Genova 2001 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dalla Pantera al populismo, ovvero il détournement dei movimenti sconfitti https://www.carmillaonline.com/2025/01/18/dalla-pantera-al-populismo-ovvero-il-detournement-dei-movimenti-sconfitti/ Fri, 17 Jan 2025 23:20:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86067 di Fabio Ciabatti

Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, pp. 180, € 16,00

I movimenti sociali che vanno dalle occupazioni universitarie della Pantera al movimento no global, passando per il ciclo dei centri sociali, si configurano come una protesta debole che, in quanto tale, può consentire di rintracciare una possibile genealogia della protesta populista “di sinistra”. Una tesi, quella di Alessandro Barile, che non manca di originalità e che, anche per questo, merita di essere conosciuta e valutata. Per comprendere fino in fondo quanto sostiene l’autore nel suo recente [...]]]> di Fabio Ciabatti

Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, pp. 180, € 16,00

I movimenti sociali che vanno dalle occupazioni universitarie della Pantera al movimento no global, passando per il ciclo dei centri sociali, si configurano come una protesta debole che, in quanto tale, può consentire di rintracciare una possibile genealogia della protesta populista “di sinistra”. Una tesi, quella di Alessandro Barile, che non manca di originalità e che, anche per questo, merita di essere conosciuta e valutata. Per comprendere fino in fondo quanto sostiene l’autore nel suo recente libro La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003) bisogna prima di tutto capire cosa si intende con genealogia. In breve, non si tratta di una filiazione diretta, ma di

un rapporto più distante e profondo, magmatico, che avviene a livello inconsapevole sul piano dell’ideologia spontanea dei movimenti, che sedimenta un modo di intendere la politica che, alterato dalla crisi economica e finanziaria degli anni dieci del Duemila e riformulato da nuovi protagonisti (e “imprenditori”) della politica, consente di ricavare un legame di parentela.1

In secondo luogo, bisogna capire il significato di “protesta debole”. Cosa che è possibile fare paragonandola alla protesta che può essere considerata forte, cioè quella innervata nella tradizione marxista e comunista, con particolare riferimento al movimento degli anni Settanta. Raffronto che non è una mera sovrapposizione di due periodi storici differenti operata estrinsecamente dallo studioso, perché il riferimento a quegli anni è un tema ricorrente nella stessa riflessione dei movimenti successivi, sebbene tale confronto si esprima spesso attraverso una dinamica di attrazione e repulsione. Ebbene, la forte componente di identificazione ideologica, la capacità di sedimentazione organizzativa, il legame tra politica e collocazione di classe, la chiara connotazione rivoluzionaria e anticapitalista sono tutti elementi che mancano nei movimenti degli anni Novanta e dei primi Duemila e che invece troviamo negli anni Settanta, quantomeno nelle intenzioni.  

A partire dalla Pantera e proseguendo nel ciclo dei centri sociali, infatti, si delinea la tendenza a una frattura con la memoria storica che però non sembra consumarsi fino in fondo. Piuttosto il risultato, in generale, è “quello di rivendicare un’autonomia delle scelte, delle pratiche, delle idee, di una nuova generazione che sente di poter camminare sulle sue gambe forte di una tradizione a cui si appartiene ma non costretta in essa”.2
Un certo grado di separazione dal passato è inevitabile, secondo Barile: “La politica in senso novecentesco non poteva sopravvivere alla fine della società organica e di massa, di cui un certo modo di fare politica era espressione”.3 La fine del fordismo classico, dell’interventismo statale in senso genericamente keynesiano e la dissoluzione dell’Unione Sovietica fanno venire meno, contemporaneamente, i riferimenti materiali e ideologici della “protesta forte”. La mobilitazione sociale, dunque, seguendo lo spirito dei tempi, si organizza attraverso reti più agili diventando più vulnerabile e, al tempo stesso, più attraente. L’indebolimento dei canali di identificazione ideologica, infatti, permette ai movimenti di connettersi ai “sentimenti del disincanto” generati negli anni Ottanta contribuendo ad un fenomeno sociale attestato dalla ricerca empirica ma ignorato dal senso comune: in Italia, come nel resto d’Europa, dopo gli anni Settanta la protesta è divenuta un fattore strutturale della società, aumentando progressivamente nel corso degli anni. A mutare sono le forme di coinvolgimento politico e i soggetti che si mobilitano, con un innalzamento dei livelli di reddito e di istruzione delle persone che prendono parte a modalità non convenzionali di attivismo. 

Attivismo è un termine  che, non a caso, sostituisce quello più tradizionale di militanza, sospettato di evocare una modalità del coinvolgimento politico totalizzante, impersonale, irreversibile e “sacrificale”. La parola militanza, inoltre, porta con sé una connotazione militaresca che richiama lo spauracchio della violenza politica degli anni Settanta, continuamente agitato dalle classi dirigenti e dai media mainstream. Nell’incessante evocazione di questo demone la vera posta in gioco, nota giustamente Barile, non è la violenza in quanto tale, ma la dimensione conflittuale della politica. Cioè la sua capacità di essere fino in fondo e coerentemente, da un punto teorico e pratico, antisistema e non semplicemente anti-establishment.
Questa continua pressione sui movimenti ha avuto il suo peso nella perdita di vigore della variegata modellistica marxista sostituita, spesso inconsapevolmente, da una cornice interpretativa che l’autore indica come risalente a Karl Polanyi. In sostanza, a essere oggetto di contestazione non è più il capitalismo in quanto tale, ma una sua configurazione particolare che può essere variamente identificata come neoliberismo, globalizzazione, unipolarismo ecc. In altre parole quel tipo di capitalismo che può esplicare la sua logica senza freni e contrappesi, svincolato da qualsivoglia regolazione politica e statuale.
Uno dei portati di questa situazione è il dibattersi dei movimenti tra una dimensione oggettivamente riformista e una pratica spesso radicale, come la difesa dei spazi occupati, che produce anche una sedimentazione di immaginari controculturali, espressione di  settori giovanili, marginali, metropolitani, capaci di dare nuova voce a un sentire rivoluzionario o, forse, più semplicemente ribellistico. Si pensi, solo per fare un esempio, al fatto che i centri sociali diventano i luoghi di produzione della musica rap e reggae.
In breve si può dire che la debolezza della protesta consente di mettere in sintonia le nuove generazioni di militanti, pardon attivisti, con un milieu, soprattutto giovanile, che non avrebbe avuto la capacità di coinvolgere riproponendo i modelli politici degli anni Settanta. D’altra parte questa stessa debolezza non consente di venire a capo di una serie di problemi che si pongono di fronte alla prassi politica e che, volendo sintetizzare all’estremo, rappresentano l’articolazione di quel dilemma tra riformismo e radicalità cui abbiamo accennato. 

Cerchiamo di mettere a fuoco alcune questioni seguendo il filo cronologico dei movimenti. La occupazioni universitarie della Pantera, che durano circa due mesi all’inizio del 1990 seguendo a breve distanza l’occupazione in solitaria dell’Università di Palermo iniziata a dicembre dell’anno precedente, hanno l’innegabile pregio di mettere fine al lungo riflusso degli anni 80 e di denunciare con notevole tempismo i primi processi di privatizzazione dell’istruzione, intesa non solo come ingresso dei privati nella sua gestione ma anche come adozione di logiche privatistiche nell’amministrazione pubblica. Tuttavia la Pantera smobilita molto rapidamente dopo la fine delle occupazioni senza riuscire nel suo intento di far fuoriuscire la mobilitazione dalle sedi universitarie, dopo essersi incartata nella definizione delle procedure democratiche che dovevano presiedere all’assemblea nazionale di Firenze ma che, di fatto, consumano completamente la riunione plenaria del movimento, incapace di una qualsiasi sintesi politica.
L’energia scaturita da quella mobilitazione, però, dà nuova linfa a un processo, l’occupazione dei centri sociali, in verità già iniziato nel decennio precedente per opera, essenzialmente, dell’area dell’autonomia. Si tratta di un fenomeno politico che, in forza del suo radicamento territoriale, mostra una significativa durata e una importante capacità espansiva. Tuttavia non riesce a venire a capo della sua duplice natura, da una parte sociale con le sue istanze aggregative, ricreative, culturali e mutualistiche, dall’altra politica, con le sue ambizioni di ricostruire i legami tra i segmenti di una composizione di classe disgregata e multiforme.
Connesso a questo aspetto ce n’è un altro: l’occupazione e l’autogestione esprimono un’istanza di autodeterminazione contraria a ogni forma di delega e dunque alle modalità tradizionali, partitiche e sindacali, della politica. D’altra parte le già richiamate attività mutualistiche, che configurano in nuce una sorta di welfare dal basso in grado di sopperire al rapido deterioramento di quello statale, così come il tentativo di realizzare nell’ambito delle occupazioni attività in grado di procurare una forma di reddito, sono dinamiche che spingono alla ricerca di un riconoscimento e una collaborazione con le istituzione locali, sottraendo radicalità alle prassi e agli obiettivi politici.
Solcato da queste contraddizioni irrisolte, il variegato mondo dei centri sociali diviene una componente importante dell’ancor più multiforme movimento no global, non a caso denominato movimento dei movimenti, che vede la partecipazione, tra gli altri, del sindacalismo di base e di una parte di quello confederale e dell’associazionismo, anche di stampo cattolico. La contestazione della globalizzazione, che trova un immediato referente polemico nelle riunioni degli organismi multilaterali che la governano, lascia spazio a un’ambiguità di fondo: a essere contestata è la globalizzazione in quanto tale, intesa come ultima incarnazione in ordine di tempo del capitalismo, o solamente la globalizzazione nella sua versione neoliberista, selvaggia e non regolamentata? In altre parole il movimento è no global o piuttosto new global, perorando la causa di una globalizzazione dal basso nell’ambito di una rinnovata cittadinanza globale?

In qualche modo a Genova 2001 vengono al pettine una serie di nodi che si erano intrecciati durante tutto il decennio precedente. Un processo che era cresciuto velocemente dinamizzando la partecipazione politica si scontra frontalmente con l’apparato repressivo dello stato e non è in grado di reggere l’urto.

A quel punto, il catalogo di pratiche e di istituti fondati su tale sistema ideologico debole non sopravviverà al calo fisiologico della partecipazione. Alla rapida crescita seguirà un altrettanto veloce ripiegamento, che troverà tutta la sinistra spiazzata di fronte alla crisi economica che, a partire dal 2009, inciderà sulla materialità dei rapporti sociali anche in Italia.4

E con questo ci avviciniamo ai giorni nostri.

Il populismo – nella sua inafferrabile definizione – si presenta come il risultato ultimo della crisi dei movimenti sociali, ma anche come conseguenza di una serie di idee contenute in nuce nella protesta degli anni novanta e primi duemila.5

La contestazione della globalizzazione costituisce un immediato terreno comune tra movimento no global e populismo che si fa chiara espressione dei perdenti di processi di internazionalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. A dirla tutta l’atteggiamento del populismo configura un rifiuto più netto, laddove per il movimento dei movimenti la globalizzazione costituisce certamente un problema, ma, almeno per alcune sue componenti, anche un’opportunità. C’è anche una condivisa diffidenza nei confronti della politica e delle sue forme tradizionali, complice anche una certa fascinazione nei confronti delle tecnologie telematiche considerate come possibili strumenti per una disintermediazione della partecipazione politica. Si può inoltre registrare una condivisa connotazione anti-establishment che non si spinge fino al punto di diventare anti-sistema, non ponendosi l’obiettivo di un rovesciamento radicale dello stato di cose presenti
C’è, last but not least, un comune disancoraggio della politica rispetto alla condizione di classe e la connessa considerazione della pluralità come valore in sé. Il popolo come soggetto collettivo consente infatti di integrare nella protesta tutte le marginalità eccedenti i confini storici della classe operaia garantendole nella loro molteplicità. Dal lato del movimento no global, il soggetto collettivo viene spesso rappresentato come moltitudine, concetto molto diffuso grazie agli scritti di Hardt e Negri. Si tratta, secondo Barile, di un “camuffamento lessicale” rispetto al concetto di classe che soffre di una significativa indeterminatezza sociologica richiedendo, perciò, un’unificazione tutta politica delle molteplici soggettività. Sganciato dalla effettiva materialità dei rapporti produttivi il referente sociale si allarga a dismisura arrivando ad assomigliare a quel famoso 99% che gli Indignatos e Occupy Wall Street qualche anno dopo sosterranno di rappresentare. Un’idea che, a sua volta, per la sua eccessiva genericità, si presterà ad essere trasfigurata nell’altrettanto vago concetto popolo.

