George Clooney – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un film, una serie, un libro https://www.carmillaonline.com/2021/05/02/un-film-una-serie-un-libro/ Sun, 02 May 2021 20:30:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66197 di Mauro Baldrati

THE AMERICAN

È un noir del 2010, ambientato in Italia, a Castel del Monte. Quindi niente metropoli tentacolari, niente luoghi esotici sfigurati dalla guerra, niente gangsta rapper papponi con cinque chili di collane d’oro, ma un tranquillo paesino arroccato sui monti abruzzesi. Ma l’atmosfera è quella del noir duro e puro: cupo, violento, spietato. E non manca il risvolto romantico con interfaccia disperata, che resta pur sempre una qualità del noir. D’altra parte il killer Jack, magistralmente interpretato dall’americano italianizzato George Clooney, si porta dietro un fantasma col quale non [...]]]> di Mauro Baldrati

THE AMERICAN

È un noir del 2010, ambientato in Italia, a Castel del Monte. Quindi niente metropoli tentacolari, niente luoghi esotici sfigurati dalla guerra, niente gangsta rapper papponi con cinque chili di collane d’oro, ma un tranquillo paesino arroccato sui monti abruzzesi. Ma l’atmosfera è quella del noir duro e puro: cupo, violento, spietato. E non manca il risvolto romantico con interfaccia disperata, che resta pur sempre una qualità del noir. D’altra parte il killer Jack, magistralmente interpretato dall’americano italianizzato George Clooney, si porta dietro un fantasma col quale non si viene a patti: durante una vacanza con una ragazza che forse ama tra le romanticissime nevi della Svezia viene attaccato da una coppia di killer. Riesce a ucciderli, ma si è comunque bruciato nei confronti della ragazza. Così è costretto a piantarle una pallottola nella nuca, a tradimento. Poi si nasconde a Castel del Monte, in solitudine, morto dentro, senza mai sorridere, parlando a monosillabi, quasi esclusivamente col prete, che ha anche lui i suoi segreti, e sembra leggergli dentro. Intanto il suo intermediario gli manda un’affascinante assassina che ha bisogno di un fucile speciale di precisione. E qui inizia l’intrigante capitolo dell’assemblaggio dell’arma, della ricerca dei materiali, dei gesti calmi e precisi del professionista. Nel frattempo soddisfa i suoi impulsi sessuali con la prostituta di un bordello (Violante Placido), con la quale, lentamente, ritrova la sua perduta affettività, riuscendo, forse, a sfuggire all’abisso mortifero del suo passato. Ma è un noir, non una commedia edificante. Così arrivano altri due “svedesi”, che l’hanno di nuovo scovato, e la sezione “crime” riprende vigore. A ciò si aggiunge che, dopo avere comunicato all’intermediario la sua intenzione di ritirarsi (per rifarsi una vita con la ragazza – una speranza incompatibile col karma negativo dell’eroe Jack), l’assassina riceve il nuovo incarico di farlo fuori. Perché è noto che nel mondo noir dei killer il ritiro non è ammesso. Dunque ci può essere redenzione? Forse sì, ma alla sua maniera. Siamo in piena epica degli eroi, e difficilmente un appartenente alla categoria può concludere il suo percorso camminando verso il sole che sorge… Bello, classico e avvincente. Su Netflix, voto 8.

THE SERPENT

Imperdibile questa miniserie inglese (8 episodi), ambientata in un luogo e in un tempo che più fascinosi non si può: gli anni Settanta lungo gli itinerari del turismo studentesco hippy, Bangkok, Katmandu, Goa. Anni e luoghi di avventure un po’ maledette, voglia di libertà e di sfide, di amori occasionali, ma anche autodistruzione, follia e morte. È tratta da una storia vera, e non è un docu-film, ma un’opera romanzata quanto basta. Nel variegato, multicolore popolo giovanile undergroud sempre un po’ allo sbando si annida una coppia di mostri, Charles Sobharaj e la sua compagna Marie-Andrée Leclerc, che seducono, letteralmente, i turisti in difficoltà (Charles è The serpent, per il suo trasformismo e la sua potenza ipnotica). Lui li individua immediatamente, col suo talento di predatore; poi li circuiscono, li strangolano e li bruciano. Rubano i loro passaporti, forse il bene più prezioso, perché permettono ai due di mimetizzarsi con identità pulite, i soldi e gli oggetti di valore. Il film si prende le sue libertà narrative, per esempio il veleno: i due serial killer lo usano regolarmente per stordire le vittime, ma nella realtà questa modalità era utilizzata solo raramente; poi i dialoghi, che sono inventati, e i luoghi adattati per esigenze scenografiche. Ma il tutto è credibile, verosimile e avvincente. Per esempio, nel film la cattura del serpent avviene per la tenacia di un impiegato dell’ambasciata olandese, Herman Knippenberg, che, sfidando come un vero eroe senza macchia e senza paura l’indifferenza pelosa del suo ambasciatore (non sono fatti nostri, ci deve pensare la polizia – che ovviamente è ancora più menefreghista e anche corrotta) continua a indagare, spinto dalla tenacia dell’anima pura, mettendo a rischio la sua carriera. Nella realtà la cattura è avvenuta perché tre studenti francesi hanno resistito al veleno e sono riusciti a bloccarlo e a farlo arrestare. Tutt’ora Sobharaj è in carcere in Nepal. Gli episodi scorrono con un’ottima sceneggiatura, attori adeguati, e soprattutto una fotografia perfetta, coi colori slavati anni ’70, le location caotiche e colorate. Solo verso la fine si fa un po’ convulso, ma di capolavori che non cedono mai fino alla parola fine ce n’è… quanti ce n’è? Su Prime video, voto 9.

ULTIMA NOTTE A MANHATTAN

L’ultimo romanzo pubblicato di Don Winslow (Einaudi stile libero, Torino 2021, pagg. 346 € 18.50) non si può definire bello. Ma neanche brutto. C’è da aspettarselo con Winslow. Accanto a grandi libri ci ha rifilato patacche come I re del mondo (che sarebbe il prequel dell’ottimo Le belve), o il meno che mediocre Corruzione. Per cui, attenzione. Ma io, da perfetto italiano medio che non impara mai dagli errori, ci ricasco sempre. Intanto non comincia come un noir, e non prosegue neanche come tale. C’è un lungo dialogo iniziale tra il protagonista, Walter Whiters (il libro fu pubblicato nel 1996, quindi la quasi anonimia con Heisenberg è una coincidenza?) e la fidanzata, che in gergo si definisce telefonato, o chiacchiericcio: romanticume che sembra costruito dal più aprovveduto dei dialoghisti. E le pagine 172-73 sono a dir poco imbarazzanti: una passeggiata sdolcinata per l’adorata Manhattan durante le feste natalizie, un innesto di romanzo rosa stile Harmony piuttosto stucchevole. Poi, per due terzi del romanzo, non succede mai un tubo. Walter Whiters è un ex reclutatore della CIA che si è ritirato e ora fa il private eye per un’agenzia di security. Viene assegnato a un senatore, promettente futuro Presidente, come guardia del corpo. In gergo, un gorilla. Beh, diventa immediatamente un pari del senatore. Così, di punto in bianco. A un party il senatore, e soprattutto l’avvenente moglie, non parlano che con lui, con brillanti battute upper, pura ironia all’americana in una inverosimile simbiosi tra classi sociali che fa sorridere, per dire di peggio. Ma siamo pur sempre italiani, dotati di una pazienza infinita e sempre disposti a incassare calcioni nelle gengive senza battere ciglio. Così, avanti, sempre avanti.

Però. Però.

Salta fuori una minuscola ancora di salvezza. Al party fa irruzione una banda di beat ubriachi. Ah, già: siamo negli anni Cinquanta, anche se il decennio non si “sente” nel testo. Non si spiega, alcuni romanzi trasudano l’epoca in cui sono ambientati, altri, come questo, sono calati in un’era standard con alcuni dettagli posticci che non richiamano alcuna fusion. La masnada è guidata da uno scrittore diventato famoso per la pubblicazione di un romanzo beat. Costui, McGee, è chiaramente Jack Kerouac. E’ una sorpresa carina. Ma all’inizio l’autore, attraverso il suo protagonista, che è un americano old fashion di tipologia repubblicana anche se è solidamente posizionato nel campo democratico, lo prende in giro; diciamo pure che lo prende per il culo abbastanza pesantemente. E questo non è per nulla carino. Però poi si riprende, si redime, facendone un amico prezioso, sempre sballato ma generoso che lo aiuterà addirittura a risolvere l’oscuro, ragnateloso intreccio in cui si ritroverà impigliato. E così, finalmente, l’ultimo terzo prende il volo e si tuffa nel ritmo del vero thriller, avventuroso, ben calibrato, condotto con mano ferma dall’ottimo artigiano, con dialoghi brillanti e descrizioni riuscite. Con qualche problema però: a un certo punto, poiché la vicenda è parecchio intricata (e qui il lettore deve stare attento, perché alcuni dettagli precedenti che sembrano inspiegabili vengono chiariti col rischio di averli dimenticati), il nostro eroe si trova impantanato e non sa più come cavarsela. E allora il vecchio marpione che fa? Come si disimpegna? Come fanno molti autori di thriller quando finiscono nella cacca: ricorre al caso. Di lì passa un suo amico che ha addirittura un fucile a canne mozze sotto il soprabito col quale neutralizza i due scherani che l’hanno catturato. Ma guarda un po’ che colpo di fortuna eh? Così Whiters può concludere l’indagine, mettere a posto i tasselli mancanti e chiudere il caso, a dire il vero un po’ troppo complicato. Insomma, si può consigliare un libro con due terzi di zavorra? E per lo stesso motivo lo si può stroncare se ci offre un terzo di testo che scorre e diverte? Scelta difficile. Voto: NC

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 65 https://www.carmillaonline.com/2014/12/18/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-65/ Thu, 18 Dec 2014 22:00:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19183 di Dziga Cacace

Signori, io mi scuso con tutti voi, ma questa fiction è veramente tremenda (René Ferretti)

ddv6501717 – Finché dura, Lost – Terza serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2006 L’impressione forte è che gli sceneggiatori mi stiano pigliando pesantemente per il culo, accumulando materiale narrativo, inghippi e probabili sòle che chissà se poi avranno un esito coerente. Però sto al gioco anche se – e già di mio – sono nel pallone più totale. Mettiamoci poi che la seconda serie l’ho vista due anni fa, non dormo da un quadrimestre e la memoria è quella [...]]]> di Dziga Cacace

Signori, io mi scuso con tutti voi, ma questa fiction è veramente tremenda (René Ferretti)

ddv6501717 – Finché dura, Lost – Terza serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2006
L’impressione forte è che gli sceneggiatori mi stiano pigliando pesantemente per il culo, accumulando materiale narrativo, inghippi e probabili sòle che chissà se poi avranno un esito coerente. Però sto al gioco anche se – e già di mio – sono nel pallone più totale. Mettiamoci poi che la seconda serie l’ho vista due anni fa, non dormo da un quadrimestre e la memoria è quella che è. Fatto sta che all’inizio di questa terza serie non capisco veramente una beneamata minchia e ricevo informazioni come un pugile suonato all’angolo piglia cazzotti. Però il fascino c’è tutto, la trama – a differenza che nella seconda stagione che mi era parsa più loffietta – presenta molti colpi di scena, analessi ambigue e tanta azione, le facce sono sempre più iconiche e cariche di significati (che attribuisci TU, probabilmente sbagliando, ma TU ormai fai parte della narrazione, con le tue ipotesi, i tuoi gusti che influenzano le share televisive e il lavoro degli autori). (Comunque ho scritto “analessi” e rileggendo il pezzo tre mesi dopo non so cosa significhi, se non che sono uno sbulaccone impunito). E sei trascinato fino alla fine di questa serie senza poterti ribellare o provare a razionalizzare e capire, come succede col disorientante e grandioso colpo di genio dell’ultima puntata. Perlomeno questo succede a Barbara e me, che indugiamo in un moderatissimo binge watching vedendo due episodi a sera; se vedessimo la serie con cadenza settimanale avremmo il tempo per provare a mettere le cose in fila. E non servirebbe fottutamente a niente. (Dvd; settembre ‘08)

