gentrificazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il paradigma Amazon https://www.carmillaonline.com/2024/05/01/il-paradigma-amazon/ Wed, 01 May 2024 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82268 di Sandro Moiso

Charmaine Chua, Spencer Cox, Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, Introduzione di Sergio Fontegher Bologna, Infografiche di Emanuele Giacopetti, Punto Critico, Roma 2024, 140 pp., 12 euro

Definire Amazon un colosso è decisamente riduttivo, Amazon è un paradigma, così come lo sono stati gli stabilimenti Ford. Ambedue sono simboli di una civilizzazione, hanno segnato un’epoca. (Sergio Bologna)

Occorre iniziare da questa affermazione di Sergio Fontegher Bologna, contenuta nell’introduzione al testo appena pubblicato da Punto Critico, per riflettere su quali novità abbia introdotto a livello di rapporti di lavoro [...]]]> di Sandro Moiso

Charmaine Chua, Spencer Cox, Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, Introduzione di Sergio Fontegher Bologna, Infografiche di Emanuele Giacopetti, Punto Critico, Roma 2024, 140 pp., 12 euro

Definire Amazon un colosso è decisamente riduttivo, Amazon è un paradigma, così come lo sono stati gli stabilimenti Ford. Ambedue sono simboli di una civilizzazione, hanno segnato un’epoca. (Sergio Bologna)

Occorre iniziare da questa affermazione di Sergio Fontegher Bologna, contenuta nell’introduzione al testo appena pubblicato da Punto Critico, per riflettere su quali novità abbia introdotto a livello di rapporti di lavoro e, quindi, di conflitto e organizzazione sindacale il modello di distribuzione delle merci ideato da Jeff Bezos.

Jeffrey Preston Bezos è il fondatore, proprietario e presidente della più grande società di commercio elettronico al mondo, oltre che il fondatore e amministratore delegato di una società attiva nei voli spaziali (Blue Origin) e il proprietario del Washington Post. Inoltre risulta essere la terza persona più ricca al mondo, con un patrimonio stimato di 196,1 miliardi di dollari.

Ricordare i dati riguardanti il big boss man di Amazon in questo contesto non costituisce un mero esercizio di gossip giornalistico ma, piuttosto, uno strumento per misurare il risultato derivante da una posizione di monopolio economico e rendita finanziaria in cui è sempre più evidente come un modo di produzione e distribuzione che si basa sull’appropriazione individuale/privata della ricchezza/lavoro prodotta socialmente non sia “democraticamente” correggibile, come vorrebbe tanta vulgata riformistica.

Valga, a questo proposito, l’osservazione che il plurimiliardario americano è proprietario di una delle testate giornalistiche più celebri per le sue campagne e i suoi coraggiosi articoli di denuncia della corruzione del potere politico, dal Watergate in poi. Una tradizione di indagini giornalistiche che, pur rimanendo impensabile nell’odierno paese dei media-cacasotto al servizio del capitale e dello scandalismo giustizialista in stile Travaglio, non ha comunque cambiato di una virgola i reali rapporti di forza tra le classi negli Stati Uniti.

E allora torniamo al paradigma Amazon per esplorarne contraddizioni e organizzazione del comando sul lavoro attraverso i due saggi nati in modo autonomo e che non erano stati scritti con l’idea di essere pubblicati insieme. Il primo, Battling the Behemoth: Amazon and the rise of America’s new working class, di Charmaine Chua e Spencer Cox, è stato pubblicato sul volume 59 del Socialist Register (Socialist Register 2023: Capital and Politics), mentre il secondo, Organizzazione del lavoro e conflitto di classe in Amazon, di Marco Veruggio, ricapitola tre anni di lavoro nell’ambito del progetto “Amazon, la società del futuro?” (www.puntocritico.info/amazon).

Iniziamo dal primo dei due saggi, quello di Charmaine Chua1 e Spencer Cox2:

Ai primi di aprile del 2022 Christian Smalls stappava una bottiglia di champagne fuori dagli uffici del National Labor Relations Board (NLRB) a Brooklyn per celebrare una vittoria senza precedenti. Meno di due anni prima Smalls era stato licenziato dal JFK8, il centro di distribuzione Amazon a Staten Island, dopo aver guidato uno sciopero di protesta contro le insalubri condizioni di lavoro agli inizi della pandemia. Oggi, nonostante la sfrenata azione repressiva di Amazon, le cui tattiche antisindacali hanno contemplato il duplice arresto di Smalls con l’accusa di “invasione di proprietà privata”, licenziamenti, l’obbligo per i lavoratori di partecipare a incontri di “formazione obbligatoria” e altro ancora, il JFK8 è da diventato da poco il primo magazzino Amazon nella storia a strappare un riconoscimento formale del sindacato interno. «Vogliamo ringraziare Jeff Bezos per essere andato nello spazio», ha ironizzato l’ormai celebre Smalls, «perché quando era lassù noi iscrivevamo persone al sindacato». Quel capovolgimento di fronte, ha osservato il giornalista Alex Press, è stato un evento storico, di cui «ci sono pochi paralleli nella storia del movimento operaio americano dopo Reagan»3.

Poche righe per ricordare diversi e importanti aspetti delle vicende lavorative e sindacali dei dipendenti del colosso della distribuzione. La prima, rammentata dall’esperienza di Smalls, è che il “democratico” Bezos non ha tralasciato alcuna modalità di repressione dei lavoratori, dal licenziamento ai provvedimenti di imprigionamento, per impedire qualsiasi tipo di sindacalizzazione degli stessi. La seconda, ancora più importante della prima, è che la determinazione dei salariati nel lottare e nell’organizzarsi è l’unica forma di opposizione che può realmente pagare.

Nonostante siano stati numerosi i tentativi da parte dei media, da quelli di orientamento liberal a quelli posizionati più a sinistra, di fornire spiegazioni convincenti della vittoria di questa “opposizione interna” al colosso, mancano comunque i tentativi

di collocare questa palese rinascita della lotta di classe dei lavoratori nel suo appropriato contesto, cioè nella sua relazione ai processi di ristrutturazione capitalista nel cuore deindustrializzato degli Stati Uniti, processi che hanno condotto a un turbolento fenomeno di ricomposizione di classe e che plasmeranno le opportunità di realizzare un cambiamento strutturale nel futuro. La vittoria di un piccolo nucleo di venti attivisti su una società che nel 2022 ha avuto un fatturato di 470 miliardi di dollari è stata significativa non solo per i rapporti di forza da “Davide e Golia”, ma anche per ciò che ha rivelato circa la composizione demografica e geografica della nuova classe operaia americana4.

E per far meglio comprendere la dimensione materiale in cui la lotta si è sviluppata e tale vittoria è diventata possibile, i due ricercatori aggiungono:

La vittoria al JFK8 è stata anche frutto di una lotta condotta lontano dai tradizionali punti di raccolta della sinistra a Wall Street e a Washington Square Park e situata, invece, in un’area suburbana spesso indicata come la “periferia dimenticata”. Il magazzino è circondato come un fortino da una recinzione lunga parecchie miglia e sormontata dal filo spinato. Collocati in una delle centinaia di fabbriche dell’industria della distribuzione che in America concentrano e fanno socializzare i lavoratori alla periferia degli aggregati urbani, molti di costoro per raggiungere il posto di lavoro devono fare i pendolari viaggiando da un’ora e mezza a tre ore. Nel quadro della lunga crisi in cui la popolazione in eccesso ha fatto i conti sia con la scarsità di abitazioni sia con la sempre più ridotta disponibilità di stabile lavoro salariato, i lavoratori dei magazzini Amazon sono il settore di classe operaia che cresce a ritmo più rapido. E la loro collocazione di classe etnicamente variegata e geograficamente extraurbana è stata un fattore non secondario, bensì centrale della vittoriosa mobilitazione della Amazon Labor Union5.

Per poi sottolineano ancora che

per comprendere in modo più esauriente il mutamento che ha portato i lavoratori di Amazon a diventare il punto focale del movimento operaio organizzato è necessario collocare la rapida espansione di Amazon.com nella lunga crisi dell’ultimo mezzo secolo. Quale impresa tecnologica che ha combinato e-commerce e servizi digitali in un’unica entità societaria, Amazon è un emblema delle trasformazioni strutturali in atto al centro del processo di rifacimento del capitalismo globale, cioè dello straordinario mutamento nella logica dell’accumulazione in direzione di un’accelerazione nella circolazione del capitale merce mediante le catene di fornitura just-in-time che si estendono a tutto il globo. Inquadrando Amazon come forza motrice della scomposizione di classe cerchiamo anche di capire come negli Stati Uniti il capitale stia ricomponendo una nuova classe operaia. Situando l’ascesa di Amazon all’interno dei processi di ristrutturazione capitalistica che si sviluppano a partire dai rivolgimenti politico-economici degli anni ‘70 dimostriamo che la supremazia del blocco egemonico neoliberale le ha reso più agevole perseguire un surplus di profitti tramite una rielaborazione generale dei meccanismi di accumulazione del capitale. Nel saggio analizziamo come Amazon ha rimodellato la geografia di classe delle città degli USA, modificando anche la composizione della loro struttura sociale. La sua ascesa, concentrata nel cuore gentrificato delle città, è stata trainata da una poderosa trasformazione del settore della vendita al dettaglio e della logistica, avvenuta quando consumatori con salari elevati e istruzione superiore hanno spostato in rete i propri acquisti, alimentando un balzo in avanti delle vendite online. A servire questo serbatoio di clientela sono i magazzini Amazon collocati nelle aree suburbane ed extraurbane delle città americane – quelle in cui oggi perlopiù risiede la classe operaia degli Stati Uniti. Queste trasformazioni complessive nei settori del commercio e della logistica sono state un fattore chiave trainante la segmentazione per razze ed etnie e l’atomizzazione della classe operaia, che Amazon a sua volta sfrutta per reclutare manodopera e collocare i magazzini in luoghi strategici. Esaminare le contraddizioni prodotte dagli sforzi di Amazon per acquisire il monopolio nell’industria della logistica ci permette di valutare le rotture sistemiche che rendo-no allo stesso tempo possibile e necessaria la creazione di una coscienza di classe rivoluzionaria nei magazzini6.

Dopo queste lunghe citazioni si lascia ad ogni singolo lettore la possibilità di esaminare più in profondità le modalità di trasformazione del comparto della logistica e quelle delle lotte che ne sono derivate, attraverso uno sguardo affinato dal tipico pragmatismo americano, troppo spesso assente dalle riflessioni europee ed italiane sul lavoro, quasi sempre inficiate da aprioristici ideologismi che nulla hanno a che fare con una seria analisi materialistica (marxista?) delle trasformazioni sociali, economiche, tecnologiche e politiche in atto.

Basti pensare allo sguardo sulla gentrificazione, cui si è accennato nell’ultima citazione, che non viene studiata come causa della rovina delle città d’arte o dei centri storici dal punto di vista culturale, ma proprio per le sue conseguenze sociali, dettate dalle necessità della ristrutturazione e concentrazione capitalistica. Bye bye Firenze, good morning Brooklyn.

Il saggio di Marco Veruggio si sforza invece di concentrare lo sguardo e l’attenzione sul modello di gestione algoritmica della forza—lavoro del colosso di Seattle, per potere successivamente analizzare insidie e opportunità che ne derivano sul piano sindacale. L’autore è coordinatore del progetto ”Amazon, la società del futuro?” e ha pubblicato numerosi articoli sull’argomento, tra cui l’unica intervista italiana a Chris Smalls, mentre il long form multimediale Amazoniade. Un anno a Passo Corese (2022), da lui curato ha vinto nel 2023 il Premio Calcata 4.0 per il giornalismo digitale. Nel suo saggio Veruggio sottolinea come:

Una delle caratteristiche essenziali del modello Amazon è la trasformazione della forza-lavoro in commodity, materia prima indistinta. Non contano le differenze qualitative tra i singoli lavoratori, ma soltanto la loro capacità di fornire all’azienda una prestazione lavorativa conforme agli standard aziendali, perfetta incarnazione di ciò che Marx chiamava “lavoro sociale medio”. La parcellizzazione del lavoro, tipica del taylorismo e del fordismo, in mansioni elementari e ripetitive, così da imprimere al lavoro il giusto ritmo e controllarne ogni sua fase, qui, grazie all’innesto delle tecnologie digitali e all’intelligenza artificiale, viene portata alle estreme conseguenze. Se […] le mansioni della logistica risultano di per sé abbastanza semplici, la sussunzione del lavoro da parte degli algoritmi che regolano ogni più minuto aspetto della vita in Amazon cancella ogni residua autonomia del lavoratore, trasformandolo in una sorta di automa: «Sei una specie di robot, ma in forma umana. La puoi chiamare automazione umana» è l’icastica sintesi fatta da un’ex manager inglese di Amazon a una giornalista del Financial Times.
Alienazione e ritmi elevati consentono ad Amazon di imporre livelli di produttività (e di estrazione di plusvalore) elevati, ma rendono il lavoro estremamente sfibrante. L’impegno ad applicare la job rotation, raccontano lavoratori e sindacalisti, è ampiamente disatteso. Negli enormi magazzini grandi anche decine di migliaia di metri quadrati su più piani un picker arriva a percorrere anche 20 chilometri al giorno. Chris Smalls, oggi leader del primo sindacato riconosciuto ufficialmente da Amazon negli USA, Amazon Labor Union (ALU), mi ha raccontato che molti lavoratori del magazzino di Staten Island, a New York, per reggere i ritmi – negli USA si arriva a lavorare 12 ore al giorno e fino a 50-60 ore a settimana – conducevano uno specifico allenamento fisico. L’introduzione sempre più massiccia di robot per spostare la merce dai picker ai packer sta solamente attenuando il problema.
Nonostante ciò nella selezione del personale non vengono richiesti particolari requisiti fisici7.

Quest’ultimo punto è particolarmente importante, poiché all’interno di ciò che Chua e Cox definiscono come “fabbriche della vendita al dettaglio” «la catena di montaggio tipica del fordismo è potenziata dall’innesto delle più moderne tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale»8. Il che permette, ad esempio, tramite un programma attivo da qualche anno:

di fare il fattorino di Amazon in qualità di lavoratore autonomo, loggandosi ad Amazon Flex, la app che regola ogni aspetto del lavoro: basta avere 18 anni, un mezzo proprio e la patente. Una vera e propria “uberizzazione” delle consegne, che in Italia per ora ha ancora una portata limitata e che inscrive una quota ridotta dei lavoratori Amazon dell’e-commerce nel perimetro della cosiddetta gig economy (insieme a chi lavora per la piatta-forma di microlavoro Mechanical Turk, lanciata da Jeff Bezos nel 2005) 9.

Ma, come si può ben immaginare, se la soglia minima è quella dei diciotto anni, quella massima può non avere più limiti. Contribuendo a fornire una massa di anziani itineranti, come quella vista nel film Nomadland (2020) di Chloé Zhao, adattamento dal libro inchiesta della giornalista Jessica Bruderdel dallo stesso titolo10, che risultano essere dipendenti stagionali di Amazon, sia come operatori che come fattorini.