Nonostante queste significative consonanze, nota ancora l’autore,

vi è un tema decisivo che distanzia clamorosamente le due esperienze: la questione della sovranità statuale. Nella proposta populista “di destra” e “di sinistra” lo Stato è l’attore in grado di resistere ai processi di globalizzazione, l’arena entro cui riportare l’economia sotto il controllo della politica, lo spazio politico e amministrativo in grado di proteggere i cittadini dalla violenza incontrollata delle forze del libero mercato.6

Questa fondamentale distanza rende più difficile, per così dire, calcolare il grado di quella parentela tra populismo e movimenti che il testo cerca di descrivere attraverso il concetto di genealogia. Per questo può essere utile fare qualche riflessione aggiuntiva sul tema. Dal libro di Alessandro Barile emerge come nella “protesta debole” convivano in un precario equilibrio una serie di elementi che scaturiscono dal necessario tentativo di confrontarsi con un nuovo contesto. Protestare contro la globalizzazione senza scadere nel nazionalismo, criticare i meccanismi della rappresentanza politica senza senza finire nella braccia dell’antipolitica, cercare la ricomposizione di un corpo sociale frammentato senza pretendere di ridurre le molteplici soggettività a una forzosa unità: queste sono solo alcune delle questioni che sono state affrontate in maniera più o meno consapevole dalle nuove generazioni di militanti/attivisti. Contraddizioni in seno al popolo che mettono in moto la ricerca di una nuova sintesi, potremmo chiosare tra il serio e il faceto. Ogni tentativo in questo senso, però, è stato interrotto dalla sconfitta dei movimenti di quegli anni che si consuma a Genova nel 2001. E’ solo a questo punto che una nuova leva di politici può avere mano sufficientemente libera nello scegliere a proprio uso e consumo alcuni degli elementi presenti nel repertorio politico sedimentato dai movimenti degli anni precedenti. Ciò che nei movimenti era contraddittorio e per questo, in qualche misura, ancora fecondo, con il populismo diventa tristemente unilaterale.
Insomma, se di genealogia dobbiamo parlare sarebbe forse opportuno sottolineare maggiormente il momento della sconfitta come fase di passaggio dai movimenti al populismo. Non è certo la prima volta che la sconfitta di un soggetto collettivo fa da premessa al recupero di alcune delle sue istanze di liberazione nell’ambito di un progetto di nuova stabilizzazione dell’ordine capitalistico. E’ accaduto, per esempio, con il movimento del Settantasette. Quest’ultimo, giova ricordarlo, si era già contrapposto ai modelli pratici e ideali della sinistra storica, anche se, a differenza di quanto accaduto in tempi più recenti, lo aveva fatto in nome di un differente concezione di comunismo che nasceva, tra l’altro, in risposta alle prime avvisaglie di un indebolimento delle identità collettive di classe. La repressione di quel movimento, però, aveva aperto la strada ai modelli individualistici e consumistici che si sarebbero affermati definitivamente negli anni successivi riciclando surrettiziamente alcuni valori e comportamenti della gioventù rivoluzionaria del lungo Sessantotto, in particolare l’opposizione ad alcune forme di collettivismo, proprie della sinistra storica, che assumevano connotati oppressivi e omologanti. Una sorta di amara vittoria del détournement situazionista, destinata a ripetersi.7

Tornando a tempi più recenti, Barile non manca certo di menzionare l’importanza del frangente storico rappresentato dalla mattanza poliziesca del G8 di Genova nel 2001, ma forse questa vicenda avrebbe meritato maggiore attenzione. E’ singolare, notiamo di passaggio, che non venga fatta menzione dell’uccisione di Carlo Giuliani. E’ proprio attraverso i fatti di Genova, infatti, che giunge a compimento, sotto forma di un vero e proprio trauma generazionale, la messa in mora del conflitto quale forma essenziale della politica. Insieme alla crisi economica del 2008-9, che accelera fortemente il processo di impoverimento di larghi strati della popolazione, è il trauma di Genova a sgomberare la strada per l’affermazione del populismo grillino. Quest’ultimo non nasce certo per dare nuova linfa ai conflitti, oramai privi di una soggettività che ambisca a metterli in connessione nell’ambito di un progetto politico-sociale di ampio respiro, ma si propone come venditore di soluzioni di natura tecnica (se non propriamente tecnologica) offrendo un canale di sfogo a quella che veniva percepita come un’incipiente protesta a rischio di esplodere incontrollata (come ebbe a dire in un momento di rara sincerità Grillo stesso).8   
Il populismo, dal punto di vista della sua tonalità emotiva, può essere considerato come una rabbiosa reazione a un soverchiante senso di impotenza. Lo stesso senso di impotenza che è all’origine del trauma del G8 di Genova. Nonostante la forte partecipazione alle proteste contro le successive guerre in Afghanistan e Iraq, la mobilitazione risulta comunque sfibrata: “il movimento entrò nel moto spontaneo pacifista e non ci fu più violenza alcuna solo paura della violenza e da allora dopo le manifestazioni si lodavano i prefetti che non cercavano lo scontro li si pensava sindaci delle città”,9 ha sintetizzato efficacemente Massimo Palma in un testo di prose poetiche. Occorre superare quella paura, che poi, come già chiarito, significa in realtà sconfiggere il timore del conflitto in quanto tale. Da questo punto di vista il populismo non fa problema perché dà espressione alla rabbia sociale, ma perché cerca di incanalarla verso soluzioni tecnocratiche e/o autoritarie che impediscono, di fatto, l’attivazione di una reale soggettività collettiva. L’unico possibilità che abbiamo per decostruire nella pratica la pseudo collettività populista è riannodare la trama dei conflitti, riallacciando i fili di una storia interrotta, ma evitando di percorrere nuovamente quelle che si sono dimostrate strade senza uscita. E sarà bene farlo in fretta perché quello stesso mondo che pretendeva di rappresentarsi come libero dai conflitti oggi è preda di spasmi bellici sempre più incontrollabili. A tal fine il testo di Barile, ragionando in modo approfondito e politicamente orientato sui punti di forza e di debolezza di movimenti che ci hanno preceduto, può sicuramente rappresentare un utile strumento.


  1. Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, p. 8. 

  2. Ivi, p. 80. 

  3. Ivi. p. 16. 

  4. Ivi, p. 15. 

  5. Ivi, p. 132. 

  6. Ivi, p. 167. 

  7. Cfr. Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, manifestolibri, 2017, recensito qui

  8. Cfr. Giuliano Santoro, Dal Grillo qualunque al Conte dimezzato, in “Jacobin Italia”, 28 novembre 2024. 

  9. Massimo Palma, Movimento e Stasi, Industria & Letteratura, 2021, p. 33. 

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Il mostro di Genova https://www.carmillaonline.com/2021/10/30/il-mostro-di-genova/ Fri, 29 Oct 2021 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69003 di Luca Cangianti

Massimo Palma, Movimento e stasi, Industria & letteratura, 2021, € 15,00, pp. 82.

Le bastonate con i manganelli tonfa impugnati al contrario, i calci in faccia, le costole rotte, le urla nelle carceri, le violenze sessuali, l’urina che cola nei pantaloni, il proiettile che entra nel cranio di un ragazzo minuto con la canottiera bianca e un rotolo di scotch al braccio. È questo il trauma di una generazione che sfidò il Potere con mani dipinte di bianco, scudi di plastica e protezioni di gommapiuma. Persa la memoria [...]]]> di Luca Cangianti

Massimo Palma, Movimento e stasi, Industria & letteratura, 2021, € 15,00, pp. 82.

Le bastonate con i manganelli tonfa impugnati al contrario, i calci in faccia, le costole rotte, le urla nelle carceri, le violenze sessuali, l’urina che cola nei pantaloni, il proiettile che entra nel cranio di un ragazzo minuto con la canottiera bianca e un rotolo di scotch al braccio. È questo il trauma di una generazione che sfidò il Potere con mani dipinte di bianco, scudi di plastica e protezioni di gommapiuma. Persa la memoria del ciclo di lotte degli anni settanta, non era preparata a quell’orgia di sangue e umiliazione.
I ragazzi e le ragazze che nell’estate del 2001 si recarono a Genova scoprirono un mostro, ebbero le carni lacerate dai suoi denti e non vennero creduti. Subirono una di quelle esperienze che, secondo Sigmund Freud, per la loro natura insopportabile, generano contenuto rimosso, cioè l’interiorizzazione del mostro. Dopo la stagione della controinformazione, dei processi e delle testimonianze, Massimo Palma, a vent’anni di distanza, nella raccolta di poesie Movimento e stasi, sperimenta una nuova terapia politica.

Utilizzando sia versi liberi che prose poetiche, l’autore crea immagini, stabilisce assonanze, si inserisce nelle contraddizioni dei ricordi: al realismo dei fatti subentra così una storiografia poetica capace di far emergere significati nascosti.
Il libro è diviso in tre parti. Nella prima si raccontano gli antecedenti e il poi del trauma: la gioia della vigilia, l’euforia dello stare insieme, incordonati, forti di ragioni che, pensano i manifestanti, i potenti non potranno non ascoltare (“Voi G8, noi 6 miliardi” recitava lo slogan), ma anche via Caffa, il lungomare, “le corse ai pullman gli occhi rossi / e ancora divise che salgono prelevano. / I manganelli i cortili morti nel sudore tra i sedili. / E urla riviste di notte e carceri”. Nella seconda parte scorrono le immagini del mentre. Siamo a Piazza Manin, le ragazze con i capelli rosa e i seni nudi fronteggiano il rimosso della Repubblica, il fascismo eterno (“Fammi una foto fa male / una rideva da terra / sputava i suoi denti”), le camionette sbuffano come draghi, i bastoni si alzano e si abbassano senza sosta. Ma il più doloroso dei paradossi di quella generazione è “Che a caricare fu chi ha / il mandato di difendere / chi gettò i carri sulla folla”. L’ultima sezione si intitola “Stasi” che in greco indica “sia stasi sia movimento dentro equilibrio. È una sintesi inquieta di due opposti” dice Palma. “La sua inquietudine pone enormi problemi nell’uso dei ricordi.”

Banquo riappare a Macbeth che lo ha assassinato sotto forma di spettro. Freddy Krueger nel ciclo di Nightmare rappresenta il simbolo dei traumi adolescenziali che ritornano come incubo capace di uccidere. Per Stephen King, It è il passato rimosso di un’impresa lasciata incompleta (la mancata uccisione del mostro): i Perdenti, i bambini traumatizzati ormai adulti, sono costretti ventisette anni dopo a ricordare; solo così possono attivare il dispositivo capace di sconfiggere il Male. La memoria riorganizzata attraverso la fatica del lavoro analitico contrasta il dominio della nevrosi. La memoria elaborata dei sogni finiti nel fango sottrae la soggettività collettiva all’impotenza e la prepara a nuove avventure.
Da questo punto di vista i versi di Massimo Palma sono pallottole d’argento sparate nel buio del nostro rimosso. Colpiscono nel segno e fanno male anche a noi, ma la carne del mostro finalmente sfrigola.

[Movimento e stasi di Massimo Palma sarà presentato dal Gruppo di Studio Antongiulio Penequo oggi 30.10.2021 presso Scup (via della Stazione Tuscolana 82-84b – Roma) nell’ambito di “Dark side”, il ciclo d’incontri dedicato alle figure del nemico, dell’alieno e del mostro. Per l’invito Facebook e altre informazioni clicca qui.]

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L’anno degli anniversari / 1871-2021: Comune di Parigi https://www.carmillaonline.com/2021/09/08/lanno-degli-anniversari-2-1871-2021/ Wed, 08 Sep 2021 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67867 di Sandro Moiso

Goffredo Fofi (a cura di), I giorni della Comune. Parigi 1871, con una cronologia di Mariuccia Salvati, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 208, euro 9,00

Per chiunque si ritenga nemico dell’attuale modo di produzione e, allo stesso tempo, si sforzi di immaginare un modo per uscire dal medesimo attraverso una differente organizzazione sociale e politica, il centocinquantesimo anniversario della Comune di Parigi avrebbe dovuto costituire l’anniversario più importante da celebrare nel corso di quest’anno.

Purtroppo non è stato così. Tra i fasulli “mea culpa” e i tardivi guaiti [...]]]> di Sandro Moiso

Goffredo Fofi (a cura di), I giorni della Comune. Parigi 1871, con una cronologia di Mariuccia Salvati, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 208, euro 9,00

Per chiunque si ritenga nemico dell’attuale modo di produzione e, allo stesso tempo, si sforzi di immaginare un modo per uscire dal medesimo attraverso una differente organizzazione sociale e politica, il centocinquantesimo anniversario della Comune di Parigi avrebbe dovuto costituire l’anniversario più importante da celebrare nel corso di quest’anno.

Purtroppo non è stato così. Tra i fasulli “mea culpa” e i tardivi guaiti di dolore comparsi su quotidiani come Repubblica, solitamente indirizzati alla criminalizzazione di ogni forma di conflitto di classe (si pensi soltanto alla posizione costantemente assunta dal quotidiano romano nei confronti della lotta No Tav), destinati a celebrare, ancora una volta, una sconfitta del movimento in occasione dei vent’anni trascorsi dal G8 di Genova del 2001 e l’eccessivo spazio concesso, in ogni ambito, all’attuale, infruttuoso e fuorviante dibattito sul green pass (considerati anche i numeri “reali” delle piazze e delle “stazioni” e i limiti di un discorso incentrato quasi esclusivamente sul diritto e il sentire “individuale”), il ricordo di uno degli episodi più luminosi (poiché illuminante anche per l’oggi e per il domani) della storia della lotta di classe, e della rivolta della specie contro la devastazione politica, economica e sociale prodotta dal capitalismo imperante, è passato praticamente sotto silenzio.