ddv6502719 – La cafonata Romanzo criminale di Michele Placido, Italia/Francia/Gran Bretagna 2005
Aho, famo er Goodfellas de noantri! E cosa ti viene fuori? Un film così cosà, che ti passa perché molto ritmato e montato con la velocità da racconto di mala all’americana. Ma che della classe di uno Scorsese non ha neanche un’unghia: tutta la ricchezza esibita nel film – che si vede eccome – sembra un collanone d’oro al collo di un macellaio burino. Insomma, senti che c’è la vanga e da Placido non m’aspettavo diversamente. L’audio fa un po’ schifo (tanto per cambiare, è come una tara del cinema italiano) e col romanesco strascicato si rischia di non capirci nulla, però gli attori sono generalmente con facce azzeccate e ruoli giusti. A parte uno: quando Stefano Accorsi irrompe nel racconto tu spettatore sei catapultato in una nuova dimensione spazio-temporale… Ti fai forza, ti dici che non puoi essere cagacazzo su tutto tutto e accetti la faccia, pensando che sia adeguata al ruolo (ma se hai letto il romanzo, in realtà, no); insomma: te lo fai passare, ‘sto Accorsi che s’innervosisce se gli ricordano gli esordi col Maxibon. Però poi il “du gust” apre bocca e ha la voce chioccia e l’intonazione perennemente sbagliata. Ho pensato che ormai nessuno riesca neanche a dirglielo e voglio immaginare l’imbarazzo sul set o le bestemmie in montaggio. Un po’ come capita con la statuaria Monica Bellucci, che sembra che declami con una patata in bocca, sovrapponendo le sillabe con l’intensità tragica di un marmo di Fidia. Però, qui, Monica non c’è. C’è solo l’eterea Anna Mouglalis, che è uno splendore anche lei, ma quanto a recitazione è dalle parti di Lory del Santo, epoca Drive In: ci manca giusto che ammicchi guardando in camera… Ah, non sapevo che dopo il sequestro Moro (1978) Mao fosse ancora vivo: questi Rulli e Petraglia sanno sempre come sorprenderti. Comunque, filmetto. (Dvd; 21 e 22/9/08)

ddv6503720 – L’era glaciale 2 – Il disgelo, scongelato da Carlos Saldanha, USA 2006
Causa sua congiuntivite, mi rendo ridicolo regalando due Dvd a Sofia pur di riuscire a metterle il collirio. Ovviamente la piccina ha calcisticamente capito che fare sceneggiate ricattatorie paga e io ci casco in pieno come un arbitro con la Juventus. Il film non le dispiace ma è inferiore al primo episodio (che era più lineare, con personaggi meglio caratterizzati e scene più incisive). E per quanto alcuni critici abbiano ululato al capolavoro, superiore al capostipite, ho come sempre ragione io perché non è vero: ci son diverse idea, alcune buone battute e uno sviluppo narrativo non troppo fluido, per quanto semplice. Il film cresce molto nella seconda parte con due belle sequenze di animazione (Sid acclamato da una tribù di piccoli bradipi e la canzone degli avvoltoi, omaggio a Busby Berkeley, beccatevi questa) e un finale concitato tipico della Disney. Interessante il sottinteso sessuale per niente occulto: per garantire la sopravvivenza alla specie il mammut Mannie dovrebbe ciularsi la mammutona Ellie che fa la finta tonta. Poi, alla fine, arriva un branco di elefanti pelosi e la mastodontica trombata, puf, sfuma. Sennonché i due rimangono assieme comunque e lo faranno per amore e non per dovere. E con quelle zanne, vorrei proprio vedere come. (Dvd; 2/10/08)

ddv6504721 – E.R. Season 6 di Michael Crichton e altri geni, USA 1999/2000
È una serie, la sesta, interlocutoria: abbastanza triste, con nascite e morti, anche se sappiamo già che l’evento luttuoso definitivo è nell’ottava stagione, per cui facciamo finta di niente. Tran tran quotidiano lavorativo e affettivo, nuove unioni e separazioni, disgrazie e miracoli, qualche scena madre un po’ farlocca (la morte del padre di Green – Ciccio per gli italofoni –; Carol che raggiunge Doug – George Clooney – a Seattle) e un buon ricambio di personaggi e pesi nei ruoli (con il dottor Romano che diventa decisamente più simpatico). Al pronto soccorso c’è un nuovo pediatra, Luka Kovac, che viene dai balcani martoriati ed è, ‘anvedi, croato, come gli alleati più puri – e fascisti – che gli USA avevano nella regione (e chissà il croato cosa tiene in serbo… ah ah, sono anni che voglio scriverla. Scusate); e poi c’è la studentessa Abby che, personalmente mi fa prudere le mani tanto è stupida. Il mio fraterno amico Pier Paolo la ama e non so che farci. Vabbeh. Inoltre tante guest star come Alan Alda e Rebecca De Mornay (che ha un supposto nudo integrale in controluce: grottesco perché si vedono delle mutande color carne e due cerottoni sui capezzoli). Detto tutto ciò, comunque, siamo sempre dalle parti del capolavoro: anche nella Divina Commedia c’è il Paradiso che è un po’ una pallata, dài. (Dvd; ottobre ‘08)

ddv6505722 – Robin Hood del pauperistico Wolfgang Reitherman, USA 1973
Suntino animalesco della leggenda di Robin Hood, con abbondanza di balli, cazzottoni, anacronismi e inseguimenti, ricalcando letteralmente da vecchi film Disney alcuni personaggi (Little John e Sir Bis da Baloo e Ka del Libro della giungla) o alcune scene (quella dei jazzisti da Gli Aristogatti). Però ne viene fuori un film estremamente gradevole, coloratissimo, sempliciotto e tutto sommato adatto a Sofia, che ne è molto contenta e canticchia senza ritegno le canzoni del film. Gli sfondi sono curati e tutti gli animali della vicenda mi fanno simpatia, specialmente il pavido re Giovanni Senza Terra che si ciuccia il ditone piagnucolando. Il Dvd soffre del consueto sfregio Disney: una “edizione speciale” con un 16:9 artificiale, mozzando sopra e sotto il quadro d’origine in 4:3. Io sarò fanatico ma loro stronzi, scusate: una cosa così, per me è come l’antimateria, inspiegabile. (Dvd; 11/10/08)

??????????????723 – King Arthur di un farabutto, USA/Irlanda 2004
Polpettone con pretese storiche che fa di Artù un soldato romano di origine sarmata che durante la caduta dell’Impero deve affrontare i terribili sassoni, stringendo amicizia con i bretoni (o picti o angli, non ci mettevo troppa attenzione), ponendo così le basi per il popolo britannico, errore imperdonabile. King Arthur, è – senza tanti giri di parole – una paurosa menata di cazzo, che ha un po’ d’azione solo in due scene di battaglia girate con roboante tecnica manierista dal sedicente regista Antoine Fuqua. Primi piani in abbondanza, verbosi dialoghi da ricovero che abbondano di filosofia d’accatto e piagnistei sulla libertà degni di un leghista con la terza elementare: tutto sommato la cosa più realistica del film. Clive Owen è gonfio da shock anafilattico e Keira Knightley è inopinatamente truccata di blu come un puffo, con scucchia e petto concavo (nei manifesti però gonfiato). Fotografia bluastra, citazioni ad minchiam, lunghissimo. Una perdita di tempo esiziale che vedo fino in fondo solo per poterne parlare malissimo. Missione compiuta, spero. (Diretta tv su Italia1, 15/10/08)

ddv6507724 – Jamme! Pino Daniele live @ RTSI di Onesto Ignoto, Svizzera 1983
Questo curioso prodotto fa parte di una serie di Dvd, realizzati dalla tivù svizzera italiana, che hanno invaso i negozi di dischi qualche anno fa. Adesso sono malinconicamente svenduti a prezzi irrisori e allora mi son fatto tentare da questo Pino d’annata, in concerto precisamente il 26 marzo 1983. Musicalmente l’esibizione è molto interessante, prima della sbornia jazz che verrà e che trovo un po’ pesante. Daniele è accompagnata da una band eccezionale e si può rimproverare solo il gusto sartoriale per cui – a parte Tullio De Piscopo e Tony Esposito, atleticamente policromatici – sono tutti vestiti di bianco come dei gelatai. Pino addirittura presenta pantaloni altissimi alla caviglia ed espadrillas. Però suona la sua Les Paul nera con un gusto raro e le versioni dei pezzi non sono per nulla dei calchi di quelle incise su disco. L’ignota regia è decisamente anonima ma anche funzionale, senza stacchi superflui o le frenesie che avrebbero poi reso insopportabile la videomusica negli anni a venire. Inoltre il composto pubblico non è mostruoso, come di solito capita rivedendo una testimonianza di 25 anni prima, e si limita elveticamente a ritmare “Pino, Pino”. Visione piacevole e fin troppo veloce (64 min.). (Dvd; 13/11/08)

ddv6508Onanismo critico
Ormai è come se vedessi solo cinema porno: è tutto proibito. Vedo poco, male e ci manca che usi anche l’avanzamento veloce.
Non so se vedo meno film perché il tempo è letteralmente svanito nel nulla oppure se rifiuto di farlo perché poi dovrei scrivere anche qualcosa per non sentirmi in colpa. Ma per chi, poi? Non lo devo a nessuno, ormai, se non a me stesso, perché sento che la memoria sfugge. Rileggo vecchi pareri e mi chiedo: ma io ho visto questo film? Era veramente questa cagata? Non dovrei forse ridargli un’opportunità? Seee: ci mancherebbe la seconda visione, con revisione critica, che ancor più rimetterebbe in discussione tutto. Perché il problema è anche che non riesco più a digerire come un tempo, in tutti i sensi. Ricordo certi pomeriggi universitari indolenti: nessuno in casa, bustone di patatine surgelate da 250 grammi da friggere, fuoco vivace e finestre della cucina aperte per nascondere il puzzo dell’olio. E poi spaparanzato sul divano con la conca di frites in grembo e un bel sovietico nel vhs.
Nessun cellulare che suonava, nessuna mail da controllare, poco da studiare perché era tutto programmato, con le giornate libere che amministravo con sapienza poltrona, tra revisioni della tesi, testi da consultare (ma solo in biblioteca), sessioni minimali sul primo computer e qualche lavoretto per tirar su due lire. Niente di cui preoccuparsi, insomma.
Ma ora, che devo vivere da adulto, da professionista e da papà, dov’è finito il tempo? Devo affidarmi a Chi l’ha visto?

ddv6509725 – Guizzante, La sirenetta di Ron Clements e John Musker, USA 1989
Stracult di Sofia e delle sue coetanee: intuisco il potenziale sedativo del Dvd e lo acquisto subito, guadagnandomi la pace per diverse sere. A me non entusiasma, ma capisco perché piaccia: rimuove il finale sanguinoso di Andersen – alla faccia della cattiva che qui sembra Mara Maionchi – e ci mette un bel “e tutti vissero felici e contenti” (sì: nonostante la puzza di pesce che si porta dietro la ex sirenetta Ariel, tanfo di cui si accorgerà presto il principe, la prima notte di matrimonio). È un filmetto classicamente ben animato, tradizionale, con qualche scena molto riuscita (il granchio che scappa al cuoco francese) e numeri musicali memorabili e memorizzabili, tanto che in ufficio più di una persona mi ha chiesto se ero impazzito a canticchiare “In fondo al maaaar…”. Alla fin fine, film divertente che vedo ripetutamente dormicchiando (se ho sempre capito Stalin, adesso che Elena non ci fa dormire da mesi, comprendo pure Erode). (Dvd; 1/12/08)

ddv6510726 – Sleuth – Gli insospettabili dell’ineffabile Kenneth Branagh, USA 2007
Remake di un film di Mankiewicz che ho visto almeno due secoli fa e che ricordo piacevole anche se lunghetto. Il cagnaccio Branagh, regista amato dal pubblico midcult e dalla critica beonaci rifila invece un’atroce trafilatura al bronzo di coglioni di neanche novanta minuti, freddissima e punto divertente. Michael Caine recita da gigione nel ruolo che fu di Laurence Olivier, mentre quello che interpretava lui se lo prende Jude Law, compiaciutissimo della sua bellezza. Giusto per scrivere due righe, eccovi tosto due cenni al plot tratto da un’opera teatrale di Anthony Shaffer: un vecchio scrittore riceve la visita di un baldo giovane, attore, che gli tromba allegramente la moglie. I due si confrontano in un estenuante gioco a chi è più furbo e chi ucciderà chi. Da spettatore auguro morte dolorosa ad ambedue e al regista maledetto che li ha diretti. Film inutile, presuntuoso e godibile come un herpes sulla cappella, maledizione. (Diretta Sky; 5/12/08)

ddv6511727 – Ortone e il mondo dei Chi di Jimmy Hayward e Steve Martino, USA 2008
Visto a metà al cinema con Sofia, la primavera scorsa non c’era sembrato niente di che. Errore. Eravamo usciti perché la piccina moriva di sonno e io non ci avevo neanche patito troppo. Il Dvd ricevuto a Natale rende giustizia alla proiezione discutibile del cinema Ducale e al sonoro cartonato e rimbombante che ci aveva infastidito e ora posso dire che in effetti Ortone è un film caruccio, zeppo di idee, animato perfettamente, con personaggi splendidi. Morale, se vogliamo, dolciastra, ma cosa vogliamo far vedere ai bimbi, Pulp Fiction? Rimane la nota dolorosa della voce di Ortone, doppiato da Christian De Sica. Che nessuno sia stato sfiorato dall’idea che fosse un’immensa cazzata far parlare un elefante del bosco di Nullo con l’accento romano e le parole apocopate da pelandrone, è indicativo di come il cinema italiano sia in mano a dei miserabili. (Dvd; 26/12/08)

