizzazione utopica di libertà all’interno del nuovo mondo americano.

I capitoli relativi alle cinque tappe che rimandano ai momenti narrativi dell’Odissea recano in esergo delle citazioni dal poema con il luogo testuale al quale si riferiscono. Nel capitolo quinto, intitolato Le pescatrici, si allude agli incanti delle sirene, presenti nel canto XII del poema; nel capitolo sesto, I sonnivori, il riferimento è all’episodio odisseico dei Lotofagi, nel cui paese voleva rimanere chi assaggiava il frutto del Loto; il capitolo settimo, I due colossi, riecheggia invece la sosta di Odisseo e compagni presso l’isola dei Ciclopi e l’incontro con Polifemo; il capitolo ottavo, La corruttrice prodiga, il più lungo e articolato, allude all’episodio di Circe; il capitolo nono, infine, riecheggia i momenti del poema in cui Odisseo incontra le anime dei morti nel paese dei Cimmerii.

Non è mia intenzione, qui, rivelare più di tanto sulla trama del romanzo e su come si configurano le trasposizioni in chiave post-apocalittica dei menzionati episodi omerici. Questo toccherà al lettore scoprirlo. Mi interessa, invece, analizzare la struttura del viaggio messo in scena dall’autore, all’interno del quale le tappe di matrice odisseica sono ben funzionali e opportunamente inserite. Lo spostamento, che costituisce il nucleo principale della narrazione, si configura come una vera e propria immersione amniotica in un mondo onirico, cadenzato appunto dal sogno e dal sonno. Non a caso, la gigantesca corriera bianca è un enorme contenitore di sonno e di sogno, dal momento che si configura come un grande dormitorio nel quale i «reclutati» per il lavoro al cantiere trascorrono il tempo sdraiati su una branda. La corriera avanza nella notte gelida e innevata come un vero e proprio essere mostruoso destinato a percorrere inenarrabili distanze disseminate di soste nel silenzio notturno dove, in lande devastate dalla catastrofe, possono celarsi i rischi più inaspettati. Allora, oltre che con il viaggio di Odisseo, si potrebbero scorgere delle consonanze anche con il viaggio di ritorno degli argonauti, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, nei momenti in cui il viaggio degli eroi si dirama su percorsi incerti e sconosciuti, quando «neppure sapevano / se navigavano sopra le acque / o nel regno dei morti» (IV, 1698-1699).

Il paesaggio è caratterizzato da esterni ed interni spogli e abbandonati, lande desolate o colline innevate disseminate di povere abitazioni, mentre le figure umane sembrano i simulacri di un’esistenza ormai incancrenita in un’abitudine all’orrore. Gli uomini e le donne che si trovano sulla corriera sono una sorta di automi che si muovono spinti più dal caso che dalla necessità di sopravvivenza, pronti a rivoltarsi gli uni contro gli altri per qualsiasi futile motivo. Per certi aspetti, la corriera assomiglia al treno che corre incessantemente nel mondo ghiacciato e devastato messo in scena dal film Snowpiercer (2013) di Bong Joon-ho: in esso l’umanità superstite è costretta a vivere secondo una rigida divisione in classi sociali ma dai vagoni dei più poveri partirà ben presto una inarrestabile rivolta. Sulla corriera de La Sublime Costruzione non ci sono poveri e ricchi o, meglio, i viaggiatori sono tutti dei poveri migranti che cercano una qualche possibilità di sopravvivenza dignitosa presso la «Sublime Costruzione». Nella motrice, invece, alloggiano i «reclutatori» (nonché dei «valletti» destinati alle mansioni pratiche), coloro che, per mezzo di un pervasivo controllo, sanno tutto sulla vita e le attitudini dei reclutati. Né mancheranno, come già accennato, delle vere e proprie lotte tra poveri, risse scatenatesi nei dormitori per i più futili motivi.