E’ indiscutibile che una tale riformulazione delle modalità e delle “età” del lavoro finisca coll’abbisognare di nuove modalità interpretative e organizzative di cui il testo edito da Punto Critico, con i suoi due saggi, può costituire un primo e importantissimo momento. Vivamente consigliato a tutti coloro che nell’affrontare il tema del lavoro di oggi e di domani non si accontentino di frasi fatte e parole d’ordine radicate in un sistema di fabbrica ormai quasi del tutto superato nell’Occidente metropolitano. Contro tutte le passate illusioni che ogni conquista fosse “per sempre”.


  1. Attivista, saggista e Assistant Professor of Global Studies alla University of California di Santa Barbara che, attualmente, sta scrivendo due saggi: The Logistic’s Counterrevolution: Fast Circulation, Slow Violence and the Transpacific Empire of Circulation e, ancora con Spencer Cox, How to Beat Amazon: The Struggle of America’s New Working Class.  

  2. Ha lavorato in centri di distribuzione e di smistamentp Amazon, militato in Amazonians United otre ad aver conseguito un PhD alla University of Minnesota.  

  3. C. Chua, S. Cox, Lottare contro il ciclope: Amazon e l’ascesa della nuova classe operaia americana in Charmaine Chua, Spencer Cox, Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, PuntoCritico, Roma 2024. p. 35.  

  4. Ivi, p. 36.  

  5. Ivi, p. 37.  

  6. Ibidem, pp. 37-38.  


  7. M. Veruggia, Organizzazione del lavoro e conflitto di classe in Amazon, in Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, op. cit., pp. 81-82.  

  8. Ivi, p. 76.  

  9. Ivi, p. 77.  

  10. J. Bruder, Nomadland. Un racconto d’inchiesta, Edizioni Clichy, Firenze 2020.  

]]>
San Lorenzo e il laboratorio della gentrificazione https://www.carmillaonline.com/2023/10/01/san-lorenzo-e-il-laboratorio-della-gentrificazione/ Sat, 30 Sep 2023 22:30:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79273 di Nazareno Galiè

A. Barile, B. Brollo, S. Gainsforth, R. Marchini, Dopo la gentrificazione. Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare temporaneo, Derive Approdi 2023, 205 pp., 18€

Ci sono temi di cui molti parlano per sentito dire, ma che paradossalmente vengono raramente tematizzati e analizzati. Non è raro che chi abbia frequentato il quartiere di San Lorenzo, non un’evenienza inconsueta per chi vive a Roma, abbia costatato negli anni dei profondi cambiamenti. Non è difficile rendersi conto del degrado e del senso di incompiutezza che lascia attualmente percepire questo quartiere, che fino [...]]]> di Nazareno Galiè

A. Barile, B. Brollo, S. Gainsforth, R. Marchini, Dopo la gentrificazione. Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare temporaneo, Derive Approdi 2023, 205 pp., 18€

Ci sono temi di cui molti parlano per sentito dire, ma che paradossalmente vengono raramente tematizzati e analizzati. Non è raro che chi abbia frequentato il quartiere di San Lorenzo, non un’evenienza inconsueta per chi vive a Roma, abbia costatato negli anni dei profondi cambiamenti. Non è difficile rendersi conto del degrado e del senso di incompiutezza che lascia attualmente percepire questo quartiere, che fino a non troppo tempo fa era caratterizzato da un’identità legata a particolari esperienze sociali, culturali (e) di militanza.

Adesso, queste caratteristiche sembrano essersi esaurite. San Lorenzo è sempre più disgregato, cioè non in grado di restituire un’immagine coesa di sé, e chi lo abita difficilmente lo fa con un progetto di lunga durata. Ciò che questo quartiere sta vivendo è una perdita di senso, di cui è arduo comprendere sia le cause che gli effetti. Per di più, nonostante il fatto che insista su un’area piuttosto ristretta, San Lorenzo non è un quartiere qualsiasi: è uno dei luoghi su cui si sono addensati movimenti e relazioni sociali, il cui sfumarsi segna una traiettoria, per certi aspetti inedita, della sua configurazione urbana.

Il merito di Dopo la gentrificazione: Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare contemporanea, volume scritto da Alessandro Barile, Barbara Brollo, Sarah Gainsforth e Rossella Marchini, è proprio questo: aver dato un’interpretazione densa e coerente di questi cambiamenti. Si tratta di uno studio che, ovviamente, può essere ampliato ed esteso ad altre zone di Roma. Senonché si tratta di un primo tassello di quello che potrebbe diventare un ricco mosaico. Gli autori dei saggi presenti nel volume lavorano su categorie interpretative che rimandano a una vasta tradizione di studi critici dell’urbano, che hanno avuto per oggetto anche la città di Roma. Una di quelle è sicuramente il concetto di rendita come elemento trasformativo, nonché motore, sia delle dinamiche che del paesaggio urbano.

Esempio di gentrificazione incompiuta, ovvero fallita, come notano gli autori nell’Introduzione, «San Lorenzo sta diventando un quartiere per abitanti temporanei, che portano allo stravolgimento del tessuto residenziale ed economico» (p. 8). Su questo punto, cioè la temporaneità dell’abitare esacerbata dal fenomeno degli affitti a breve e brevissimo termine, insiste l’intero volume. Nondimeno, è Sarah Gainsforth, già autrice di un importante studio sulle trasformazioni generate dal capitalismo delle piattaforme digitali (Airbnb, città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, Derive Approdi 2019), ad illustrare il tema dell’offerta di case a San Lorenzo. L’analisi del mercato immobiliare è stata da sempre un elemento importante degli studi urbani, senonché l’autrice rileva nell’«avvento di piattaforme digitali che intermediano domanda e offerta di case vacanze, nello specifico di Airbnb, e il conseguente profilare di affitti brevi turistici» (p. 105) il fenomeno più importante nella trasformazione socio-spaziale di San Lorenzo. Uno scarto qualitativo nei meccanismi di estrazione della rendita che spiega la polarizzazione e le accresciute diseguaglianze presenti nel quartiere.

Questa trasformazione si riflette nel tessuto produttivo di San Lorenzo che è cambiato nella misura in cui si è accresciuta la quota di residenti temporanei. Non si tratta, come si è accennato, degli studenti, che anche prima di questa nuova fase trasformativa avevano risieduto a San Lorenzo, ma di una nuova utenza che ha accentuato i caratteri di turistificazione di questa area. Come spiega Barile le attività lavorative restituiscono «un’immagine di un quartiere letteralmente invaso dall’offerta alimentare di molteplice livello. Si tratta di una vera e propria monocultura economica, che si appropria di ogni spazio lasciato libero dal resto dell’offerta commerciale incapace di resistere a una domanda monofunzionale e monodirezionale» (p. 71). San Lorenzo è quindi invaso da localini e pub notturni e l’offerta si riduce «sulla richiesta di pochi e selezionati bisogni, per di più connessi alle esigenze di una popolazione esogena, transitante non-residente» (Ibid.). Inoltre, l’autore spiega come San Lorenzo sia un caso studio importante dei processi di post-gentrificazione: una volta che questo processo ha termine, le relazioni sociali e economiche preesistenti non vengono affatto ristabilite. A rimanere, in effetti, sono perlopiù le esternalità negative.

In precedenza, come ricostruisce il primo saggio presente nel volume scritto da Rossella Marchini, l’insediamento abitativo di San Lorenzo presentava tutt’altre caratteristiche, così come le attività produttive insediate nel quartiere. Sorto alla fine del XIX secolo nello spazio tra le Mura Aureliane e il cimitero del Verano, quest’area era ricca di attività artigianali e industriali, collegate anche al vicino scalo ferroviario. In questo saggio posto in apertura del volume viene ricostruita la storia di San Lorenzo, evidenziando la lunga durata alla base delle più recenti trasformazioni. Infatti, l’autrice coglie alcuni snodi che hanno profondamente agito sulla composizione socio-economica del quartiere: non si tratta infatti di una vicenda statica giacché l’abitare ha qui subito importanti trasformazioni «sotto la spinta della presenza dell’università». Infatti, «già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e fino agli anni Novanta, il terziario diviene il settore fondamentale nell’economia del quartiere e sempre più consistente il numero dei lavoratori impiegati nei servizi, rappresentati a San Lorenzo non solo dai trasporti pubblici o dal vicino Policlinico Umberto I, ma anche e soprattutto dalla Sapienza» (p. 73). Ad ogni modo, l’autrice ricollega la vicenda di San Lorenzo all’attualità, segnata a fondo dall’ultimo piano regolatore regionale che ha ridato ampio margine ai privati per costruire sfruttando i rinnovati processi di valorizzazione legati ai flussi di capitale globali, di cui anche Roma, benché in misura minore rispetto ad altre città propriamente “globali”, è partecipe.
Nei saggi non mancano i casi concreti, come quello paradigmatico dell’ex Dogana, laddove un pregiato complesso di archeologia industriale risalente al XIX secolo, considerato di valore storico-culturale, è stato dapprima trasformato in un luogo di movida selezionata a pagamento e poi, dopo alcuni passaggi che ne hanno valorizzato il capitale simbolico, è stato completamente privatizzato e trasformato in una gated community per clienti facoltosi.

Infine, l’ultimo saggio scritto da Barbara Brollo ritorna sul tema dell’abitare temporaneo favorito, come si è detto, dalle piattaforme digitali e da forme inedite di mobilità. Come spiega l’autrice «Airbnb diventa uno strumento per promuovere a livello internazionale stanze e appartamenti in quartieri residenziali, finora estranei alle dinamiche turistiche. Se per i proprietari di casa può essere un’opportunità di guadagno, il rischio è che queste zone si svuotino di residenti a più lungo termine e subiscano i rischi e le trasformazioni che sono associate alla turistificazione» (p. 176).
Si tratta di un esito non scontato e di un processo che, a differenza di quello che afferma la vulgata corrente, non è stato affatto alimentato dalle scelte consapevoli degli abitanti dei quartieri e delle periferie storiche, come San Lorenzo. Uno dei pregi più grandi di Dopo la gentrificazione è infatti proprio quello di far luce sui quei meccanismi, a tratti impersonali, che modificano radicalmente gli spazi urbani, senza che la politica, ovvero quella che viene chiamata nel paradigma neoliberista la governance, si ponga il problema del senso dell’abitare.

]]>
Arte pubblica. Le relazioni oltre le immagini https://www.carmillaonline.com/2022/12/15/arte-pubblica-le-relazioni-oltre-le-immagini/ Thu, 15 Dec 2022 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75158 Gioacchino Toni

Con arte pubblica si è soliti far riferimento a un eterogeneo insieme di forme estetiche e sperimentazioni artistiche che hanno luogo negli spazi pubblici e che, spesso, pur tra diverse contraddizioni, intendono dar voce alla comunità che vive quei luoghi o rivolgersi a essa e a chi attraversa quegli spazi. Di ciò si occupa il volume curato da Cecilia Guida e Roberto Pinto, Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica (postmedia books, 2022) in cui sono raccolti saggi in italiano e inglese di artisti, curatori, sociologi [...]]]>

  • di Gioacchino Toni
  • Con arte pubblica si è soliti far riferimento a un eterogeneo insieme di forme estetiche e sperimentazioni artistiche che hanno luogo negli spazi pubblici e che, spesso, pur tra diverse contraddizioni, intendono dar voce alla comunità che vive quei luoghi o rivolgersi a essa e a chi attraversa quegli spazi. Di ciò si occupa il volume curato da Cecilia Guida e Roberto Pinto, Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica (postmedia books, 2022) in cui sono raccolti saggi in italiano e inglese di artisti, curatori, sociologi e storici dell’arte che riflettono sulle più diverse modalità di intervento negli spazi pubblici oltre che sul significato che i termini “arte” e “spazio pubblico” possono assumere nella contemporaneità, soprattutto se intesi nella loro funzione politica e partecipativa, di creazione di esperienze condivise con le comunità che vivono quegli spazi e con chi, più semplicemente, li attraversa.

    Scrive Cecilia Guida che quando si parla di arte pubblica ci si riferisce «a tutti quegli interventi oggettuali, immateriali e performativi che reimmaginano esteticamente uno spazio pubblico specifico, mettono al centro le comunità che lo abitano e sono in grado di innescare relazioni e connessioni tra istituzioni, sia pubbliche che private, la storia, le memorie e il tessuto sociale del luogo» (p. 19). Tale ambito assume maggior rilievo alla luce del moltiplicarsi delle riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme in uno spazio non confinato esclusivamente all’universo digitale che, complice la recente pandemia, sembrerebbe aver quasi monopolizzato le modalità e l’immaginario di vita comunitaria.

    Nello specifico, il volume, riccamente illustrato, riporta quanto emerso nel corso delle giornate di studio tenutesi tra giugno 2019 e ottobre 2020, nell’ambito del programma pubblico ArtLine, collezione a cielo aperto di interventi artistici permanenti nel parco idi City Life del Comune di Milano, dedicate alle diverse tendenze dell’arte pubblica e alle loro implicazioni sullo spazio sociale contemporaneo1.

    Nell’impossibilità di dar conto della mole di questioni poste dai diversi contributi, in questo scritto ci si limiterà a riportare alcune importanti riflessioni utili a mostrare come le questioni inerenti all’arte pubblica debbano necessariamente coinvolgere le comunità e non possano essere delegate alle istituzioni culturali urbane, ai finanziatori delle opere e nemmeno ai soli artisti che rischiano altrimenti di intervenire, nonostante i migliori propositi, in maniera impositiva su reali abitanti di quei territori. Questo vale tanto per gli artisti manstream chiamati e finanziati dagli amministratori e da privati che scambiano spesso e volentieri la riqualificazione urbana con la gentrificazione dei quartieri popolari, quanto per gli artisti underground che operano a colpi di spray legati magari a scenari alternativi a volte “importati” sui territori senza creare alcun dialogo con i suoi reali abitanti [su Carmilla 1 2 3].

    Antoni Muntadas, a partire da una riflessione sul termine “pubblico”, sul suo significare sia “spazio comune” che “spettatori”, sottolinea come sia importante distinguere tra “Arte nello spazio pubblico” e “Arte Pubblica”. Se nel primo caso si tratta di «opere installate e fruite nello spazio urbano ma [non] necessariamente correlate al contesto», nel secondo caso si tratta di «una condizione nella quale l’artista interviene in un determinato contesto urbano e sociale con un’opera specificatamente progettata per la comunità che la ospita» (p. 138).

    Muntadas, dopo aver evidenziato come sia difficile che l’artista contemporaneo riesca davvero a convivere all’interno di una comunità, prendendo parte alla sua quotidianità coinvolgendola nell’ideazione e realizzazione dell’intervento artistico sul territorio, si sofferma sul rapporto tra “monumento” e “permanenza”. Negli ultimi due secoli, sostiene, vi è stata una certa predisposizione all’edificazione di monumenti celebranti figure illustri o potenti, non a caso solitamente collocati su piedistallo, di tipo permanente. Ed è proprio in quella volontà di permanenza che Muntadas individua una forma di imposizione nei confronti della comunità. «Un committente, che può essere un’istituzione o una corporation, chiama un artista e sostiene i costi di produzione, senza prevedere un confronto con il contesto e la collettività. Il pubblico deve tollerare la presenza dell’opera permanente senza esprimersi» (p. 140).