ddv6512728 – La Gabbianella e il Gatto di Enzo D’Alò, Italia 1998
Reduci da febbri altissime le bimbe – con Elena che viene soprannominata “il tizzone” a causa di una temperatura corporea da altoforno –, spezzato dal mal di schiena io, anche Barbara accetta che spinga un altro Dvd nel lettore. La Gabbianella è un film gradevole che conquista Sofia alla prima visione e la commuove come mai successo prima. La volatile è orfana causa inquinamento e si fa adottare da un gattone pelandrone, che la educa e la difende assieme ai suoi amici. Molti messaggi positivi, Sepulveda che si dipinge immodestamente come un gran poeta, colonna sonora rock fracassona e pure Ivana Spagna che canta. Doppiano Carlo Verdone e Antonio Albanese, assolutamente irriconoscibili, e la principessa Melba Ruffo di Calabria, personaggio dignitosamente scomparso dalle scene televisive. Come tutti i film per bambini, si fa vedere, anche se glassato di messaggi zuccherosi. È stato uno degli ultimi colpi riusciti a quel gran genio di Cecchi Gori, che immagino durante la visione del film mentre stringe gli occhi per concentrarsi e capire la trama. O più probabilmente il merito dell’operazione è dell’allora moglie, Rita Rusic, prima che si desse al rock da balera. (Dvd; 28/12/08)

ddv6513729 – Il pirotecnico Aladdin di Ron Clements e John Musker, USA 1992
Casa nostra sembra ormai un sanatorio, a causa di ricadute di febbre australiana a ripetizione. Si dorme pressoché nulla, con Sofia squassata da un’asinina tosse secca ed Elena che controlla praticamente ad ogni ora se siamo tutti svegli. Siccome non c’è possibilità alcuna di far prendere una boccata d’aria alle bimbe ammalate, bisogna inventarsi ogni giorno qualcosa per tirare fino a sera. E Santo Dvd, verso le 19 Sofia pretende il suo boccone di narrativa animata che pronto io le servo a video. La vicenda di Aladdin l’abbiamo letta tutta l’estate nel classico libro illustrato Disney (sì, lo confesso, se non è già evidente: sono sequestrato dalla multinazionale del divertimento infantile). Sofia non vedeva l’ora di assaporare il film e ne è rimasta conquistata, direi a ragione, perché è disegnato e animato magistralmente, con una sceneggiatura varia e dal ritmo notevole e con un Genio che continua a riservarci trovate gustose. Ovviamente Sofia si perde il lato parodistico dell’invenzione, ma a tre anni e mezzo tutto quello che si muove, piace. E anche alla mia età: Aladdin l’avevo già visto 8 anni fa e non me lo ricordavo per nulla. Non male. Forse sto allentando troppo le difese, tanto che – dato lo stato mentale in cui sono precipitato – mi ritrovo pure a fare pensieri sconci sulla conturbante Jasmine. Mah! (Dvd; 30/12/08)

ddv6514730 – Il capolavoro Boris di Luca Vendruscolo, Italia 2007
Il set di una soap italiana, con tutto quello che ne consegue. Questa è Boris, la “fuori” serie invisibile sulle reti generaliste perché rivelerebbe sfacciatamente come si facciano le cose nella televisione del Belpaese, cioè, come più volte ripetuto, alla cazzo di cane. Tra parolacce e umorismo acre, si sorride e si ride, ma – per me – è come se l’operazione metatelevisiva talvolta smorzasse l’ilarità. Provo un retrogusto amaro: gli equivoci, le cattiverie incrociate, la disperazione, la stanchezza sono raccontati con la precisione di chi c’è passato. Ipotizzo gli autori (Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo), che si pigliano qualche rivincita, e sicuramente io spettatore che – circa 1999/2000 – ho sputato sangue con della gentaglia che mi trattava da schiavo (il vostro Spartacus s’è liberato senza finire crocifisso dopo qualche mese e da allora se la cava, ma gli stronzi di un tempo continuano a fare gli stronzi nei peggiori programmi tivù che possiate immaginare). Boris è un esperimento riuscito e se ripenso al set de Gli occhi del cuore 2, alla sigla di Elio, alle follie di Stanis, alla canissima Corinna, a Biascica e allo splendido regista cazzaro René Ferretti che sa che andrà all’inferno ma è anche capace di girare un corto poetico su una formica rossa (!), allora perdono anche quelle piccole imperfezioni che fanno tanto “italiano” e che ogni tanto noto perché son cagacazzi di natura. Ci sono anche alcune interessanti variazioni sulla classica scrittura di un seriale: il cast è molto variabile e solo nella visione continua viene fuori il vero protagonista principale, René, quando all’inizio lo sembrava lo stagista Alessandro, punto di vista privilegiato dalla narrazione. E poi manca una UST esplicita, una unresolved sexual tension (ma quanto vi compiaccio con queste uscite da cialtrone, eh?) che ci incuriosisca per sapere come va a finire. E parlo parlo parlo, quando basterebbe sintetizzare che ho adorato Boris perché è un capolavoro e basta. (Dvd; gennaio ‘09)

ddv6515731 – Più volte La freccia azzurra di Enzo D’Alò, Italia/Lussemburgo 1996
Sofia in montagna per nove giorni con la nonna, noi soli con la belvetta che non dorme. Nei momenti di veglia mi piglia ‘na botta di malinconia e compro un Dvd da regalare alla primogenita al ritorno. Sì, la stravizio, è vero, ma fatevi un po’ i cazzi vostri, eh. E poi non sono ancora giunto al livello di guardarmi il film da solo, aspettandola. Giuro. Ma la sera stessa che Sofia fa ritorno, subito ci droghiamo felicemente assieme davanti al televisore. Tratto da una fiaba di Gianni Rodari, La freccia azzurra ricorda in certe parti Toy Story ma se là ci sono la sapienza narrativa e la computerizzata arte nord americana, qui troviamo molta semplicità e l’evocativo talento artistico nostrano musicato da Paolo Conte. Cose che evidentemente funzionano, almeno a livello infantile: Sofia apprezza le visioni ripetute, io perlopiù sonnecchio (ma per stanchezza). Carino. (Dvd; 17/1/09)

(Continua – 65)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 63 https://www.carmillaonline.com/2014/10/23/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-63/ Thu, 23 Oct 2014 20:25:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17722 di Dziga Cacace

Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!

ddv6300687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007 Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film [...]]]> di Dziga Cacace

Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!

ddv6300687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007
Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film borghese, ipocrita e consolatorio, con gli attori da botteghino e la trama senza sorprese. Ma perché – scusate – Clayton (Clooney, fichissimo, ça va sans dire) non poteva essere stronzo fino in fondo, giacché lo è quasi fino in fondo? E fate uno sforzino, eddai! E poi ‘sto ritmo blando, con inserti narrativi che allungano la broda in un thriller giudiziario già immobile, avvincente come un discorso di Lamberto Dini. La regia si atteggia anche ad autoriale, ma se mi date il regista Tony Gilroy lo interrogo come si deve e ve lo faccio confessare in dieci minuti. Inoltre c’è Tilda Swinton: per me da sempre un autentico mistero qui premiato addirittura con l’Oscar. È espressiva come un calco pompeiano in gesso, ha lo stesso colorito e – per rimanere in campo artistico – un fisico picassiano, periodo cubista. Però due secoli fa la Swinton ha fatto un film che ha colpito gli stramaledetti cinéphiles segaioli di mezzo mondo e lei continua ad essere considerata un’icona del cinema “alto”. Boh. Abbiamo visto ‘sta cosaccia perché Barbara riteneva di aver affittato Good Night, and Good Luck: la gravidanza fa brutti scherzi. (Dvd; 23/3/08)

ddv6301688 – Adrenalina pura con 24 – Season 3 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2004
Allora: faccio un riassuntino per chi si fosse sintonizzato solo ora. Lo show funziona così: 24 ore in tempo reale, in un giorno che più di merda non si può. Vittima della fatale giornata il povero Jack Bauer (Kiefer Sutherland), agente operativo della CTU, Counter Terrorists Unit di Los Angeles, agenzia (fittizia nel mondo reale, ma forse no, chissà) che si occupa di antiterrorismo. Una volta all’anno, arriva quel giorno in cui il malcapitato protagonista capisce che saranno cazzi amarissimi: userà un cellulare con la batteria magica per 24 ore filate (deve avere un abbonamento molto vantaggioso), non mangerà, non si farà mai una sana pisciata, figuriamoci una cagata come si deve leggendo la Gazzetta. Ovviamente la giornata infame vede sempre coinvolta in qualche casino anche quella cretina della figlia. In questa terza serie, tra le altre cose, Bauer sta anche smettendo di drogarsi, cosa che sembra la parodia de L’aereo più pazzo del mondo. Fortuna che queste benedette ultime 24 ore non fossero anche l’ultimo giorno per pagare i contributi alla domestica, l’Iva trimestrale e che non ci fossero visite dentistiche improrogabili in programma. Però – diciamo – la materia narrativa non manca: nella prima serie troviamo dei balcanici efferati (serbi, ovviamente), che ce l’hanno precisamente con Bauer e, per vendetta, vogliono fargli ammazzare il candidato alla Casa Bianca dato per vincente, Palmer, un nero buonissimo, onestissimo e democraticissimo. Solo che c’è una talpa alla CTU e tutta la serie vive del dubbio. Nella seconda tornata, il nero buonissimo etc. è diventato ovviamente presidente (sembrava fantascienza 4 anni fa, ma chissà se adesso questo Obama dell’Illinois…) e Bauer deve fronteggiare una minaccia atomica su Los Angeles, orchestrata da degli arabi pazzi furiosi, mentre nel palazzo presidenziale c’è praticamente un colpo di stato. Niente di meno. Diventa tutto un po’ isterico: meno intrighi, molta azione, gran divertimento. Nella terza stagione – che ho visto dopo la quarta causa pesante rincoglionimento da paternità – l’attacco è batteriologico ed è condotto da un occidentale già al lavoro con gli yankee e ora deciso a fare giustizia vera. Dura poco, chiaramente (per l’appunto: 24 ore). Nella quarta serie c’è un nuovo presidente (il rivale del solito nero dei primi tre episodi) che viene fatto secco da uno Stealth rubato all’uopo; anche qui dietro al complotto stanno degli arabi vagamente incazzati. La crisi sembra indistricabile e il vecchio presidente Palmer torna a dare una mano e, siccome è superlativo come sappiamo, mette tutto a posto. Fino alla prossima stagione. 24 è un serial ottusamente geniale (è una combinazione possibile, l’ho deciso adesso), un thriller fantapolitico ad orologeria a tratti fascistissimo (tipico interrogatorio: “Se non dai una cosa a me, io do…” – agitando una mannaia – “…una cosa a te”) ma anche con insospettabili afflati democratici, probabilmente dovuti al caos mentale da sedicenne con l’ormone impazzito tipico degli sceneggiatori di queste cose: branchi di nerds miliardari che vestono in bermuda e magliette di gruppi metal. E poi ti inventano ‘sto popò di roba. (Dvd; aprile ‘08)

??????????????????????????????????????????689 – L’inguardabile Billy, perché l’hai fatto? di due bestie, Volker Schlondorff e Gisella Grischow, Germania 1992
Freddie Mercury e Jimi Hendrix insegnano: è proprio vero che da morto non puoi più difenderti da nessuno, neanche da chi pensa di ripubblicare questa porcata micidiale, un documentario allucinante che – una volta tanto d’accordo – Barbara e io abbiamo mollato dopo quaranta minuti. La schifezza è l’ignobile mix di una vecchia intervista al maestro Wilder e da inserti recenti di Schlondorff che cuce e rappezza. Senza chiarire niente: chi sia Billy (e la sua vita vale quanto i suoi film) e perché sia stato un genio. L’intervista storica, oltre ad avere una qualità da videotape smagnetizzato, è ottusa ai limiti dell’idiozia, con il petulante Schlondorff che chiede con fervore maniacale soluzioni di regia e sceneggiatura a un Wilder infastidito da questo fan inopportuno. Le risposte son sempre sopra le righe (ma se sono sbagliate le domande è logico che poi siano sbagliate anche le risposte) e mai Billy avrebbe pensato che da quel colloquio sarebbe potuto uscire alcunché. Ahinoi si sbagliava, il mercato sdogana qualunque cosa e c’è sempre chi ci casca (non ricordo chi mi abbia regalato questo prezioso prodotto Feltrinelli che ora puntella il tavolo della cucina). Tornando all’abominio che non troverebbe spazio in palinsesto neanche su una tivù satellitare della Val Brevenna: il commento a posteriori del regista teutonico è freddo come un ghiacciolo in culo, con luci da obitorio, verve cimiteriale e chiarezza narrativa pressoché nulla. Questa schifezza di film non è un omaggio, è un insulto alla memoria. E se non avete visto i film di Wilder è pure pieno di spoiler. (Dvd; 2/4/08)