Poche sono state le pubblicazioni dedicate quest’anno a quella fiamma che per alcuni mesi incendiò la Francia e indicò il divenire dello scontro sociale, costringendo prima Marx e poi Lenin a posare saldamente i piedi nell’esperienza prodotta dall’auto-organizzazione e dalla spontanea riflessione di un movimento che della guerra di classe aveva fatto il suo inestirpabile baricentro. Ieri come oggi, e forse proprio questo ha contribuito a far sì che si preferisse rimuoverne il ricordo quasi in ogni ambito di informazione e discussione.
Poi dicono…la memoria e la sua importanza
Come al solito dipende sempre da quale memoria e di cosa o chi.

Per questo motivo l’agile libretto curato da Goffredo Fofi, e pubblicato nella collana Piccola Biblioteca Morale (PBM), ci è sembrato uno dei migliori, anche se in realtà si tratta di una selezione di articoli di giornali della Comune tratta da una ben più ampia raccolta curata da Mariuccia Salvati nel 1971 (quando la forza dei movimenti di classe si vedeva dalla capacità di imporre anche l’agenda degli anniversari e il corretto uso della memoria)1.
Così, prima di continuare con il discorso sulla Comune e i suoi giornali, sembra utile ricordare qui l’intento della collana delle edizioni e/o proprio attraverso le parole del suo curatore che, immancabilmente, rinviano anche a quanto qui si è fino ad ora detto.

Riprendere oggi la Piccola Biblioteca Morale2 significa per noi reagire all’abulia della cultura di questi anni, dominata dal narcisismo, dal flusso delle mode, dalla decadenza di figure intellettuali forti […]. Sono stati sostituiti costoro, da branchi di professionisti della cultura, di ratificatori delle scelte del potere e non di suoi critici oppositori; sono stati sostituiti da masse di scriventi da cui ben di rado si distaccano figure di scrittori e di studiosi all’altezza delle necessità del nostro tempo, che i più avvertiti giudicano estremamente critico o addirittura prefinale, proprio nel senso di una possibile fine della natura e fine della società umana. Quando le politiche in fatto di ecologia e di frontiere e di interessi finanziari mettono in dubbio la possibilità stessa di un futuro per il pianeta e per i suoi abitanti, quando gli stati cedono ai privati rinunciando alle responsabilità verso le collettività e finiscono quasi ovunque in mano ad avventurieri senza scrupoli, torna ad essere urgente guardare al presente con occhi ben aperti sulle sue storture e i suoi pericoli, dando voce , per il poco che si può fare, a chi ancora si ostina a pensare e a proporre, in funzione di una risposta, di un agire individuale e per gruppi piccoli e grandi, per comunità collettive.
La nuova Piccola Biblioteca Morale questo cercherà di fare, scovando il pensiero che più può esserci utile là dove ancora viene prodotto e recuperando dal passato le lezioni che ancora servono a capire e ad agire3.

Ecco allora che tutte le questioni poste in essere dall’esperimento comunardo e dal grande assalto al cielo tentato dal proletariato parigino, ma non solo, intercorso tra la sconfitta dell’esercito francese a Sedan ad opera dei prussiani e la feroce repressione della Comune messa in atto dal medesimo esercito nazionale, una volta riarmato ad hoc dai prussiani stessi, può rivelarsi ancora di grande attualità e di aiuto, non soltanto per comprendere la storia del movimento antagonista di classe, ma anche per provare a dirimere alcuni dei dilemmi politico-sociali che si pongono oggi.

Il fatto che quell’esperienza, già ampiamente documentata nei ricordi di Louise Michel o Hyppolite-Prosper-Olivier Lissagaray (solo per citare due dei testimoni e protagonisti più accreditati) e analizzata in alcune delle opere più significative di Karl Marx, Michail Bakunin, Kropotkin e Lenin, sia vista attraverso la testimonianza diretta di quei giorni, tratta da i giornali editi in quel periodo rende, poi, il tutto più utile e diretto.

Furono decine i giornali pubblicati in quel periodo e ventisei quelli dai quali furono tratti gli articoli scelti dalla Salvati per la sua opera originale del 1971. Oltre naturalmente a manifesti, proclami ed editti dello stesso periodo che compaiono anche, pur se ridotti complessivamente a circa sessanta testi, nelle pagine del volume curato da Fofi.

La Comune, attraverso questi testi, ci “parla”, direttamente e senza, soprattutto, il sovrapporsi di interpretazioni ideologiche e critiche interessate espresse a posteriori che, vista la permanente contrapposizione tra anarchismo e socialismo, rischiano sempre di spostare l’attenzione del lettore dal fatto o dal “detto” concreto alla sua valutazione di carattere filosofico-politico.

Carta canta si sarebbe detto un tempo e, in effetti, quei giornali cantano ancora: una canzone di rivolta, presa di coscienza, organizzazione, battaglia e determinazione. Mai il piagnisteo percorre quelle pagine, mai l’allusione a generici “diritti umani”, mai la rivendicazione di un diritto strettamente individuale. Tutti gli articoli, anche se espressi da giornali di diversa tendenza, diventano espressione di una voce collettiva. Sia che si tratti di editti, analisi dei fatti, considerazioni sulla vita della Comune o anche dell’organizzazione di un Museo, è sempre chiaro che attraverso quelle righe, poche o tante che siano, si esprime una volontà collettiva… Se ci sono errori, e in una realtà vitale sono inevitabili, vi è sempre la possibilità di correggerli o rivederli. Insieme.

La vita è magmatica, non è un percorso ben ordinato e tale fu la vita, intensissima anche se breve, di quel primo radicale esperimento di società “altra” da quella del capitale. Anzi ci sarebbe da dire che proprio là dove regna l’ordine, come a Parigi dopo la semaine sanglante o come a Berlino dopo la repressione dei moti spartachisti, là regna la morte.
Alla faccia di tutti coloro che, utopisti o stalinisti o altro che fossero o siano, immaginano un processo rivoluzionario o l’organizzazione di una nuova società come un percorso ben ordinato e determinato dalle direttive di “un partito” o di un nucleo scelto di militanti.

Un autentico processo rivoluzionario integra tra di loro realtà differenti, sessi, classi e frazioni di classe potenzialmente nemiche del Capitale, per le quali l’eventuale egemonia politica di una di esse può essere soltanto condivisa con e dalle altre, mai imposta. Come ci insegnano la Comune stessa, le donne e gli uomini del Rojava e, ancora, i movimenti in difesa delle comunità e dell’ambiente come quello No Tav.

La vita è disordine creativo, la lotta e la rivoluzione disordine determinato, dai fatti oggettivi e dalle iniziative collettive. Tutto il resto è fuffa, volontarismo, centralizzazione autoritaria, deviazione opportunistica dagli obiettivi che si vanno invece meglio definendo nella polemica costruttiva, nel confronto collettivo e nelle battaglie condotte insieme. Anche sul piano militare, perché la pace, soprattutto tra chi sta in basso e chi sta in alto, oggi come ai tempi della Comune, può essere sventolata come bandiera soltanto da chi vuol mantenere un sempiterno status quo.

Può così risultare curioso, oggi, leggere sulle pagine del n° 131 del «Journal Officiel» dell’11 maggio 1871 un appello che la Federazione dei massoni e dei compagni di Parigi rivolge ai fratelli della Francia e del mondo intero.

Essendo state riprese le ostilità con un odio indescrivibile da parte di coloro che osano bombardare Parigi, i massoni si riunirono il 26 aprile allo Châtelet, e decisero che il sabato 29 sarebbero andati solennemente a fare adesione alla Comune di Parigi, e a piantare le loro bandiere sui baluardi della città, nei luoghi piùminacciati, sperando che avrebbe portato la fine di questa guerra empia e fratricida.
Il 29 aprile, i massoni, in numero di 10-11.000, si recarono all’Hôtel de ville, seguendo le grandi arterie della capitale, in mezzo alle acclamazioni di tutta la popolazione paerigina; arrivati all’avenue dela Grande Armée malgrado le bombe e le raffiche di mitraglia, inalberarono sessantadue delle loro bandiere di fronte agli assalitori.
[…] E’ da Versailles che sono partiti i primi colpi, e un massone ne è stato la prima vittima […]
No! massoni e compagni, voi non vorrete permettere che la forza bruta l’abbia vinta, voi non sopporterete che ritorniamo nel caos, ed è quello che avverrebbe se voi no foste con i fratelli di Parigi che vi richiamano alla riscossa.
Agite di concerto, tutte le città insieme, gettandovi davanti ai soldati che combattono, loro malgrado, perla peggiore causa “quella che non rappresenta che degli interessi egoisti”[…]
Voi sarete benemeriti della patria universale, voi avrete assicurata la felicità dei popoli per l’avvenire.
Viva la Repubblica!
Viva le Comuni di Francia federate con quella di Parigi!4.

Citare questo episodio non significa andare a cacca di curiosità storiche, ma sottolineare come l’idea della federazione di Comuni ovvero di comunità in lotta e auto-organizzate contro lo stato autoritario centralizzato e le alleanze imperialiste avesse pervaso tutto il tessuto sociale di Parigi e della sua resistenza al ritorno all’ordine precedente, anche in settori inaspettati.

Ma non del tutto, considerato ciò che lo stesso Marx annotò a proposito di alcuni provvedimenti della Comune: «Una parte rilevante della classe media ha aderito alla guardia nazionale di Belleville. I grandi capitalisti hanno pianto, quando i piccoli affaristi e gli artigiani andarono con la classe operaia.[…] I decreti sugli affitti e sugli effetti cambiari sono realmente due colpi magistrali, senza di essi i tre quarti dei piccoli uomini d’affari e degli artigiani sarebbero andati in bancarotta»5.

Sono, questi, solo degli esempi dell’attualità dell’insegnamento comunardo: vivo, presente, utile e battagliero. Senza pentimenti, senza renitenze, senza piagnucolii. I Comunardi, dalle pagine dei loro giornali, sembrano ancora dirci: Abbiamo assaltato il cielo e non ce ne siamo mai pentiti, ma adesso tocca a voi!

Il centenario della Comune di Parigi, che sia Marx che Bakunin considerarono la novità decisiva nella storia della classe operaia e dei “ceti subalterni” e delle loro lotte per una società egualitaria e solidale, per il socialismo, cadde nel 1971 a poca distanza dal ’68. E il movimento studentesco seppe appropriarsi di quell’anniversario finanche nelle sue frange “maoiste” e indicare la Comune come il primo modello della sua rivolta, in giro per il mondo ma in particolare in Francia dove la Comune era esplosa. Ma dopo, un pesante e cupo silenzio ha circondato quella storia […]
Prima dei “codici” staliniani che costrinsero le arti nella retorica e nel “culto della personalità”, anche nella Russia sovietica la Comune era additata come il punto di svolta nella storia dell’umanità6, una concreta esperienza rivoluzionaria di “potere al popolo”[…]
Nonostante le derive staliniane, nonostante le retoriche dell’intellighenzia borghese e piccolo-borghese di ieri ( e specialmente di oggi, quella che ha osato dirsi comunista), la Comune è stata e continuerà a essere il punto di riferimento di tante e vere rivolte, e in particolare ha dato ai popoli in lotta il modello di modi di organizzarsi, anzi di auto-organizzarsi, nel legame tra mandanti e rappresentanti, dentro una giusta comunanza di intenti e di pratiche (anche tra i sessi). Sotto – ne scrisse il ragazzo Rimbaud – “il gran sole carico d’amore”7.


  1. Mariuccia Salvati (a cura di), I giornali della Comune. Antologia della stampa comunarda 7 settembre 1870 – 24 maggio 1871, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 460  

  2. La collana era infatti nata, per lo stesso editore, già negli anni ’90 – NdA  

  3. Goffredo Fofi, Piccola Biblioteca Morale, in G. Fofi (a cura di), I giorni della Comune, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 205-206  

  4. cit. in G. Fofi, I giorni della Comune, op. cit., pp. 139-142  

  5. Appunti di un discorso di Karl Marx sulla Comune parigina in Karl Marx, 1871 La Comune di Parigi. La guerra civile in Francia, edizione integrale con annessi i lavori preparatori ed altri inediti. Edizioni International – Savona e La vecchia Talpa – Napoli, 1971, p. 428  

  6. Come avrebbe affermato nel corso del ‘900 Amadeo Bordiga, dopo la Comune non sarebbe più potuto esserci in Europa alcuna alleanza tra Capitale e Proletariato – NdA  

  7. Goffredo Fofi, Introduzione a op. cit., pp. 5-7  

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La sirena e l’altoforno di Valeria Cademartori https://www.carmillaonline.com/2018/03/28/la-sirena-e-laltoforno-di-valeria-cademartori/ Tue, 27 Mar 2018 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44575 di Luca Cangianti

Sirene adagiate malinconicamente su superfici di materia asettica, dinosauri di archeologia industriale, dettagli ingigantiti di volti che si ribellano alla disumanizzazione, vortici monocromatici che prendono forma e tridimensionalità. Da questi elementi visivi si sviluppa il discorso artistico di Valeria Cademartori. Presente alla biennale di Venezia nel 2011, questa pittrice italiana ha vissuto tra Roma e Berlino realizzando opere nelle quali spesso vengono affrontati temi profondamente politici.

– Le tue opere non mi ricordano per niente Quarto stato di Pellizza da Volpedo, tuttavia mi sembrano permeate da spunti profondamente politici. Attraverso [...]]]> di Luca Cangianti

Sirene adagiate malinconicamente su superfici di materia asettica, dinosauri di archeologia industriale, dettagli ingigantiti di volti che si ribellano alla disumanizzazione, vortici monocromatici che prendono forma e tridimensionalità. Da questi elementi visivi si sviluppa il discorso artistico di Valeria Cademartori. Presente alla biennale di Venezia nel 2011, questa pittrice italiana ha vissuto tra Roma e Berlino realizzando opere nelle quali spesso vengono affrontati temi profondamente politici.