    Lo spazio pubblico oggi è essenzialmente un “luogo di sorveglianza” (si pensi alla quantità di videocamere presenti) motivata da un’illusione di sicurezza, e già questo non lo rende uno spazio di libertà. Allo stesso tempo lo spazio pubblico contemporaneo è uno “spazio corporativo” che vincola il pubblico agli interessi economici. Chiedendosi come possa operare un artista all’interno di uno spazio di sorveglianza e corporativo, in un contesto sottoposto a un processo di gentrificazione ove il “valore culturale” di un territorio viene strettamente legato al suo “valore economico”, Muntadas risponde proponendo il ricorso ad un Intervento”, cioè alla collocazione nello spazio pubblico di un’opera di interesse artistico e culturale temporanea che resti instalalta per un periodo – breve o lungo che sia – rigorosamente prefissato. Il dialogo tra artista e comunità diviene dunque fondamentale anche nel decidere insieme se prolungare o meno la presenza nel luogo dell’Intervento a fronte dei cambiamenti intervenuti sul territorio o del deterioramento dell’opera stessa.

    Andrea Pinotti avvia invece la sua riflessione a partire dalla serie di attacchi iconoclasti legati al movimento Black Lives Matter che hanno preso di mira statue e monumenti associabili al razzismo, allo schiavismo e al colonialismo e che, fatte salve le motivazioni specifiche caso per caso, si inseriscono all’interno di una lunga tradizione. Pinotti sottolinea un paradosso che, a suo avviso, contraddistingue tali recenti atti distruttivi:

    nel momento in cui si accaniscono nei confronti di un’immagine memoriale, distruggendola, vengono immortalati […] nell’atto di annientarla, salvando per così dire nella rappresentazione della distruzione l’oggetto stesso la cui memoria andava appunto dannata. […] Uccidere un’immagine significa riconoscerla come viva, perché solo ciò che è vivo può venire ucciso. Dovremmo dunque trarre da questa affermazione la reciproca, e cioè sostenere che se uccidere un’immagine significa riconoscerla come vivente, conservarla in esistenza significa riconoscerla come morta? (pp. 323-324).

    A distruggere la carica mnesica del monumento sembra piuttosto provvedere la disattenzione; nel non prestare interesse al monumento non ci si cura nemmeno di ciò che rappresenta.

    Il monumento, qualsiasi esso sia, nato in un contesto specifico, nel suo essere testimonianza innanzitutto di tale contesto, deve per forza di cose essere preservato o può essere lasciato in balia delle mutevoli sorti della storia, dei rivolgimenti politici e sociali, sino ad accettarne la distruttibilità? Da parte sua Pinotti invita a «ripensare a un concetto di monumento che prenda congedo dalla statica rappresentazione di un partito preso ideologico, per aprirsi a quella che con Walter Benjamin potremmo chiamare “immagine dialettica”: un’immagine capace di incorporare dinamicamente istanze differenti persino configgenti, persino contraddittorie» (p. 326). A ciò. Continua Pinotti, possono concorrere le nove tecnologie digitale in Realtà Aumentata.

    Il 18 ottobre 2020 il centro sociale “Cantiere” e il comitato “Abba vive” installano nei Giardini Montanelli senza autorizzazione una statua in ferro realizzata dallo scultore senegalese Mor Talla Seck e dedicata a Thomas Sankara, il carismatico leader rivoluzionario del Burkina Faso assassinato nel 1987. Il monumento viene prontamente rimosso dalla polizia locale il giorno successivo. Reagendo contro la rimozione, il Collettivo del Cantiere ha inaugurato il 24 ottobre “la statua non c ’ è”: “La statua di Sankara è sostituita da un punto di domanda. Il punto di onda è un maker che inquartato con la app Artivive consente di vedere la statua, in attesa che chi la ha sequestrata la restituisca. Ma il punto di domanda rappresenta anche le tante domande scomode che si vogliono rimuovere insieme alla memoria e al presente dell’oppressione coloniale” (p. 327).

    Nelle tecnologie digitali Pinotti vede una possibilità per andare oltre il “contro-monumento” o l’“anti-monumento” consentendo di guardare allo spazio pubblico e ai suoi monumenti per come il potere li propone e, allo stesso tempo, per come li si può vedere altrimenti, senza bisogno di distruggere l’esistente e senza cancellare il dissenso nei confronti di esso. Insomma, nell’arena di conflitti che sono gli spazi urbani, anche i monumenti svolgono la loro parte.


    1. Sono presenti contributi di: Kasper König, Mary Jane Jacob, Irit Rogoff, Charles Esche, James Lingwood, Pascal Gielen, Akiko Miki, Antoni Muntadas, Olu Oguibe, Edi Muka, Anton Vidokle, Jeanne van Heeswijk, Alberto Garutti, Cesare Pietroiusti, Marco Scotini, Luca Vitone, Iolanda Ratti con Liliana Moro e Riccardo Benassi, Iida Shihoko, Diego Sileo, Fiamma Montezemolo, Basak Senova, Anna Detheridge, Leone Contini, Andrea Pinotti, Emanuela De Cecco, Gabi Scardi, Francesca Comisso (a.titolo), Micaela Martegani, Federico Rahola, Katia Anguelova, Orietta Brombin. 

    ]]>
    Scup: la rigenerazione urbana non si sgombera https://www.carmillaonline.com/2022/10/26/scup-la-rigenerazione-urbana-non-si-sgombera/ Tue, 25 Oct 2022 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74500 di Luca Cangianti

    Nella saga del Sole dell’avvenire, Valerio Evangelisti parla di luoghi chiamati “cameracce”. Create originariamente dal partito repubblicano, nel XIX secolo permettevano agli operai e ai braccianti emiliano-romagnoli di bere e mangiare a prezzi economici, di disporre di un luogo d’incontro dove discutere oppure fare una partita a carte dopo il lavoro. Un personaggio di quell’opera letteraria arriva perfino a immaginare che quei capannoni possano costituire l’embrione di una società futura. Più di recente, qualcosa di simile accadde negli anni novanta dello scorso secolo, quando in alcuni dibattiti di [...]]]> di Luca Cangianti

    Nella saga del Sole dell’avvenire, Valerio Evangelisti parla di luoghi chiamati “cameracce”. Create originariamente dal partito repubblicano, nel XIX secolo permettevano agli operai e ai braccianti emiliano-romagnoli di bere e mangiare a prezzi economici, di disporre di un luogo d’incontro dove discutere oppure fare una partita a carte dopo il lavoro. Un personaggio di quell’opera letteraria arriva perfino a immaginare che quei capannoni possano costituire l’embrione di una società futura.
    Più di recente, qualcosa di simile accadde negli anni novanta dello scorso secolo, quando in alcuni dibattiti di movimento i centri sociali furono considerati, forse ottimisticamente, possibili veicoli della ricomposizione di classe in epoca postfordista.
    In una città come Roma, oggi è difficile dire se questi luoghi, sottratti alla speculazione edilizia e destinati alla socialità, abbiano le stesse funzioni politiche ipotizzate nel passato. Di certo sono un argine alla crescente alienazione urbana del produci-consuma-crepa. Organizzano presentazioni di libri, iniziative culturali, corsi d’italiano, d’inglese, di yoga, laboratori di cucina, ripetizioni, gruppi di acquisto solidale; mettono a disposizione luoghi di coworking, di studio per gli studenti, spazi per le riunioni delle associazioni della società civile; recuperano le memorie storiche dei territori creando immaginari condivisi.

    Scup – Sport e cultura popolare è uno di questi luoghi. Sorge in un vecchio magazzino ortofrutticolo in via della Stazione Tuscolana 84. Lo avevo visitato lo scorso dicembre quando rischiava lo sgombro. Poi la mobilitazione degli attivisti e delle attiviste aveva ottenuto una proroga per trovare una soluzione senza disperdere la ricchezza sociale e umana di questa esperienza. Adesso si trova nuovamente in una situazione d’emergenza: il 31 ottobre è la nuova data entro la quale i locali dovrebbero essere restituiti alla proprietà.


    Il 14 ottobre si è svolto un incontro con le istituzioni che hanno ipotizzato una soluzione transitoria di trasloco in altri quartieri della periferia romana. «Pensare che un’esperienza come Scup possa essere trasportata in un altro quartiere senza distruggere i legami sociali creati con il territorio negli anni – afferma Sofia – la dice lunga sulla mancanza di comprensione del lavoro che svolgiamo.» Gli attivisti e gli abitanti del quartiere sono riuniti in circolo, una bambina gioca per terra silenziosa. «Qualcuno mi deve spiegare perché si cerca di confinare gli spazi sociali sempre e unicamente in quartieri periferici, difficilmente raggiungibili». Chi parla è Mohammed della Rete G2: «Sembra quasi che si voglia marginalizzare i soggetti che li animano.» Interviene Giuseppe di CAIO: «Con la Delibera di approvazione del nuovo “Regolamento sull’utilizzo dei beni immobili di Roma Capitale per finalità d’interessa generale”, la Giunta di Roma Capitale ci tratta alla stregua di aziende private in concorrenza fra loro per l’aggiudicazione degli spazi. Tuttavia occupare edifici abbandonati e rigenerarli, realizzando luoghi di cultura, socialità, sport e partecipazione, è previsto dall’articolo 42 della Costituzione». Si tratta di un passaggio in cui la legge fondamentale cerca di armonizzare il diritto alla proprietà privata con gli interessi generali della società. Veronica di Libera dichiara apertamente di fare un intervento di pancia: «La città sta diventando un deserto per chi non si riconosce nelle logiche commerciali». Scatta l’applauso. Alessandro di Esc, un’altra realtà romana sotto attacco, si chiede se una vertenza per una nuova versione del regolamento possa essere un grimaldello capace di rilanciare la lotta contro la falsa rigenerazione urbana. Si riferisce alle politiche di gentrificazione e di messa a profitto delle stesse esperienze sociali attraverso la concorrenza dei soggetti commerciali.

    Secondo alcuni attivisti, i punti più pericolosi sono quelli che prevedono: l’assegnazione in concessione a canone ridotto al 20% alle startup, parificando organizzazioni for profit e realtà che perseguono interessi rilevanti per la collettività; la possibilità di assegnazione dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile a soggetti commerciali; il passaggio dei beni dal patrimonio indisponibile al patrimonio disponibile nel caso in cui l’attività svolta dal soggetto commerciale sia talmente lontana dal perseguimento del pubblico interesse da rendere illegittima l’assegnazione di un bene in regime di patrimonio indisponibile; l’assegnazione temporanea in regime transitorio solo a condizione che siano saldati i canoni arretrati, senza prevedere esplicitamente l’annullamento in autotutela degli atti amministrativi illegittimi.

    Molti interventi portano la solidarietà di altri spazi come la Casa delle donne Lucha y Siesta, il Csoat “Auro e Marco”, la Laboratoria Ecologista “Berta Cáceres”, Black Lives Matter di Roma. In rete gira un appello che è possibile firmare, ma la promessa più concreta che emerge da quel circolo di persone è di non mollare. Io me ne sto seduto in fondo. Osservo i volti e non colgo alcun segno di rassegnazione.

    ]]>
    Estetiche inquiete. Espressioni urbane sui muri e conflittualità metropolitane https://www.carmillaonline.com/2022/08/02/estetiche-inquiete-espressioni-urbane-sui-muri-e-conflittualita-metropolitane/ Tue, 02 Aug 2022 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72915 di Gioacchino Toni

    Non accontentandosi dei regimi discorsivi egemoni, tendenti a mantenere la rappresentazione della città nel campo delle politiche securitarie e delle strategie di estrazione del valore, il volume di Pierpaolo Ascari, Pietro Rivasi (a cura di), Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art (Mimesis 2022), derivato dal Convegno “L’arte urbana ed i suoi processi culturali in Emilia-Romagna” (Modena, novembre 2020), affronta le espressioni estetiche metropolitane nelle loro molteplici sfaccettature attraverso punti di vista e approcci differenti comprendenti gli studi culturali, la storia dell’arte, l’analisi degli stili, il diritto, la criminologia [...]]]> di Gioacchino Toni

    Non accontentandosi dei regimi discorsivi egemoni, tendenti a mantenere la rappresentazione della città nel campo delle politiche securitarie e delle strategie di estrazione del valore, il volume di Pierpaolo Ascari, Pietro Rivasi (a cura di), Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art (Mimesis 2022), derivato dal Convegno “L’arte urbana ed i suoi processi culturali in Emilia-Romagna” (Modena, novembre 2020), affronta le espressioni estetiche metropolitane nelle loro molteplici sfaccettature attraverso punti di vista e approcci differenti comprendenti gli studi culturali, la storia dell’arte, l’analisi degli stili, il diritto, la criminologia critica, l’antropologia e l’educativa di strada.

    Come hanno avuto modo di evidenziare Alessandro Dal Lago e Serena Giordano (Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino 2016) attraverso un’analisi estetica, sociale e culturale, gli spazi urbani costituiscono un’arena di conflitti. Esaminato tanto le motivazioni che muovono i graffitisti ad intervenire, nell’illegalità, sulle mura delle città, quanto quelle che mobilitano il fronte antigraffiti, i due studiosi hanno evidenziato alcune contraddizioni che attraversano gli opposti schieramenti.

    Suscitando probabilmente qualche malumore negli ambienti creativi underground, Dal Lago e Giordano hanno posto l’accento su come l’ostilità di molti cittadini nei confronti dei graffiti che ricoprono le mura del quartiere in cui vivono derivi anche dal senso di impotenza provato nel subire una modifica estetica del contesto urbano in cui si trovano a vivere senza essere stati minimamente contemplati, come del resto avviene con la comparsa di insegne e cartelloni pubblicitari o, più in generale, come le trasformazioni urbanistiche calate dall’alto [su Carmilla].

    Con riferimento alla scena urbana, di conflittualità si può parlare anche a proposito dei rapporti tra l’universo della street art ed il circuito artistico ufficiale. Nel suo contributo al volume Espressioni Urbane, Pietro Rivasi, ad esempio, soffermandosi sul rapporto tra arte urbana spontanea e istituzioni, nell’auspicare il superamento della logica che vuole i due ambiti per forza di cose conflittuali, ritiene necessario che il sistema dell’arte manistream si interroghi circa l’applicabilità al writing ed alla street art di criteri che si sono sedimentati nel tempo nella storia e nella critica d’arte accademica.