Il viaggio post-apocalittico affrontato dai personaggi del romanzo si srotola in un paesaggio onirico e lunare, devastato e ghiacciato, abbrutito nella sua totale disumanizzazione, simile a quello attraversato dall’uomo e dal bambino protagonisti de La strada (The Road, 2006) di Cormac McCarthy. Se quest’ultimo romanzo si riallaccia alla tradizione americana del ‘viaggio di formazione’ sulla strada (basti pensare a London e a Kerouac), in esso, come scrive Giuseppe Panella, «il mito sembra arrivato al capolinea e si congiunge con una visione devastata e livida di un mondo ormai giunto alla sua conclusione ‘innaturale’ per effetto di una non ben identificata e descritta epidemia inarrestabile»5. Il colore predominante nel paesaggio del romanzo di Gianluca Di Dio è il bianco: bianchi sono i campi e le strade innevate, bianca è la mostruosa corriera, «tutta completamente bianca». Nella parte finale della narrazione, dopo le innumerevoli peripezie, i protagonisti aspettano un’altra corriera ed essa si distingue da lontano proprio per il suo biancore quasi accecante: «Dal fondo del pendio sorse un rantolo felpato, e intravedemmo una chiazza di bianco luminosa scivolare sulla coltre, cancellata a tratti dai vortici dei fiocchi». Del resto, il Bianco – nota ancora Panella – «può essere ben più allucinante e devastante dell’emergenza della Nerezza»6, basti pensare all’orrorifico bianco accecante con cui si chiude la Storia di Gordon Pym (The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1837) di Edgar Allan Poe.

Nonostante la narrazione de La Sublime Costruzione rappresenti un viaggio simbolico e onirico, in esso è comunque presente la dimensione del corpo e del basso corporeo, in tutti i suoi aspetti, dalla rappresentazione del corpo degradato, piagato dagli stenti e dalla fatica fino all’evocazione della sfera sessuale e alla pressoché costante presenza del cibo e dei suoi scarti. I personaggi, infatti, durante le soste, si ritrovano spesso intorno a fuochi sui quali stanno cuocendo pezzi di carne sanguinolenta e la divorano facendola a brandelli in modo selvaggio. Anche se i corpi, come afferma Andrej Nikto, sono «incarcerati come fossili nel sedimento incoerente del pensiero», essi non perdono mai la loro preponderante dimensione fisica: copulano, si cibano in modo rozzo e disordinato, si colpiscono, si feriscono, sanguinano, sono sottoposti a sforzi fisici enormi. È il corpo a conferire una nota di colore ‘vivo’, quasi ‘carnevalesco’, all’interno dell’indistinto, glaciale sfondo bianco che avvolge la narrazione.

Del resto, il corpo è probabilmente l’unica ricchezza che questi migranti post-apocalittici possiedono come, d’altronde, i reali migranti contemporanei al confine fra Bielorussia e Polonia, imprigionati in un’apocalisse che sta avvenendo sotto i nostri occhi, rimbalzata ogni dove sui media, e di fronte alla quale siamo miseramente impotenti. Corpi di uomini, donne e bambini attanagliati dal freddo glaciale, in un altro apocalittico nord, costretti a viaggi inenarrabili, bloccati, esclusi, indesiderati, fra le macerie della catastrofe capitalistica. Ma la narrazione de La Sublime Costruzione si chiude con un accento di speranza, nell’immagine di una nuova creatura venuta al mondo, anche se si tratta di un mondo post-apocalittico: «fino all’ultimo dovremo apparecchiarci a un interminabile cammino di speranze. In questo viaggio astruso e senza ritorno, forse mostruoso, ma che immancabilmente dischiuderà la vita e la sua immancabile bellezza».

Che alla fine del viaggio ci sia, se non un’Itaca da raggiungere, almeno uno spazio di nuova vita e di nuova resistenza.


  1. Cfr. M. Bettini, C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino, 2010, p. 58. 

  2. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it. Einaudi, Torino, 1997, p. 4. 

  3. M. Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo, Milano, 2021, p. 20. 

  4. Cfr. ivi, pp. 20-21. 

  5. G. Panella, Il disastro prossimo venturo. Distopia, apocalisse, fantascienza: tra Saramago e Ballard passando per Cormac McCarthy, in N. Turi (a cura di), Ecosistemi letterari. Luoghi e paesaggi nella finzione novecentesca, Firenze University Press, Firenze, 2016, p. 231. 

  6. Ivi, p. 228. 

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Al bar Pilade, fra bombe e complotti https://www.carmillaonline.com/2021/07/04/al-bar-pilade-fra-bombe-e-complotti/ Sun, 04 Jul 2021 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67001 di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano [...]]]> di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano al «banco di zinco» del bar nel «periodo in cui tutti si davano del tu, gli studenti ai professori e i professori agli studenti. Non parliamo della popolazione di Pilade: “Pagami da bere”, diceva lo studente con l’eschimo al caporedattore del grande quotidiano. Sembrava di essere a Pietroburgo ai tempi del giovane Sklovskij. Tutti Majakovskij e nessun Zivago»1.