ddv6303690 –Il blues di Feel Like Going Home di Martin Scorsese, USA 2002
Esco il precedente dvd dal lettore e ne metto subito un altro, tanto il destino della serata è segnato e la gravida Barbara si addormenterà a breve al mio fianco. Scelgo per cui a mio gusto e mi scoppio un bello Scorsese: il vecchio Martin si riserva, nell’ambito della serie di documentari dedicati al blues da lui coordinata, il compito più impegnativo e ambizioso. Però, siccome non è un presuntuoso come Wenders o un mestierante come Figgis – autori in questo ciclo di due autentiche bestemmie su pellicola –, si fa scrivere il film da Peter Guralnick che è un giornalista e uno scrittore che sa, e molto bene, ciò di cui parla. L’unica pecca, non da poco, è la totale mancanza di didascalie, per cui i personaggi che incontriamo durante la narrazione rimangono per lo spettatore medio degli assoluti carneadi, né sono chiari i rapporti tra chi parla e di cosa. Siamo alla solita mancanza di comunicazione che mi parrebbe marchiana in un esordiente, figuriamoci in un maestro come Scorsese. Ma è inutile che mi ci incazzi: all’Autore lo spettatore, in realtà, fa schifo. Un po’ come a Veltroni e D’Alema dan fastidio gli operai, per intenderci. Ad ogni modo nel racconto c’è una prospettiva storica, c’è un percorso e una chiara intenzione narrativa. Inoltre a farci da Cicerone, nella (ri)scoperta del blues del Delta c’è un musicista nero sconosciuto ai più, Corey Harris, che suona la chitarra in maniera eloquente e comprende ciò di cui si parla. Dal Delta del Mississippi fino al Mali, a recuperare le radici della musica più bella che esista, pura, intensa, dolorosa, carica di storia. Si vedono Son House (eccezionale), John Lee Hooker, Muddy Waters, Ali Farka Toure e altri personaggi minori ma anche loro con una storia da raccontare. Film più che discreto, ma fruibile solo da una percentuale della popolazione con almeno due lauree, in musicologia e folclore. Cioè quasi nessuno. Tutti gli altri che se ne dicono entusiasti, mentono, anche perché – a differenza che con Buena Vista Social Club – il disco non se l’è comprato proprio nessuno. Ma nessuno nessuno, perché il blues non si danza nelle balere come quel ritmato scassamento di minchia della musica cubana. M’è scappata, eeeeh. (Dvd; 2/4/08)

ddv6304692 – Il pacifismo guerrafondaio di Kingdom of Heaven di Ridley Scott, USA, Gran Bretagna, Spagna 2005
Sceneggiato col martello pneumatico e montato come se fosse Salvate il soldato Ryan, Kingdom of Heaven è un film ambiguo come spesso capita alle ultime cose di Ridley Scott. Ma la sua non è un’ambiguità ricca, bensì subdola, cinica, a buon mercato. Come da titolo italiano (Le crociate, non sia mai che ci si confonda) siamo in Terra Santa a liberare i luoghi sacri. Ci sono i saraceni buoni e il fanatico guerrafondaio che identifichi subito con uno di Al Qaeda. E ci sono i cristiani saggi e disponibili e quelli teo-con che vogliono la guerra a tutti i costi. Il messaggio generale vorrebbe essere di tolleranza, pace e comprensione, però poi la cinepresa indugia piacevolmente sulle scene di battaglia che – detto tra noi – sono anche la cosa migliore di un film che – ridetto tra noi – sembra adatto, nella sua semplice consequenzialità, all’età mentale di un dodicenne. E infatti – seppur turbandomi ideologicamente l’unico neurone funzionante – m’ha divertito. Girato con consueto stile grafico, purtroppo a Ridley scappa la cafonata di qualche modernismo di troppo: l’impressione che ogni paesaggio o scena di massa siano digitalizzati toglie molta magia a una messa in scena che fa (o dovrebbe fare) della grandiosità la sua cifra distintiva. Il belloccio Orlando Bloom se la cava, Eva Green – diamante splendente in The Dreamers del Maestro Bertolucci – mi sembra già appassita. Bravini gli altri e anche i costumi sgargianti. Suvvia: me lo son goduto (Barbara no, era indignata e sicuramente ha ragione lei). (Dvd; 11/4/08)

ddv6305693 – Il classico La carica dei cento e uno di Wolfgang Reitherman, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, USA 1961
Regalato a Sofia per i suoi tre anni (festeggiati il 26 aprile e non il 25, a sua insaputa; potere del nostro regime autocratico, neanche in Corea del Nord si cambia il calendario!) e visto praticamente subito assieme a lei. Il commento critico della piccina a fine visione è sintetico e straight to the point: “Questo è un film bellissimo!”. E non ha tutti i torti. Prima di questo ha visto, a inizio aprile, solo Le avventure di Barbapapà (di Talus Taylor e Annette Tison, Olanda 1973) che io ho finora evitato in toto e che in realtà sembra l’assemblaggio di una serie di episodi televisivi, per cui non so se possa valere come film “narrativo” vero e proprio (non c’è insomma la consequenzialità delle storie classiche di Barbapapà e lo dico a ragion veduta perché le ho lette tutte. Non per esclusivo piacer mio, s’intende). La Carica è un film molto “familiare” e lineare, anche se con azzeccata struttura ad inseguimento. Giusto per la cronaca: Crudelia De Mon è considerata una delle cattive più cattive del grande schermo di sempre, una zitellaccia ingrigita dal fumo, secca come un’acciuga e che non deve avere partner da decenni. Vuole farsi un pelliccione di pelle di dalmata e ruba 15 cuccioli a una coppia felice di conoscenti (coppia sana, solida, che tromba, seppur con britannica discrezione), ma in realtà, Crudelia, ne aveva già da parte 84 comprati, suppongo, con regolare fattura, e di cui poteva farne il cazzo che voleva, eh. E quando i 101 (99 cuccioli più Peggy e Pongo, genitori dei 15 rapiti) scappano e si salvano, gli 84 di Crudelia sono effettivamente sottratti alla legittima proprietaria. E questo nessuno lo dice! Ci starebbe un seguito politicamente corretto dove i cuccioli vengono restituiti e giustamente scuoiati, perché se non gli insegniamo l’osservanza della legge fin da piccoli, poi ci aspetta l’anarchia, no? (Dvd: 26/4/08)

ddv6312694 – Good Night, And Good Luck di George Clooney, USA 2005
Stavolta Barbara azzecca l’affitto e il film, effettivamente, merita: Clooney ritorna alla regia con le idee chiare (il suo primo film non m’era piaciuto per niente, vulgo faceva cacare). Qui troviamo afflato democratico, impegno rivendicato anche per un mezzuccio come la televisione, e ottima cinematografia, con gusto e classe. Bravo Giorgetto che non dimentica di reinvestire i mijiardi – guadagnati recitando in puttanate – in qualcosa di durevole e onesto. Film ben fatto e necessario, dài. (Dvd; 3/5/08)

ddv6306695 – Altro classicone: Il libro della giungla di Wolfgang Reitherman, USA 1967
I doveri di babbo mi impongono la visione di un film che non vedo dai miei nove anni (al Manin di Genova, con nonna Franca: avevo scazzato con un bambino di quattro perché disturbava. Avevo vinto). È il film Disney con due dei momenti più divertenti in assoluto: l’amicizia di Baloo e Mowgli e l’incontro con l’orango tersicoreo Re Luigi. Per il resto, il percorso di crescita e maturazione del trovatello tra animali buoni e meno buoni (lo spauracchio Shere Khan) scorre facile, tenero e sereno, narrativamente semplice, disegnato bene e animato meglio, con belle caratterizzazioni e sfondi. Semmai il finale, molto dark e coraggioso, lascia un po’ perplessa Sofia. E due giorni dopo nasce Elena. (Dvd; 4/5/08)

ddv6307696 – Man of the World di un cretino, Gran Bretagna 2007
Una tra le più belle storie del rock. E una delle più tragiche: quella di Peter Green. Giovanissimo chitarrista nei Bluesbreakers di John Mayall in sostituzione del dio Clapton, forma poi i primi Fleetwood Mac (quelli blues, che poi diventeranno pop) e i 3 album che produce in meno di due anni, ’68 e ’69, vendono più di Beatles e Rolling Stones assieme. Albatross, Need Your Love So Bad, Black Magic Woman, Man of the World e The Green Manalishi vanno in testa alle classifiche e rendono l’uomo molto ricco e molto infelice. Ma sarà un’infausta serata a Monaco nel 1970 a farlo uscire completamente di cotenna. Già da un po’ Green era insoddisfatto del suo ruolo di rockstar per caso, del successo e dello show-biz. Andava dicendo agli altri della band: “Diamo tutti i soldi alle popolazioni del Biafra, dài!”. Nessuno che gli desse retta: volevano diventare ricchi sfondati e pochi anni dopo ci sarebbero riusciti eccome. Comunque, alla festicciola di Monaco di cui si diceva, a Peter viene somministrato dell’LSD a tradimento che fa il resto: il genio esplode, vuole solo fare jam oceaniche (tipo 40 minuti di improvvisazione), molla il gruppo, pubblica un disco folle e doloroso (e splendido e dal titolo inconsciamente programmatico: The End of the Game) e poi crolla in una depressione che lo fa finire perfino in casa di cura per malati di mente. Le medicine lo annientano, così come l’elettroshock e il musicista più lirico del British Blues finisce per imbracciare un fucile per minacciare il suo commercialista (cosa che in realtà vorremmo fare tutti, credo, quando ti presenta la dichiarazione dei redditi). Non vuole soldi che ritiene maledetti, vuole solo scomparire. Il recupero è lento e non completo. Oggi Green fa compassione: parla impastato, in maniera incoerente, con sprazzi di amarissima lucidità. Ha tentato un ritorno alla musica negli anni Novanta e a Pistoia fui testimone di un concerto a dir poco straziante. Adesso ha mollato del tutto e forse si gode un po’ di pace, dopo alcuni anni di incisioni (più che dignitose e sicuramente dolorose) e concerti che giustifico solo come trattamento terapeutico per questa anima in pena. Il documentario di Steve Graham è pedestre, senza alcuna idea se non quella della consueta biografia scandita cronologicamente, con interviste molto statiche e non particolarmente brillanti (e riprese cazzo canis). Il film lo tiene a galla il simpaticissimo Mick Fleetwood che è una fucina di ricordi. Musica ovviamente magnifica e immagini di repertorio straviste (da me) e riutilizzate più volte per le due ore del film. Gli do 6 perché l’argomento merita 10, ma la regia non va oltre il 2. Occasione persa molto molto male. (Dvd; 15/5/08)

ddv6308697 – Classicone aggiornato: Tarzan di Kevin Lima e Chris Buck, USA 1999
Con la minuscola Elena son giorni di gran daffare e faccio questo regalo a sorpresa a Sofia che lo riceve emozionatissima, giacché sono settimane che chiede senza speranze di averlo. Guarda il film a bocca aperta, non si prende particolari spaventi ed è totalmente presa da una vicenda che in effetti non ha un attimo di respiro e va via veloce. Alla fine del film si gira verso di me e sentenzia: “Bello, eh?”. Divertente, ritmato, animato da dio ibridando tecniche tradizionali con quelle più moderne (gli sfondi sembrano statici e molte volte vengono esplorati in 3D), con tentazioni moderne (Tarzan che surfa tra i rami) e concessioni classiche (il cattivone Clayton, molto anni Quaranta), si fa vedere volentieri. Anche più volte, ahinoi, tollerando Phil Collins che canta cose insensate in un italiano degno di Mal. Due giorni dopo Sofia mi chiede se i cattivi esistano anche fuori dai film, nella vita reale. Beata innocenza. (Dvd; 16/5/08)

ddv6309698 – Immagina The U.S. vs. John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld, USA 2006
Paratelevisivo, molto lavorato ed effettato, è un discreto racconto della vita politica di John Lennon durante la sua contrastata permanenza negli USA. Parte bene e regge per almeno un’ora, poi si ripete e mostra un po’ la corda anche perché abbiamo capito che John stava sul cazzo a Hoover e non volevano dargli la cittadinanza, però poi non è che sia capitato molto altro. Lennon s’è battuto ancora e alla fine gli han dato la carta verde. Bene, bravo, bis. Oltre a tutto al ripiegamento privato di Lennon e della Ono (che, francamente, nelle scene di repertorio è fuori luogo in maniera evidente e puntualmente sovrastata da Lennon) non corrisponde una virata del racconto, che in troppe parti è meramente cronachistico. Poi, certo, la musica è splendida, Lennon illumina ogni volta lo schermo e i commenti sono interessanti, però si vede che è stato prodotto per la tivù (VH1) e c’è un evidente sentimento agiografico, anche perché la vedova ha collaborato attivamente. Non brutto come avevo letto da qualche parte né neanche lontanamente un capolavoro come molti critici ignoranti di cinema, rock e vita hanno blaterato; mmh. (Dvd; 22/5/08)