    Nelle gallerie molte mostre che intendono dar conto del variegato universo dei graffiti urbani ricorrono a «lavori che riproducono su tela o su carta soltanto l’estetica di ciò che viene realizzato in strada. In questo modo le opere risultano prive delle qualità legate agli aspetti sito-specifici, performativi e caratterizzanti che entrano in gioco quando le opere vengono realizzate senza autorizzazione nello spazio pubblico» (p. 36). Il writing urbano, sostiene Rivasi, ha peculiarità che lo differenziano da molta pittura tradizionale; non è nell’aspetto tecnico e formale che andrebbero ricercate le sue caratteristiche artistiche e culturali più rilevanti.

    Fabiola Naldi (Tracce di Blu, Postmedia books 2020), riprendendo le riflessioni di Miwon Know (One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press 2002) ha evidenziato come tanto gli studiosi quanto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento, altrimenti ne ricavano una lettura non solo superficiale ma anche “addomesticata” [su Carmilla].

    Allargando il discorso, in un suo scritto Lorenzo Misuraca (Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale” 13 Maggio 2015) invita a prendere atto di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica trasformandosi, in diverse occasioni, da “luogo di critica” a “luogo di ratifica del potere” [su Carmilla]. Sono ormai frequenti i casi in cui le istituzioni ricorrono alle produzioni di street art esistenti, o a quelle da loro commissionate, per riqualificare l’immagine – e spesso solo quella – delle periferie.

    Nel volume Espressioni urbane a soffermarsi su tale questione è in particolare Sarah Gainsforth, studiosa che ha approfondito i processi di gentrificazione urbana ed il ruolo assunto dal turismo nella produzione di località per l’estrazione di valore dalla città-merce (Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, 2019; Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, Eris, 2020) [su Carmilla].

    Nel suo contributo al volume Espressioni urbane, Gainsforth riprende alcuni episodi avvenuti nella città di Roma esemplificativi di come anche il contesto estetico urbano sia un terreno di conflittualità, dunque, a maggior ragione, come all’arte urbana si debba per forza guardare a partire dai suoi aspetti sito-specifici.

    In occasione della visita guidata all’interno del quartiere romano San Lorenzo – “Street Art e Identità” –, organizzata dall’associazione Muri Sicuri nell’ottobre del 2019, che prevedeva una tappa in via dei Volsci per visionare alcuni murales sui palazzi in cui avevano sede strutture della sinistra antagonista romana, i visitatori furono preceduti dalla cancellazione delle opere da parte dei volontari del gruppo Retake nell’ambito dell’iniziativa “Magnifica San Lorenzo” organizzata dal Comune di Roma e finanziata da Unicredit. «La cancellazione dei murales, i cui temi erano politici, è avvenuta senza consultatore il territorio; probabilmente sono stati consultati i proprietari delle case in questi edifici, ma non il quartiere. In questa visione San Lorenzo, e Roma, non sono una comunità, ma un condominio» (p. 54).

    Altro caso riportato dalla studiosa riguarda i murales sulle pareti di edifici bombardati nel corso della seconda guerra mondale all’incrocio di via dei Sabelli, in questo caso commissionati direttamente dal Comune di Roma e finanziati da una società immobiliare. Curiosamente il murale è stato intitolato “Kidz are the future” richiamando in maniera evidente il gruppo di artisti “Kidz” attivi un paio di decenni fa in San Lorenzo autori di un enorme murale rappresentante il quartiere stresso raffigurato nei suoi aspetti diurni e notturni. Il nuovo murale sorge proprio ove aveva campeggiato a lungo la scritta KIDZ sostituendola, nei fatti, con un’opera del tutto estranea al quartiere.

    I due episodi, sottolinea la studiosa, si inseriscono all’interno di un processo di forzata ristrutturazione che sta subendo il quartiere romano di San Lorenzo rendendo evidente «un cortocircuito che negli ultimi anni si è creato sul tema dell’Arte urbana e della Street Art, la confusione e le contraddizioni insite nei concetti con cui ruota oggi il discorso sulla città: decoro e degrado, legalità e illegalità, i temi dell’Arte pubblica e della sua funzione, e quindi il macro-tema della rigenerazione urbana, e in particolare di quella cosiddetta culture-led ovvero di matrice culturale» (p. 58).

    Tali contraddizioni, continua Gainsforth, sono esplose a Roma soprattutto in tre quartieri storicamente popolari – San Lorenzo, Ostiense e Pigneto – in cui si scontrano tentativi di “bonifica urbana” «voluti dai privati e dai nuovi abitanti» e «tentativi delle controculture di riappropriarsi e di definire il valore d’uso degli spazi e della città». Si tratta pertanto di «luoghi di conflitto sull’uso dello spazio. Il decoro, che viene sempre indicato come obiettivo della riqualificazione di città, non è un obiettivo ma uno strumento – di tipo estetico – per definire un uso – più esclusivo – della città a partire dall’estrazione di rendita urbana» (p. 58).

    Si tratta dunque di un uso dell’Arte Urbana, a Roma come altrove, volto a «rendere attrattivi i quartieri da rigenerare in chiave economica, prima che sociali. Il che, semplificando, significa, attrarre utenti e abitanti facoltosi da fuori anziché migliorare le condizioni di chi vi abita» (p. 59).

    Gli interventi estetici soprattutto commissionati, ma a volte anche quelli realizzati spontaneamente, nelle mura dei quartieri, contribuiscono «all’elaborazione di retoriche e narrazioni, alla produzione di contenuti immateriali su cui si costruisce l’immagine della città attrattiva, dinamica, da vendere a turisti, investitori, e nuovi residenti. I quartieri rigenerati sono descritti come “rinati”, “vivaci” e “creativi”» (p. 59).

    Trattandosi di una narrazione che, sottolinea Gainsforth, presuppone uno stato di degrado antecedente la rinascita, occorrerebbe chiedere conto delle responsabilità del degrado di tali quartieri. «Conoscendoli, direi, che in parte è inventato, in parte è dovuto proprio all’impoverimento del tessuto sociale ed economico che la trasformazione porta, alla carenza di servizi, di luoghi di socialità e cultura, di luoghi che non siano di consumo» (p. 59).

    La muralizzazione delle periferie sempre più commissionata e finanziata dal connubio istituzioni-società immobiliari si sta rivelando un buon “cavallo di Troia” per sottrarre i quartieri popolari alle comunità che li hanno a lungo abitati e ciò è stato reso possibile grazie allo sfilacciamento del tessuto sociale che non si è di certo dato motu proprio.

    Insomma, nell’arena di conflitti che sono gli spazi urbani, anche i colori sulle pareti si rivelano armi contese. Non è nelle gallerie d’arte che si combatte questa guerra, è nelle nelle strade, un metro alla volta, mattone dopo mattone.


    Indice dei contributi presenti nel volume Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art: Pierpaolo Ascari, Tensioni a Cyburbia. La città postfordista tra canoni e stili di espressione; Pietro Rivasi, Sul rapporto tra arte urbana spontanea ed istituzioni; Sarah Gainsforth, Addomesticare la città: consumo visuale e produzione di spazio; Tamar Pitch, Sicurezza, decoro e pandemia; Giorgia Silvestri, Lo scandalo dell’adolescenza nella città degli adulti; Francesco Spagna, Ho fatto della mia casa il mondo. Street art, comunicazione, controcultura; Claudio Musso, Rovesciare la prospettiva. Arti visive e cultura visuale nel Writing e nella Street Art; Fabiola Naldi, Per una responsabilità “illegale” dell’artista; Stefano Ascari, Parole, immagini e muri. Il fumetto come scrittura dello spazio urbano; Enrico Bonadio, Profili di diritto d’autore nel graffiti writing; François Chastanet, Sei scritture metropolitane; Luca Borriello, Per fare un Tavolo. Competenze e municipalizzazione della creatività urbana in Italia.


    Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

    ]]>
    “Welcome Venice” e il cambiamento dello spazio urbano https://www.carmillaonline.com/2021/10/25/welcome-venice-e-il-cambiamento-dello-spazio-urbano/ Mon, 25 Oct 2021 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68884 di Paolo Lago

    Il protagonista del recente film di Andrea Segre, Welcome Venice (2021), è sicuramente lo spazio. Uno spazio urbano soggetto a un profondo cambiamento, come quello di Venezia. La storia è incentrata sui difficili rapporti fra tre fratelli, Piero, Alvise e Toni, pescatori di moeche (piccoli granchi che vengono pescati nel loro periodo di muta) dell’isola di Giudecca. Per una serie di circostanze, Piero e Alvise dovranno decidere se affidare la loro casa natale della Giudecca all’industria immobiliare che sta cambiando il volto di Venezia: Piero vorrebbe restare ma Alvise ha [...]]]> di Paolo Lago

    Il protagonista del recente film di Andrea Segre, Welcome Venice (2021), è sicuramente lo spazio. Uno spazio urbano soggetto a un profondo cambiamento, come quello di Venezia. La storia è incentrata sui difficili rapporti fra tre fratelli, Piero, Alvise e Toni, pescatori di moeche (piccoli granchi che vengono pescati nel loro periodo di muta) dell’isola di Giudecca. Per una serie di circostanze, Piero e Alvise dovranno decidere se affidare la loro casa natale della Giudecca all’industria immobiliare che sta cambiando il volto di Venezia: Piero vorrebbe restare ma Alvise ha già preso la decisione di trasformare l’abitazione in un bed and breakfast per turisti.

    Lo spazio veneziano tratteggiato nel film, come nel precedente documentario realizzato dal regista, Molecole (2020), è segnato nel profondo dall’emergenza pandemica e dalle conseguenti chiusure e viene mostrato mentre i suoi abitanti cercano di uscire da una situazione di estrema crisi. Merito del film è sicuramente quello di offrire una visione ‘alternativa’ di Venezia, una città da sempre oggetto di una sovraesposizione spettacolare nel cinema e nelle pubblicità. Non ci viene mostrata la parte più esteticamente attraente della città, quella divenuta una vera e propria icona dell’industria dello spettacolo e del turismo, ma la parte più popolare, meno nota, l’isola di Giudecca e le “barene” (terreni lagunari periodicamente sommersi dalle maree) dove si recano i pescatori di moeche. E comunque, nei rari momenti in cui vediamo Piazza San Marco e la Venezia più ‘turistica’, quest’ultima viene inquadrata da lontano, carezzata dalle luci del tramonto e incastonata perciò in uno sguardo poetico che la libera di qualsiasi incrostazione spettacolare.

    Il cambiamento cui è soggetto lo spazio veneziano è lo stesso che investe i centri storici di diverse altre città ma Venezia ha la particolarità di essere costruita sull’acqua, un luogo in cui ci si sposta soltanto a piedi o in barca. Si tratta di un cambiamento sottoposto ai processi di gentrificazione (termine che traduce l’inglese gentrification), per cui uno spazio cittadino ‘autentico’ e proletario si trasforma in un luogo di pregio, dove le abitazioni originariamente semplici e popolari, una volta ristrutturate e riqualificate, diventano di lusso. Cambia quindi profondamente anche la composizione sociale di questi spazi: al posto degli abitanti ‘nativi’, costretti a emigrare fuori città o nelle periferie, subentrano ricchi abitanti stranieri che trasformano quelle case in residenze per le vacanze, perciò chiuse per gran parte dell’anno. Il film racconta assai bene questa trasformazione: Alvise vuole entrare a far parte della nuova industria immobiliare che sta trasformando Venezia mentre Piero cerca di opporre una resistenza che diviene anche una significativa resistenza culturale. Del resto, il personaggio di Piero non è tratteggiato in modo banale, non è l’ingenuo e ottuso pescatore che non vuole lasciare il proprio luogo natìo. Si tratta invece di una figura molto complessa, piena di contraddizioni, alle prese con un passato non facile (diversi anni di galera alle spalle), quasi egli stesso ‘straniero’ nella sua piccola comunità. Appare perciò simile alla figura di Bepi, soprannominato “il Poeta”, il pescatore di Chioggia che stringe amicizia con Shun Li, immigrata dalla Cina, in un precedente film di Segre, Io sono Li (2011). Come il “Poeta”, immigrato dalla Jugoslavia nella piccola comunità di Chioggia trenta anni prima, anche Piero, a causa della sua vita irregolare, sembra vivere ai margini della sua comunità, che comunque ama e sente sua. Proprio per questo, il pescatore veneziano sembra così ostinatamente attaccato ai suoi piccoli spazi di libertà.

    Piero è vittima di un vero e proprio sradicamento dal suo spazio: come un nuovo migrante, vittima della gentrificazione, è costretto ad abbandonare l’isola di Giudecca per andare a vivere a Mestre. Si tratta “solo di dieci chilometri più in là, cosa vuoi che sia”, gli dice Alvise, ma sembra proprio che quei dieci chilometri rappresentino uno spazio insormontabile, una distanza incolmabile come quella che separa dai loro paesi di origine altre figure di immigrati raccontati dal cinema di Andrea Segre, come la già citata Shun Li, giovane cinese emigrata prima a Roma poi a Chioggia in Io sono Li, o il togolese Dani che, dopo aver attraversato il Mediterraneo a rischio della propria vita, è accolto con la sua bambina in una comunità del Trentino in La prima neve (2013). È in una prospettiva straniante che la macchina da presa ci mostra il risveglio di Piero nella sua nuova casa di Mestre, nel momento in cui si affaccia alla finestra e scruta i tetti cittadini solcati da fumi industriali mentre lo sfondo sonoro è occupato dagli invasivi rumori del traffico. È un altro mondo, estremamente lontano dagli spazi della casa della Giudecca, in cui Piero cucinava i suoi granchi all’aperto, in un affaccio sulla laguna.

    Il mutamento cui è stato sottoposto lo spazio cittadino veneziano può essere leggibile attraverso la chiave di interpretazione offerta da Franco La Cecla in Mente locale, la cui analisi procede secondo un’ottica diacronica, prendendo in considerazione il cambiamento cui è stato sottoposto lo spazio abitativo cittadino. L’assunto principale è che il «nostro spazio», oggi, «è sempre meno nostro»1. La dimensione spaziale cittadina, dai marciapiedi alle strade fino agli spazi interni degli appartamenti, è stata sottoposta a un graduale processo di incasellamento, di creazione di griglie e di canali, di flussi preordinati entro i quali si svolge la nostra vita. La ricollocazione turistica degli spazi urbani ha agito quasi come le demolizioni e gli sventramenti cittadini operati nel corso del Novecento. Secondo La Cecla, «viene spazzato via dal paesaggio urbano uno spazio irregolare e invadente, quello di un abitare fuori e dentro la porta e di un modellare per casupole, banconi, affacci, tende, mercati, impasses e cortili lo spazio delle città, delle piazze e dei monumenti»2. La pratica di incasellamento cui le città sono state sottoposte – continua lo studioso – provoca un vero e proprio «spazio sradicato» generando negli ultimi decenni una sempre più frequente «mobilità volontaria o forzata», che «non è quella del muoversi dei nomadi, ma del vagare di chi si è perduto»3. Anche Piero vaga come chi si è perduto: al mattino lo vediamo seduto in un autobus diretto da Mestre a Venezia, in uno spazio non suo, solcato dagli impianti industriali. Il personaggio è stato sradicato dal suo piccolo spazio di libertà che, a fatica, si era riguadagnato dopo le sue vicissitudini esistenziali. È stato allontanato dalla laguna, dall’isola di Giudecca e dal suo microcosmo popolare.