L’ambientazione di quello stesso bar Pilade del Pendolo compare nella seconda parte del saggio di Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, uscito recentemente per Alegre, intitolata QAnon: filamenti di genoma transatlantico, collected from good authorities. Ho definito come “saggio” l’ultima opera di Wu Ming 1 ma probabilmente devo correggermi: si tratta, infatti, di un UNO, cioè – parafrasando l’acronimo UFO, “Unidentified Flying Object” – di un “Unidentified Narrative Object”, cioè un oggetto narrativo non identificato. L’espressione è stata coniata dallo stesso Wu Ming 1 in un intervento comparso su “Carmilla” nel settembre del 2008 (New Italian Epic 2.0): «gli UNO sono esperimenti dall’esito incerto, malriusciti perché troppo tendenti all’informe, all’indeterminato, al sospeso. Non sono più romanzi, non sono già qualcos’altro». Si tratta in sostanza di una forma ibrida, sorta sulla scia di quella linea multiforme e menippea messa in evidenza da Michail Bachtin soprattutto nel suo saggio su Dostoevskij. Del resto, nella letteratura è già possibile individuare una forma a metà tra romanzo e saggio, il cosiddetto “metaromanzo”, cioè un romanzo che riflette su stesso e sulle sue forme, individuabile già a partire da La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo (The Life and Opinions of Tristram Shandy Gentleman, 1759-1767) di Laurence Sterne fino a Petrolio (1992) di Pier Paolo Pasolini.

Però, gli UNO si pongono anche al di là del metaromanzo: sono, come accennato, forme ibride, composte da reportage giornalistici, stralci narrativi, poesie, prose poetiche, il tutto combinato insieme per mezzo di svariati stili secondo la tecnica del pastiche. Insomma, il bar Pilade è l’ambientazione dell’ultima parte di La Q di Qomplotto il quale, per il solo fatto di riallacciarsi ad una precedente opera come Il pendolo di Foucault assume delle caratteristiche peculiari. L’autore (che si trasforma in personaggio e narratore) fa un sogno («Fu quella notte che feci il sogno»: così si conclude la prima parte del libro, quasi in una citazione dell’incipit del romanzo di Eco, «Fu allora che vidi il pendolo») e si trova proiettato in una dimensione a metà fra gli anni Settanta e il gennaio 2021 («Un 2021 parallelo, dove i bar erano aperti e nessuno portava la mascherina», QdQ, p. 395). È qui che, novello Casaubon, l’autore-personaggio racconta a Belbo e Diotallevi, gli editori del Pendolo, storie di complotti italiani, poi messi a nudo. L’andamento saggistico del libro, prevalente nella prima parte, assume perciò un aspetto narrativo: il saggio si trasforma in romanzo pur non perdendo il suo aspetto saggistico, il quale viene adesso intervallato da piccole scenette che avvengono all’interno del bar dove, ad ascoltare la storia, si trovano anche alcune giovani studentesse. Mentre l’autore racconta, preso dal suo narrativo impeto onirico, alcune esplosioni fanno tremare i tavolini e il bancone del bar, perché – come afferma Belbo – «sono anni di bombe, quelli che viviamo» (QdQ, p. 533).

L’operazione realizzata da Wu Ming 1 a partire dal romanzo di Eco rientra all’interno delle pratiche ipertestuali analizzate da Gérard Genette in Palinsesti (uno studio sulla «letteratura al secondo grado»), e potrebbe essere definita come una «amplificazione» del Pendolo di Foucault, cioè una vera e propria espansione narrativa. Lo scrittore, infatti, aggiunge delle situazioni narrative non presenti nell’opera originaria creando anche un nuovo personaggio, Valentina Belbo, la giovane cugina di Iacopo. Del resto, La Q di Qomplotto è costruita come un’opera intertestuale e incline al pastiche (inteso come pratica ‘imitativa’), un mastodontico contenitore che include innumerevoli riferimenti alla cultura, alla società e alla politica. La parte finale della prima parte, a partire dal capitolo 22, significativamente intitolato La virulenza illustrata, è scritta con uno stile che rimanda esplicitamente a Nanni Balestrini (lo stesso titolo del capitolo è ricalcato su quello del romanzo di Balestrini, La violenza illustrata, del 1976): la narrazione si velocizza in uno stile rapido e dal taglio giornalistico mentre scompare praticamente del tutto la punteggiatura. Ma è indubbiamente Il pendolo di Foucault «il libro delle metastasi» (così è intitolato il capitolo 4), un’opera che Wu Ming 1 ha tenuto costantemente presente nella stesura del suo lavoro:

Il pendolo di Foucault era tante cose: un romanzo di formazione (e deformazione), un’enciclopedia esoterica impazzita, una testimonianza sull’industria culturale italiana nel passaggio tra anni Settanta e Ottanta, e soprattutto una riflessione sulle fantasie di complotto: come nascevano, come si sviluppavano, come parlarne. Riflessione molto più comprensibile trent’anni dopo, nel passaggio tra gli anni Dieci e Venti del nuovo secolo. Eco aveva raccontato – senza mai voler essere “futuribile” – il mondo in cui mi trovavo ora, mentre facevo inchiesta su QAnon e dintorni (QdQ, p. 70).

A partire dal romanzo di Eco l’autore arriva fino a «QAnon e dintorni» per dimostrare come «le fantasie di complotto difendono il sistema». Sotto il nome di QAnon si indica una teoria del complotto di estrema destra, sorta negli Stati Uniti, secondo la quale esisterebbe una sorta di deep state che trama contro l’ex presidente Donald Trump per scardinare l’ordine mondiale, colluso con reti di pedofilia e misteriose pratiche ebraiche. Secondo Wu Ming 1, le principali definizioni da applicare a QAnon sono cinque:

1. un gioco di realtà alternativa divenuto mostruoso;
2. un modello di business;
3. una setta che praticava forme di condizionamento mentale;
4. un movimento reazionario di massa che cercava di entrare nelle istituzioni;
5. una rete terroristica in potenza (QdQ, p. 21).

La teoria del complotto difende il sistema perché quest’ultimo viene additato come la vittima di un ipotetico e inesistente deep state: «Nella propaganda di QAnon il potere occulto era la megalobby satanista e pedofila che controllava il deep state, e il contropotere rivoluzionario era la Casa bianca di Trump. Nella propaganda nazista, che forniva il precedente più ovvio, il potere occulto era l’internazionale giudaica e il contropotere rivoluzionario era il regime di Hitler» (QdQ, p. 52). Infatti, «chi credeva a fantasie di complotto tendeva ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche» (QdQ, p. 163). E la violenza è una delle pratiche adottate per difendere il sistema: l’autore passa in rassegna gli omicidi targati QAnon nonché il tentativo di strage messo in atto da Maddison, un giovane della North Carolina che, nel dicembre del 2016, armato, si era recato a Washington D.C. per punire i perversi pedofili del Comet Ping Pong, un locale nei cui sotterranei, secondo la vulgata complottista, sarebbe stato schiavizzato e violentato un numero indefinibile di bambini.

L’autore, in modo abile, pone sotto la sua lente diverse narrazioni di complotto che si sono instillate nelle menti delle persone, a partire dalla caccia alle streghe di Salem fino alla teoria della sostituzione etnica e ai Protocolli dei Savi di Sion, passando attraverso le idee che consideravano l’allunaggio una messa in scena o quelle sulla ipotetica morte di Paul McCartney nonché sui retroscena esoterici delle canzoni dei Beatles. Il suo intento – ben riuscito e ben calibrato – è quello di un debunking, cioè di uno smascheramento delle fake news e delle narrazioni tossiche. Per arrivare, dagli Stati Uniti, fino in Italia. E allora, una serie di capitoli intitolati In viro veritas? analizza in modo sottile la narrazione virocentrica che si è sviluppata nel nostro paese a partire dall’emergenza Covid, nel marzo 2020. Una narrazione dominante che ha attraversato e continua ad attraversare le coscienze degli individui: come lo stesso collettivo Wu Ming (a cui appartiene l’autore di La Q di Qomplotto) ha evidenziato in una serie di lucidi articoli apparsi sul blog «Giap» nel periodo dell’emergenza (fra i pochi che, in quello stesso periodo, valeva la pena leggere), invece di dare la colpa dell’insorgenza del virus a un sistema capitalistico malato che commercia carne su larga scala, deforesta, crea ovunque industrie tossiche, si tendeva, appunto «ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche». Ecco allora la famigerata colpevolizzazione del cittadino, rilevata in modo lucido anche dal sociologo Andrea Miconi nel suo saggio Epidemie e controllo sociale (qui la recensione su “Carmilla”): la colpevolizzazione di chi esce senza motivo, dei runner, di chi non porta la mascherina all’aperto e via di seguito. Una narrazione dominante scaturita dall’emergenza pandemica perché, come nota Wu Ming 1 per mezzo di una efficace metafora, quella stessa emergenza «esasperava tutte le tendenze che andavo descrivendo, stagliandole contro una luce violentissima, una lampada da terzo grado puntata in faccia al mondo» (QdQ, p. 301).