ddv6310699 – Non ha bisogno di presentazioni Il secondo tragico Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1976
E beh. Secondo shot dopo il successo galattico del primo Fantozzi, uno dei film italiani più visti di sempre come biglietti staccati (non fidatevi delle classifiche degli incassi, vincon sempre gli ultimi!). Qui è evidente come la struttura episodica (e stagionale) non sia sempre riuscita come nel prototipo e viene un po’ a mancare l’evidenza del sottotesto politico, concentrandosi invece più sulla satira grottesca di vizi, manie e sogni dell’italiano medio, un’analisi della sua evoluzione che oggi ha un valore antropologico notevole. Il problema è che Fantozzi siamo noi e chi vede il film preferisce sempre credere che sia qualcun altro diverso da sé, confondendo inoltre il padronato e la sua rappresentazione grottesca con un’esagerazione umoristica. Qui – comunque – abbiamo la corazzata Potemkin imposta dal prof. Guidbaldo Maria Riccardelli, il varo a Genova con cena tra i potenti (con i pomodorini “dentro palla di fuoco a 18mila gradi”), la notte brava di Calboni, Filini e Fantozzi, la seguente fuga d’amore del ragioniere e della signorina Silvani a Capri e anche la clamorosa gita del Duca Conte Semenzara al casinò di Montecarlo. Ci sono pure la fiacchissima battuta di caccia e la truffaldina malattia di Fantozzi con visita al circo, due parti che sembrano outtakes, con umorismo scarico e pure delle scopiazzature (alcune che risalgono addirittura al Chaplin muto… che chissà dove le aveva fregate lui, però). Detto questo, io Fantozzi non lo contesterò mai. Mai. (Diretta tv su Retequattro; 31/5/08)

ddv6311700 – Pensa: Le avventure di Peter Pan di Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson, USA 1953
Sofia l’ha preteso e, da genitore fermo nelle sue convinzioni pedagogiche, ho ceduto subito. Ma al momento non è sembrata particolarmente impressionata salvo poi diventarne fanatica. Io l’ho sopportato, anche se poi, alla quarta visione, ho cominciato ad affezionarmi (coi bambini la visione ripetuta è d’obbligo: o impazzisci o t’innamori). Disegnato benissimo, musicato con belle canzoni, ci presenta un cast eterogeneo e ben congegnato e noto subito che Capitan Uncino è praticamente Willy DeVille mentre Spugna sembra il Baciccia marinaretto della Sampdoria; assortito anche il cast femminile, con la virginale Wendy, la molto hot Giglio Tigrato e infine la lolita da tasca, Trilli. Il protagonista Peter Pan è invece un’odiosa faccia da cazzo con le orecchie a punta, un coglione dispettoso che non vuol crescere e il povero Capitan Uncino è la sua vittima frignona (pure con l’incubo di un coccodrillo… marino?! Sì, esistono). Il film me lo vedo, ma tutte le menate sulla fantasia, sul rimanere bambini… boh, mica lo so se sono d’accordo. Poi io son cresciuto con Bennato (e il suo layer politico alla vicenda) piuttosto che con questo Disney, per cui tutta la faccenda mi risulta confusa, anche se evidentemente il confuso sono io. E già che ci sono: il Bennato Peter Pan libero contro il movimento giovanile massa di pecoroni, rivoluzionari coi soldi di papà etc. etc. m’è sempre sembrato troppo egocentrico e qualunquistico, anche se non dubito che Edoardo abbia incontrato tanta gente così nella sua carriera. Però il disco era bellissimo: Bennato, quando non gli parte la brocca e il tono profetico/apocalittico, è (stato) un genio. Ma tornando al film: a me sarebbe piaciuto che quelli per cui tenere fossero i pirati, ecco. Cioè, posso farlo lo stesso, ma vallo a spiegare a Sofia, eh. (Dvd; 31/5/08)

ddv6313701 – L’orrendo The Grand Finale, di due pelandroni, Gran Bretagna 2006
Michael Apted, già responsabile di film più che dignitosi come Gorky Park o Gorilla nella nebbia, di serial goduriosi come Rome e di documentari celebratissimi (il militante – e menoso – Incident at Oglala o il kolossal televisivo Up series) si macchia assieme a tale Pat O’Connor di questo documentario che dovrebbe raccontare il campionato mondiale di calcio del 2006, disputato in Germania. Ne viene fuori una minchiata catatonica, per nulla coinvolgente, col gioco più bello del mondo (in un campionato in effetti non esaltante) raccontato come sarebbe capace di fare solo un appassionato di shangai. Le interviste fanno letteralmente schifo sia come domande poste ai calciatori (all’attaccante Thierry Henry: “Come mai tanti talenti in Francia?”… ma come si può soltanto pensare di porre una domanda così stupida?) che come regia (Cannavaro è ripreso in una palestra, con un audio soffocato e delle luci degne di un’emittente uzbeka). Il commento è spesso fuori luogo e il montaggio e l’impianto generale del film sono disastrosi: non solo manca la cronaca spiccia (l’Italia sembra capitare in finale a Berlino per caso), ma non c’è proprio calore, umanità, curiosità; è un film celebrativo surgelato, con le interviste realizzate dopo, senza avere a disposizione materiali pensati e realizzati prima e durante. Mancano vitalità, ritmo e invenzione; e mancano soprattutto un’idea del cinema e – cosa gravissima e incomprensibile – un’idea del calcio. Oltre a tutto c’è anche uno smarrone clamoroso: dell’arbitro della finale Elizondo (pure intervistato e senza motivo) si sbaglia il nome. Immagino che Apted sia stato locupletato dalla Fifa a suon di milionate di euro e poi non ci abbia perso granché tempo, tanto il committente era quella blatta di Sepp Blatter. Vabbeh, ancora grazie che il film non sia stato affidato al tedesco Wenders: almeno abbiamo evitato l’ennesima colonna sonora modaiola, tipo vecchietti tirolesi che fanno lo yodel e tutti a perderci le bave. (Diretta tv su La7; 1/6/08)

(Continua – 63)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Breve storia cinematografica del maccartismo https://www.carmillaonline.com/2014/07/23/breve-storia-cinematografica-maccartismo/ Wed, 23 Jul 2014 20:15:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15860 di Alessandro Morera

MoreraMcCarthy“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo” (Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)

Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia [...]]]> di Alessandro Morera

MoreraMcCarthy“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo”
(Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)

Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia del primo (il Negro’s Theatre Project) fu affidata la direzione economica a John Houseman, il quale a sua volta nominò direttore artistico l’allora giovanissimo Orson Welles, che aveva compiuto da poco 22 anni, mentre nel secondo si affermarono una nuova generazione di registi e drammaturghi trentenni quali Clifford Odets, Irwin Shaw, Lee Strasberg, Elia Kazan e Joseph Losey.
L’offensiva dei censori politici, sia democratici che repubblicani, segnò la fine di queste esperienze artistiche dopo pochi anni, quando riuscirono a imporre il divieto governativo di allestire nuovi spettacoli fino al 1° luglio del 1937, causa imminenti tagli e ristrutturazioni, mettendo i sigilli al teatro Maxine Elliott dove sarebbe dovuto andare in scena The Cradle Will Rock, un dramma in musica scritto da Marc Blitzstein in favore del movimento operaio, con la regia dello stesso Orson Welles.
Welles sfidò comunque il decreto governativo mettendo in programma lo spettacolo per il 16 di giugno, ma le guardie federali occuparono e sigillarono la sala il giorno prima, cosicché decise di affittare un altro teatro, il Venice, scavalcando in maniera creativa i regolamenti sindacali che vietavano l’ingresso in scena del cast: Blizstein salì sul palco suonando le musiche e declamando i movimenti di scena, mentre gli attori recitavano le battute e cantavano le loro canzoni dalla platea. Il successo fu egualmente enorme, tanto che lo spettacolo venne replicato nella stessa forma improvvisata fino al cadere del divieto.
Probabilmente The Cradle Will Rock fu l’unico dramma proletario che andò in scena negli Stati Uniti, nonostante la censura tentò di impedirne la rappresentazione: Tim Robbins, con il suo fervore politico, nel 2001 ha tratto dall’episodio un debole film, con l’omonimo titolo della pièce, che però non rende giustizia della complessità degli eventi e delle tensioni in campo in quel determinato periodo.
The Cradle Will Rock venne recitato anche durante il viaggio degli attori dal Maxine Elliott al Venice Theatre, come una sorta di happening di strada, aprendo così di fatto la scena alle future esperienze del Living Theatre e di tutto il teatro americano degli anni Sessanta, dove l’elemento di protesta sociale era contiguo a quello delle rappresentazioni che invadevano gli spazi urbani della società. Come si leggeva in un manifesto del Group Theatre, pubblicato sul Federal Theatre Magazine: “Noi siamo il teatro viaggiante nei parchi, Shakespeare sulle colline, Gilbert e Sullivan in uno stagno, Toller su un camion […] recitiamo nelle scuole, nelle arene, nelle carceri, nei riformatori e negli ospedali. Siamo i Living Newspapers, il teatro negro e il teatro yiddish…”. A tal proposito anche André Bazin, nel suo libro dedicato a Welles, ricordò come “quando il governo vietò di rappresentare al Federal Theatre The Cradle Will Rock, e la compagnia trovò le porte del teatro sbarrate, Orson Welles improvvisò per strada su due piedi, per gli spettatori in abito da sera, uno spettacolo che consentì di attendere che si trovasse una soluzione… non so cosa i critici lodarono di più il giorno dopo, sui giornali, se la messa in scena di The Cradle Will Rock o quell’altra, la fantastica improvvisazione su scala cittadina, che la inglobava come un dettaglio con Orson Welles, appollaiato su di un camion, che ipnotizzava la folla come Marc’Aurelio sul cadavere di Cesare”.
Non a caso la House Committee on Un-American Activites (HUAC ovvero Commissione per le Attività Antiamericane) venne istituita proprio nel 1937 e il primo presidente fu il senatore democratico del Texas Martin Dies Jr., che si prefisse di smascherare le infiltrazioni comuniste, termine riferito poi a qualsiasi associazione a favore dei diritti civili e umani, dei lavoratori o che avessero come scopo il miglioramento della società, in poche parole la maggior parte delle associazioni popolari operanti nei diversi settori della società, dall’amministrazione pubblica all’esercito, dalle scuole ai sindacati, dalla finanza allo spettacolo, bollate come sovversive e antiamericane. La HUAC, violando palesemente la costituzione, condannò le persone anche solo sulla base di semplici sospetti e/o indizi senza che essi dovessero essere supportati da prove concrete, agendo così in maniera autoritaria e palesemente antidemocratica.
Nel frattempo l’affermarsi dei vari fascismi in Europa e l’invasione hitleriana dell’Europa centrale fecero prendere coscienza agli Stati Uniti quale fosse il vero pericolo totalitario, fino ad allora abbastanza ignorato, con il conseguente impegno nella Seconda Guerra Mondiale (avvenuto in effetti con un certo ritardo se si pensa agli avvenimenti dell’epoca). Subito dopo l’affermazione delle forze alleate, il pericolo rosso e liberal divenne nuovamente la principale preoccupazione della politica nazionale americana, tanto che la HUAC raggiunse l’apice della sua (nefasta) gloria negli anni che vanno dal 1947 al 1954, soprattutto grazie alla paranoia del suo più fervido politico, un signore di mezza età semi alcolizzato, il senatore repubblicano del Wisconsin, Joseph McCarthy.
Guidata dal senatore McCarthy, la commissione si scagliò soprattutto contro le due maggiori industrie americane: quella hollywoodiana e quella militare. Proprio agli inizi del 1947 l’associazione dei produttori Motion Picture Association of America (MPPA) decise di denunciare dieci loro associati tra sceneggiatori e registi, diventati tristemente famosi come “i dieci di Hollywood”, anche se uno di essi in seguito rinnegò la propria partecipazione ai movimenti liberali di quegli anni, dieci nomi che vale la pena ricordare: Edward Dmytryk, Dalton Trumbo, Samuel Ornitz, Herbert Biberman, Lester Cole, Alvah Bestie, Ring Lardner, Adrian Scott, Albert Maltz, John Howard Lawson. Quest’ultimo fu il primo ad appellarsi al primo emendamento della costituzione americana, la quale garantisce a ogni cittadino americano la libertà delle proprie opinioni politiche, religiose e filosofiche, evitando di rispondere.
Nonostante gli altri nove lo seguissero nel rifiutarsi di rispondere alla domanda inquisitoria della commissione “è o è mai stato un membro del partito comunista?”, l’MPPA e l’affermarsi di un clima sempre più previdente da parte dei capitani della maggiore industria cinematografica del mondo fu inevitabile: la stessa MPPA istituì una blacklist sulla quale segnare (e segnalare) i sospetti comunisti, soprattutto dopo le condanne penali riportate dai dieci, alcuni dei quali scapparono proprio per non subirne gli effetti (tranne Dmytryk che, in seguito alla latitanza londinese tra il ’49 e il ’51, decise di abiurare le proprie idee pur di tornare a Hollywood).
Dmytryk non fu di certo l’unico né tanto meno il più eclatante personaggio dello spettacolo a rinnegare le proprie idee pur di tornare a lavorare in una realtà economico-finanziaria di alto livello, ma di certo fu il primo a fare il mea culpa di fronte alla HUAC. Lo fece nel momento peggiore della democrazia degli Stati Uniti d’America, quando i coniugi Rosenberg vennero condannati a morte per attività spionistiche e antiamericane, sospettati di aver consegnato 7 anni prima dei piani riguardanti la bomba atomica all’URSS, molto prima che l’Enola Gay sganciasse la bomba atomica sul suolo giapponese, tralasciando il fatto che nel 1944 gli USA e l’URSS erano alleati.
Nello stesso anno un altro giovane senatore repubblicano della California, Richard Nixon, venne alla ribalta come fautore della HUAC. Nel frattempo alcuni registi, seppur non direttamente collegati ai processi svolti dall’HUAC, proprio per evitare di rispondere democraticamente appellandosi al primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, preferirono emigrare: Charlie Chaplin in Svizzera, Joseph Losey in Inghilterra, Orson Welles gironzolando per il mondo, mentre Joris Ivens fu costretto ad allontanarsi dagli Stati Uniti ai primi del 1945, poiché aveva girato nel 1937 un documentario a favore dell’intervento delle brigate internazionali nella Guerra civile spagnola, Earth of Spain, su sceneggiatura di Ernest Hemingway e John Dos Passos, con sottofondo musicale di Marc Blitzstein.
Altri non ebbero questa fortuna e subirono processi che sfiancarono le loro famiglie, i figli, le amicizie e soprattutto le loro identità. Molte delle personalità inquisite furono costrette a lavorare sottopagate, sceneggiando film o dirigendoli sotto altri nomi; ovviamente coloro che pagarono più di tutti tale situazione furono gli attori: Zero Mostel, pur essendo un eccellente attore, probabilmente deve la sua fama soprattutto al fatto di essere stato iscritto nelle blacklist negli anni Cinquanta, prima di venir resuscitato da Mel Brooks alla metà degli anni Settanta come vecchio attore di secondo piano. Mostel non era l’affermato John Garfield o il giovane promettente Lionel Stander, eppure anche la sua vita fu rovinata così all’improvviso, come a un signore di 35 anni al quale tolgono improvvisamente la sua famiglia, il suo lavoro, le sue libertà, nonché la dignità, neanche l’avessero trovato a camminare a piedi nudi nel parco, in un periodo nel quale portare un cappello a cilindro significava essere tacciati come comunisti.
Nel 1953, un testo teatrale, The Crucible (Il Crogiuolo), di uno dei più grandi drammaturghi dell’epoca, Arthur Miller, anch’esso sfiorato dall’HUAC, definiva quegli avvenimenti come il periodo moderno della caccia alle streghe, istituendo un parallelismo tra il processo alle streghe di Salem nel 1692 e la contemporaneità. Il testo teatrale di Arthur Miller ebbe uno strepitoso successo, ma, nonostante ciò, l’industria cinematografica risultò come paralizzata nell’affrontare se stessa e quel periodo, seppur risulta oggi facile, e inevitabile, leggere in maniera metaforica tanti dei film hollywoodiani dagli anni Sessanta in poi come reazione al maccartismo, soprattutto da parte degli autori più significativi che subirono le conseguenze della caccia alle streghe. Un esempio su tutti Spartacus diretto da Stanley Kubrick e sceneggiato da Dalton Trumbo, nel quale la lotta degli schiavi contro l’esercito di Roma venne riletta a posteriori come la lotta per la libertà di espressione contro la ferocia del maccartismo.
Emblematico risulta proprio il caso di Trumbo, arrestato nel 1947: appena scarcerato fuggì in Messico dove continuò a scrivere sotto pseudonimo molti film, tra i quali il soggetto di Vacanze Romane e la sceneggiatura di La più grande corrida per i quali vinse, all’insaputa dell’Academy, due Oscar. Nonostante la piena riabilitazione nei primi anni Sessanta, fino al 1971 Trumbo non riuscì a portare sullo schermo il suo bel libro antimilitarista del 1939 E Johnny prese il fucile. E non è un caso che fino al 1976 il tema del maccartismo non fosse mai al centro di un film, non solo hollywoodiano: in quell’anno, l’allora ottuagenario ed ex blacklisted Martin Ritt, già regista dopo la fine della persecuzione nel 1956 di Quella lunga estate calda, con il ritorno di Welles a Hollywood in veste di attore, realizzò The Frontman (Il Prestanome), un film con protagonista l’allora famosissimo comico Woody Allen, un film che di comico non ha nulla, riprendendo gli stilemi di denuncia sociale, sotto forma spettacolare, dei film americani del primo dopoguerra.
La pellicola affronta la vicenda focalizzandola dal punto di vista dei tanti che furono costretti a lavorare sotto falso nome, sfruttati e sottopagati da colleghi tolleranti nei confronti del loro status di pericolosi sovversivi, autori come Dashiell Hammett, Lilian Hellman, Abraham Polonsky, Jules Dassin, Robert Rossen e Walter Bernstein che fu anche lo sceneggiatore del film di Ritt. Nel 1988 invece Irwin Winkler in Indiziato di reato affronta la vicenda dal punto di vista della perdita della propria vita quotidiana, degli affetti più cari, del degradarsi delle amicizie, concentrando la vicenda sul protagonista, interpretato da Robert De Niro: un regista accusato di essere comunista in un film che, nonostante l’assunto poderoso, si sviluppa in maniera abbastanza convenzionale e scontata. A differenza del più recente film di George Clooney Good Night and Good Luck, che invece concentra abilmente l’attenzione sul giornalista televisivo che più di ogni altro mise in luce la palese violazione dei diritti democratici e le storture inquisitorie prodotte da Joseph McCarthy, Edward R. Murrow.
Murrow fu un vero e proprio paladino della libertà democratica e combatté in prima persona con il suo programma televisivo See It Now la battaglia contro la potente HUAC, decretandone la fine e permettendo agli USA di uscire da uno dei periodi più bui della propria Storia.
Di certo l’esempio scelto da Clooney è un esempio alto e perfettamente adatto a rappresentare gli elementi in gioco, grazie a una forma cinematografica sobria e asciutta, la stessa del volto del protagonista, David Strathairn, che proprio per questo risulta adatta ed efficace a illustrare l’atmosfera dell’epoca. Nella realtà infatti, nel successivo programma condotto da Murrow alla CBS-TV Person to Person, il 25 novembre 1955 venne intervistato l’ormai esule Orson Welles, favorendo il suo reinserimento in ambito lavorativo ad Hollywood dopo un’assenza durata 9 anni. Quell’Orson Welles che a suo modo si ritenne in parte responsabile, anche se in maniera ironica, dell’elezione al Senato di Joseph McCarthy: “…penso che sarebbe stato molto più interessante usare il cinema e i media in generale a scopi diversi, non solo di intrattenimento. E una volta per un pelo non mi sono candidato per il Senato, in Winsconsin. Il mio avversario sarebbe stato Joe McCarthy – dunque ce l’ho sulla coscienza – ma questa è un’altra storia”. Ecco, per l’appunto, questa è un’altra storia che forse qualcuno un giorno avrà la forza e il coraggio di raccontare attraverso il mezzo cinematografico, anche se alcune storie sembrano essere troppo grandi persino per il cinema.

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Li chiamano “i creativi” https://www.carmillaonline.com/2013/12/22/li-chiamano-i-creativi/ Sat, 21 Dec 2013 23:12:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11585 di Mauro Baldrati

George-Clooney-NespressoSe stilassi una classifica per eleggere lo spot pubblicitario più improbabile, antipatico, ossessivo dell’anno, non avrei dubbi: Nespresso, quello di “George Clooney’s inside!”, dal titolo nientemeno che The Name Of Pleasure.

Non il più sciocco. A quello ci pensa Yves Saint Laurent con Opium: una modella che entra in un salone extralusso e ci trova un leopardo (il suo cucciolo?), che seduce col profumo. Sarebbe il felino che incontra il felino, immagini manieriste che sembrano tratte dagli scarti fotografici di Helmut Newton (benché tecnicamente perfette, realizzate da un fotografo esperto come Patrick Demarchelier), un’estetica uscita dal [...]]]> di Mauro Baldrati

George-Clooney-NespressoSe stilassi una classifica per eleggere lo spot pubblicitario più improbabile, antipatico, ossessivo dell’anno, non avrei dubbi: Nespresso, quello di “George Clooney’s inside!”, dal titolo nientemeno che The Name Of Pleasure.

Non il più sciocco. A quello ci pensa Yves Saint Laurent con Opium: una modella che entra in un salone extralusso e ci trova un leopardo (il suo cucciolo?), che seduce col profumo. Sarebbe il felino che incontra il felino, immagini manieriste che sembrano tratte dagli scarti fotografici di Helmut Newton (benché tecnicamente perfette, realizzate da un fotografo esperto come Patrick Demarchelier), un’estetica uscita dal cassonetto dei rifiuti degli anni Ottanta. Ma che differenza c’è tra il lusso parigino di YSL e quello brianzolo del leghista Calderoli che teneva una tigre nella sua villa?

Ma torniamo a Nespresso. Il bel George arriva su una terrazza (il cafè-store Nespresso in una metropoli americana, ma può evocare altri luoghi smart come la Terrazza Martini a Milano) con la sua tenuta casual-chic, giacchetta e camicia senza cravatta, occhiali da sole (Persol?). Si prepara un caffè con la capsula, siede al tavolo di una ragazza, che apprendiamo essere la modella Lauriane Gilliéron, miss Svizzera 2005, 29 anni, alta 1,70 con misure 85-60-91, e le chiede se sta bevendo “Volluto”. Lei dice sì, ma l’ha appena terminato, così George (che si presenta col solo nome, senza cognome) si offre di andare a preparane un altro per lei. Lei accetta, ma quando lui si dirige verso il bar la modella si alza e grida, alle donne che siedono ai tavolini, tutte belle, giovani coi tacchi a spillo: “George Clooney’s inside!”, scatenando un’eccitazione generale di tipo isterico, con tutte che si alzano preparandosi all’assalto. La mossa della modella sarebbe dovuta, spiegano alcuni recensori, al progetto di scroccare il caffè che George ha lasciato sul tavolino (incomprensibile, visto che sta andando al bar apposta per lei). Oppure che la ragazza vuole per così dire liberarsi di George, neutralizzarlo, perché la sua unica aspirazione è gustare il suo caffè in solitudine, senza l’attore tra i piedi, così lo butta in pasto al branco. E’ più verosimile la seconda ipotesi (rafforzata dalla voce fuori campo: “non lasciare che qualcuno si intrometta tra te e il tuo piacere”), però bisogna lavorare di fantasia per decrittare questo “messaggio”, e trovare traccia dell’ironia contenuta in alcuni spot precedenti (uno dei quali girato nel 2009 da Robert Rodriguez). Il tutto è alquanto impostato, la voce della modella, il modo di tendere il braccio, l’espressione preoccupata di George quando viene “sgamato”, l’eccitazione delle donne che vengono rappresentate come un raduno di galline in adorazione della star hollywoodiana. Ne esiste anche una versione con Matt Damon (Matt Damon’s inside!, con la solita crisi isterica femminile di massa). Lo spot ha avuto una programmazione martellante, anche due volte nella stessa sequenza pubblicitaria. Ora, dopo una piccola pausa “di riposo”, sta tornando più insistente che mai. Considerando la seconda lettura, al di là dell’ironia di maniera viene lanciato un messaggio ben preciso: meglio un caffè di un uomo.

Critica da bacchettone? Sarà, però viene da chiedersi quali input possono recepire i bambini, e soprattutto le bambine, da questa ripetizione di modelli femminili e maschili ultrastereotipati, che potrebbero essere inseriti nell’estetica “gallista” del Bell’Antonio di Brancati.

Stupisce – o forse no? – come in questi cosiddetti “creativi” serpeggi la più allegra indifferenza verso i dibattiti etico-sociali che si sviluppano sul web (soprattutto) e sugli altri media (più raramente, perché giornali e TV sono finanziati proprio dalla pubblicità). Uno spot della Mercedes fu ritirato perché razzista (i due giovani bianchi e belli che capitano in un bar affollato di negri, gay, punk e metallari, tutti brutti, sporchi e cattivi), uno della Ferrero pure (“La Germania vota bianco”), quello della Barilla addirittura per omofobia.

Viene anche chiedersi a questo punto se corrisponde a verità il proverbio: abbiamo ciò che ci meritiamo: abbiamo avuto i fascisti, abbiamo i politici ladri, gli evasori fiscali, la Santanché sempre in televisione e così via. Adesso pure gli spot ossessivi dei “creativi”.

Ma insomma, sorge spontanea la domanda: cosa abbiamo fatto noi italiani per meritarci questo?

