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Il cinema di poesia di Andrea Segre all’ombra del Nord Est

In tema di migrazione quello di Andrea Segre è un vero e proprio cinema militante. Il suo ultimo lungometraggio, L’ordine delle cose (2017), affronta la drammatica e spinosa questione del controllo dell’immigrazione irregolare fra la Libia e le coste italiane. Il protagonista, Corrado (Paolo Pierobon), è un alto funzionario del Ministero degli Interni preposto al compito di contrastare l’immigrazione clandestina nel calderone della Libia post-Gheddafi. La struttura fondante del film è basata sulla dinamica del cinéma-vérité, un tipo di cinema che mescola verità documentaristica e finzione romanzesca. [...]]]> di Paolo Lago

Il cinema di poesia di Andrea Segre all’ombra del Nord Est

In tema di migrazione quello di Andrea Segre è un vero e proprio cinema militante. Il suo ultimo lungometraggio, L’ordine delle cose (2017), affronta la drammatica e spinosa questione del controllo dell’immigrazione irregolare fra la Libia e le coste italiane. Il protagonista, Corrado (Paolo Pierobon), è un alto funzionario del Ministero degli Interni preposto al compito di contrastare l’immigrazione clandestina nel calderone della Libia post-Gheddafi. La struttura fondante del film è basata sulla dinamica del cinéma-vérité, un tipo di cinema che mescola verità documentaristica e finzione romanzesca. Infatti, come leggiamo in una nota iniziale, «i personaggi e i fatti qui narrati sono interamente immaginari. È autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce». La macchina da presa di Segre scava nel profondo negli interstizi sociali della contemporaneità, affrontando tematiche sociali e politiche complesse con uno sguardo contemporaneamente poetico e militante. Il regista (autore, tra l’altro, di numerosi documentari) realizza un impietoso affresco della «realtà sociale e ambientale» contemporanea, indagata nei suoi più drammatici risvolti legati al tema dell’immigrazione clandestina.

Assistiamo alla messa in scena di due spazi contrapposti, quello dell’Italia e, nella fattispecie, di Padova e dei suoi dintorni, e quello della Libia, dove la mdp ci conduce nell’inferno dei campi di detenzione per i migranti. Da una parte ci sono le immagini pallide e patinate degli interni alto borghesi e del quartiere residenziale dove vive Corrado con la sua famiglia, nonché quelle della monumentale piazza di Prato della Valle a Padova, sulle quali scorre placido e inesorabile l’«ordine delle cose», dall’altra i colori accesi della Libia, con le spiagge, il mare, le città, non ultimi i veri e propri inferni-lager dove sono ammassati i migranti che cercano di attraversare il mare per arrivare in Europa. La missione del protagonista è proprio quella di delimitare un confine, di chiudere lo spazio del mare rivendicando quasi una ‘proprietà’ su di esso, nel nome della politica internazionale degli accordi di Schengen (ma non certo nel nome dei diritti umani), atta a chiudere su se stessa, come un fortilizio medievale, l’Unione Europea. Ma qualcosa, in questo meccanismo, si spezza: Corrado entrerà infatti in contatto con Swada (Yusra Warsama), una ragazza somala che vuole raggiungere il marito matematico in Finlandia. Il contatto, che fa capire a Corrado di trovarsi di fronte ad un essere umano non troppo diverso dalla propria figlia o dalla propria moglie, instaura nel personaggio il desiderio di aiutare la ragazza a recarsi in Finlandia, anche in modo illegale, sfruttando il suo potere e i suoi contatti con l’ambasciata finlandese. Comprendere che anche chi ci è diverso, nella fattispecie una migrante clandestina rinchiusa in un centro di detenzione in Libia il cui disperato viaggio si cerca di contrastare, alla fine è proprio uguale a noi, con gli stessi desideri, le stesse ansie, le stesse paure, è ciò che mette in moto il meccanismo di ibridazione, di avvicinamento.

Alla fine, però, prevale «l’ordine delle cose» che sembra regnare sulla realtà, quell’inesorabile incedere della quotidianità che non può essere scardinato. Tornato nell’ambiente ovattato dell’elegante e ricca provincia del Nord Est dove abita, abbandonando ormai l’idea di aiutare la ragazza, il personaggio sembra rinchiudersi di nuovo nel suo ruolo, nel quadro sociale nel quale è incastonato, lontano da qualsiasi possibilità di ibridazione con l’altro da sé. Quel vecchio ordine da ancien régime di un Occidente capitalista sempre più chiuso sembra non potersi spezzare, neanche di fronte a migrazioni che recano forse in sé il germe di una rivoluzione culturale: la ragazza, infatti, intende raggiungere il marito che studia matematica e il suo desiderio, una volta arrivata in Finlandia, è quello di «stare seduta tutto il giorno a leggere tutti i libri del mondo». Il freddo meccanismo a orologeria del controllo di uno statico Occidente appare quindi una impenetrabile barriera di fronte al calore del desiderio mosso da istanze culturali e di crescita sociale legato al fenomeno della migrazione.