Infine, nella già citata seconda parte del suo saggio che, sub specie narrationis, si ambienta al bar Pilade, lo scrittore analizza i «filamenti di genoma transatlantico di QAnon», dalla caccia alle streghe al «revival di Satana», attraversando e scandagliando gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Fino agli anni Novanta, per rivolgere la sua attenzione ancora all’Italia e al caso “Bambini di Satana”, quando nel 1996 viene arrestato a Bologna Marco Dimitri insieme ad altri esponenti dell’associazione «Bambini di Satana». Un’associazione culturale vicina alla sinistra antagonista che – è bene precisarlo – non ha niente a che fare col Maligno o l’Anticristo: «Per “satanismo”, Dimitri e soci non intendono una versione capovolta del cristianesimo ma una miscela di neopaganesimo, panteismo, libertinismo, anarchismo… I numi tutelari vanno da Aleister Crowley ad Arthur Rimbaud» (QdQ, pp. 515-516). Le accuse nei loro confronti sono svariate «e cambieranno di continuo, in un proliferare di fattispecie di reato: violenza sui minori, violazione di sepolcro, profanazione di cadavere…» (QdQ, p. 515). Stupri, rapimenti, bambini infilati nelle tombe, messe nere nei cimiteri della Bassa ma nessuno che si sia mai accorto di nulla. Nessuno si è mai accorto di nulla semplicemente perché non c’è stato niente di tutto questo, come non esisteva nessun sotterraneo al Comet Ping Pong. Lo stesso autore, insieme ad altri del collettivo Wu Ming, allora Luther Blisset Project, ha svolto all’epoca una controinchiesta per smascherare questa ridda di accuse, montate da diversi quotidiani e soprattutto da Il Resto del Carlino. La controinchiesta di Luther Blisset, come molte delle sue iniziative, ha una sottile origine letteraria, modellata sull’inchiesta realizzata dall’investigatore Dupin in Il mistero di Marie Rogêt di Edgar Allan Poe: nel racconto, Poe riflette su come la cronaca ha raccontato l’omicidio di Marie Cecilia Rogers, avvenuto a New York nel 1841, ricostruendo le incongruenze, giustapponendole e facendole giocare l’una contro l’altra. Così, «a partire dal settembre del 1996, semplicemente facendo le pulci al Carlino, esponiamo le aporie del teorema giudiziario, critichiamo la linea della procura e mostriamo le dinamiche della mostrificazione a mezzo stampa» (QdQ, p. 531). Alla fine, anche grazie a questa controinchiesta, le coscienze si smuovono, si creano delle brecce nella narrazione dominante e alla fine Dimitri (che si era fatto 400 giorni di carcere, molti dei quali in isolamento) e gli altri vengono assolti. Si è creata una breccia nel «satanic panic», in quel credere ciecamente nell’esistenza di una setta di satanisti pedofili che gode di protezione in alto e di cui fanno parte anche uomini di potere, già preesistente in Europa e in Italia prima di QAnon. Perché, come leggiamo in un articolo a firma Wu Ming uscito su «Giap», dal titolo Sulla morte di Marco Dimitri (13 febbraio 1963-13 febbraio 2021), «non sono “americanate”. Quella merda l’abbiamo inventata noi». E a Marco Dimitri (scomparso nel febbraio di quest’anno), che si era avvicinato al Luther Blisset Project e alla Wu Ming Foundation, è affettuosamente dedicato La Q di Qomplotto.