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Gravity, la semplicità dell’infinito https://www.carmillaonline.com/2013/10/23/gravity-la-semplicita-dellinfinito/ Tue, 22 Oct 2013 22:01:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10226 di Mauro Baldrati

gravityAl di là dell’inevitabile can can mediatico con conseguente abuso di aggettivi superlativi, Gravity è un film onesto, equilibrato, ben fatto. Anche sincero, nella sua economia narrativa che non concede eccessi né incursioni nel fanta-thriller o negli effetti speciali fine a se stessi; o alle componenti esistenziali dei personaggi, che rappresentano un ingrediente obbligato nella filmografia industriale hollywoodiana. Cosa abbastanza inusuale, non esagera neanche con l’overdose di primissimi piani delle star. Non che questi ingredienti siano assenti. Ci sono, stiamo parlando di un kolossal, ma ogni elemento ha uno spazio ben delimitato, e non sborda, non travalica. E’ [...]]]> di Mauro Baldrati

gravityAl di là dell’inevitabile can can mediatico con conseguente abuso di aggettivi superlativi, Gravity è un film onesto, equilibrato, ben fatto. Anche sincero, nella sua economia narrativa che non concede eccessi né incursioni nel fanta-thriller o negli effetti speciali fine a se stessi; o alle componenti esistenziali dei personaggi, che rappresentano un ingrediente obbligato nella filmografia industriale hollywoodiana. Cosa abbastanza inusuale, non esagera neanche con l’overdose di primissimi piani delle star.
Non che questi ingredienti siano assenti. Ci sono, stiamo parlando di un kolossal, ma ogni elemento ha uno spazio ben delimitato, e non sborda, non travalica. E’ un film tecnico, assemblato con rigore, sia nella parte tecnologica, sia in quella psicologica. Non ci si aspetti una indagine approfondita sulla solitudine dell’uomo (della donna in realtà, Sandra Bullock è praticamente l’unica attrice nell’ottanta per cento di tutto il film) nell’immensità dell’universo: però è una componente necessaria, presente quanto basta. Nella furia del movimento fisico, in tuta spaziale o in canottiera e pantaloncini, attaccata ai monitor o alle manopole delle navette dove cerca disperatamente rifugio, si interroga sulla vita terrena, sull’attaccamento alle cose materiali, sulla morte della figlia e sulla propria solitudine. Laggiù, sul pianeta che vediamo nelle immagini panoramiche, una bolla azzurra e marrone striata di nuvole e di luce, è una donna sola, che lotta col mondo e con se stessa. Ma queste riflessioni, veloci, eppure non superficiali, non accessorie, sono “spalmate” in un divenire tecnologico, avvincente, che scandisce il combattimento senza quartiere contro la mancanza di ossigeno, e la minaccia della deriva nello spazio.

Non ci sono alieni, creature cellulari ostili, non ci sono misteri. Alcuni satelliti sono andati in frantumi e le schegge arrivano a velocità pazzesca, migliaia di chilometri all’ora, colpiscono le stazioni spaziali, i moduli di atterraggio, lo space shuttle. I due astronauti superstiti, Ryan (Sandra) e Matt (George Clooney), sono sbalzati nell’abisso, cercano di restare saldi afferrandosi a qualsiasi sporgenza, a relitti, a cavi, per non sprofondare nel buio senza fine. Ryan, rimasta sola, galleggia in assenza di gravità nei tunnel caotici di stazioni abbandonate, cercando di mantenere il controllo, di capirne il funzionamento, di trovare una via possibile per il ritorno.

E’ tutto uno studiare codici, spingere pulsanti, uscire all’esterno per sganciare un modulo, tra le frecce che saettano e fanno esplodere ali, turbine, batterie, mentre il tempo vola, e l’ossigeno se ne va. E’ sempre sull’orlo della crisi finale, e quindi della sconfitta. La lotta è anche, o soprattutto, per non smettere di combattere, per non lasciarsi andare alla fine.
Gli effetti speciali sono l’ultima frontiera della tecnologia, realisti, quasi “normali” nella loro verosimiglianza, perché è proprio come dovrebbe essere nello spazio, come ce lo immaginiamo. Sono esagerati nella loro perfezione, ma non esagerano nella ridondanza. Ryan viene ripresa nella sua entità cyber di astronauta infilata in una tuta spaziale, ma anche nella sua fisicità, nel suo corpo atletico, volitivo, sospeso nel nulla. Qua e là alcuni primissimi piani ricordano maschere che evocano le mutazioni di Terminator 1, ma non vi è mai indugio nel voyeurismo da star-system.

Alla fine siamo stupiti dalla tranquillità con la quale il regista Cuaròn non cerca collegamenti o confronti con capolavori della science-fiction, dalla modestia, per così dire, con la quale ha elaborato un film che funziona proprio per la sua semplicità.
E’ consigliabile la visione in 3D ma non è affatto indispensabile, come minaccia certa “critica”. Fa la sua onesta figura anche in 2D, non si perde nulla.

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 52 https://www.carmillaonline.com/2013/09/06/ddv52/ Thu, 05 Sep 2013 22:01:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8887 di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981 La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni [...]]]> di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981
La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni imperanti modelli produttivi risulta felicemente povero di mezzi ma ricco di idee, come quella beffarda e geniale della Manhattan ridotta a un carcere. E l’aereo dirottato che ci finisce schiantato è… beh, diciamo un’intuizione criminale azzeccata, anche se dubito che Osama Bin sia un appassionato di Carpenter, regista anarchico, mai banalmente qualunquista, sempre attento a ricordarci che il Potere è marcio, corrotto, violento e senza alcuna pietà nei confronti dei misfits che lo combattono. L’edizione in Dvd regala un veloce ma interessante documentario che ripercorre le tappe produttive del piccolo gioiello, nato da una sceneggiatura dei tempi dell’università, pensata – guarda il caso – per Clint Eastwood. Cast spettacolare che include anche Ernest Borgnine, Harry Dean Stanton e Isaac Hayes (e subito sentiamo tutti il chugga chugga del wah wah di Shaft). Rivisto durante gli anni del liceo (sicuramente in seconda, probabilmente anche più avanti e mai più dal 1995 in poi), lo vidi la prima volta all’Instabile di Genova nell’estate del 1982, con la mia amica Roberta. M’era piaciuto moltissimo: avevo già ragione. Carpenter promise che MAI avrebbe realizzato un sequel. Mentiva. (Dvd; 23/1/05)

ddv5202513 – La febbre del sabato sera sedata da Pasazerka di Andrzej Munk, Polonia 1963
Il mio sabato ideale: a casa, con un capolavoro polacco, in lingua originale. Barbara recalcitra e m’impongo poco democraticamente, tirando fuori anche la Giornata della memoria e il dovere civile di vedere un film in tema. Cede e ci vediamo l’incompiuto La passeggera del regista Munk, morto in un incidente d’auto prima di aver ultimato il montaggio. Dopoguerra pacificato. Lisa, che è stata guardia ad Auschwitz, è in crociera e le sembra che una delle passeggere sia Marta, una ragazza ebrea con cui aveva instaurato un tremendo rapporto di potere durante la prigionia. Racconta al marito, edulcorando la vicenda e mascherando la sua meschinità con la compassione. Un film eccezionale, forse anche aiutato dalla sua incompletezza che rende scarni ed essenziali i momenti ambientati al presente (narrati da una voce fuori campo su foto delle scene). Il lager come universo concentrazionario dove è annullata ogni umanità e un biglietto, uno sguardo, una carezza, diventano gesti per cui vale la pena di rischiare la vita. L’orrore della dignità calpestata continuamente, l’illusione degli aguzzini di essere assolti dalla loro cattiveria concedendo avarissimi scampoli di carità, sottomessi sempre all’opportunismo. Munk sceglia una strada difficile: l’incerto tormento personale di Lisa, l’indifferenza di fronte all’immane tragedia e la ricerca di una complicità con una prigioniera per sentirsi meno colpevole. Splendido. In nottata, tra l’altro, Fuori Orario l’ha riproposto, facendolo precedere dal toccante Notte e nebbia di Alain Resnais, visto anni fa e rivisto, impietrito e insonne, non appena ci son capitato su, scanalando. Agghiacciante e dolorosamente necessario. (Vhs da RaiTre; 29/1/05)

ddv5203514 – L’horror de paura Ju-On The Grudge di Shimizu Takashi, Giappone 2003
Nipponata orrorifica dove l’oggettiva impossibilità di distinguere i personaggi rende trama e comprensione oltremodo difficoltosi. Ma non c’è molto da girarci attorno: una casa infestata da bimbo, madre e gatto nero, vittime in passato di un capofamiglia sanguinario. Chi frequenta la casa ha le visioni e prima o poi viene risucchiato in soffitta. Perché The Grudge è piaciuto, tanto da diventare un cult e autorizzarne un rifacimento hollywoodiano? Boh! Direi perché ormai qualunque cosa presenti qualche vago motivo d’interesse diventa allora un’opera d’arte da elevare sopra lo squallore generale. E The Grudge un vago motivo d’interesse lo ha nel fare una paura del diavolo, al di là della farraginosità assolutamente non necessaria e nonostante la staticità narrativa, poco aiutata dall’espressività da bassorilievo di alcuni attori. La scommessa, in questi horror metafisici e metà stronzate, è trovare un modo per farci accapponare la pelle e se da ogni angolo spunta e poi scompare il pallidissimo bimbo Toshyo, beh, lo spaghetto viene eccome. Peggio ancora quando ti appare la madre che rantola come un radiatore rotto e ha capelli degni di Tina Turner metà anni Ottanta. Nella totale indifferenza della trama, mi son goduto un’oretta e mezza di fifa blu. Per cui ve lo consiglio? Mah! Vi lascio nel dubbio: non vi devo niente, io. Dvd affittato dal Blockbuster di Papiniano: sfornito, con commessi da freakshow che non sanno che lavoro fanno e ti mettono in coda per ore. Ah, domenica Prodi è stato intervistato dalla Dandini: per la gioia del Nano, sotto una funerea luce da confessionale il Professore ha risposto disastrosamente alle domande della dentona. Ci meritiamo tutto. (Dvd; 3/2/05)

ddv5204515 – La puzzonata The Peacemaker di Mimi Leder, USA 1997
Il classico film fracassone e ottuso del venerdì sera di Italia1: un richiamo troppo perverso per rinunciarvi. Stavolta tocca a The Peacemaker, film d’azione molto stereotipato, povero di psicologie e, più in generale, di idee che lo distinguano all’interno del genere. Mentre la guerra in Bosnia va concludendosi portando seco un pericoloso carico di vendetta, un’esplosione atomica (!) insospettisce il fisico nucleare Julia Kelly (Kidman), ingenuotta primina della classe. Le affiancano il gaglioffo e non cristallino Thomas Devoe (Clooney), che, da tenente colonnello dei servizi segreti, sa bene come funzionano le cose nel disintegrando ex impero sovietico. La strana coppia è litigarella, ma finirà coll’amarsi (la cosa è intuibile fin dal manifesto del film), ma la regia mette da parte ogni smanceria e va dritta al sodo, con inseguimenti, botti e decisioni fatali dei soldati americani, pronti a sacrificarsi per il bene mondiale. In questa messa in scena muscolare di una regista che vuol far vedere che ha due coglioni di titanio, si salva solo una battuta profetica: di fronte al pakistano cattivo che ha studiato ad Harvard, Clooney chiosa: “Eh già, li abbiamo istruiti quasi tutti noi, i terroristi!”. Se c’è un motivo d’interesse in The Peacemaker è nella compresenza di due attori che da lì a breve sarebbero diventati star a tempo pieno. Nicole Kidman, non ancora sfigurata dalla chirurgia estetica tanto da sembrare oggi la gemella di Eva Grimaldi, pare una ragazzina, con occhi azzurrissimi e capelli rossicci. È di ieri la dichiarazione dello stilista Karl Lagerfeld che ha definito il suo corpo “bizzarro” (è una dichiarazione ripresa da tutte le agenzie di stampa e probabilmente propagata da quello dell’attrice stessa). In effetti ha gambe da fenicottero, sederone e tronco magrissimo e quando corre sembra una papera. Clooney, invecchiando, ha invece guadagnato charme e qui è ancora tutto adrenalina, anche se lo sguardo da giuggiolone promette già quella simpatia sorniona che lo fa amare da donne e uomini. Film molto lungo, non particolarmente ispirato, ma infettivo: visto il primo quarto d’ora, diventa difficile mollarlo. (Diretta tv su Italia1; 4/2/05)