– Le tue opere non mi ricordano per niente Quarto stato di Pellizza da Volpedo, tuttavia mi sembrano permeate da spunti profondamente politici. Attraverso quale percorso il tema della guerra è finito nei quadri della tua ultima mostra “La musica di Aleppo”?

Dipingere per me è fondamentalmente dare forma a uno stato d’animo. La sfera politica ha una dimensione pensata, razionale, discorsiva, ma l’arte è legata molto al sentire. Questa mostra nasce quindi da uno stato d’animo, nero evidentemente, non a caso le opere sono nere, o meglio giocano sul rapporto bianco/nero.
Solo dopo averle realizzate mi è venuta in mente L’opera al nero, di Marguerite Yourcenar, in cui si parla della nigredo, che è la fase alchemica della spoliazione della forma, ma anche della purificazione della materia. In effetti nella sequenza di questi quadri avviene proprio una spoliazione della forma e della materia, attraverso l’uso del colore a olio e di materiali quali sabbia, carta e plastica.

– A cosa attribuisci il tuo stato d’animo nero?

È un sentimento pesante che ho cominciato a provare nel 1991 quando il presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush e la Nato decisero di bombardare l’Iraq. Per me che ero bambina ai tempi della guerra del Vietnam e del colpo di stato in Cile, fu il primo massacro vissuto in diretta televisiva. Non mi sarei mai aspettata che l’Europa, dopo la Seconda guerra mondiale e il ripudio della guerra come risoluzione delle relazioni internazionali, si potesse allineare così piattamente a quella aggressione militare. A fare le spese di tale crimine fu soprattutto la popolazione civile. Da allora la guerra non ha più avuto fine: l’11 settembre ha giustificato altri terribili conflitti che hanno alimentato esponenzialmente il terrorismo jihadista (il Califfo non a caso si radicalizza nelle prigioni irachene); sono seguiti nuovi bombardamenti sui civili, le torture di Abu Ghraib e di Guantanamo, intere popolazioni sono state ridotte a masse di profughi. Con questo mi spiego anche il perché del soffocamento reazionario delle primavere arabe che in Siria ha segnato l’inizio di una nuova guerra, in cui ultimamente, agendo al di fuori di ogni diritto internazionale, è entrata in gioco anche la Turchia con l’invasione del Kurdistan siriano.
Dunque è una guerra infinita e mondiale, di cui abbiamo grandi responsabilità, ma di cui non ci importa niente, se non quando arrivano gli attentati in casa nostra oppure quando ci preoccupiamo di tenere lontani i profughi dalle frontiere europee. In questo scenario mi ha colpito molto l’immagine del pianista siriano-palestinese Aeham Ahmad che irrompe tra le macerie con il suo pianoforte opponendo alla distruzione il linguaggio universale e unificante della musica. L’arte non può fermare la guerra, ma può ricordare alle nostre coscienze che esiste qualcosa che ci unisce di più alto, di più prezioso degli interessi geopolitici e economici, del petrolio e della sopraffazione.

– Uno dei quadri della tua ultima mostra, il più grande, raffigura una sirena adagiata su quello che a me è parso il tavolo di un obitorio. Come è nata l’idea di quest’opera?

Non so bene. Dopo averlo fatto mi è venuta in mente un’immagine che risale al 2001. Ero a Genova con decine di migliaia di altre persone venute da tutto il mondo. Portavamo istanze di pace, ma ci siamo ritrovati in un assetto di guerra, con tanto di carri armati, cecchini ed elicotteri. Dopo il primo giorno in cui fu ucciso Carlo Giuliani e migliaia di persone sono state picchiate, asfissiate con i gas Cs e arrestate senza motivo, mi chiusi in una scuola vuota. Avevo un mal di testa fortissimo, mi sono distesa su un banco e ho cercato di distaccarmi da quello che mi succedeva intorno. Forse quel quadro ha un po’ a che vedere con tutto questo. È stata la situazione di guerra più vicina che ho vissuto.

– Passiamo dal “nero” al “rosso”. Ricorrono i 200 anni dalla nascita di Karl Marx e tu hai realizzato, prima su tela e poi su plexiglass, un dipinto alto tre metri del filosofo tedesco. Che sentimenti ti ha suscitato misurarti con un soggetto così impegnativo e forse anche a rischio di apologia?

È una commissione che mi ha entusiasmata. La mia prima preoccupazione è stata proprio di individuare un’immagine che non fosse austera. Mi sono concentrata su una cromaticità in cui prevalesse il rosso e ho scelto di accompagnare l’opera con una frase che racchiudesse l’essenza dell’aspirazione libertaria del comunismo, di contro a tutte le aberrazioni occorse nel secolo scorso: “Da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni.”
È stato un lavoro commissionato dalla Cgil che ringrazio molto. Il sindacato possiede un ampio fondo di opere artistiche curato da Patrizia Lazoi. Si spazia dai quadri di Renato Guttuso a quelli di Ennio Calabria fino a molti lavori di autori contemporanei. Sono stata molto felice di aver avuto l’opportunità di misurarmi con Marx e alla Cgil abbiamo scherzato sul fatto che fossimo nati nello stesso giorno.

– Parliamo di alcuni tuoi lavori passati, mi riferisco a “Impronte” del 2003 e a “Dismissioni” del 2007.

Il primo nacque quando si iniziarono a prendere le impronte digitali ai migranti che sbarcavano sulle coste europee. In quel caso realizzai un ciclo di grandi quadri che ritraevano volti di migranti ingigantendo alcuni particolari. Usai provocatoriamente il titolo “Impronte” per focalizzare l’attenzione sul vissuto di queste persone, prima che le politiche securitarie le riducessero a numeri indistinti e deprivati di soggettività. Si tratta di opere ancora una volta quasi monocromatiche. Mi piace che la pittura sia materica, colore che prende forma. Questo è un elemento che in fondo la differenzia dalla fotografia, anche se le due forme espressive hanno cose in comune, come il rapporto luce/ombra, i volumi e i vuoti.

– Con “Dismissioni” hai affrontato un altro tema di grande attualità politica, quella della fine della società fordista. Quale è stata l’ispirazione iniziale in quel caso?

Tutto è partito da un cortometraggio di Ugo Capolupo, L’ultimo rimasto in piedi (2001), che traeva spunto dal romanzo di Ermanno Rea La dismissione. In questa pellicola si racconta la storia di un ex dipendente dell’Italsider di Bagnoli che raccoglie pezzi delle strutture metalliche in dismissione come gesto di opposizione alla cancellazione della memoria e dell’immaginario della comunità operaia. Il regista voleva realizzare un lungometraggio in cui vari artisti visitassero quei luoghi e ne traessero spunti di lavoro. Mi fu chiesto se volessi partecipare e accettai. Passai interi pomeriggi in quell’area di Bagnoli: rimasi colpita dall’ultimo altoforno sopravvissuto, arrugginito e bellissimo. Ormai non era più in funzione, non emetteva più fumi maleodoranti, sembrava la scultura di un dinosauro in una baia piena di sole. Realizzai degli schizzi, delle foto e poi in studio feci una serie di dipinti, ingigantendo i dettagli di quella fabbrica che è stata smantellata e venduta pezzo per pezzo ai cinesi.

[Il 29 marzo a Roma, dalle 19.00 alle 21.00, presso lo Studio Arte Fuori Centro, via Ercole Bombelli, si svolgerà il finissage della mostra di Valeria Cademartori “Musica d’Aleppo”]

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Onestà https://www.carmillaonline.com/2017/08/25/onesta/ Fri, 25 Aug 2017 14:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40194 di Alessandra Daniele

Luigi Di Maio ha dato la linea del Movimento 5 Stelle sullo sgombero violento di Piazza Indipendenza: sostegno incondizionato alla polizia che ha usato idranti e manganelli contro donne e bambini, richiesta d’espulsione per i profughi. Luigi Di Maio è onesto. Ha ammesso d’essere Gianfranco Fini.

E non è il solo. La spedizione punitiva di Piazza Indipendenza è stata un’azione dimostrativa della linea Minniti. Le persecuzioni razziali non sono un effetto collaterale dei regimi fascisti, sono una delle fondamenta.

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di Alessandra Daniele

Luigi Di Maio ha dato la linea del Movimento 5 Stelle sullo sgombero violento di Piazza Indipendenza: sostegno incondizionato alla polizia che ha usato idranti e manganelli contro donne e bambini, richiesta d’espulsione per i profughi.
Luigi Di Maio è onesto. Ha ammesso d’essere Gianfranco Fini.

E non è il solo.
La spedizione punitiva di Piazza Indipendenza è stata un’azione dimostrativa della linea Minniti.
Le persecuzioni razziali non sono un effetto collaterale dei regimi fascisti, sono una delle fondamenta.

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Cayenne italiane https://www.carmillaonline.com/2017/07/22/cayenne-italiane/ Sat, 22 Jul 2017 01:12:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39521 di Alexik

Il cancello si apriva in continuazione. Dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei GOM la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli“.

Erano andati al macello inermi, chi con una bandiera rossa, chi con una A cerchiata, chi [...]]]> di Alexik

Il cancello si apriva in continuazione. Dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei GOM la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli“.

Erano andati al macello inermi, chi con una bandiera rossa, chi con una A cerchiata, chi con la testa piena di fantasticherie democratiche.
Alcuni indossavano una tuta nera, altri patetiche protezioni di gommapiuma, tutti drammaticamente inadeguati a fronte della violenza che gli avrebbero scatenato addosso.
Arrivarono a Genova nel luglio 2001 pensando che bastasse la forza dei numeri per contrastare quella dei potenti, o che si trattasse ancora una volta della simulazione di uno scontro.
I più erano immemori o inconsapevoli di quello che aveva dovuto affrontare, circa 20 anni prima, l’ultima generazione che aveva provato seriamente a sovvertire le regole del gioco. Pochi avevano memoria diretta della gestione della piazza dei tempi di Cossiga, o delle violenze poliziesche di Voghera1.
La quasi totalità non aveva mai conosciuto il carcere, o non aveva fatto sufficiente attenzione a ciò che si muoveva dietro quelle mura.
Dopo l’esecuzione di Carlo, dopo la ‘macelleria messicana’ della Diaz, duecentocinquantadue (ma la stima è incerta) vennero portati alla caserma di Bolzaneto, consegnati nelle mani di polizia, carabinieri, ma soprattutto del GOM (Gruppo Operativo Mobile) della polizia penitenziaria.
Qui varcarono le soglie di un incubo:

Torturato n° 38, straniero. Offeso, mentre era nudo, rivolgendogli domande sulla sua vita sentimentale e sessuale, veniva costretto a spogliarsi nudo e a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania costretto con la minaccia di percosse con la cintura presa ad altro detenuto, a fare delle giravolte sul pavimento; percosso e ingiuriato con sgambetti e sputi da due ali di agenti mentre transitava nel corridoio.

Torturato n° 47, straniero. Percosso nel corridoio con calci e pugni, percosso nell’infermeria mentre veniva perquisito e sottoposto a visita medica con un pugno al torace, in conseguenza delle percosse riportava la frattura della costola destra, percosso, ingiuriato e minacciato in bagno  da due agenti che lo costringevano a mettersi davanti al wc e gli dicevano “orina finocchio “, e minacciavano di violentarlo con un manganello, con lo stesso manganello lo percuotevano all’interno delle cosce procurandogli ematomi, percuotevano ancora con pugni alla testa e alle spalle.

Torturata n° 60, italiana. Accompagnata dalla cella al bagno, costretta a camminare lungo il corridoio con la testa abbassata e le mani sulla testa, colpita da altri agenti con calci, derisa e minacciata, costretta con violenza e minacce a chinare la testa all’interno della turca; insultata con : “puttana”, “troia” e a subire da altri agenti frasi ingiuriose con riferimenti sessuali del tipo “che bel culo “, “ti piace il manganello”, costretta a fare il saluto romano e a dire: “viva il duce “, “viva la polizia penitenziaria”.2

Lo stesso incubo vissuto nelle carceri di questo paese.

Fuori dalla caserma le telecamere di tutto il mondo erano puntate sul G8.
Se tale era la fiducia dei torturatori nell’impunità, in un contesto di così forte attenzione politica e mediatica, quali violenze potevano essere capaci di attuare nel chiuso delle galere, lontano da sguardi indiscreti, e su persone completamente in loro potere per lunghissimi periodi di tempo?
Da quale ‘scuola’, da quale ‘brodo culturale’ provenivano quegli agenti ?
Su quali corpi si erano allenati prima di arrivare a Genova?