    Venezia è stata profondamente cambiata dall’industria turistica e il suo stesso spazio è divenuto qualcosa da ‘vampirizzare’, una bellezza da rubare e da portare via. La città si è trasformata in una sorta di non luogo: ai turisti che vediamo nel film e che hanno affittato il bed and breakfast, alla fine, non importa nulla vivere lo spazio veneziano. Se ne sono stati tutto il tempo del loro soggiorno chiusi in casa a mangiare pizza e sushi, anch’essi cibi che caratterizzano i ‘non luoghi’ perché si possono trovare ormai in qualsiasi parte del mondo globalizzato. Il turismo, come ha osservato Rodolphe Christin, velocizza e spersonalizza qualsiasi dimensione di viaggio compiendo una vera e propria «usura del mondo»4.

    Forse, gli unici spazi veneziani rimasti autentici sono quelli in cui si recano i pescatori a svolgere il proprio lavoro, caratterizzati da una natura ostile. La macchina da presa inquadra i personaggi inseriti nello scenario lagunare e sembra iconograficamente consegnarli alla propria solitudine, fra i pochi rimasti a svolgere il loro lavoro tradizionale, fra i pochi rimasti a potersi permettere di vivere in una città che da anni sta inesorabilmente cambiando. Perché ormai, come sottolinea il regista in un incontro col pubblico dopo la proiezione del film, sono davvero pochi i veneziani che possono permettersi di vivere a Venezia. Sono davvero poche le persone ‘normali’, con uno stipendio ‘normale’, che possono rimanere nella propria città, trasformatasi in una sorta di museo a cielo aperto e, per questo, ormai troppo costosa per essere vissuta a meno di non essere ricchi uomini d’affari o milionari americani o inglesi che comprano appartamenti per abitarli sì e no quaranta giorni all’anno. Il centro storico di Venezia si è ormai trasformato in un museo e in una boutique. Come sottolinea ancora La Cecla, alla luce dell’emergenza Covid, è necessario

    liberare i centri storici dalla boutiquizzazione, che non vuol dire liberarli da negozi e mercati, ma farvi tornare una densa residenza. E poi l’insieme delle città dovrebbero prendere la strada del plein air, considerare come la chiusura della gente nelle proprie case sia il principio di diffusione dei contagi. La vita all’aperto, in centro, significa tornare a una città di gallerie, passages, pensiline, cortili, ponti sospesi, giardini pensili, campi da gioco, tavoli e sedie, esposizioni, padiglioni, chioschi, giardini, corridoi di piante, fruttivendoli, friggitorie, banchetti di venditori, barbieri, teatri e cinema di strada, fiorai, musicisti e funamboli, rigattieri. Se vi sembra una visione del passato, aggiungeteci quello che vi piace, dal digitale per strada all’intelligenza artificiale, ma attenzione perché le smart cities sono già un fallimento dentro alla pandemia, anzi sono quello che la pandemia ci offre, un surrogato di vita en plein air e in presenza5.

    Non dimentichiamo, infatti, che la Venezia mostrata dal regista è anche uno spazio reso fantasma dall’emergenza pandemica, come già nel precedente Molecole. La troupe si trova a girare in spazi quasi surreali e intende testimoniare narrativamente la condizione quasi ‘surreale’ di una città attraversata da mille problemi e contraddizioni, anche legate alla stringente attualità. Il cinema di Andrea Segre si conferma ancora una volta potentemente militante, un cinema che riesce a parlarci del mondo reale e delle sue contraddizioni, qui e ora. A parlarci di spazi contemporanei in cui a dover fare i conti con la realtà sono, più che mai, esseri umani immersi fino al collo in quella stessa realtà, come ad esempio i migranti, coloro che per cause indipendenti dalla loro volontà sono costretti a lasciare i propri luoghi e i propri cari. Una realtà che però non suona mai banale, sempre guardata per mezzo di un filtro artistico e poetico. Un filtro che, comunque, non nasconde le sue mille problematiche e contraddizioni ma che, anzi, per mezzo di un sapiente gioco di contrasti, sembra metterle ancora più in evidenza.


    1. F. La Cecla, Mente locale, elètheura, Milano, 2021, p. 34. 

    2. Ivi, p. 36. 

    3. Ivi, pp. 62-63. 

    4. Cfr. R. Christin, Turismo di massa e usura del mondo, trad. it. elèuthera, Milano, 2019. 

    5. F. La Cecla, Mente locale, cit., p. 203. 

    ]]>
    Il turismo come pratica di consumismo di massa https://www.carmillaonline.com/2021/01/14/il-turismo-come-pratica-di-consumismo-di-massa/ Thu, 14 Jan 2021 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64446 di Gioacchino Toni

    Sarah Gainsforth, Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, Eris, Torino 2020, pp. 64, € 6,00

    «Dal canto suo il turismo è eterotopico: genera i propri luoghi, che adatta ai propri fini […] Per diventare turisticamente compatibile, una realtà deve prima estirpare i modi di vita tradizionali in cui affonda le proprie radici» (Rodolphe Christin)

    Nel corso degli ultimi decenni sono diverse le città e le zone paesaggistiche che in ogni parte del mondo sono soggette a processi di trasformazione profonda determinati dal turismo di massa. Espulsione dai centri storici [...]]]> di Gioacchino Toni

    Sarah Gainsforth, Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, Eris, Torino 2020, pp. 64, € 6,00

    «Dal canto suo il turismo è eterotopico: genera i propri luoghi, che adatta ai propri fini […] Per diventare turisticamente compatibile, una realtà deve prima estirpare i modi di vita tradizionali in cui affonda le proprie radici» (Rodolphe Christin)

    Nel corso degli ultimi decenni sono diverse le città e le zone paesaggistiche che in ogni parte del mondo sono soggette a processi di trasformazione profonda determinati dal turismo di massa. Espulsione dai centri storici degli abitanti economicamente più svantaggiati e delle attività commerciali tradizionali sostituiti rispettivamente da ondate di turisti a cui vengono destinati gli alloggi e da infrastrutture commerciali ad essi dedicate, abnorme concentrazione di popolazione in spazi ridotti (overtourism), aumento dell’inquinamento, edificazione di opere di forte impatto urbanistico-ambientale realizzate al solo scopo di attrarre visitatori ad eventi di breve durata, cancellazione di quell’identità storica, culturale e paesaggistica che erano alla base dell’attrattività delle località. Insomma, il turismo di massa sta letteralmente distruggendo l’ecosistema urbano e naturale di molte zone del pianeta.

    Un esempio su tutti. In seguito alla fortunata serie televisiva Game of Thrones, la città di Dubrovnik (Kings Landing, nella fiction) si è vista letteralmente invadere dai turisti: l’80% del milione di visitatori giunti in città nel 2016 è arrivato sul posto con enormi navi da crociera a gruppi di migliaia di passeggeri per volta. Se si sta diffondendo una certa sensibilizzazione – si pensi a Venezia – circa l’impatto delle grandi navi sull’ecosistema, non deve essere sottostimato l’impatto provocato sulle località dallo sbarco della marea umana da esse trasportata. Anche i voli low cost contribuiscono all’overtourism e in alcuni casi nei confronti dei medesimi luoghi messi a dura prova dalle grandi navi.

    Dopo aver analizzato il fenomeno Airbnb, vera e propria piattaforma di gentrificazione digitale che sta riplasmando il volto delle città turisticamente più attrattive1 [su Carmilla], con un suo recente libro, la ricercatrice indipendente e giornalista freelance Sarah Gainsforth, Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile? (Eris, 2020), affronta di petto gli effetti del turismo di massa contemporaneo sulle città e sull’ambiente naturale.

    Dopo aver ricostruito quella trasformazione del viaggio per pochi in turismo di massa che Rodolphe Christin2 [su Carmilla] ha sintetizzato in maniera efficace affermando che il turista, nato come sperimentatore esistenziale, si è via via convertito in un consumatore del mondo, Gainsforth si preoccupa di evidenziare l’incidenza che su tale processo hanno avuto lo sviluppo dell’economia, le politiche urbanistiche e la cultura, per poi terminare il volume con una riflessione sulla distruttività di questo sistema turistico giungendo a chiedendosi se un altro turismo, sostenibile, sia, oltre che auspicabile, possibile.

    Per quanto riguarda il turismo urbano, Gainsforth ricorda come questo sia cresciuto velocemente e in maniera spropositata anche a causa dell’incremento dell’offerta di alloggi turistici a prezzi (inizialmente) convenienti proposta da alcune piattaforme digitali che nel giro di pochi anni hanno trasformato la pratica di condivisione degli alloggi in un business che sottrae le abitazioni ai residenti stabili in favore di turisti di passaggio.

    Il turismo di massa ha inoltre contribuito enormemente a rendere le città un po’ tutte uguali; essendosi l’economia locale specializzata in un unico settore, quello turistico, sono state le città ad adeguarsi ai turisti e non l’inverso. Per tentare di arginare l’overtourism si sono mosse alcune amministrazioni comunali attivando meccanismi di regolamentazione del mercato degli affitti di breve durata e si sono sviluppate mobilitazioni dal basso (come nel caso di Barcellona).

    Se fenomeni come l’overtourism e la turistificazione dei centri storici sono fenomeni recenti, questi si sono però innestati su processi già in corso da tempo in diverse città e per comprendere come ciò sia potuto avvenire è indispensabile, sostiene Gainsforth, ricostruire i motivi per cui il turismo è diventato un settore portante dell’economia urbana in diverse città.

    Secondo la studiosa uno spartiacque importante in tal senso è rappresentato dalla fine degli anni Settanta, quando il consolidato legame tra industrializzazione e urbanizzazione è entrato in crisi e la città si è avviata a trasformarsi da luogo di produzione a centro di servizi. A partire da allora diverse città hanno investito il loro futuro economico sull’innovazione tecnologica e culturale mentre in contemporanea si provvedeva a smantellare il welfare sull’onda della riduzione della pressione fiscale su profitti e rendite, della deregolamentazione dei flussi di capitale e della liberalizzazione del commercio. In tale contesto il settore pubblico ha via via abbandonato il suo storico ruolo di erogatore di servizi trasformandosi in committente di servizi erogati da privati.

    Il passaggio da un’economia industriale a una del terziario ha comportato l’abbandono di numerose aree urbane che, da qualche tempo a questa parte, sono state destinate ai nuovi settori economici trainanti, tra cui la stessa produzione culturale: eccoci allora alla stagione dei grandi eventi, dagli Expo ai mega-eventi sportivi, con annessi fenomeni di gentrificazione e trasformazioni urbanistiche in nome del turismo come risorsa, moltiplicatore di lavoro e di ricchezza.

    La contraddizione è questa: se le politiche urbane contemporanee sarebbero chiamate a sanare le diseguaglianze e ridurre le dinamiche di esclusione sociale prodotte da un’economia finanziaria, della rendita, i progetti di rigenerazione urbana sono inscritti nello stesso sistema economico che dovrebbero correggere. Per questo il termine “rigenerazione urbana” si riduce spesso a un’etichetta “etica” appiccicata a speculazioni immobiliari private, e il termine “valorizzazione”, tanto ricorrente in queste operazioni, indica non un generico miglioramento di un immobile o di un quartiere, ma la creazione di una rendita. Il turismo è una delle principali strategie di promozione di quartieri, luoghi trattati come prodotti, come brand per attirare capitali privati ed è il pretesto che giustifica la “valorizzazione” immobiliare e finanziaria della città. (p. 17)

    Oltre a mostrare i disastri determinati dal turismo come pratica di consumismo di massa, il volume di Sarah Gainsforth ha il merito di invitare a ripensare il turismo a partire da una nuova prospettiva, da un’ecologia popolare.


    1. Sarah Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma 2019. 

    2. Rodolphe Christin, Turismo di massa e usura del mondo, Elèuthera, Milano 2019. 

    ]]>
    Estetiche del potere. Muralizzazione delle periferie e decontestualizzazione dell’arte di strada https://www.carmillaonline.com/2020/12/27/estetiche-del-potere-muralizzazione-delle-periferie-e-decontestualizzazione-dellarte-di-strada/ Sat, 26 Dec 2020 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63934 di Gioacchino Toni

    «Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020.)

    «Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci [...]]]> di Gioacchino Toni

    «Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020.)

    «Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci conquistiamo la denuncia più stravagante e imbecille dell’anno» (Laboratorio Crash, Bologna, marzo 2016).

    «Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in una teca» (Centro sociale XM24, Bologna, luglio 2019)

    Prendendo atto di come le periferie delle città si stiano da qualche riempiendo di murales, Lorenzo Misuraca, in un suo scritto pubblicato su “Il lavoro culturale” nel 20151, si chiede se, al di là degli aspetti positivi, in tale proliferazione non vi sia anche qualcosa di negativo.

    Rispetto ai graffiti comparsi sui muri delle città italiane negli anni Ottanta e Novanta, questa più recente ondata di murales, sostiene Misuraca, non pare rappresentare «l’autoaffermazione estetica» di una specifica «comunità underground». Inoltre, rispetto alle precedenti, le ultime produzioni sembrano incontrare un consenso più diffuso.

    Che siano nati spontaneamente dal basso o commissionati a livello più o meno istituzionale, i murales delle periferie sembrano svolgere una funzione di riqualificazione urbanistica e culturale e, continua l’autore, il loro linguaggio di strada e per la strada rappresenta un ottimo strumento per veicolare la rinascita di aree urbane periferiche e per rafforzare l’auto-percezione positiva che il quartiere ha di sé. Insomma, la «politica di ridisegno delle periferie» attuata dalle istituzioni, che in alcuni casi organizzano persino tour guidati alla scoperta delle “bellezze sui muri” delle periferie, sembra donare ai sui abitanti l’orgoglio di un’unicità positiva.

    A partire da tali premesse, Misuraca si interroga sulle possibili ricadute negative di questa “muralizzazione” delle periferie. Se da un lato il quartiere rischia di scambiare i suoi «bisogni strutturali, come i servizi di prossimità, i trasporti, il decoro urbano, gli spazi culturali e di socializzazione, con la colorazione artistica delle facciate», dall’altro, con il dilagare di tale fenomeno, la street art rischia di giocarsi la sua stessa anima che è quanto la contraddistingue dai manufatti destinati agli ambiti museali e chiusi che nel corso del tempo si sono talmente “addomesticati”, nel loro adeguarsi al gusto medio, da essere divenuti inoffensivi.

    «L’arte di strada nasce per parlare ad altri, ai passanti nelle vie, ai nevrotizzati dai ritmi della città, alle famiglie di migranti. Lo fa stendendosi su un muro e lo fa, quando lo fa bene, creando un cortocircuito disturbante con la cultura dominante, che sia il capitalismo, il consumismo, l’autoritarismo, il fatalismo o il familismo clientelare». Converrà interrogarsi sul fatto che le opere di un artista come Banksy finiscono per piacere anche a quelli a cui non l’artista vorrebbe piacere. Attorno alle sue opere si è infatti creato un cortocircuito perverso per cui alcune delle stesse amministrazioni britanniche che un tempo bollavano tali interventi sui muri come atti vandalici, ora si adoperano per tutelare le sue opere da sconsiderati atti di vandalismo.