Ma non è finita qui: le ultime pagine del libro ci narrano, nell’ormai silenzioso e notturno bar Pilade, altre vicende di «satanic panic» nella bassa padana, accuse di pedofilia e presunto satanismo in quella che sembra ormai diventata – come suonava il titolo di una canzone dei CCCP – una vera e propria «Emilia paranoica». Ma la penna, la voce e la narrazione dell’autore continuano instancabili in una lucida opera di debunking, di smascheramento, nella volontà e convinzione di proferire una verità critica, quasi come un antico parresiastes. Infatti, come afferma Michel Foucault, la funzione della parresia (dire la verità a costo di un rischio) nella Grecia antica «non è di dimostrare la verità a qualcun altro, ma quella di esercitare una critica»2. Ed è una vera e propria critica in nome della lucidità di pensiero quella portata avanti dallo scrittore in tutte le cinquecentonovantuno pagine del suo libro, per smascherare paure e superstizioni, quelle narrazioni dominanti che si fanno largo fra bombe e complotti, per «creare un immaginario liberatorio e alternativo contro un immaginario tossico»3, fino agli ultimi lembi narrativi che si srotolano in quell’onirico e stupendo bar notturno.


  1. U. Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, 1994, p. 71 

  2. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 2005, p. 8 

  3. Come si è efficacemente espresso Alberto Prunetti in occasione di una recente presentazione del libro alla “Corte dei Miracoli” a Siena, insieme all’autore. 

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Nello spazio della memoria, nella danza del Tempo https://www.carmillaonline.com/2021/04/29/nello-spazio-della-memoria-nella-danza-del-tempo/ Thu, 29 Apr 2021 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66178 di Paolo Lago

Daniele Petruccioli, La casa delle madri, Terrarossa, Bari, 2020, pp. 292, € 16,00.

Daniele Petruccioli, studioso e traduttore, col suo romanzo d’esordio La casa delle madri, ci regala con grande maestria il delicato affresco di una saga familiare caratterizzato da una scrittura sinuosa e avvolgente. Una scrittura che – per mezzo delle sue volute, del suo navigare attraverso le onde della memoria, dei suoi incisi fra parentesi che assumono la stessa erranza nomadica del pensiero – sembra mimare lo scorrere del tempo attraverso un vero e proprio viaggio testuale, una [...]]]> di Paolo Lago

Daniele Petruccioli, La casa delle madri, Terrarossa, Bari, 2020, pp. 292, € 16,00.

Daniele Petruccioli, studioso e traduttore, col suo romanzo d’esordio La casa delle madri, ci regala con grande maestria il delicato affresco di una saga familiare caratterizzato da una scrittura sinuosa e avvolgente. Una scrittura che – per mezzo delle sue volute, del suo navigare attraverso le onde della memoria, dei suoi incisi fra parentesi che assumono la stessa erranza nomadica del pensiero – sembra mimare lo scorrere del tempo attraverso un vero e proprio viaggio testuale, una erranza nel tempo che si colloca in un preciso spazio. O, meglio, in due spazi, in due case. Una è la casa al mare, chiamata “la casa delle onde”, l’altra è la “casa delle madri”, l’enorme appartamento cittadino appartenente da generazioni alla famiglia del “notaio”. Le case sono le vere protagoniste di un racconto che apre varchi nello spazio della memoria, momenti quasi incantati nei quali la realtà, per mezzo di recondite magie, diviene probabilmente più comprensibile. E allora, col Montale della Casa dei doganieri possiamo chiederci: “Il varco è qui?”. Forse sì, il varco è qui, nelle stanze delle nostre case avite: e, se da esse ci separiamo, ci priviamo, per certi aspetti, anche di noi stessi, della nostra più segreta essenza.