Tradizioni: la violenza nel carcere ‘sabaudo’

Sono da  poco le  sette  del  mattino,  passi cadenzati  si  odono nella  sezione,  la  terza  superiore  del penitenziario di  Volterra…  Odo i  passi  arrestarsi  di  fronte alla mia cella, la n. 23, lo scatto del pesante passante che blocca la porta,  che  viene  spalancata,  innanzi  a  me  due  brigadieri  ed una decina di guardie, vengo invitato ad uscire, obbedisco, ed in  mezzo  al  plotone  mi incammino verso  l’uscita.
Faccio una domanda,  mi  viene risposto che non sono tenuti  a darmi  delle spiegazioni,  replico  la  domanda,  mi informano  che  debbo essere isolato…
Vengo  introdotto  in una cella, con un  letto di  contenzione al  centro,  mi  spogliano completamente nudo intorno ci sono una ventina di guardie. In un  istante  mi  sono  addosso  con  calci  e  pugni,  cerco di coprirmi,  grido,  chiedo  il  motivo di  quel linciaggio,  ricevo altri  calci,  pugni,  con una cattiveria ed una  selvaggità  mai veduta
…”3

Volterra, 19  settembre  1970.  Sono passati più di 23 anni dal varo della Costituzione repubblicana, quella che prevede che ‘le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Ne mancano più di trenta ai fatti di Bolzaneto, e gli agenti ‘di custodia’ (così venivano chiamati i secondini prima di essere elevati al rango di polizia penitenziaria) non sono certo gli stessi, ma ciò nonostante il loro modus operandi presenta notevoli analogie.

Non si tratta semplicemente di esercizi di sadismo da parte di personalità frustrate, di deliri di onnipotenza e vigliaccherie gratuite esercitate nel comodo rifugio dell’impunità.
La violenza sui corpi e sulla psiche, anche quando appare immotivata e gratuita, assolve sempre una sua funzione. L’annientamento della personalità del prigioniero è funzionale all’interiorizzazione dei rapporti di potere.
E’ una tecnica disciplinare i cui effetti devono estendersi al di là e al di fuori della permanenza nelle patrie galere.

Nel vecchio carcere ‘sabaudo’, sopravvissuto fino alla metà degli anni ’70 con le sue segrete medioevali e il suo regolamento fascista, la violenza sui prigionieri era connaturata alla filosofia retributiva della pena, dove la pena è considerata un fine in sé, un valore assoluto che non necessita di altre motivazioni. Il carcere non era stato ancora toccato da filosofie trattamentali di recupero del condannato.

Non esistevano mediazioni o ammortizzatori rieducativi. L’essenziale era punire. Punire e indurre alla rassegnazione quella fetta di popolo che, per una ragione o per l’altra, aveva deragliato dai binari della disciplina sociale”.4

L’uso della violenza sui detenuti era un metodo indiscusso di neutralizzazione della devianza. Indiscusso fino a quando proprio quella violenza non fece da innesco a una lunga stagione di rivolte carcerarie.

A  Poggioreale  si  pativa  la  fame,  e alla  fame c’era  da sopportare  inoltre  un  rigore  da campo di  concentramento di tipo nazista.  Alle celle  di  punizione,  per  dare  un  esempio,  fui legato  sul letto di  forza e  malgrado dei  dolori  acutissimi  che mi presero  allo  stomaco non  fui  visitato da  nessuno  …  Mentre mi legavano ridevano e  tiravano le fasce più che potevano.
Il  vitto da  porci immangiabile,  i  secondini  che  trovavano  gusto  a  istigare e  oltraggiare  fino  a  quando uno non scoppiava.  Veniva  quindi  portato  al  palazzo di  vetro,  così  era chiamato  il  padiglione  in  cui  erano  le celle  di  punizione e  i letti  di  forza.  In questo posto  le  botte erano  all’ordine  del giorno…
Di  questo passo si  arrivò al luglio 1968 mese  in cui  pieni  di rabbia ci  si  rivoltò incendiando e  rompendo tutto ciò che ci  si parava  davanti
”.5

Con l’avvento della stagione delle rivolte, la violenza dell’istituzione carceraria non dovette più misurarsi con un insieme atomizzato di individui, con le loro ribellioni individuali intrise di disperazione, ma con una forza collettiva capace di organizzarsi, rispondere contrattaccare. Le rappresaglie sui rivoltosi furono durissime:

A  sera  quando  cessammo ogni  resistenza  fummo incolonnati,  ci  fu  impedito di  prendere  qualsiasi  vestito od oggetto personale,  dovemmo passare attraverso un  cordone formato da celerini  e  guardie carcerarie,  i  quali  cominciarono a  percuoterci  selvaggiamente con  manganellate,  pugni,  calci, cinghiate,  ed  alcuni  secondini  con  catene  munite  di lucchetto all’estremità… Il  pestaggio  era cieco  e  indiscriminato,  il livore,  la  rabbia  sadica,  la  vendetta si  abbatteva contro tutti  senza alcuna distinzione tra giovani  e vecchi  e  malati  ricoverati  all’infermeria”.6

Mentre eravamo  massacrati,  gli  sbirri  ridevano  e  canticchiavano per  deriderci.  Davanti  alle celle  mi  fecero spogliare completamente,  mi  ordinarono di  piegarmi  a novanta  gradi  ed  io  compresi la  loro  intenzione,  in quel momento essendo privo delle manette mi coprii i testicoli con le  mani,  ma  mi  ordinarono di  non  assumere  tale atteggiamento,  e  non  appena  tolsi le  mani  una  guardia pugliese  mi  sferrò una  scarpata,  e  svenni…
Nelle celle  di  punizione  … tre  giorni  alla  settimana  il  vitto  consisteva  in 200  grammi di  pane e acqua… per  sfregio  ci  rapavano  i  capelli  a zero”
7

Ma il tentativo di sedare le sommosse attraverso un intensificazione della violenza non ebbe che l’esito di farle esplodere ancora di più, con un crescendo rivendicativo che partiva dalle richieste parziali (su ora d’aria, colloqui, vitto, isolamento,  punizioni …), per estendersi a quelle generali (riforma carceraria, amnistia), fino a riprendersi la libertà con le evasioni8.

Lo Stato decise allora di condurre lo scontro sociale all’interno delle galere secondo logiche di differenziazione, riservando il pugno di ferro alle avanguardie, e allo stesso tempo avviando un processo di apertura per disinnescare la polveriera delle carceri.

Il 9 maggio del ’74, Carlo Alberto dalla Chiesa guidò l’assalto di polizia e carabinieri per sedare una rivolta nel carcere di Alessandria, lasciando in terra sette morti fra detenuti e ostaggi. Era il segnale di un cambio di fase: le ribellioni non sarebbero più state tollerate.

Contemporaneamente veniva portata a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario che sostituiva il vecchio codice fascista, riconoscendo (almeno sulla carta) i detenuti come soggetto di diritto e mitigando (sempre sulla carta) alcuni aspetti della brutalità del carcere.
Veniva inaugurato un modello detentivo di tipo trattamentale che prevedeva un percorso a tappe per il reinserimento del detenuto nella società , una volta depurato dal suo carattere sovversivo, tramite permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, ecc.
Misure che nel medio periodo funzionarono effettivamente per depotenziare le agitazioni nelle carceri ordinarie, fornendo a buona parte dei prigionieri una via di uscita da quelle mura attraverso una gradualità premiale da conquistare con la buona condotta e la propensione al ravvedimento.
La violenza quotidiana nei penitenziari del circuito ordinario acquisì in questo modo nuove possibilità ricattatorie, visto che ogni reazione a un sopruso di un carceriere poteva inibire al detenuto l’accesso ai permessi, o interrompere il percorso verso la semilibertà.

Innovazioni: la violenza nelle carceri speciali

Il modello trattamentale era però riservato solo ai prigionieri ‘normali’.
L’articolo 90 della Legge di riforma prevedeva infatti la possibilità di sospendere le ordinarie regole di trattamento, quando ‘ricorressero gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza’.
Le misure per l’attuazione pratica di tale previsione di legge vennero affidate direttamente ai carabinieri, in virtù degli ‘ottimi risultati’ ottenuti ad Alessandria.
Dalla Chiesa dispose la creazione di un circuito speciale di prigionia formato dalle carceri più invivibili, preferibilmente nelle isole,9, dove vennero trasferiti i prigionieri ribelli, i militanti della lotta armata e della sovversione sociale di quegli anni, assieme ai detenuti comuni ritenuti più pericolosi.
In pratica dalla Chiesa mutuò, riattualizzandolo, il vecchio modello delle ‘carceri di rigore’ del regolamento del ’31. L’ordinamento penitenziario fascista che sembrava fosse uscito dalla porta, rientrava così dalla finestra.

Il rigore era attentamente garantito.

All’Asinara “il cibo era insufficiente, disgustoso, indigesto. L’acqua corrente non risultava potabile e aveva gli odori e il colore dei liquami da fogna. Le celle erano umide e prive di riscaldamento. Le docce si facevano ogni 15 giorni e le lenzuola venivano cambiate una volta al mese, se andava bene. Questa disciplina rigidissima era imposta a colpi di manganello. Bastava scambiare una parola con i detenuti delle altre celle per essere selvaggiamente aggrediti dalla squadretta di turno“.10
L’assistenza sanitaria era inesistente: “Fabrizio Pelli, delle BR, contrasse la leucemia a Fornelli, ma il medico del carcere si guardò bene dal diagnosticarlo, condannandolo scientemente a una morte terribile“.11

La sicurezza esterna era affidata ai carabinieri sotto il comando di dalla Chiesa, che potevano intervenire anche all’interno della prigione con ampia autonomia,  sedando eventuali rivolte tramite il GIS (Gruppo di Intervento Speciale), corpo speciale nato per l’occasione. Ma la gestione ordinaria della violenza all’interno dello speciale era affidata ancora ai secondini.

Di notte le guardie si impegnavano per non farci dormire. Tenevano le radio accese a tutto volume. Sbattevano i manganelli contro le porte blindate delle celle e facevano scorrere le canne dei mitra sulle sbarre delle finestre. Di giorno le grida, gli insulti e le minacce si sprecavano, conditi talvolta da qualche colpo di arma da fuoco sparato in aria a scopo intimidatorio. Le perquisizioni corporali erano continue, venivano ripetute più volte al giorno e sempre con il rito dello spogliarello integrale e delle flessioni sulle ginocchia. Le ispezioni nelle celle erano occasione per fare scempio dei pochi effetti personali consentiti ai detenuti, e spesso si concludevano con dei pestaggi somministrati per un nonnulla“.12

Anche ai familiari in visita negli speciali erano destinate perticolari vessazioni, come ricordano madri, sorelle, compagne dei detenuti:
La guardia di custodia voleva perquisirmi con la mano incorporata all’interno, con la mano nella natura. Allora gli dissi “Prima di farmi questa visita dammi il regolamento carcerario, per vedere se è ammesso dalla legge”. “Noi facciamo quello che vogliamo, se no i colloqui non li fai”. Mentre mi ribellavo arrivarono il brigadiere, il vice brigadiere, e tutte queste guardie di alto grado che cominciarono a spintonarmi fuori“.13

“ … ricordo che faceva un freddo terribile, mi fecero entrare in una stanza gelida e mi fecero spogliare e accoccolare per vedere se usciva qualcosa dalla vagina, ebbi una perquisizione corporale, cioè una visita ginecologica. Erano metodi studiati per spaventarti e intimidirti”.14
Eppure i secondini sapevano che a questo tipo di violenza sessuale sarebbe seguita l’ulteriore violenza dei vetri divisori nei colloqui, che impedivano ogni possibilità di passarsi un messaggio o un oggetto. Che impedivano di toccarsi le mani, di accostare le labbra, di sentire il calore.
La guerra così passava anche sui corpi dei familiari, violabili, penetrabili dall’oltraggio delle guardie. Negati alle persone che amavano.

Ancora una volta, comunque, nulla veniva lasciato al caso.
La violenza dei guardiani era funzionale alla creazione di pentiti, o in subordine, in mancanza di ‘pentimento’, all’annientamento del nemico.
Se nel vecchio carcere ‘sabaudo’ l’obiettivo era l’annullamento dell’identità personale del prigioniero, ora si lavorava per sconfiggerne l’identità politica. (Continua)

 


  1. Il 9 luglio del 1983 veniva indetta a Voghera, sede di un supercarcere femminile, una manifestazione per la chiusura delle carceri speciali. La maggior parte dei manifestanti in arrivo venne bloccata al casello dell’autostrada. Al corteo venne vietato di partire e intorno alle 16 la celere ebbe l’ordine di caricare preventivamente . Questa la situazione nel racconto della madre di un detenuto politico: “La polizia era una mare. Caricò duecento persone. Arrivarono i lacrimogeni. Scorreva sangue. Cercavo di aiutare le donne cadute a terra. Davanti al comando della polizia mi presero a bastonate per allontanarmi… Chi fuggiva veniva arrestato, chi restava prendeva solo manganellate. Abbiamo salvato gente da terra con il sangue che scorreva. Presi in braccio due-tre persone e le misi nella macchina di mio marito, con il sangue che scendeva”. In: P. Gallinari, L. Santilli, Dall’altra parte. L’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici, Feltrinelli, 1995, p. 84. 

  2. Lista completa in: Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova, Processo nei confronti di Perugini Alessandro + 44, p. 569. 

  3. Lettera di M.Z. in: Irene Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Giulio Einaudi editore, Torino 1973, pp. 107/108. 