    Non è una novità che un fenomeno di strada rischi di essere riassorbito da un sistema che non perde occasione per ricavare profitto anche da chi magari lo contesta e se qualche artista di strada si adegua, qualcun altro decide di resistere alle lusinghe. «Legittima l’aspirazione del muralista di vivere della sua arte», scrive Misuraca, «ma sorprende la scarsa consapevolezza di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica. Da luogo di critica a luogo di ratifica del potere».

    Di tale paradosso sicuramente si è accorto Blu, che non a caso «lavora in sinergia con le vertenze sociali e politiche dei territori in cui opera». A rendere evidente tale consapevolezza è la cancellazione, nel dicembre del 2014, operata dallo stesso artista di suoi lavori nel quartiere berlinese di Kreuzberg. «Il motivo è la gentrificazione, la trasformazione di quel quartiere multietnico e popolare in un luogo radical-chic e a vocazione commerciale, e dunque il decadimento della ragione stessa di quell’opera lì».

    Nel 2016, in occasione della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano”, che espone alcune opere letteralmente staccate dai muri della città, trasformandole così in pezzi da museo, con il pomposo obiettivo di «salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo», l’artista Blu, aiutato dagli occupanti di alcuni centri sociali locali, risponde all’essere finito, suo malgrado, nel cartellone della mostra, cancellando le sue opere dipinte in città2.

    Se da un alto la muralizzazione delle periferie può diventare una sorta di “trompe l’oleil del cambiamento”, ossia «un’occasione importante di ricodificare tramite l’occhio dello straniero la percezione di se stessi, libera o quantomeno non delimitata da stigmi antichi», dall’altro, il crescente protagonismo istituzionale nel commissionare opere di street art può rappresetare «il germe di una politica comunitaria che sempre di più nasconde il segno sotto il tappeto del simbolo».

    Detto che i murales, per quanto affascinanti, non cancellano il disagio sociale e l’isolamento a cui sono condannate le periferie, ciò che colpisce oggi «è invece la velocità con cui queste operazioni culturali vengono pensate, messe in atto, e digerite», scrive Misuraca, tornando sull’argomento sempre su “Il lavoro culturale” in uno scritto del dicembre 20203 che amplia la riflessione a come il capitalismo dei social incida, anestetizzandola, sull’esperienza creativa. Non appena un fatto tocca “corde comuni”, occorre metterlo a profitto istantaneamente, prima che l’interesse collettivo cali.

    L’autodistruzione operata da Blu nei confronti delle sue opere è un atto estetico e politico radicale che ha il merito di riportare al centro della scena una riflessione tanto sulla scena urbana che su quella artistica. Non a Blu direttamente, ma attorno a lui sicuramente, è strutturato il libro di Fabiola Naldi, Tracce di Blu (Postmedia books, 2020) che raccoglie alcuni testi che, scrive l’autrice, «hanno vissuto di un momento empatico molto particolare, e hanno condiviso luoghi e contesti di destinazione speciali per la mia carriera e la mia esperienza personale. Ciascun testo che precede l’estratto ripubblicato agisce come un ipertesto, una sorta di scrittura aumentata di ciò che avevo già fatto al tempo».

    In una scena artistica contraddistinta da una certa refrattarietà all’agire collettivo, in cui molti operano in solitaria senza un preciso codice espressivo, la cancellazione delle opere operata da Blu nel marzo 2016 rappresenta secondo Naldi «l’apice della parte libera e consapevole di un modo preciso di intendere lo spazio urbano. Certamente ci sono ancora autori che proseguono a lavorare in modo risoluto e a volte ancora antagonista, ma la deriva più decorativa, edonistica e restaurativa detiene il primato».

    Riprendendo i ragionamenti di Miwon Know4 a proposito dell’arte pubblica, del site specific e del rapporto tra realizzazione e distruzione, Naldi evidenzia come tanto gli studiosi qaunto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento. Pertanto, «la Street Art può esistere ed essere considerata tale solo se fruita come esperienza fenomenologica conseguente e adiacente allo stesso contesto, fatto per soddisfare il luogo in cui è stato realizzato e privo di valore se spostato, trasferito o modificato». È pertanto inevitabile che l’autore metta in conto, quando non la pianifichi direttamente, la distruzione dell’opera. È nelle regole non scritte della Drawing Art, illegale o meno, il suo essere effimera e instabile.

    Scrive Blu poche ore dopo aver operato la cancellazione delle proprie opere: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà finché i maganti mangeranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Come a dire che non è nel gesto in sé della cancellazione operata dall’artista che deve essere ricercato l’atto violento; questo deve piuttosto essere individuato nella logica di chi ha davvero distrutto la sua opera murale, «strappandola dalla sua unica e possibile collocazione in nome di una logica di preservazione, fondamentale in altri contesti pittorici ma opposto al lavoro di Blu».

    Scrive Naldi che con modalità da attivista politico, «Blu considera buona parte degli interventi che realizza in lotta o in contrapposizione ai vari sistemi locali (diritto alla casa, lotta di autogestione, libero utilizzo delle piattaforme tecnologiche). Solo in quei casi, e solo con l’aiuto di un supporto economico per i materiali pittorici da utilizzare, Blu sceglie di sottoscrivere la battaglia di un singolo gruppo leagato a un singolo territorio, consapevole he la notorietà e il rispetto acquisito nel corso degli anni possano ridisegnare le sorti di una precisa attività anche in nome delle sua presenza. Non si parla mai di riqualificazione urbana, non vi è partecipazione o collaborazione con le istituzioni, ma solo ‘urgenza di “accentuare” una situaizone di emergenza sempre più comune a molte città». Ecco allora che in una data particolare per Bologna, l’anniversario dell’uccisione per mano poliziesca di Francesco Lorusso (11 marzo 1977), con l’aiuto di attivisti dei centri sociali Crash e XM24, Blu decide di ricoprire con il colore grigio le sue opere cittadine.

    Dichiara il Centro sociale XM24 di Bologna sotto sgombero nel luglio 2019: «Non dimentichiamo che giornali e politici che oggi elogiano la tutela della Sovrintendenza sono gli stessi che ogni giorno condannano tag, scritte e disegni sui muri, gli stessi che considerano un priorità la “pulizia” della città e che augurano severe condanne a chi fa i graffiti. Gli stessi che apprezzano la “street art” solo se ci intravedono un potenziale profitto. C’è però una realtà evidente: quei pezzi esistono perchè esiste una comunità che li ha fortemente desiderati, voluti, che ne ha scelto i soggetti, il linguaggio, la forma, il contenuto. In un rapporto di scambio continuo fra artiste e artisti chiamati a dipingere e Xm24, stretti in modo inscindibile. Non si può separare un’opera di arte urbana dalla comunità che abita quella porzione di città su cui essa insiste e per cui esiste, senza snaturarla del tutto, e renderla un tristissimo fantoccio vuoto. […] Non consegneremo al Comune un monumento svuotato dal suo contenuto politico e di lotta. Non ci saranno turisti e passanti che si faranno selfie di fronte al fascio spezzato, ai partigiani dipinti, al ritratto del nostro compagno Francesco Lo Russo, e al cane, al topo e al piccione di Xm24, e un Lepore o chi per lui a raccontare in modo addomesticato la storia dello Spazio Autogestito che oggi vogliono sgomberare. Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in unateca. Non vi farete belli della nostra storia, della nostra passione, del nostro presente. Non vi daremo la possibilità di provarci».

    Un luogo pubblico dovrebbe essere inteso come spazio «condiviso, comune e spesso di passaggio», dunque, a proposito dell’arte pubblica, nelle sue molteplici manifestazioni, occorre secondo Naldi chiedersi cosa sia ora lo spazio pubblico e come si muovano al suo interno coloro che lo abitano. Visto che gli interventi di arte pubblica incidono inevitabilmente sullo spazio e sulla comunità che lo abita, non è che quelle opere vengano realizzate, lette e interpretate come in altri contesti.

    È a partire da tali riflessioni, sulla specificità di tali esperienze, che l’autrice ha strutturato un volume che ruota attorno agli eventi espositivi ai quale ha preso parte Blu. Si tratta di un libro strutturato attorno agli scritti con cui l’autrice hanno accompagnato l’artista per un decennio nelle manifestazioni pubbliche e sulla strada, scritti che ora possono essere riletti a posteriori anche, e soprattutto, alla luce delle auto-cancellazioni operate da Blu, da un gesto capace di rafforzare e significare la sua intera produzione artstica e politica allo stesso tempo.


    1. Lorenzo Misuraca, Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale”, 13 Maggio 2015. 

    2. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico, “Carmilla”, 22 luglio 2016.  

    3. Lorenzo Misuraca, Capitalismo social. Come il capitalismo dei social prosciuga il desiderio e desertifica l’esperienza creativa, “Il lavoro culturale”, 8 Dicembre 2020. 

    4. Miwon Know, One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge, MA, U.S.A 2002. 

    ]]>
    Piattaforme di gentrificazione digitale https://www.carmillaonline.com/2020/11/19/piattaforme-di-gentrificazione-digitale/ Thu, 19 Nov 2020 22:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63329 di Gioacchino Toni

    Sarah Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 192, € 18,00

    «Cerchi una casa sull’albero per il weekend o un’intera casa per tutta la famiglia? Qualunque sia la tua destinazione, ti aspetta un caloroso benvenuto. Dietro ogni soggiorno c’è un host, una persona reale pronta a offrirti le informazioni di cui hai bisogno per effettuare il check-in e sentirti a casa». Così il portale Airbnb italiano accoglie il visitatore. Airbnb, spiega Wikipedia, «è un portale online che mette in contatto persone in cerca [...]]]> di Gioacchino Toni

    Sarah Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 192, € 18,00

    «Cerchi una casa sull’albero per il weekend o un’intera casa per tutta la famiglia? Qualunque sia la tua destinazione, ti aspetta un caloroso benvenuto. Dietro ogni soggiorno c’è un host, una persona reale pronta a offrirti le informazioni di cui hai bisogno per effettuare il check-in e sentirti a casa». Così il portale Airbnb italiano accoglie il visitatore. Airbnb, spiega Wikipedia, «è un portale online che mette in contatto persone in cerca di un alloggio o di una camera per brevi periodi, con persone che dispongono di uno spazio extra da affittare, generalmente privati». Inoltre, riporta che il sito, attivato nel 2007, «al giugno 2012 contava alloggi in oltre 26.000 città in 192 paesi e raggiunse 10 milioni di notti prenotate in tutto il mondo. Gli annunci includono sistemazioni quali stanze private, interi appartamenti, castelli e ville, ma anche barche, baite, case sugli alberi, igloo, isole private e qualsiasi altro tipo di alloggio».

    Insomma, un esempio di “sharing economy” di successo che però, con i suoi annunci accattivanti, sottrae unità residenziali dagli affitti a lungo termine. In Italia la percentuale delle unità immobiliari presenti sulla piattaforma è pari al 25% di quelle presenti nel centro storico della città di Firenze. Non solo la diminuzione della disponibilità abitativa per gli affitti a lungo termine ha fatto aumentare questi ultimi in maniera vertiginosa, ma anche contribuito a determinare una vera e propria fuga dalla città. Si calcola che in alcuni quartieri romani del centro la popolazione residente si sia ridotta del 30-40% nel periodo compreso tra il 2014 e il 2018. Nella parte antica della città di Venezia, poi, si è giunti alla parità: il numero di posti letto per turisti corrisponde ormai a quello dei residenti con inevitabili ricadute anche sul commercio di vicinato sempre più rimpiazzato da servizi per turisti1.

    Anche le corporation del capitalismo delle start-up e delle piattaforme digitali hanno bisogno dei loro miti fondativi. Ne abbiamo sentite talmente tante di storie di successo che partono da piccoli laboratori in garage messi insieme da amici squattrinati che viene il dubbio si tratti di narrazioni utili a nascondere qualche verità scomoda o fatte circolare quasi per scusarsi di quel che queste romantiche attività sono nel frattempo diventate.

    Nel suo Airbnb città merce, Sarah Gainsforth sottolinea come da questo punto di vista la piattaforma Airbnb non faccia eccezione. Al pari di altre piattaforme, anch’essa pare essersi costruita una genealogia immaginaria adeguata a una narrazione retorica abile nel ribaltare la natura parassitaria e ambivalente di tanta “sharing economy”. È anche grazie al ricorso di miti fondativi costruiti a tavolino che Airbnb ha potuto presentarsi come risposta a problemi che in realtà, come dimostra la studiosa, contribuisce a generare.

    Il capitalismo delle piattaforme non è che una delle risposte che si è dato il vigente sistema economico egemone proteso nella sua incessante ricerca di nuove opportunità di profitto e da questo punto di vista, sostiene Gainsforth, Airbnb rappresenta, al momento, «la principale success story del capitalismo delle piattaforme e dell’ideologia neoliberale e startuppara, secondo cui ognuno è l’imprenditore di se stesso». Una retorica di lunga data che cela come le piattaforme digitali abbiano «trovato il modo di mercificare sempre nuove risorse, ampliando la sfera di ciò che è possibile mettere a profitto – la casa, il proprio tempo, le città».

    Airbnb ha potuto svilupparsi sfruttando «un contesto di recessione economica, di precarizzazione del lavoro, di contrazione dei salari, di aumento del costo della vita e di finanziarizzazione della casa su scala globale. Gli effetti della produzione dello spazio per utenti progressivamente più ricchi, ovvero del fenomeno della gentrificazione, una strategia di crescita economica urbana globale, produce effetti drammatici nei luoghi dove le piattaforme atterrano: le città».

    In un contesto in cui il turismo è diventato «uno strumento di produzione di località per l’estrazione di valore dalla città-merce», la natura individualista di Airbnb, celata ad arte da una patina di retorica comunitaria incentrata sul suo permette alle persone comuni di «arrotondare e restare nelle loro case», finisce per essere «uno strumento di accumulazione di profitti e di concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi proprietari assenti che affittano le case a turisti di passaggio, portando al rialzo i valori immobiliari e i canoni di locazione, alla contrazione dell’offerta di case in affitto, e dunque all’espulsione del ceto medio e basso dai centri urbani».

    Sarah Gainsforth si propone pertanto di svelare la retorica fasulla di Airbnb liberando «il campo dalle mitologie che accompagnano e legittimano l’avanzata del capitalismo delle piattaforme, radicate nella mentalità americana, su cui la favola di Airbnb si innesta». All’interno di un contesto che continua imperterrito a propagandare i miti dell’american dream, del self-made man e del paese delle pari opportunità, il sogno di possedere una casa, per milioni di americani, ha dovuto fare i conti con le politiche neoliberiste e con il mantra ripetuto che vuole motiva l’aumento delle diseguaglianze con l’ideologia del merito individuale. «Il mito del pioniere alla conquista delle terre selvagge, che diviene il libero imprenditore alla scoperta della frontiera dello spazio digitale. Il mito del creativo, a cui l’ideologia dell’innovazione capitalista accredita molto più merito del dovuto per le immense ricchezze accumulate grazie alle imprese collettive di molti».