Il romanzo si apre con la “casa delle madri” sventrata, senza mobili, senza pavimento, piena di buchi e aperture effettuate dai muratori che stanno lavorando per la “nuova proprietà”. All’inizio la casa appare come un vero e proprio corpo pulsante: un corpo martoriato e ferito ma pronto per essere ricomposto per una nuova vita, per essere riconsegnato a un nuovo tempo, quello del futuro, che poi si ritrasformerà inesorabilmente in passato. La scrittura di Petruccioli attua un vero e proprio “gioco col tempo”, come ha notato Gérard Genette a proposito dello stile della Recherche proustiana. Si tratta – scrive Genette – di “interpolazioni, distorsioni e condensazioni temporali” che aprono la scrittura a numerose anacronie. Perché, in definitiva, in Proust, la descrizione diventa narrazione e si svolge nell’arco di un tempo caratterizzato da costanti anacronie ma anche da ritorni. Si tratta, infatti, di una temporalità iterativa. Nella narrazione messa sapientemente in atto da Petruccioli le descrizioni si trasformano in narrazione, all’interno di uno stile in cui sono praticamente assenti la forma mimetica e i dialoghi. La narrazione – e la narratività primaria del suo romanzo – è tutta nella forza sinuosa e avvolgente delle descrizioni delle case-corpi, spazi fisici, profondamente corporei, ma anche spazi mentali, esistenti quasi in funzione della mente dei personaggi che abitano quegli stessi spazi. Ed ecco che dall’ambiente generatore di personaggi profondamente corporei emerge una vera e propria saga familiare venata di magia che ci può far pensare sia a Menzogna e sortilegio di Elsa Morante che a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Marquez. I personaggi di Speedy e Sarabanda ricordano, appunto, quelli di Garcìa Marquez: quasi ‘magici’, dotati di una bellezza e di una essenza per certi aspetti soprannaturali. Sarabanda che, uscendo dalla terrazza, corre sui tetti della città per rincorrere Armanda, il gatto maschio con un nome da femmina, appare come rivestita di una grazia surreale e incantata, conferendo un senso di levità e di leggerezza (in senso positivo, quella stessa leggerezza di cui Calvino tesseva le lodi nelle sue Lezioni americane) all’intera narrazione. Sarabanda è un personaggio lieve, leggero, incantato, rivestito di una magica grazia, come il nome che porta, il quale indica, non a caso, una danza lenta e solenne che ha la sua probabile origine in una sfrenata danza spagnola d’amore. Anche Speedy, il marito della ragazza, evoca nel suo nome la velocità e la leggerezza, caratteristica che emerge non da ultimo nel loro libertario stile di vita, la cui giovinezza si colloca tra fine anni Sessanta e inizio Settanta, essendo loro figli del Sessantotto e della contestazione.

Ad una coppia eterea e quasi ‘incantata’, magicamente separata dalla realtà come Speedy e Sarabanda, innamorati ma ben presto separati, ne corrisponde una prepotentemente fisica e ‘corporea’ come Ernesto ed Elia, i loro due figli gemelli. Ernesto, segnato fin dalla nascita da una malattia congenita che gli ha paralizzato la mano destra e compromesso l’uso di una gamba, porterà sempre con sé le stigmate di un corpo malato e sofferente che, quasi a confermarne la prorompente fisicità, obnubilerà con l’uso di alcool e droghe. Elia, connotato da un ambiguo e sfuggente eros, si caratterizzerà invece come il custode in ombra del fratello, in un rapporto di amore-odio dai tratti sado-masochistici fino a sfiorare le più oscure ossessioni del doppio e della polarità gemellare. Le due coppie sono immerse nel ventre buio e meraviglioso delle due case (anch’esse costituenti una sorta di coppia), in lunghissimi corridoi notturni ma anche in stanze quasi sospese sui tetti della grande città (che rimanda sottilmente a Roma, città dell’autore), le cui finestre riverberano della luce del sole e della luce che si riflette nelle acque del fiume che scorre molto più in basso, ma sono immerse anche nelle camere della casa al mare che, invece, si affacciano sull’azzurra distesa marina e sul vento.

Le case sono anche sature di oggetti memoriali e oggetti-feticcio che, al pari dei luoghi e degli spazi, sono importanti veicoli di affettività: “Noi crediamo di legarci a relazioni, sentimenti, persone; ma siamo molto più legati ai luoghi e agli oggetti che hanno accolto noi, e queste persone, coi sentimenti che ci siamo suscitati a vicenda e le relazioni che abbiamo intessuto. Sono i luoghi e gli oggetti (i corpi, i corpi puri e semplici), con la loro malleabilità, la loro possibilità di essere toccati, la capacità di adattarsi, a raccontarci di quelle relazioni, di quelle persone e dei nostri sentimenti verso di loro: a dirci, cioè, di noi”. Come scrive Massimo Fusillo in Feticci, “riattivare la memoria è forse il ruolo che l’oggetto svolge più di frequente in letteratura”, a partire dalla stagione del grande romanzo europeo di Goethe e Dickens. “Sfruttando il meccanismo retorico della sineddoche” – continua lo studioso – “con la sua densità corposa l’oggetto evoca un intero mondo di affetti e di ricordi: è una parte che, tramite la sua potenza visiva, riesce a sostituire con particolare efficacia il tutto”. Gli oggetti che si trovano, come vere e proprie sedimentazioni della memoria, nelle stanze delle due case evocano, appunto, un vero e proprio “mondo di affetti e di ricordi”, un mondo che, nelle ristrutturazioni, vere e proprie distruzioni devastanti, viene spazzato via. E oggetti memoriali sono anche le pareti distrutte, i tramezzi sfondati, i pini abbattuti perché ostacolano la vista del mare, il praticello, un tempo brulicante di piccola vita, inesorabilmente pavimentato e cementificato.