  4. P. Abatangelo, Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni ’70, Edizioni DEA, 2017, p. 57. 

  5. Lettera di C.R. in: Irene Invernizzi, op.cit, pp. 120/121 

  6. San Vittore, dopo la rivolta dell’aprile 1969. In: Irene Invernizzi, op.cit, p. 274. 

  7. Trasferimento degli insorti di San Vittore alla colonia penale di Mamone (NU). In: Irene Invernizzi, op.cit, p. 279. 

  8. Nel 1974 evasero 221 detenuti dalle carceri italiane, nel ‘75 furono 300, nel ‘76 443. 

  9. Inizialmente vennero scelte le carceri di Pianosa, Asinara Favignana, Termini Imerese, Badu ‘e Carros. 

  10. P. Abatangelo, op. cit., p. 176 

  11. Idem. 

  12. Idem. 

  13. P. Gallinari, L. Santilli, Op cit., p. 77. 

  14. Ibidem, p. 90 

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Fattispecie di reato: la tortura https://www.carmillaonline.com/2017/06/20/fattispecie-reato-la-tortura/ Mon, 19 Jun 2017 22:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38964 di Armando Lancellotti

Marina Lalatta Costerbosa, Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp. 136, € 15,00

Tra pochi giorni, a fine giugno, la legge sull’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano arriverà a Montecitorio, per concludere, forse, l’iter di approvazione parlamentare. Si potrebbe pensare che stia per essere scritta una pagina positiva della storia legislativa e politica del nostro paese, ma la realtà delle cose è ben diversa e per almeno due grandi ordini di ragioni: innanzi tutto perché il ritardo con cui il codice penale italiano riconosce la fattispecie del reato di tortura è [...]]]> di Armando Lancellotti

Marina Lalatta Costerbosa, Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp. 136, € 15,00

Tra pochi giorni, a fine giugno, la legge sull’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano arriverà a Montecitorio, per concludere, forse, l’iter di approvazione parlamentare. Si potrebbe pensare che stia per essere scritta una pagina positiva della storia legislativa e politica del nostro paese, ma la realtà delle cose è ben diversa e per almeno due grandi ordini di ragioni: innanzi tutto perché il ritardo con cui il codice penale italiano riconosce la fattispecie del reato di tortura è a dir poco epocale, visto che la stessa Italia ratificò la Convenzione internazionale contro la tortura (Onu, 1984) nel gennaio 1988, insomma una trentina di anni fa; in secondo luogo perché il testo approvato al Senato il 17 maggio scorso è talmente rabberciato e contraddittorio da tradire lo spirito stesso di una legge che dovrebbe in modo netto e senza equivoci riconoscere la tortura come fattispecie di reato e delle peggiori. Un “tradimento” che lo stesso Luigi Manconi, che nel maggio del 2013 aveva presentato il progetto di legge in qualità di presidente della commissione parlamentare sui diritti umani, non ha esitato a definire inaccettabile, avanzando le stesse critiche e perplessità espresse da associazioni quali Amnesty International ed Antigone o dalle vittime della tortura di Stato italiana e dai parenti delle stesse. Vittime, che nel paese dei fatti di Genova 2001, di Cucchi e di Aldrovandi tra gli altri, sono numerose e ancora in attesa (vana) che venga fatto un minimo di giustizia e venga loro restituita quella dignità di uomini e cittadini che è stata a loro negata dai violenti abusi di potere di uomini dello Stato, dell’arbitrio dei quali sono caduti in balia.

Il testo della legge, se verrà approvato in via definitiva, sembra fatto apposta per restringere il campo dell’applicabilità della medesima e per mantenere ampio invece quello dell’impunità delle forze dell’ordine, per introdurre attenuanti, nonché elementi di discrezionalità ed ostacoli di vario genere all’applicazione della fattispecie penale. Ne conseguirà che in Italia, come ha fatto notare Manconi in alcune dichiarazioni riportate da numerosi organi di stampa, la tortura non verrà rubricata come un reato specifico di pubblici ufficiali, che abusano violentemente del loro potere di tenere sotto custodia un individuo, ma sarà equiparata a forme di violenza tra semplici cittadini; ne discenderà inoltre che, a fronte di processi che potrebbero svolgersi a distanza di molti anni dai fatti, il trauma psichico subito dalla vittima di presunta tortura dovrà essere “verificabile” di molto a posteriori ed infine vi dovrà essere la reiterazione del crimine (il testo parla di “più condotte” della stesso genere) affinché possa essere riconosciuto il reato di tortura.

Insomma una legge “truffa”, una legge pasticciata che poco o nulla cambierà nella sostanza in un paese che sembra non avere problemi a convivere con il ricorso delle proprie forze dell’ordine a pratiche di tortura, forse perché lo ritiene il male minore o un male necessario, un’arma estrema che deve essere lasciata alla disponibilità delle forze dell’«ordine» nella lotta contro un male considerato peggiore, come gli odierni teorici e sostenitori della legittimità della tortura argomentano con la cosiddetta teoria, di sicuro impatto in tempi di “ossessione e paura terroristiche”, della “bomba ad orologeria”, secondo cui anche una pratica brutale e ripugnante come la tortura può risultare giustificata se serve a disinnescare una minaccia giudicata maggiore.

Il libro di Marina Lalatta Costerbosa, che – uscito per DeriveApprodi nell’aprile del 2016 – intendeva dare un contributo proprio al dibattito intellettuale a supporto dell’introduzione del reato di tortura nel nostro codice, a più di un anno di distanza risulta quanto mai attuale e di certo interesse, proprio alla luce di ciò che si è detto sopra e delle difficoltà che si incontrano nel nostro paese nell’affrontare la questione, sia dal punto di vista giuridico-legislativo sia da quello della discussione pubblica sull’argomento, che, fatta eccezione per i momenti in cui il problema si presenta con tutta la sua cruda violenza all’attenzione collettiva e a quella di media e stampa, presto si tacita e lascia il posto ad un disinteressato silenzio. Il “silenzio della tortura”, per l’appunto, quello di cui parla anche il titolo del bel saggio della docente di filosofia del diritto dell’Università di Bologna.

Spiega l’autrice nelle prime pagine del libro che la scelta del sintagma “il silenzio della tortura” è motivata soprattutto dai tanti significati che esso può assumere, che mettono efficacemente in luce aspetti diversi della pratica della tortura: i suoi effetti sulle vittime, sul loro corpo e sulla loro psiche; le conseguenze sociali di essa, sia per chi la tortura la subisce sia per chi la pratica, ma anche per chi di fatto con essa convive, poiché cittadino di uno Stato che, esplicitamente o surrettiziamente ne fa uso, e così via. Infatti c’è il silenzio di governi, apparati di polizia e Stati che nascondono o minimizzano i supplizi che infliggono, ma c’è anche il silenzio indifferente dell’opinione pubblica che non crede (o non vuole credere, per falsa coscienza) che in pieno XXI secolo e in paesi sedicenti democratici una cosa “barbara” e “medievale” quale è la tortura venga praticata come strumento di potere o che con disarmante velocità presto dimentica e archivia anche i casi peggiori e più evidenti di ricorso alla tortura, che per qualche tempo hanno risvegliato l’attenzione collettiva. Da questo punto di vista le vicende italiane successive ai fatti di Genova 2001 sono davvero paradigmatiche. Ed anche più recentemente, in occasione della approvazione della legge in Senato, ad una “impennata” di attenzione per l’argomento su media e giornali, hanno poi fatto seguito, di nuovo, indifferenza e non curanza, quasi che la questione sia per il nostro paese così irrilevante e così lontana da non meritare se non la fugace considerazione di qualche titolo di prima pagina per non più di un paio di giorni.

L’Italia con il suo reiterato diniego a legiferare in materia e a definire la tortura come fattispecie penale appare di tale silenzio un paradigma. […] Ebbene, che nel nostro paese si torturi e che per di più la colpevole lacuna del nostro ordinamento giuridico, che non prevede nel Codice penale la fattispecie del reato di tortura, persista, rappresentano un punto di depressione morale e di deficit democratico non scusabile (pp. 7-8)

La tortura – osserva Lalatta Costerbosa – è un sistema eccezionale di produzione di violenza pubblica (p. 5) e la sua intenzionalità è l’annientamento psichico, attraverso l’inflizione di atti di estrema violenza fisica e psichica, di colui su cui si accanisce. Le finalità sono la disumanizzazione, l’animalizzazione della vittima, la distruzione della sua personalità e della sua dignità di uomo e spesso la brutalità incommensurabilmente eccessiva della tortura va anche al di là della sola violenza fisica. È l’Altro – in quanto uomo su cui viene esercitato un potere assoluto, totale e a cui non si può sottrarre – che viene annientato, cioè privato della sua umanità; ma – spiega l’autrice – la brutalizzazione dell’Altro necessita come conditio sine qua non della disumanizzazione del Medesimo, cioè dell’imbarbarimento innanzi tutto del carnefice stesso.

Nel primo capitolo il concetto del “silenzio della tortura” viene declinato/articolato secondo alcuni significati fondamentali: il silenzio come occultamento, come menzogna, come deserto interiore, il silenzio dell’aguzzino e nella società. Nonostante la convinzione dei sostenitori della tortura – soprattutto nel clima securitario ormai inarginabile e parossistico post 11 settembre – che essa serva a “far parlare”, in realtà, sostiene con fermezza l’autrice, essa produce solo silenzio o, in alternativa, “menzogna”.

Dal punto di vista politico è dall’età moderna in poi che la menzogna comincia ad assumere un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello tradizionale di arcana imperii, di segreto di Stato, cioè di una verità occultata, celata per tornaconto del potere; la menzogna si fa “azione”, diviene performativa, in quanto incide sulla realtà, di fatto creandone una nuova, costruendo una verità. La menzogna in questo modo pone in essere una “verità falsa”, che però vale come vera; si tratta di una “verità predisposta di fatto”, cioè di una falsificazione pubblicamente esibita, che inoltre capovolge il paradigma tradizionale della menzogna, che non è più sinonimo di segretezza ed occultamento, ma di esibizione. Si tratta di menzogne che per poter essere efficaci devono essere conosciute da tutti o dalla maggioranza. La menzogna come arcana imperii era una strategia politica che, secondo Machiavelli, il principe doveva padroneggiare, ma

ben diversa è la menzogna chiamata in causa dalla prassi della tortura, il mentire come invenzione programmatica di concetti, ideologie, fatti, documenti allo scopo di affermare o consolidare un regime politico: di creare una nuova realtà, funzionale al proprio interesse o potere. […] Come viene dimostrato tragicamente dal sistema del lager novecentesco, ove le menzogne alimentate ed escogitate tramite la tortura si resero determinanti per il suo funzionamento e per la sua sopravvivenza (pp. 13-14).

La menzogna politica intesa come creazione/imposizione di una realtà falsa diventa consustanziale al processo di legittimazione dell’ordine politico e va a colmare «il deficit di legittimazione del potere che inaugura la modernità» (p. 16); carenza dovuta al venir meno di altri elementi fondanti la legittimità del potere di ordine teologico, teocratico, feudale e che impone all’ordine politico la necessità di autogiustificarsi, di autofondarsi, producendo rappresentazioni della realtà. Pertanto, la menzogna – anche la tortura in quanto «sorgente di menzogne» (p. 15) –

corrisponde a tale esigenza a due livelli. Da un lato, si presenta una potenza immaginativa che prospetta nuove realtà dotate di senso ed espressione di un nuovo ordine. Dall’altro lato, si profila una potenza immaginativa asservita all’invenzione di nemici esterni e interni, funzionale a inculcare nella massa delle persone l’idea della cogenza di un potere forte che sappia restituire la perduta sicurezza, garantire la tranquillità, superare l’endogena incertezza, fonte di paura diffusa e pervasiva nella società intera (p. 17).

La caccia alle streghe dal Trecento al Seicento perfettamente risponde a queste esigenze e corrisponde a queste dinamiche.

Se l’attenzione poi si sposta dalla vittima al persecutore (“Il silenzio nell’aguzzino”), allora occorre innanzi tutto comprendere come la tortura interrompa «ogni canale comunicativo sensoriale, intellettuale ed emotivo, creando il deserto attorno alla vittima e pietrificando anche il torturatore che per divenire tale ha attraversato […] un processo di estraneazione e riconversione della propria morale e della propria personalità» (p. 23). Insomma, affinché il persecutore possa portare a termine il proprio lavoro di annientamento fisico e psichico della vittima occorre che lui stesso annienti in sé la propria umanità per poi umiliare ed annichilire quella altrui, con l’essenziale differenza – osserva più che opportunamente l’autrice – che nel caso dell’aguzzino si tratta di un processo di disumanizzazione consapevole, o quanto meno dell’assunzione cosciente di un ruolo che per essere svolto comporta la riduzione a zero della propria umanità, l’annullamento di ogni forma di empatia e compassione per l’altro, cioè una assoluta “ottusità emotiva” – argomenta Lalatta Costerbosa sulla scorta delle riflessioni di Hanna Arendt sulla “banalità del male” dei tanti Eichmann della storia – che consiste nella «carenza di discernimento e di disponibilità al giudizio e alla ponderazione [che rendono il torturatore ] – appaesatosi nel meccanismo burocratico e gerarchico che gli conferisce un ruolo e un movente – capace di infliggere supplizi disumani» (p. 25).