I due precedenti lungometraggi di Segre, Io sono Li (2011) e La prima neve (2013) mostrano invece la possibilità di un avvicinamento e di una ibridazione. I due film mettono in scena l’arrivo della figura dello ‘straniero’ (inteso come figura mitica, stereotipo culturale ma anche come condizione esistenziale) all’interno di una piccola comunità. L’aspetto probabilmente più interessante dell’incontro con l’Altro in questo caso sta proprio nel fatto che l’immigrato, il ‘diverso’ arriva all’interno di una comunità piccola e chiusa, più legata alla tradizione e al passato, piuttosto che in una grande metropoli, dove invece dominano le mescolanze dei tratti e i fenomeni di meticciato.

La protagonista del primo fra i due film, Shun Li (Zhao Tao), è una ragazza cinese immigrata in Italia. Dapprima operaia tessile a Roma, si sposterà successivamente a lavorare in un bar di Chioggia gestito da cinesi. È qui che conosce Bepi (Rade Sherbedgia), un pescatore istriano soprannominato «il poeta» per la sua abitudine di improvvisare versi. Fra i due nasce un sincero e profondo legame di amicizia forse proprio per il fatto di essere entrambi dei ‘diversi’, degli emarginati, per certi aspetti, dalla coesione sociale. Bepi, lui stesso un immigrato dalla vicina Pola, è scontroso e solitario, mentre Shun Li appare come la figura dell’immigrata, della ‘diversa’ giunta nel cuore del Nord Est. Inoltre, se Bepi è già di per sé un isolato all’interno della comunità dei suoi amici pescatori chioggiotti, la stessa Shun Li si trova emarginata all’interno della comunità cinese, estremamente chiusa, e segnata a vista per aver dato troppa confidenza al vecchio pescatore. Costretta dai suoi connazionali a lasciare Chioggia, vi farà poi ritorno soltanto dopo la morte di Bepi. Il contatto avviene dunque fra due personaggi, se così si può dire, ‘deboli’, emarginati, sofferenti. L’Altro, l’immigrato può probabilmente entrare in sinergia soltanto con un proprio simile, con chi fa parte della comunità e però, contemporaneamente, si trova anche ai margini di quella stessa comunità. Bepi e Shun Li sono due figure liminali, né dentro né fuori: la ragazza, cinese, nei confronti della comunità locale in primis e poi di quella dei suoi connazionali; il vecchio pescatore, croato, nei confronti della stessa comunità di Chioggia e dei suoi amici, circondato da una squallida solitudine. Estremamente importante, in Io sono Li (ma anche ne La prima neve), è poi l’ambiente, il paesaggio. Il regista, originario di Dolo, vicino Venezia, attua un interessante esperimento di geopoetica cinematografica, rendendo il proprio territorio quasi il vero protagonista del film. Così scrive il regista in alcune «note di regia» riguardo all’ambientazione del proprio film:

Ricordo ancora il mio incontro con una donna che potrebbe essere Shun Li. Era in una tipica osteria veneta, frequentata dai pescatori del luogo da generazioni. Il ricordo di questo volto di donna così estraneo e straniero a questi luoghi ricoperti dalla patina del tempo e dell’abitudine, non mi ha più lasciato. C’era qualcosa di onirico nella sua presenza. Il suo passato, la sua storia, gli spunti per il racconto nascevano guardandola. Quale genere di rapporti avrebbe potuto instaurare in una regione come la mia, così poco abituata ai cambiamenti? Sono partito da questa domanda per cercare di immaginare la sua vita. (iosonoli.com).

È una Chioggia cupa e invernale, sono lividi albe e tramonti e l’acqua della laguna ad avvolgere in modo sinuoso e poetico quasi ogni singola inquadratura del film.
L’ambiente è protagonista anche a livello linguistico: i pescatori si esprimono in dialetto, utilizzato in alcuni momenti anche dagli stessi cinesi, da lungo insediati nella località veneta. Shun Li appare come una sorta di angelo della poesia, straniera anche alla propria comunità, unicamente attraversata dal desiderio di far arrivare in Italia il suo bambino e, in futuro, di ritornare in Cina. Lo sguardo del regista, perciò, assume anche un piglio antropologico nel mostrarci le più diverse interazioni fra immigrati cinesi e comunità locale, nonché le varie forme di relazione fra gli stessi cinesi. In opposizione all’italiano e al chioggiotto, il cinese è la lingua della poesia, per mezzo della quale Shun Li scrive le sue lettere al figlio e al padre e legge toccanti poesie di un poeta cinese.