    Se la favola di Airbnb, sostiene Gainsforth, parte da San Francisco, la sua vera origine va ricercata nei capitali di ventura della Silicon Valley, il cui ecosistema innovativo «alla base del successo delle piattaforme digitali, è il frutto di decenni di ricerche finanziate con fondi pubblici e del lavoro di milioni di lavoratori invisibili, quelli dell’industria tecnologica e dei settori dei servizi, che costituiscono l’infrastruttura fisica dove “l’innovazione” può avvenire, le città».

    La concentrazione di ricchezza accumulata dal capitalismo del settore tecnologico ha creato negli Stati Uniti veri e propri monopoli digitali con «circoli chiusi di investitori che si tramandano ereditariamente la ricchezza [che] rendendo invivibili le città per coloro che le abitano e le mandano avanti». È proprio a San Francisco, città dagli affitti vertiginosi, che si è strutturata la resistenza ad Airbnb a partire dalle lotte delle organizzazioni per il diritto all’abitare ed è da quell’esperienza che l’autrice parte per raccontare alcuni casi esemplari di resistenza sociale contro la gentrificazione digitale delle città.


    1. Dati riportati nell’articolo di Stefano Galeotti, Airbnb, da Bologna a Napoli gli affitti brevi “sfrattano” famiglie e studenti. “Il padrone di casa triplica il canone, andiamo in periferia”, Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2020. 

    ]]>
    Tutta mia la città: appunti dalla mobilitazione di Centocelle https://www.carmillaonline.com/2019/12/21/tutta-mia-la-citta-appunti-dalla-mobilitazione-di-centocelle/ Sat, 21 Dec 2019 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56513 a cura di Azione Antifascista Roma Est

    [Si è deciso di ripubblicare qui un intervento relativo ai fatti ed alla mobilitazione di Centocelle a partire dai roghi dei locali, in particolare della libreria La pecora elettrica e del Baraka Bistrot, che hanno posto il quartiere romano sotto i riflettori della stampa nazionale. Pur essendo passata la prima ondata di attenzione per gli avvenimenti specifici, ci sembra interessante riportare un documento che costituisce più un’analisi politica che una narrazione degli eventi e che, proprio per tale motivo, può rappresentare un utile strumento di riflessione metodologica e tattica per gli odierni movimenti [...]]]> a cura di Azione Antifascista Roma Est

    [Si è deciso di ripubblicare qui un intervento relativo ai fatti ed alla mobilitazione di Centocelle a partire dai roghi dei locali, in particolare della libreria La pecora elettrica e del Baraka Bistrot, che hanno posto il quartiere romano sotto i riflettori della stampa nazionale. Pur essendo passata la prima ondata di attenzione per gli avvenimenti specifici, ci sembra interessante riportare un documento che costituisce più un’analisi politica che una narrazione degli eventi e che, proprio per tale motivo, può rappresentare un utile strumento di riflessione metodologica e tattica per gli odierni movimenti di resistenza e organizzazione sui territori.]

    Quello che sta accadendo a Centocelle da alcune settimane ha colto tutti di sorpresa, dai tg nazionali ai politici improvvisamente vicini alla popolazione, dagli abitanti fino a noi militanti di zona e non solo.
    Certo l’idea di un quartiere sotto l’attacco del fuoco di un nemico dai contorni sfumati lascia ampio margine a scoop, fantasticherie, dichiarazioni stampa e sussurri da bar. Ma ancora di più si vede che è attrattiva la capacità di un territorio di fornire risposte forti e determinate, quando si trova a reagire ad una palese aggressione alla sua incolumità. Due cortei, convocai nell’arco di tempi strettissimi, con una partecipazione non solo estremamente numerosa (circa duemila persone al primo appuntamento, circa cinquemila al secondo) ma anche variegata, meritano evidentemente di essere analizzati.
    Noi siamo stati tra i primi a lanciare la mobilitazione e tra i primi a restarne sorpresi, non lo diciamo qui per arrogarci un qualche merito, ma crediamo utile condividere quanto abbiamo visto, sperimentato e colto come indicazioni da questa serie di eventi, che travalicano di molto la questione strettamente contingente dei locali incendiati producendo di fatto un’eccedenza. Quello che segue non è allora la nostra agiografia di una mobilitazione di cui stiamo ancora capendo i contorni, ma dei piccoli spunti che, almeno per noi, sono grandi lezioni di politica.

    Cerca gli amici
    Il nostro quartiere è un grosso quadrilatero con una lunga storia operaia e resistenziale, borgata popolare, covo di rivoltosi e banditi d’ogni risma, che tutt’ora, nonostante le trasformazioni urbane, vanta una radicata presenza di collettivi, spazi sociali, comitati, associazioni e reti organizzative. Uno dei primi percorsi che abbiamo intrapreso tempo fa, da gruppo politico antifascista quale siamo, è stato tessere un legame tra tutte le realtà che ci erano più vicine. Con esse è nata una rete antifascista territoriale, che ci ha permesso di stare sulle piazze e sviluppare una serie di iniziative sociali, nonché di ridare vita allo storico corteo del 25 aprile; abbiamo sopperito alla mancanza di forze di ciascuno unendoci come e quando possibile, a partire da un’analisi comune ma soprattutto da una condivisione di un metodo e di alcune pratiche. Lo abbiamo fatto mettendo da parte quell’attitudine movimentista, a guardare gli altri con sospetto, come fossero la concorrenza sleale della propria bottega, facendo un passo indietro davanti a differenze ideologiche spesso stridenti e scrollandoci di dosso, non senza fatica, la pretesa di stare sempre nei nostri panni rigettando quelli altrui.
    Si dirà che una rete così eterogenea e centrata sull’antifascismo è poca roba, che non ha la possibilità di andare granché lontano o darsi chissà quale progettualità e forse è anche vero. Ma possiamo dire, ora con assoluta certezza, che mettere a valore (e non da parte) le diversità, partire dai limiti e intavolare ambiti di discorso franchi e costruttivi è un metodo che paga, che aumenta le capacità e che sedimenta una forza comune spendibile secondo le diverse occasioni o necessità.
    Senza questa tensione a fare rete, non ci sentiamo sicuri di dire che l’appello alla piazza, fatto dalla mattina alla sera sull’onda dell’emergenza, avrebbe avuto lo stesso effetto; né crediamo che sarebbe stato possibile mantenere una relazione dopo l’accaduto con tutte le persone che abbiamo incontrato. Un conto è fare rete tra piccoli gruppi antifascisti, o connettere le realtà militanti presenti nello stesso quadrante della città; altro conto è riuscire a interagire con realtà territoriali, che agiscono su vari temi, anche molto diverse da noi e tra loro, come il comitato dei cittadini per la cura del parco, l’associazione dei commercianti o i genitori che si organizzano per occuparsi a vicenda ed in comune dei loro figli. Si tratta di esperienze organizzative diverse che per noi, però, rappresentano in egual modo ambiti di sperimentazione di quello, che durante i vari festival antifascisti fatti in giro per l’Italia dall’ anno scorso, abbiamo chiamato “antifascismo sociale”.

    Esci dal guscio
    Se ci siamo trovati spiazzati la sera del 6 novembre quando Piazza dei Mirti era strapiena di gente prima ancora dell’orario dato per il concentramento, figuratevi quando ci siamo trovati dopo il rogo del Baraka, a due giorni dalla prima Passeggiata, davanti ad una platea di abitanti che, non solo rifiutava compatta l’uso delle forze dell’ordine come soluzione del problema, ma si autoconvocava per il giorno successivo in un centro sociale, in cui molti non erano nemmeno mai stati (e questo a prescindere, di fatto, dalla stessa componente militante), per capire come portare avanti una mobilitazione a difesa della propria comunità.
    Duecento persone di domenica pomeriggio hanno deciso di impiegare il loro giorno di riposo per stare oltre tre ore a parlare con degli sconosciuti di come fare fronte comune ad una minaccia concreta. Ne sono emerse posizioni differenti, idee contrastanti, visioni del mondo e del quartiere che difficilmente si sarebbero parlate altrove. Ma il vero dato comune uscito fuori, oltre le rivendicazioni particolari e l’ovvia attenzione verso quanto accaduto nei giorni precedenti, è stato il netto bisogno di confrontarsi: ciò che si coglieva in quell’assise era la volontà di ciascuno di uscire dal proprio guscio, di parlare con altri simili, di sentirsi parte di una comunità, di curare un aspetto della vita che è quello collettivo. Lo diciamo senza retorica: il bisogno esistenziale di sentirsi parte di qualcosa è molto più materiale e concreto di quanto possiamo credere. Ma come è possibile che da un giorno all’altro si siano spezzati il meccanismo della riserva indiana che vede i militanti rinchiusi nei propri spazi e nelle proprie certezze e l’indifferenza metropolitana che vede ognuno per sé e Dio per tutti? Come è accaduto che ci si sia trovati a discutere di negozi minacciati dalla malavita, di parchi sporchi e non illuminati, di centri sociali sotto sgombero e di riuscire a trovarsi d’accordo? Vero è che l’emergenza fa la famiglia ma, anche rispetto alle emergenze è bene assumere un comune atteggiamento ed una comune inclinazione: mettersi in ascolto, porsi in sintonia, ricercare un linguaggio comune senza imporre il proprio, mettersi in relazione con il territorio e con i bisogni condivisi di chi lo abita come noi. Insomma, scendere dal piedistallo prendendo parte e sentendosi parte, seppur da una chiara prospettiva di parte. Evidentemente, nello sforzo di fare rete e smussare gli spigoli di ciascuno, ci siamo educati (probabilmente anche in modo inconsapevole) ad avere un approccio laico alle cose della vita, a prendere ciò che il presente ci offre con minor ideologia e maggior pragmatismo. Avremmo potuto ignorare il bisogno di sicurezza classificandolo come istanza reazionaria, l’esigenza di parchi puliti e illuminazione catalogandola come velleità cittadinista, avremmo potuto misconoscere le indicazioni che il contesto presentava e tirare dritto per la nostra strada fatta di granitiche certezze e formule comode. Siamo riusciti invece a fare un passo indietro rispetto a noi stessi, mettendo da parte le nostre tipiche formule discorsive, le meccaniche di movimento, le posture da veterani del conflitto sociale e ci siamo posti all’ascolto, alla ricerca di un rapporto osmotico col territorio prendendo ogni spunto per quello che era: la legittima istanza di chi abita e vive il quartiere di Centocelle. Le persone che erano in piazza nelle due Passeggiate e che si sono sedute nelle assemblee di questi giorni hanno a cuore il loro quartiere e la loro comunità, è all’interno di questi elementi che esistono mondi interi: dagli spazi sociali sotto sgombero ai consultori chiusi, dalle vertenze lavorative ai parchetti puliti, dagli asili nido che mancano, ai migranti additati come capro espiatorio di tutti i mali del mondo, alla gentrificazione e giù fino ai commercianti in rosso. Abbiamo qui un inventario di lotte avviate o potenziali che aspettano di essere amplificate da un discorso comune ed ognuna di queste è in grado, in potenza, di innescare una reazione a catena una volta costruita una cornice di mutuo riconoscimento e una volta sviluppato un metodo di mutuo appoggio.
    Come antifascisti, per essere un po’ più chiari, se avessimo parlato in assemblea di fascismo sistemico o di come il sovranismo stia prendendo piede nel mondo, avremmo trovato davanti una platea di sbadigli e occhi che roteano nervosamente cercando la via di fuga. Abbiamo capito infatti che non sempre il nostro punto di vista, se non declinato a partire dalle istanze sociali reali e dai bisogni materiali effettivi, riesce ad essere messo a fuoco. Parlando invece di un quartiere da difendere, di una comunità resistente da costruire, di un territorio da sottrarre alla militarizzazione, alla paranoia securitaria o alle passerelle elettorali piuttosto che alle ronde dei fascisti ci siamo messi in sintonia con molti altri.
    Non siamo dei geni, non abbiamo avuto e non abbiamo tuttora la ricetta vincente, ma abbiamo dialogato con tante persone tutte diverse tra loro e da noi, quelle che spesso e volentieri ci sembrano così lontane, scoprendo che invece ci si intendeva perfettamente.

    Drizza le orecchie
    Possiamo dirlo, nell’epoca dell’indifferenza, l’ascolto è una virtù rivoluzionaria. E la frase ha più significati (escluso quello morale e cristiano che non ci interessa). Anzitutto combattere contro un nemico invisibile, come lo si chiama sui giornali adesso, impone una maggiore consapevolezza, non di meno, trovarsi di fronte ad una mobilitazione che giunge inaspettata rende imprescindibile sviluppare un’idea minimamente strategica. Usciti da una prima fase emergenziale non possiamo limitarci alle nostre ipotesi, quando diciamo che dobbiamo entrare in rapporto osmotico col territorio ed ascoltare le indicazioni che offre, questo intendiamo: dai nostri spazi e dalle nostre condizioni di vita non possiamo dare per scontato tutto ciò di cui ha bisogno un territorio, né le dinamiche peculiari che ne determinano le evoluzioni. Possiamo conoscerne il funzionamento generale e coglierne le necessità generali, ma non riusciremo mai ad operare un’azione capillare ed efficace se non mettiamo in moto l’intelligenza collettiva che raccoglie insieme i vissuti, le competenze e le conoscenze dirette di una molteplicità di attori che vivono e animano il contesto di riferimento. Tutti i frammenti che possiamo cogliere alla rinfusa sulla strada vanno messi a sistema in un caleidoscopio capace di offrire una visione stratificata e multiforme del campo d’azione.
    Se questo si fa raccogliendo e ascoltando, un ulteriore passaggio si impone come necessario e conseguente: la centralità dell’inchiesta e del suo metodo diventano imprescindibili nel momento in cui si vogliano trasformare, secondo un ordine di priorità condiviso, i bisogni in un processo di lotte territoriali, in cui il piano dell’aggregazione viene spingendosi sul bordo della conflittualità sociale. L’utilità di un’inchiesta territoriale del resto, per noi, non è solo quella di sviluppare una capacità di cogliere la complessità del presente, quanto più quella di saper anticipare i processi, le tendenze e le trasformazioni in atto per uscire dalla dinamica emergenziale e resistenziale riuscendo invece a prevenire ed agire tempestivamente il reale.
    Una comunità resistente deve sviluppare la capacità di individuare i suoi bisogni e di metterli a sistema, di comprendere qual’è lo spettro di indizi, quali sono i macroprocessi in atto che determinano una situazione specifica, quali le esigenze che emergono come prioritarie e come provare a soddisfarle, quali sono i suoi amici, quali i potenziali nemici, quali i metodi, i linguaggi, gli obbiettivi, ma soprattutto quali i mezzi e gli strumenti di cui si dota per raggiungerli.
    È solo nella capacità di ascoltare e cogliere senza pregiudiziale ideologica ciò che il presente offre come campo di battaglia, che si possono operare fratture rispetto alla dilagante pacificazione sociale e aprire alle possibilità di trasformazione antagonista, senza paura di fallire o uscire dal nostro seminato. È necessario mettersi nelle condizioni di praticare l’impensabile, di essere dove nessuno si aspettava di trovarci e di farlo in maniera inedita ed anche spregiudicata se necessario.