Di fronte alla tortura» – riflette l’autrice, in conclusione della sua analisi dei principali significati del “silenzio della tortura” e considerando in particolare l’ultimo, il “silenzio nella società”, ovvero l’interruzione delle condizioni di possibilità della relazione sociale che isola il torturato, privato della sua integrità e dignità umane – «in definitiva perdono tutti, individualmente e collettivamente. Perde il torturatore; perde il torturato, comunque riesca, scelga o non scelga di comportarsi; perde la società che ha accolto e non ha offerto adeguata resistenza a un germe maligno che costituisce il principio certo della propria disintegrazione (p. 27).

Di grande interesse è l’excursus storico che Lalatta Costerbosa compie nel secondo capitolo, il più lungo dei sei che compongono il libro, riguardo alla riflessione intellettuale sulla pratica della tortura, sulla sua giustificazione o sulla sua condanna. Per quel che riguarda il primo caso, sono Machiavelli, Bodin e i domenicani Kramer e Sprenger, autori del quattrocentesco manuale inquisitoriale contro le streghe, il Malleus maleficarum, i riferimenti proposti al fine di mostrare come la tortura, nel corso della sua lunga storia, abbia visto via via prevalere la sua funzione di “strumento politico” per il rafforzamento dell’autorità del potere su quella di “strumento giudiziario” per ottenere ed estorcere in fase processuale confessioni da testimoni o sospetti. Ma a partire dallo stesso Cinquecento prende il via una letteratura che della tortura denuncia la disumanità, l’irrazionalità nonché l’inaccettabilità morale e l’inefficacia giudiziaria; tutti temi questi che la riflessione illuministica settecentesca svilupperà per approdare finalmente ad una condanna senza appello della pratica del supplizio.

In questo caso l’autrice considera il filosofo spagnolo di inizio XVI secolo Juan Luis Vives, che denuncia l’irrazionalità della tortura in quanto disumana ed inutile, e altri grandi pensatori del secolo come Michel de Montaigne, Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro, che propongono considerazioni analoghe, per poi affrontare più dettagliatamente il testo del 1631 contro i processi alle streghe e contro la tortura del gesuita tedesco Friedrich von Spee – Cautio criminalis – che può essere considerato «uno dei testi più generosi sotto il profilo argomentativo, sebbene uno dei meno noti e frequentati sul tema» (p. 34). Sulla base di un impianto teorico giusnaturalistico e del principio morale della compassione, il religioso tedesco enuclea numerosi argomenti contrari alla tortura quali l’ingiustificabilità della discrezionalità nella sanzione della pena; la violazione del diritto ad una difesa adeguata; l’infondatezza della teoria del doppio effetto per cui «il movente dell’azione ne qualifica la moralità o meno», dal momento che «non si possono commettere cattive azioni per conseguire il bene» (p. 36); la perdita della dignità e l’infamia causate dal supplizio; l’inutilità della tortura al punto da risultare controproducente al fine dell’accertamento della verità, poiché facilmente induce a confessioni false mosse solamente dal disperato tentativo di far cessare i tormenti; l’eccesso, la gratuità e di conseguenza l’immoralità delle sofferenze inflitte. Anticipatrici di riflessioni successive sono anche le osservazioni che von Spee propone circa le ragioni dell’impiego della tortura, da cui emerge «con nettezza anche la motivazione politica, la strategia di affermazione e di consolidamento del potere attraverso l’esibizione dell’arbitrio» (p. 38).

Col passaggio al secolo dei Lumi le voci che si sollevano contro l’abominio della tortura si moltiplicano e quelle considerate da Lalatta Costerbosa vanno da Christian Thomasius a Ludovico Antonio Muratori, da Cesare Beccaria e Pietro Verri, da Wilhelm von Humboldt a Voltaire, da Gaetano Filangieri a Immanuel Kant e le argomentazioni a supporto della comune tesi di fondo riguardano l’opposizione al diritto di natura ovvero alla retta ragione; la violazione del principio della presunzione di innocenza; l’eccesso e la sproporzione della violenza della pena; l’arbitrarietà della stessa e l’abuso di potere che la sottende; l’assoluta l’inutilità, soprattutto dal punto di vista giudiziario, del supplizio, che – sono le note parole di Beccaria in Dei delitti e delle pene – “è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e condannare i deboli innocenti”; l’intrinseca ingiustizia di una pratica che equipara in modo del tutto immotivato il reo e l’innocente, che sono sottoposti al medesimo trattamento, con la conseguenza che – ancora una volta sono parole del Beccaria – “l’innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare”.

E in conclusione dell’esauriente excursus storico e dottrinale, così osserva acutamente e puntualmente sintetizza la studiosa:

Questo sul finire del Settecento, questo tre secoli fa. Ciononostante, dopo questo tuffo nel passato dei tormenti, lampante ci sembra l’odierno ricorrere di vecchi pretesti e cattivi argomenti, magari frettolosamente rinnovati […]. La tortura – per sintetizzare – ha una doppia natura: è giudiziaria e politica. La tortura è inutile per l’interesse pubblico e produce effetti paradossali per il caso giudiziario e per la stabilità dell’ordine politico. La tortura è ingiusta per almeno quattro ragioni: viola il principio di presunzione di innocenza; implica il misconoscimento dei diritti fondamentali, in particolare e innanzitutto del diritto alla vita; è essenzialmente eccessiva e non può essere moderata da norme giuridiche; non può essere giustificata dalla tradizione; porta con sé l’infamia (o l’autopercezione di essa). […] Eppure, queste idee non sembrano oggi così unanimemente condivise; e vengono nuovamente messe in discussione (pp. 54-55).

E non si può che condividere anche questa ulteriore osservazione di Marina Lalatta Costerbosa: «La nostra impressione è, in definitiva, che anche queste circostanze […] mostrino il carattere regressivo del momento presente, un momento nel quale sotto questo specifico profilo legato alla tortura, i diritti soggettivi sembrano “avere un prezzo”: il prezzo della cosiddetta sicurezza pubblica» (p. 55).

La storia recente della “democrazia” occidentale, almeno dalla fondamentale svolta dell’11 settembre 2001 in poi, è prova provata di una deriva autoritaria e repressiva, intollerante e profondamente antidemocratica, di cui è al momento impossibile intravedere la conclusione e che ha riportato in auge, nella pratica e nella teoria, nella predisposizione e nell’utilizzo di violenti strumenti coercitivi di esercizio del potere e nella riflessione giustificazionista di un’intellighenzia prezzolata che si presenta con l’abito del crudo pragmatismo securitario, quanto secoli di riflessione e di progresso giuridico e civile avevano relegato nella categoria dell’esecrabile (per quanto il suo utilizzo, in realtà, non fosse mai stato abbandonato).

Tra gli argomenti attualmente più diffusi a sostegno della legittimità del ricorso alla tortura troviamo – osserva l’autrice – quello del “caso di emergenza”, secondo il quale dinanzi a circostanze eccezionali la sospensione del diritto sarebbe non solo possibile, ma addirittura necessaria e, in secondo luogo, quello della “sicurezza pubblica”, intesa come finalità primaria ed assoluta del potere sovrano, rispetto alla quale anche i diritti fondamentali vanno in subordine. Oppure quello – che sfiorerebbe la comicità, se non fosse tragico – che presume che sia possibile infliggere un supplizio “temperato” da limiti e principi morali accettabili: è la teoria – spiega Lalatta Costerbosa – del «torture warrant, l’autorizzazione giudiziale alla tortura da lasciare al libero convincimento del giudice» (p. 60), che, pertanto, in maniera pubblica e “responsabile”, valuterebbe circa la necessità della tortura.

Ma il ragionamento che in un certo senso fa e da sintesi e da fondamento di tutti gli altri è «quello dal tratto demagogico più spiccato, l’argomento di chiara matrice utilitaristica, declinato in una direzione specifica negli anni Novanta dall’autorevole sociologo Niklas Luhmann e divulgato in innumerevoli circostanze e sedi come argomento della “bomba a orologeria”, della ticking-bomb» (p. 61), che – come già osservato in precedenza – conduce alla relativizzazione di qualsiasi principio, norma o diritto in relazione a situazioni pericolose ritenute gravemente lesive della sicurezza della società: in buona sostanza, oggi non esisterebbero norme irrinunciabili nelle nostre società dinanzi, poniamo, al pericolo terroristico costituito dalla presenza di ordigni innescati e predisposti all’esplosione o di criminali pronti all’azione.

Una simile meschinità di pensiero lascia facilmente intravedere dietro l’apparenza del fine giudiziario – comunque ingiustificabile – quale sia la vera finalità della tortura, anche quando teorizzata e sostenuta attraverso la teoria della ticking-bomb, cioè quella politica; pertanto non si tratta tanto di operare in modo “estremo” ed “eccezionale” per sventare un pericolo assoluto, ottenendo confessioni e informazioni utili, ma si tratta, in realtà, di esibire in maniera indubitabile la forza e la capacità di produzione di violenza del potere politico dello Stato.

È in un contesto complessivo di questo genere che, dopo decenni di inaccettabile e colpevole silenzio, le istituzioni legislative italiane hanno affrontato il doveroso compito del riconoscimento della tortura come fattispecie di reato; circostanze non certo favorevoli per la stesura di una legge chiara, inflessibile ed inequivocabile quale un crimine esecrando come questo esigerebbe, caratteristiche che, infatti, il testo della norma recentemente licenziata dal Senato – lo si è detto in precedenza – fin troppo evidentemente non possiede.

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Genova 2001: Avevamo Ragione Noi / anche se non c’eravamo https://www.carmillaonline.com/2016/08/30/genova-2001-avevamo-ragione/ Mon, 29 Aug 2016 22:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32661 di Simone Scaffidi

indexDomenico Mungo, Avevamo ragione noi. Storie di ragazzi a Genova 2001, illustrato da Paolo Castaldi, Eris Edizioni, 2016, pp. 256, € 13.00

Scrivere di Genova 2001 senza esserci stati è un po’ come recensire un libro senza averlo mai letto. Un grande classico di cui hai sentito parlare tante volte, ne conosci la trama, i personaggi principali, le ambientazioni, Carlo Giuliani, Bolzaneto e la Diaz. Hai anche visto il film di Vicari. Puoi parlarne per ore fingendo di averlo letto, di [...]]]> di Simone Scaffidi

indexDomenico Mungo, Avevamo ragione noi. Storie di ragazzi a Genova 2001, illustrato da Paolo Castaldi, Eris Edizioni, 2016, pp. 256, € 13.00

Scrivere di Genova 2001 senza esserci stati è un po’ come recensire un libro senza averlo mai letto. Un grande classico di cui hai sentito parlare tante volte, ne conosci la trama, i personaggi principali, le ambientazioni, Carlo Giuliani, Bolzaneto e la Diaz. Hai anche visto il film di Vicari. Puoi parlarne per ore fingendo di averlo letto, di esserci stato. Ma la verità è che non avrai mai più occasione di leggerla Genova 2001. Quello che ti resta è fartela raccontare.

Sei il ricordo appannato di Genova 2001.
Un tredicenne che alle medie si vestiva di nero dalle scarpe al collo e che ben prima dell’estate rideva coi compagni dichiarandosi black block. Com’erano stati bravi a farti entrare nella mente i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, la polizia e i manifestanti. Chissà cos’è a tredici anni, con la coscienza politica compressa nei cristalli liquidi di un Nokia 5110, che ti spinge a scegliere tra il bianco e il nero. Vorresti darti una risposta consolatoria, che abbia il gusto della presenza, vorresti convincerti che quel ragazzino aveva già capito da che parte stare. Che il suo G8 era quotidiano, in classe, con le mani al cielo, le manifestazioni di dissenso, i banchi rovesciati. Ma la realtà è un’altra. Genova era a soli 40 minuti di treno da quella classe, ma nel 2001 era una gita scolastica all’acquario. E i pinguini, quelli sì, ti avevano colpito.

Cinque anni dopo. È il 2006.
Sei al liceo e Rifondazione Comunista suscita gran scalpore intitolando a Carlo Giuliani la sede del proprio ufficio di presidenza al Senato. Hai i capelli lunghi, condizione sufficiente per meritarsi l’appellativo di “comunista”. Ma Marx è solo una barba, devi ancora studiarlo e la tua coscienza politica ha lasciato perdere i cristalli per divenire totalmente liquida. Ricordi la prof di filosofia, il dibattito, l’incapacità di schierarsi con forza e intransigenza dalla parte di un ragazzo come te – sì proprio come te, non provare a storcere il naso – ammazzato brutalmente dalla polizia. E poi il silenzio e la vergogna.

Possibile che non avevi ancora letto niente su Genova 2001?
Che nessuno t’aveva mai raccontato nulla di cos’era successo per davvero. Che c’erano solo la televisione e una canzone dei Modena City Ramblers a raccontarti quel libro? Erano già passati cinque anni da quell’assolato pomeriggio di luglio e il nero liquido che si apriva dietro la nuca di Carlo era già diventato oblio. Possibile che il grande classico della letteratura del terzio millennio – AA.VV, Genova 2001 – era andato perduto per sempre. Ne avevano censurato le copie originali. Le avevano mandate al macero. E poi ne avevano occultato i capitoli, riscrivendo paragrafi, inserendo nuovi personaggi e nuovi artifizi letterari. L’avevano fatto prima di luglio: con le sacche nere, il sangue infetto; durante quei giorni: con le molotov alla Diaz e il tossico spagnolo ammazzato; e non si sono ancora fermati, continuano a farlo quando si presenta l’occasione. No. Non poteva essere.

avevamo-ragione-noi-domenico-mungo-4A 15 anni da Genova 2001 cosa è cambiato.
Un diciottenne deve guadagnarseli con le unghie quei racconti di contrabbando. Deve cercare, scavare. Avere la fortuna di trovare qualcuno che gli racconti cosa sia successo. Che gli ripeta allo spasmo come un mantra che “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale” è avvenuta proprio in Italia, pochi anni fa. Ma lo sai che hanno torturato? Che hanno ammazzato? Che hanno spaccato teste? E che i responsabili della mattanza, gli stessi che hanno esultato alla morte di un ragazzo di 23 anni, sono stati premiati, hanno fatto carriera e ora siedono in posti di responsabilità e potere. E chi ha preso le botte? Chi è stato massacrato quei giorni di luglio? Be’, ha subito condanne penali durissime. Sapevi che due di loro dopo quindici anni sono ancora in carcere?