La poesia è infatti un importante mezzo di comunicazione e di ibridazione: l’avvicinamento fra i due avviene infatti anche in virtù di essa. Come già accennato, Shun Li appare come una sorta di angelo poetico che frequentemente recita versi nella sua lingua e celebra la «Festa del Poeta», una festa tradizionale cinese in cui vengono abbandonati miriadi di lumini accesi sulle acque di un fiume. Bepi, invece, all’interno della sua comunità è soprannominato «il poeta» per la sua propensione a inventare rime (e scriverà inoltre dei versi anche per Shun Li).

La poesia sembra poi avvolgere ogni inquadratura del film: la sinergia fra voce, suoni e immagini è molto netta e le stesse inquadrature sembrano scaturire dalla parola poetica recitata dalla ragazza. Lo sguardo vellutato della macchina da presa costruisce una vera e propria poesia visiva semplicemente guardando il paesaggio e l’ambiente, fino all’esplosione catartica del finale, quando, con tonalità che possono rimandare al cinema di Andrej Tarkovskij, Shun Li dà fuoco al casone di pesca di Bepi, all’interno della laguna, facendo così rivivere il rituale della cinese «Festa del Poeta», il fuoco sull’acqua, dedicato allo scomparso poeta Bepi.

Anche La prima neve racconta, con tonalità poetiche e malinconiche, il progressivo avvicinamento fra il profugo africano Dani (Jean-Cristophe Folly) e Michele (Matteo Marchel), un ragazzino ribelle ancora segnato dalla recente, tragica scomparsa del padre, che vive un rapporto conflittuale con la madre (Anita Caprioli), mentre appare legato da sincera amicizia allo zio Fabio (Giuseppe Battiston). Siamo a Pergine, un paesino sulle montagne del Trentino e Dani, originario del Togo e ospite di una casa di accoglienza insieme alla sua bambina, viene chiamato a lavorare da Pietro (Peter Mitterrutzner), un vecchio falegname e apicoltore della Val dei Mocheni. Dani, ancora traumatizzato dalla morte della moglie durante il viaggio dalla Libia, convinto di non poter allevare adeguatamente da solo la sua bambina, si avvicina progressivamente a Michele, segnato nel profondo dalla morte del padre a causa di una valanga. L’ibridazione fra il ‘diverso’, il migrante e il membro della comunità, qui, avviene fra Dani e Michele, quest’ultimo, un po’ come Bepi, segnato dal dolore e dalla consapevolezza di diversità ed esclusione (in questo caso, a causa della scomparsa del padre). Il giovane africano e il ragazzino ribelle che marina la scuola si ritroveranno a fare legna insieme nel bosco e i loro dolori troveranno una reciproca corresponsione.

Ancora una volta, i veri protagonisti sono il paesaggio e la poesia. Le montagne e i boschi autunnali sono l’anima del film, sublimati da inquadrature vellutate e pittoriche. Dani, che fa anche lo scultore, recita poesie indirizzate alla moglie morta nella propria lingua africana e non in francese, lingua che utilizza invece per comunicare con altri profughi africani. Lo spazio della poesia, perciò, come in Io sono Li, è quello della propria lingua, della propria tradizione che proviene dalle sfere più intime dell’esistenza. La voce poetica, pronunciata nella lingua africana, si distende sulle immagini dei boschi e delle montagne con una incisività sublime e toccante: non si potrebbe pensare a niente di più lontano della lingua africana e della stessa presenza di un africano dal dialetto, dalle montagne e dalle vallate del Trentino, ma nel contempo questa lontananza è sublimata da una continua vicinanza e ibridazione. Se in Io sono Li la funzione catartica dei momenti finali era affidata al fuoco, qui è la neve ad assumere quasi una valenza magica e onirica. Dani non la ha mai vista e, proprio nella neve, si troverà ad accompagnare come un nuovo e straniero angelo il piccolo Michele sul luogo della morte del padre e, nello scenario montano, i due si abbracceranno. Il momento finale in cui Dani abbraccia il ragazzino e quest’ultimo si abbandona al suo abbraccio segna l’abbattimento di ogni confine sociale, politico e culturale fra lo ‘straniero’ e la comunità. L’ibridazione e l’incontro raggiungono quindi i loro momenti più alti. Michele, forse, ha superato i suoi traumi e lo stesso Dani, probabilmente, rinuncerà al progetto di partire e di abbandonare la bambina perché si riteneva un cattivo padre. Il contatto e la comprensione fra due culture riesce a vincere e superare il dolore. Per mezzo dell’ibridazione e della distruzione di ogni forma di odio e di pregiudizio, forse si riesce a realizzare qualcosa di veramente nuovo e costruttivo. Perché, ed è probabilmente questo il messaggio più importante del cinema di Andrea Segre, pervaso di una limpida poesia militante, al di là di ogni diversità di cultura, di lingua, di colore della pelle, siamo tutti simili e vicini perché profondamente e dolorosamente umani.

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