ddv5205516 – Un piccolo capolavoro, Mad Max 2 di George Miller, Australia 1981
Prima di interpretare un poliziotto isterico e spericolato (i vari Arma letale) e prima di dirigere un horror con protagonista Gesù Cristo, il reazionario Mel Gibson è stato un ribelle ricoperto di cuoio che sfrecciava sulla terra devastata dai conflitti nucleari. Unico obbiettivo, procurarsi la prossima tanica di benzina. Era l’ossessione degli anni Settanta (dopo la crisi petrolifera) e oggi ce ne siamo dimenticati: per risolvere facciamo ogni tanto una guerra a chi possiede il petrolio e si rimanda la soluzione al futuro, quando arriverà Mad Max sul serio. Per adesso godiamoci questo splendido memento cinematografico, arrivato in Italia col titolo Interceptor – Il guerriero della strada. Come aveva previsto Einstein, si combatte con le pietre, all’arma bianca e solo Mad Max ha un fucile a canne mozze, ma i proiettili sono rari e spesso difettosi. Abbondano balestre, coltelli e boomerang affilatissimi e vige la legge del più forte. Nella fattispecie i selvaggi che abitano il wasteland agli ordini del temibile e orrendo Humungus. Mad Max, da vero eroe anarchico e cinico, sceglie i buoni per interesse, perché gli possono assicurare un po’ di carburante, cioè vita, strada. La vicenda è divertente, senza cali di ritmo, equilibrata nella costruzione e azzeccata nello svolgimento, con un’introduzione e un finale suggestivi. Da un punto di vista figurativo, il film ha pesantemente influenzato tutto l’immaginario degli anni Ottanta, popolando la videomusica e la fantascienza cinematografica di punk mohicani, abbigliati come moderni gladiatori. Cinemascope oceanico per paesaggi (australiani) di selvaggia bellezza. Azzeccato score classicheggiante di Brian May, solo omonimo del chitarrista dei Queen. Gran film, visto con la cugina Alessandra. (Dvd; 5/2/05)

ddv5206517 – L’ambiguo (?) Rambo di Ted Kotcheff, USA 1982
Anche questo venerdì cado nell’agguato di Italia1: il film (visto anche recentemente) è perfetto per staccare i lobi cerebrali e identificarsi ottusamente nel protagonista, John J. Rambo, reduce dal Vietnam leggermente confuso e abbandonato a se stesso sulla fredda costa del Pacifico. Alla ricerca di un commilitone, ultimo superstite del suo battaglione, scopre che è morto di cancro dovuto al tremendo defoliante, l’agente arancione. Il commilitone, peraltro, era pure nero e – sicuro – i due assieme avranno fumato e si saranno calati più d’un acido. Fai due più due e ti viene un atroce sospetto: ma questo è mica un film di sinistra?! Possibile che abbiamo preso un simile abbaglio per tutti questi anni? Bisogna rivederlo tutto, Rambo, perché qui è in agguato una rivalutazione ideologica non da poco! Dunque: Rambo arriva a Hope, pacifica cittadina dove lo sceriffo Teasle (Brian Dennehy) è frustrato dalla monotonia e non vede l’ora di avere qualche problema per poter menare le mani. Un girovago è l’ideale e Rambo viene portato in cella per vagabondaggio. Siccome puzza da far schifo lo strigliano ben bene e minacciano di tagliargli i capelli perché sembra uno hippie; infine provano a fargli la barba, a secco (sai che roba: e tirargli un pizzicotto, no?). Alla vista del rasoio, Rambo ripensa alla sua prigionia in Vietnam e, come un cane di Pavlov, sbarella e sbava: mena tutti e scappa su pei monti (cane di Pavlov come recitazione, non come reazione, eh?). Teasle non ci pensa due volte e scatta la caccia all’uomo: finalmente un po’ d’azione! Ma c’è un problema, hanno sbagliato indirizzo: Rambo è un ex berretto verde decorato, sopravvissuto alla giungla vietnamita, e sceriffi e guardia nazionale (formata da ciccioni parolai) gli fanno un baffo. Lo riporterà alla ragione solo il colonnello Trautman (Richard Crenna), suo comandante in guerra, uomo talmente coraggioso da sopportare con infinita pazienza anche la frignata finale in cui Rambo tira via la maschera e dice, testuale, che la guerra era già vinta, ma qualcuno a casa, non ha voluto che finisse così. E i dubbi su una possibile riabilitazione rambistica svaniscono d’un colpo. Avevamo ragione da vendere, cazzo. Rambo il film è confuso quanto Rambo il personaggio, anche se come mero prodotto d’azione il film si fa vedere, lo ammetto. Sempliciotto, virile, girato economicamente, abbastanza ritmato, ben fotografato (Laszlo), recitato così cosà, con Stallone capace di due espressioni: o assente o piagnucolante. Sbattuto in carcere, di Rambo se ne rivaluteranno le qualità belliche e i capitoli successivi lo vedranno protagonista in Vietnam e nell’Afghanistan sovietico. Si parla di un quarto episodio: Iran? Corea del Nord? Tra le scene passate alla storia sicuramente il rammendo del protagonista che si ricuce una ferita sul braccio. In un’estate dei primi anni Novanta mia sorella calpestò in casa un ago lasciato per errore per terra. Gli entrò nel tallone e dovetti portarla al pronto soccorso dove un geniale infermiere – saputo l’accaduto – chiamò così il medico di guardia: “Megu, mia! U l’è arrivou u sciu Rambo!”. (Diretta tv su Italia1; 11/2/05)

ddv5207518 – Giochiamo a fare la guerra con The Warriors di Walter Hill, USA 1979
Il Bronx, un improbabile raduno notturno, con tutte le bande della città in tregua, perché Cyrus, il carismatico capo dei Riffs, ha da fare un discorsetto: se ci uniamo, non c’è polizia che tenga e New York sarà nostra. Ma il leader schizzato dei Rogues gli pianta una pallottola in corpo: Cyrus muore. Il caos, coi Warriors accusati dell’assassinio: casa è lontana una cinquantina di miglia e tutti vogliono fargli la pelle. Per tornare alla fetida Coney Island affrontano gli skinhead Turnbull A.C.’s, gli sfigatissimi Orphans, le assatanate lesbiche Lizzies, i Baseball Furies truccati da Kiss e infine i temibili Punks, col leader sui pattini. Botte da orbi e dei nove componenti la delegazione, due onorevoli perdite: il carismatico Cleon, subito fatto fuori dai Gramercy Riffs, e Fox, quello perbene, gettato da un agente sotto un vagone della metrò. L’esuberante Ajax (James Remar) viene invece arrestato perché ci prova con una poliziotta nel parco. Gli altri, capitanati dal sosia magro di Jim Morrison, Swan, raggiungeranno le livide spiagge dell’Atlantico e si chiederanno se sia valsa la pena di questa impresa. Grande western metropolitano, con una New York mitica e irriconoscibile, stilizzatissima grazie alla luccicante fotografia di Andrew Laszlo. La storia non è altro che l’attualizzazione dell’Anabasi di Senofonte (che sbulaccone, eh? Eddài, lasciatemela passare, su) e il vero valore di Warriors risiede nella messa in scena, all’epoca considerata d’insopportabile violenza (oggi fa ridere: poco sangue, niente droghe, nessuna arma da fuoco, volano solo pugni e qualche coltellata). Irrealistica la definizione delle bande giovanili, improponibile – perlomeno oggi – la mescolanza razziale, inesistente il realismo, ma il cinema americano ha sempre inseguito la leggenda. Coloratissimo, amaro, epico: non perfetto, ma comunque imprescindibile, perlomeno per la mia generazione. E a un certo punto, per pochi frame, c’è il mio amore Debra Winger, paffutella e tenerissima. (Dvd; 12/02/05)

ddv5208519 – The Untouchables di un ludico Brian De Palma, USA 1987
Per combattere Al Capone bisogna usare le maniere forti e mettere in conto che non ci saranno più amici sicuri, famiglia tranquilla e orari di lavoro da ufficio. Kevin Costner è lo specchiato federale che va a Chicago a scontrarsi con la polizia locale corrotta. Mette su una banda pronta a tutto (gli Intoccabili, appunto) e reagisce colpo su colpo al mefistofelico boss mafioso, passando pure al contrattacco e infine incastrandolo. Messa in scena sontuosa, attori in parte, pochi indugi autoriali, qualche esibizionistico pezzo di bravura (la scena della carrozzella, che omaggia Ejzenstejn), una più generale voglia di abbracciare il grande pubblico: è il cinema italo-americano nella sua variante più spettacolare, con un Morricone particolarmente fracassone e sintetico, un De Niro mattatore e i ricchi costumi di Armani. Divertente. Perso all’epoca, riguadagnato in versione originale e chilometrico cinemascope. Questa ottusa recensione si accompagna alla ferale notizia che ho smesso di comprare Film Tv. Avevo cominciato a leggerlo anni fa su consiglio di Marco Polese, compagno di straordinarie visioni al cineclub Lumière. Dopo gli ultimi mesi in cui non lo guardavo neanche, questa settimana mi sono semplicemente dimenticato di chiederlo in edicola. La rivista è forse diventata un po’ noiosa, ma soprattutto sono io a essere sicuramente diventato mortale: non c’è film che desideri vedere e – di conseguenza – non c’è articolo o recensione che voglia leggere. E poi, l’odierna critica cinematografica mi sembra un esercizio di dissezione di cadaveri. Qualche nome che mi piace? Beh, sì: il vivace Filippo Mazzarella, che leggo qui e là. Oppure Alessio Guzzano, libero pensatore dotato d’ironia e di creatività linguistica, che costruisce miniature finissime e ha gusto (e idiosincrasie, ma dichiarate). Ma altro non saprei. È colpa mia? È colpa mia, probabilmente. (Dvd; 13/02/05)

ddv5209520 – Lo spaventevole Zeder di Pupi Avati, Italia 1983
Beh, questa è storia. Scrivo esclusivamente pensando a Pier che un giorno leggerà queste righe e ricorderà anche lui quel fine agosto a Champoluc. Sarà stato il 1983, direi. Pier Paolo, alquanto precocemente, ha già “la ragazza”, Tiziana, e io sono il terzo incomodo. Fatto sta che in una serata ancora calda, finiamo lì, a casa di Tiziana per vedere questo horror, in prima serata sulla Rai. La casa verde era sul curvone per andare ad Antagnod ed era famosa perché si diceva che lì avesse soggiornato Bettega quando aveva dovuto curare i polmoni deboli. Chissà: io riferisco, ma non ho mai verificato tutta la vicenda, anche perché l’interesse è oggettivamente prossimo allo Zero Assoluto. Ricordo perfettamente che il film ci aveva fatto abbastanza cagare addosso e nell’intervallo avevamo riso come matti per una pubblicità micidiale di prodotti in gomma il cui slogan era “il chiodo fisso”: il nome dell’azienda era letteralmente martellato in fronte a un tipo. Altri tempi, altre strategie di marketing: darei una cifra per rivederla. La vicenda di Zeder vi ricorderà quella di altri più fortunati horror: esistono terreni speciali, detti terreni K, dove i cadaveri possono riprendere vita. Più o meno come nel cimitero indiano di Pet Semetary o come sul palco dell’Ariston a Sanremo. A proposito: lessi il libro di Stephen King durante l’Interrail europeo del 1989, quando conobbi Barbara. Faceva paura (il libro, non Barbara). Poi qualche anno dopo, con Ferro, abbiamo visto anche il film e faceva paura anche quello, ma per lo schifo. Tornando a Zeder: ancora bello inquietante, nonostante durante la visione Barbara e Alessandra abbiano anticipato mirabilmente tutti i colpi di scena perché lo ricordavano meglio di me. Sceneggiato da Pupi Avati assieme a Maurizio Costanzo che – dopo essersi occupato anche de La casa dalle finestre che ridono – da allora ha deciso di dedicarsi ad altre forme di orrore, tipo Buona Domenica. (Vhs da RaiUno; 15/02/05)

ddv5210521 – Il primo clamoroso episodio di Io tigro, tu tigri, egli tigra di Renato Pozzetto, Italia 1978
Questo episodio (di una trentina di minuti) è un po’ il Graal di certa commedia italiana anni Settanta, perlomeno per me e la mia famiglia. Mi sto addentrando nei meandri della salute mentale dei miei genitori e di mia sorella, ma da sempre, quando tra di noi uno dice “bestiale”, subito gli viene risposto con marcato accento lumbard “ha stabilito il record del letame!”, citando uno dei momenti stracult dell’episodio in questione. Protagonista è Pozzetto, ingenuo abitante di una casupola prefabbricata. Si guadagna da vivere consegnando merda di vacca col suo Ape Piaggio spoilerato e tirato da corsa, ma il frustrato Ponzoni lo assolda come cameriere col preciso piano di far secca la moglie ricca. Finirà tutto in un colossale sputtanamento, come canta strascicato Jannacci. Mezz’ora di surrealtà purissima, umorismo geniale e freddo come un ghiacciolo nel culo. Tra battutacce da declamare tra amici, nonsense e qualche ingenuità di regia, viene fuori una perla di follia, ma è di questa materia che sono fatti i sogni e i film che più amiamo, cari amici. Tra i tanti che appaiono c’è Giorgio Porcaro (con le mani “come due badiletti”) e soprattutto Massimo Boldi, fantastico cameriere ribelle con la Porsche che fa rivendicazioni proletarie agitando coltelli. Rivedendo Io tigro, tu tigri, egli tigra, ho goduto come sempre, notando però più i difetti che i pregi. Barbara era abbastanza attonita, ma certe cose o le vedi a tredici anni oppure non ne coglierai mai più la sublime poesia. (Vhs da RaiUno; 16/02/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 52)

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