    Cogli l’occasione
    Sapevamo benissimo, la mattina del rogo alla Pecora Elettrica, che si sarebbe scatenata una querelle di giornalisti, di politicanti, tuttologi, opinionisti e fascisti. E sapevamo che se non facevamo qualche cosa il discorso securitario avrebbe preso il sopravvento e ci avrebbe travolto con tutto il suo stuolo di cacce al “negro”, di ronde antispacciatori, di polizia e militari, di coprifuoco e telecamere. Del resto, un minimo di conoscenza del territorio, dei sentimenti e delle pulsioni latenti, della popolarità di cui godono alcune istanze reazionarie (si pensi al successo di Lega e Fratelli di Italia nel V Municipio alle ultime elezioni) anche nel quartiere di Centocelle, ci hanno permesso di giocare di anticipo. Si imponeva la necessità di difendere il nostro quartiere da quest’esondazione sempre più frequente di fascismo diffuso e sistemico. Si imponeva la necessità di riflettere e di agire quella temporalità che ci viene imposta dai ritmi frenetici della contemporaneità occidentale, in cui oltre a subire un quotidiano bombardamento mediatico sui fatti di cronaca, veniamo spesso sovrastati dagli eventi rispetto ai quali abbiamo difficoltà ad esprimerci e a prender parte. Agire in maniera efficace a partire da problemi sociali richiede, però, un certo tempismo e una certa puntualità dell’azione rispetto al sorgere di determinate questioni. Abbiamo allora chiamato a raccolta per una Passeggiata di Autodifesa, piuttosto che ad un corteo di solidarietà o altro, e lo abbiamo fatto in modo spontaneo e naturale di fronte alle telecamere, in giro per i bar e sulle chat di zona. Ci è venuto quasi automatico chiamare così la nostra modalità di stare in piazza, perché era di questo che sentivamo il bisogno come rete territoriale, ma questo sapevamo che era anche il bisogno delle persone intorno a noi.
    Proprio per un approccio laico alle cose, abbiamo intuito (e non certo da soli né per primi) che quello della sicurezza è ormai un bisogno assodato, per quanto sia sicuramente un bisogno indotto o quantomeno amplificato dalla retorica politica e dalle campagne di isteria di massa dei media mainstrem. Inutile starci a dire quanto sia reazionario come discorso, di come sia il cavallo di battaglia della peggior destra e lo sdoganamento della guerra ai poveri. Tutto vero, ma è anche vero che il bisogno di sentirsi sicuri fa parte non solo della specie umana, ma di qualsiasi animale con un minimo di istinto di sopravvivenza e se il nemico ne ha fatta la sua bandiera ovunque, forse è bene levargliela di mano o quantomeno rendergli difficile usarla.
    Nel camminare per strada dietro lo striscione Combatti la Paura, Difendi il Quartiere ci siamo attirati gli strali dei benpensanti che ci hanno dipinto come sceriffi allo sbaraglio, la critica di quella parte di movimento che vede l’autodifesa come una pratica contraddittoria e stridente rispetto ad una certa ideologia. In molti, tra cui anche gli amici, ci hanno guardato come si fa con un incorreggibile nipote che ripete l’ennesimo errore senza mai ascoltare i buoni consigli. Ma per noi, che ragionavamo su questo tema ormai da tempo insieme a molte realtà del territorio e ad altre diffuse in tante città italiane, si è trattato di agire per riempire uno di quei tanti vuoti politici a cui sono abbandonate le istanze sociali. Perché il vuoto quando non è organizzato, è sempre reazionario e viene colmato dal nemico. E dietro quello striscione c’era un intero quartiere, in tutte le sue più insospettabili componenti. Non abbiamo seguito nessun copione rodato ma evidentemente un’intuizione che, elaborata nel tempo ma agita tempestivamente, ha saputo incidere sulla percezione della realtà.
    Siamo stati spregiudicati e abbiamo, volenti o nolenti, sparigliato le carte in tavola. Chi si aspettava di trovarsi una marcia per la pace e la solidarietà o, al contrario, una fiaccolata per la sicurezza e la segregazione, è rimasto deluso o allibito.
    Tramite la difesa del quartiere abbiamo fatto capire molto chiaramente che non è accettabile, non solo che le vite di chi ci lavora o ci abita vengano messe a repentaglio da attività criminali di qualsiasi natura, ma anche che i processi di speculazione e messa a profitto incontrollata dei territori sul libero mercato e parimenti la militarizzazione delle strade, non siano soluzioni ma problemi enormi da cui difendersi. Centocelle è un quartiere con un suo tessuto popolare vivo e pulsante, è molto di più che una piazza di spaccio o una zona di struscio come dicono in tanti.
    È quella dimensione comunitaria e resistente che vogliamo curare, proteggere e far crescere. Per questo diciamo che la sicurezza del territorio la fanno gli abitanti che lo vivono e si organizzano, che l’unica sicurezza possibile è la vivibilità di un territorio dove gli abitanti decidono del loro destino, dove non abita la paura e dove lo Stato piuttosto che proporre posti di blocco dovrebbe rispondere ai bisogni e alle necessità di chi lo abita. Ed avevamo ragione, perché se le istituzioni hanno risposto a questa chiara e diffusa presa di posizione blindando il quartiere e facendolo sembrare una zona di guerra con pattuglie e blocchi ovunque, gli abitanti hanno risposto puntualmente per strada e nei tavoli istituzionali che non è questo che ci interessa, che l’unica soluzione possibile è la costruzione di territori a dimensione umana. Non solo, di fronte alla sordità, all’incompetenza o ai tentennamenti dei rappresentanti delle istituzioni, si è reso evidente e lampante a tutti che l’unico modo per interagire ed ottenere risultati è la mobilitazione ad oltranza, la costruzione in autonomia di comunità resistenti in grado di determinare le scelte di campo.
    Sempre in modo poco ortodosso abbiamo rotto un altro dei nostri grandi tabù da compagni, il rapporto con la stampa.
    Ci siamo sovraesposti ai riflettori dei media mainstream in maniera forse spudorata ma consapevole. Di fronte all’imponenza della mobilitazione e all’attenzione mediatica, abbiamo colto la possibilità di inquinare il discorso mainstream ed imporre, per quanto possibile, la nostra narrazione al grande pubblico. Se in altri tempi avremmo cacciato i giornalisti dal corteo o ci saremmo limitati a guardarli male, questa volta ci siamo messi a favor di telecamera e l’abbiamo fatto in modo che sui giornali e nei tg si fosse costretti a guardare uno slogan di parte, a sentire le nostre voci e la nostra lettura della realtà. La televisione ha dovuto mostrare le bandiere rosso nere in testa ai cortei ammettendo, un po’ mestamente, che erano gli spazi sociali e gli antifascisti ad aver accolto la mobilitazione del territorio. Potevano parlare solo di pusher e polizia, sono stati costretti a parlare anche di comunità resistenti e tutta la penisola ha dovuto ascoltare e vedere quanto accaduto dalla prospettiva di chi lo ha veramente vissuto e non solo da quella distorta di chi vuole manipolare la realtà per imporgli il suo significato. La costruzione di immaginari vincenti passa anche e soprattutto attraverso la capacità di egemonizzare il discorso pubblico e che né Salvini né la Meloni, o chi per loro, abbiano speso una sola parola sulla situazione è indicativo dell’importanza della narrazione.
    Del resto, viviamo un’epoca in cui l’immagine, la rappresentazione e la propaganda mediatica da strumenti del fare politica sono divenuti la politica stessa. E’ un dato di fatto con cui dobbiamo fare i conti. Tutto ciò che facciamo, perde forza ed efficacia se non siamo in grado di raccontarlo come vogliamo e crediamo noi. La propaganda tramite l’azione ci rende vulnerabili alla narrazione del nemico, l’assenza di propaganda ci rende invisibili. L’azione, la sua messa a sistema e la capacità di narrarla autonomamente, sono elementi basilari per la costruzione di una prassi efficace.
    Dinnanzi alle precipitazioni del presente ci sono poche discussioni da fare, è necessario cogliere le occasioni appena si danno, occupare tutti gli spazi disponibili e imporre una narrazione di parte. Si è agito sempre nell’ottica di costruire una forma di resistenza a partire da un atteggiamento inclusivo, volto alla condivisione e all’ascolto. Non abbiamo seguito alcuna regola e forse ne abbiamo infrante alcune, ma…

    Guarda lontano
    È d’obbligo, in ultima istanza, comprendere che, oltre l’emergenza imposta ed affrontata, diventa ora fondamentale cogliere gli aspetti generali e macroscopici del discorso e delineare le traiettorie future.
    Quello che è accaduto in questi giorni non è che una precipitazione assai grave e visibile di un processo di trasformazione che sta investendo Centocelle, ma che ci parla di una tecnica di governo dei territori riproposta in Occidente ormai su scala globale, non di meno, ci indica ciò che potenzialmente si agita in seno ad una comunità in divenire orfana di prospettive ed orizzonti riconoscibili.
    Da quartiere popolare periferico come tanti, con l’inaugurazione della metropolitana e la più generale riqualificazione del quadrante est della metropoli, Centocelle ha visto modificare la sua geografia e il suo tessuto sociale molto velocemente: le principali piazze sono state completamente ristrutturate; nuove e più attrattive attività sono nate sul territorio, dai franchising ai fast food più commerciali, alla proliferazione di locali e boutique per la movida o lo shopping “alternativi”; una popolazione giovanile fatta di studenti e lavoratori precari si è trasferita a convivere con la popolazione autoctona dopo che i quartieri di San Lorenzo e Pigneto hanno subito una gentrificazione tale da rendersi sempre più elitari ed inaccessibili. Centocelle è oggi un quartiere in piena crescita e questo, oltre offrire possibilità di sopravvivenza e socialità a molti, attrae le avide attenzioni di affaristi, imprenditori e speculatori di ogni risma.
    Dal canto suo, l’amministrazione cittadina (non solo Cinque Stelle) ha assunto una certa idea di “riqualificazione” dei quartieri come politica di governo e gestione della città. Ha favorito un modello gestionale tutto volto ad incentivare l’iniziativa economica privata, trascurando quasi del tutto le istanze ed i bisogni sociali di chi i territori li abita, così sventrando interi quartieri, trasformati in centri commerciali a cielo aperto, ed alimentando macroscopiche periferie sempre più amorfe e deprimenti, prive di spazi e riferimenti per la vita collettiva.
    Si aggiunga a ciò che tutte queste trasformazioni avvengono all’insegna dell’ideologia del decoro, della lotta al degrado, traducendosi in una continua e pervicace militarizzazione dei territori che inonda le strade di forze armate acuendo una spirale di bisogni inevasi, tensioni interrazziali portate alle stelle, intimidazioni, stigmatizzazioni, espulsione e repressione di quei soggetti spinti sempre più al margine della società. Così, si approfondiscono in ogni territorio quelle micro-fratture che si fanno sempre più violente, fino a diventare una sorta di guerra civile a bassa intensità.
    Crediamo che la risposta popolare che si è prodotta in queste settimane, sia non solo una dimostrazione di solidarietà attiva a coloro che hanno subito personalmente degli attacchi materiali ed intimidatori, ma che abbia aperto un vaso di Pandora che ha sprigionato energie rimaste a lungo compresse. Energie che si concretizzano, ora, nella volontà di organizzarsi assieme per far fronte alle comuni necessità. È chiaro a chi è sceso in strada, che il problema non è solo la malavita, ma la speculazione su questa città, l’amministrazione che la veicola, lo Stato che non offre soluzioni ma pattuglie e passerelle pubblicitarie, la distruzione delle comunità locali a favore del profitto di grandi ed oscuri interessi. C’è ora il bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di costruire delle comunità che abbiano la possibilità di contare davvero e poter fare la differenza all’interno del proprio contesto. Si è vista la forza che è in grado di catalizzare su di sé una mobilitazione reale e sentita.
    Non è un caso che dalla mobilitazione emergenziale ed emotiva, nata a partire dai roghi, è nata una Libera Assemblea dalla composizione ampia ed eterogenea. Un ambito di discussione e di organizzazione che vede uniti assieme abitanti, lavoratori, ristoratori, militanti, genitori e tanto altro. L’idea dell’autodifesa ha evidentemente coinciso con la possibilità di organizzarsi per poter decidere sul territorio e sulle proprie vite, quindi, con un’idea di autodeterminazione. La libera assemblea di Centocelle è pertanto un ambito che può crescere, radicarsi ed essere potente, solo finché ogni anima che lo compone avrà spazio per muoversi come più gli è congeniale. Se rimane, cioè, un luogo in cui sperimentare, condividere e contaminarsi a partire dalle specificità di ciascuno, mettendo in comune capacità organizzative e saperi militanti. Un contesto, per noi, da attraversare con lo stesso atteggiamento inclusivo, di condivisione e di ascolto proposto finora, che si ponga in un rapporto osmotico con i diversi bisogni e le diverse istanze di chi lo attraversa. Un ambito di relazioni che è necessario difendere da speculazioni varie, tutte volte a capitalizzare politicamente una comunità che viene, in senso elettorale e non.
    Da parte nostra intendiamo attraversare questo spazio dalla nostra prospettiva di parte, muovendoci dentro ed attorno ad essa per costruire una comunità resistente che sappia essere determinante all’interno del processo di trasformazione che interessa il quartiere, a partire dai bisogni condivisi di chi lo abita. Una comunità resistente che sappia sviluppare un metodo, un linguaggio ed un immaginario comune per individuare con chiarezza i propri obiettivi e, ancora, rispetto a questi che sappia elaborare una “tattica di lotta multiforme”: ossia la capacità di esprimersi ed agire direttamente sui problemi che il presente impone, senza escludere aprioristicamente o ideologicamente alcun tipo di pratica, tenendo in considerazione invece le differenti sensibilità di cui si compone. Una comunità resistente che abbia la capacità di mettersi in relazione con altre comunità locali in lotta e che sappia concepire tutti i conflitti particolari come parte di una lotta complessiva entro cui riconoscersi e da cui trarre forza.

    Combatti la paura, difendi il quartiere!

    p.s. A tutti quei compagni che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e con cui abbiamo avuto la fortuna di ragionare e riflettere negli ultimi tempi. Consapevoli che senza di voi, senza i ragionamenti e le esperienze con voi condivise non avremmo avuto la stessa capacità, forza e determinazione per affrontare questo particolare momento e soprattutto di provare a resistere al buio e superare la notte. Nella speranza che arrivi il giorno in cui godersi l’aurora insieme…Grazie!

    ]]>