All’interno di questi spazi della memoria, quasi essenza stessa del corpo-casa, ci sono i morti, le ombre, le presenze che ancora animano quei luoghi delineate in un impianto tematico che appare come una variante leggera e allusiva del topos letterario della casa infestata. Eppure, sembra che le presenze della “casa delle onde” e della “casa delle madri” non amino manifestarsi esplicitamente ai vivi, come da tradizione. Secondo quanto scrive Massimo Scotti nella sua Storia degli spettri, infatti, scopo ultimo dello spettro è “quello di manifestarsi al vivente, dissimulando o enfatizzando la qualità arcana del contatto” mentre “ai vivi tocca il compito di diffondere la narrazione, legando così un luogo alla leggenda di un incontro soprannaturale”. Perché, in fin dei conti, come leggiamo nel romanzo, “la casa è divisa in due. I morti si aggirano per camere scomparse, facendo inciampare i vivi in cose che non dovrebbero stare dove stanno”, mentre “famiglie di vivi” condividono i loro spazi con “schiere di morti che non hanno nessuna contezza di compravendite, frazionamenti, divisioni, e continuano ad attraversare gli spazi”. E così, nelle due case sopravviveranno le presenze del notaio e della moglie, di Speedy e di Sarabanda così come, ai tempi in cui essi erano in vita, in quelle stesse case sopravvivevano le presenze di altre persone che precedentemente le avevano abitate. Il gioco col tempo si trasforma in una danza ostinata e leggiadra di presenze, in una vera e propria sarabanda di ombre e di sguardi velati e inconsistenti. Le case sono divise in due, coabitate dai vivi e dai morti, come in Casa tomada di Julio Cortázar (e come nel film The Others, di Alejandro Amenábar), in cui le presenze spettrali emergono dalle spazialità di case che conservano i ricordi del passato. E quelle stesse presenze si possono manifestare in forma più esplicita, forse, agli esseri più sensibili, gli animali, come in questa leggiadra apparizione di Sarabanda-spettro, seduta a guardare il mare: “Da dietro la vetrata, ogni tanto un topolino si alza sulle zampe posteriori e, vuoi per l’effetto controluce del tramonto, vuoi per il rifrangersi dei raggi sulla vetrata (vuoi perché a volte i morti si dimenticano, o non si curano, di lasciarsi vedere da animali e da quegli esseri umani più affini ad altre specie), riesce a fissare i suoi due occhietti sulla figura in trasparenza di una signora accoccolata, con i capelli crespi e le gambe lunghe e magre, la testa voltata verso il mare”.

Ma i veri spettri sono probabilmente i nostri ricordi e continuano a vivere nella memoria, negli spazi che coincidono con essa perché saturi di immagini che appartengono a noi stessi. Quegli spazi, alla fine, siamo proprio noi perché, come scrive Emily Dickinson, “non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro”. Siamo noi, indissolubilmente legati a oggetti, luoghi, case, muri, pareti, finestre, sguardi che si aprono sui paesaggi del ricordo. La sapiente scrittura di Petruccioli ce lo rammenta in modo elegante e gentile, e ci invita a una leggiadra danza, a una magica sarabanda che, contemporaneamente, è un incantato gioco col Tempo.

 

Riferimenti bibliografici:

M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Il Mulino, Bologna, 2012.

G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, trad. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino, 1976.

M. Scotti, Storia degli spettri. Fantasmi, medium e case infestate fra scienza e letteratura, Feltrinelli, Milano, 2013.

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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