Farselo raccontare.
Prendersi tempo, domandare, farsi bruciare gli occhi dai video gonfi di gas CS e ingiustizia, conoscere chi quel giorno ha scritto con l’entusiasmo e col sangue un racconto tanto vicino alla fantascienza da rappresentare la più cruda realtà umana. Impossibile capirla da soli Genova 2001, neanche se ci sei stato. Piano piano si strozzano in gola i silenzi, la bocca inizia ad aprirsi e chiudersi, boccheggi e ti ritrovi in un mare troppo denso da decifrare, troppo profondo da affrontare da solo. Le eliche degli elicotteri rimbombano sopra le teste e ti tengono sveglio. Empatia. Il racconto diventa cura e comprensione comunitaria. Potevo esserci io. Potevo essere Carlo. Il mio sacco a pelo blu alla Diaz. Empatia. Non c’ero, ma ho mal di pancia. Non c’ero, ma avevate ragione voi.

“Avevamo Ragione Noi. Storie di ragazzi a Genova 2001” di Domenico Mungo.
È appena uscito per Eris Edizioni ed è uno di quei tasselli che contribuiscono a raccontarci quel libro collettivo che è Genova 2001. Fuggendo le retoriche e le manipolazioni dell’informazione mainstream e del potere. È un libro fastidioso, a tratti insopportabile, scritto da chi c’era e ha voluto raccontare la guerra. Quella vera, non la sua rappresentazione. Un coro di voci in azione, mosse da una vitalità urlata, un flusso caotico e disordinato che chiama il lettore a confrontarsi con una narrazione satura di “come” e di similitudini senza sosta. Come a dirci, lo capite quanto è difficile raccontare Genova 2001? Senza i “come” non posso raccontarvela. L’esasperato utilizzo della metafora è un’arma di difesa di fronte alla semplificazione binaria della narrazione dominante su Genova 2001 e rappresenta allo stesso tempo il tentativo di rendere giustizia alla biodiversità che ha contraddistinto quell’esperienza.

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Accanto alla similitudine, ai “come”, la ripetizione.
La ripetizione: funzionale a fissare qualcosa di talmente esagerato, che non resta che trovare parole sempre diverse per descriverlo, in maniera tale da dare consistenza al dramma collettivo. L’evento che si ripete nel libro senza soluzione di continuità è la morte di Carlo. Non si può raccontarla in una maniera sola e non si può permettere che la si racconti in una sola maniera viziata dall’infamia. E allora ascoltami. Ti ripeto da angolazioni diverse come è morto Carlo, per farti capire che ciò è stato e sempre sarà. Non fu finzione, non fu esercizio di stile. Fu morte. E io ancora quasi non ci credo che l’hanno ammazzato come un cane e hanno infierito sul suo corpo. Ma le tue orecchie devono comprendere la ribellione di corpi sanguinanti, violati in vita, violati in morte. Quanti Carlo eravamo ad abbracciare le strade di Genova 2001. La nostra morte non è altro che l’affermazione più degna delle nostre vite. Come possiamo non raccontarla?

Nessun tossico dietro quei passamontagna.
Nessuno spagnolo, nessun italiano, ma ragazzi attaccati a un rotolo di scotch, strappati, appesi al muro, violentati dalle forze dell’ordine nelle strade, nelle caserme, nelle scuole, dai media di regime, da tutti quei benpensanti che continuano a credere che se eri a Genova 2001 potevi morire, dovevi metterlo in conto, è inutile che fai finta di non essertela cercata, ti è andata solo bene che non ti chiamavi Carlo.

Se cercate una testimonianza classica o un’analisi politica ragionata di ciò che è successo a Genova non la troverete in Avevamo Ragione Noi, quello che troverete è la rabbia, la vitalità ribelle che non cede alla potenza mortifera del potere autoritario, la giustificazione della violenza come atto di resistenza e dignità. Domenico Mungo è lapidario, attraverso le voci dei personaggi del suo romanzo, nei giudizi contro il Genoa Social Forum, le Tute Bianche e Luca Casarini, rei di aver messo un cappello di gommapiuma al movimento. Caricaturale nella descrizione del poliziotto romano fascista, ultrà, figlio di un comunista, che non accetterà di festeggiare la morte di Carlo. Prudente nell’assunzione di responsabilità collettiva, nel riconoscere gli errori, riflettere la sconfitta. Ma questo non è il punto. Il suo è un romanzo prezioso, forse soprattutto per chi non c’era, un buon trampolino per tuffarsi nel mare denso che fu Genova 2001 e riemergerne un po’ più consapevoli di prima.

Il libro è arricchito da sette splendide illustrazioni di Paolo Castaldi, compresa la copertina. Graffi chiaro-scuri che restituiscono la misura dell’ingiustizia. Chi aveva ragione non ha volto: non ce l’ha Carlo dietro il passamontagna, non ce l’ha il ragazzo con il casco del Toro al fianco di Carlo, non ce l’hanno i muscoli tesi e le braccia contro il muro nella Caserma di Bolzaneto, e nemmeno quelle in copertina alzate contro il cielo. Chi aveva torto invece non ha occhi, è l’ombra cieca di se stesso.

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Special Track – CCCP, Sono come tu mi vuoi, Live in Punkow, 1996.
come un sudario / come il bagliore intermittente che si riflette sulla facciata / come un fiume che tracima, come una lama / come il fango di un’alluvione, come ululati primordiali / come bestie da macero / come fiammiferi di peltro / come i coriandoli a natale / come le tracce lasciate dalla selvaggina braccata dai lupi / come una fonderia che può esplodere da un momento all’altro / come ombre a Hiroshima / come dettato da una batteria di tamburi che attraversano le strade / come fosse un racconto! / come animali / come un pallone da calcio / come al circo. come al Colosseo. come allo stadio / come i nostri figli / ̀come vivere in un mondo di spaghetti di soia / come essere protagonista di uno di quei film giapponesi sulla Yakuzaa / come se fosse colorata dal sangue, dal vomito e dal cerone dei Danidanzatori Kabuki / come samurai cibernetici e vecchi reduci dell’Impero del Sole / come i cani con l’occhio di vetro che ruscano nei sacchi neri d’immondizia / come un mostro incurante degli affanni e del terrore / come cartellini della spesa che ho appena espropriato dall’ipermercato globale / come robocop avveniristici / come la campana di bronzo che rintocca a morto ogni 6 agosto / come un fiore di loto / come grotteschi musici paramilitari / come se fossero state ideate e disegnate dal genio visionario di H.R. Giger / come le sculture di Boccioni / come i bellissimi emaciati ragazzi di Pasolini / come i vergini di Salò / come lanzichenecchi da Blade Runner / come mosche radunate attorno all’increspato dolciastro del miele / come fuscelli nodosi / come un pallone sgonfio / come le letterine dello Scarabeo quando inizi una mano nuova di gioco / come tarantolate / come scenari della Hanoi posticcia di Full Metal Jacket / come corvacci spelacchiati e puzzolenti / come se fossero stati eterei specchi mobili / come ingoiate da un portentoso sciacquone / come falangi macedoni / come rami rassegnati di salici piangenti / come lapilli di arsenico / come un simulacro svuotato di prepotente violenza / come dei robot / come un mortaretto afono / come formiche impazzite / come una fontanella di vino rosso / come se Brixton e le banlieu in ebollizione esplosiva si fossero trasferite fra Marassi e Nervi, corso Torino e piazza Ferraris. Blade Runner e Che Guevara, i Rage Against the Machine che tiravano un calcio nel culo a Manu Chao e sfondavano i timpani di Fede e Mentana / come alla Millemiglia / come Terminator / come due minatori italiani in Belgio nel 1962 / come pellegrini a San Giovanni Rotondo / come robocop di carne e imbottiture / come stuzzicadenti spezzati / come un corridore-gladiatore di rollerball / come un grottesco cuore estirpato dal suo corpo ormai defunto dopo la violenza subita / come un interminabile serpente di celluloide che nel veleno conteneva le immagini della verità / come una forma di pecorino di carne umana / come er grande Francesco. Er Pupo. / come diceva quer frocio, ’na vita violenta / come n’imbuto senza uscita / come tanti topi a cerca’ de scappa’ da ’na parte all’artra / come quanno pescano li tonni / come jene / come allo stadio con ’na cintura in mano e mi rifila ’na frustata in pieno volto / come una ferita che non si coagula / come il coperchio di una scatola di sardine / come i solchi di questi anni / come le stagioni, come le persone, nella ciclicità del rimosso / come limoni in una fabbrica di limoncello di Gela / come sepolcri / come la marmellata di ciliegia Santarosa sul parquet della palestra di via Battisti / come un bracciale di una vecchia zia indossato per scherno / come napalm / come la guerra / come il partigiano che scendeva a valle, a mani nude, in canottiera / come una trance che blocca tutti gli altri sensi / come carne da cannone / come grottesche statue di guerrieri, all’assalto del popolo esasperato / come una cappa di invisibile fuliggine che si adagia sul piccolo e magrissimo fantoccio che travolto per due volte dalla fuga dissennata e terrorizzata, giace, ora, sull’asfalto, fra i cocci di bottiglia, i bastoni, le pietre, un accendino, delle monete da 500 lire e l’estintore, che, maledetto, sembra pascersi, saziandosi orridamente ingordo, del sangue nero, rosso / come i Comunardi nel 1871, a Parigi, sparare agli orologi per fermare il tempo della Rivoluzione / come mosche imprigionate in un bicchiere, che urlano, si agitano impazzite, rimbalzano contro il vetro / come una marionetta dinoccolata / come Pinocchio / come una carcassa di tacchino / come onde del mare agitate dal vento di ponente / come epigrafe di qualche edizione economica di Einaudi o di Feltrinelli / come un tiro al volo, scagliato di prorompente gioventù, dal limite dell’area all’incrocio dei pali / come un atleta e rapido come uno stambecco in fuga / come un pallone da calcio che ti colpisce in pieno viso / come un fiume in piena / come Corbari / come lupi eccitati e assetati di sangue / come le braccia festanti e le teste urlanti dopo un gol sugli spalti di uno stadio /come spartani alla volta delle Termopili / come quando andavo ai rave illegali nei boschi prealpini e tornavo a Torino due giorni dopo strafatto e incosciente / come in un film / come le sirene d’Ulisse ci incatena / come un pettirosso curioso / come il petrolio / come api impazzite / come statue di sale / come manichini avvizziti dalla paura / come guidare in galleria, a 1000 all’ora a fari spenti / come il cane rabbioso che abbaia perché ha paura, emette l’ultimo esclamativo / come la pece / come lucertole al sole sul lungomare farcito di diossina e sangue nella nebbia di polvere / come neve accumulata in un angolo / come quella di una macelleria / come un’onda che si riavvolge su se stessa dopo aver schiumato rabbiosa fin dentro la risacca / come un mostro biomeccanico, un mutoide cablato di viscere in pvc e legamenti di alluminio e argento chirurgico / come i fiumi che si gettano nel mare a parapendio concludendo la loro vorticosa fuga verso l’infinito / come i sinti ubriachi di gioia e dolore, raccontano gli istanti racchiusi nel pianto come un pugno di miele / come la colonna sonora dei suoi fotogrammi d’appendice.

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Contrappunto nel giorno che precede la commemorazione dei morti (nelle galere e nelle piazze italiane) https://www.carmillaonline.com/2015/10/31/via-via-la-nuova-polizia-nel-giorno-dei-santi-e-prima-di-quelli-di-altri-morti-nelle-galere-e-nelle-piazze-italiane/ Sat, 31 Oct 2015 22:01:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26297 di Sandro Moiso

polizia 1 Ogni tanto qualcuno, discorrendo amabilmente, cerca di convincermi che la Polizia sia altro da quello che è. Mi dicono che mi sbaglio, che non tutti gli agenti sono come quelli della Diaz oppure come quelli che pestano in Val di Susa o che hanno contribuito a por fine al soggiorno in questa valle di lacrime di un sacco di giovani detenuti, meno giovani fermati o semplicemente tossicodipendenti e manifestanti. “Sono poche mele marce” mi dicono “gli altri fanno il loro dovere e proteggono il cittadino”. Così, di solito, faccio spallucce e non do seguito alla discussione.

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di Sandro Moiso

polizia 1 Ogni tanto qualcuno, discorrendo amabilmente, cerca di convincermi che la Polizia sia altro da quello che è. Mi dicono che mi sbaglio, che non tutti gli agenti sono come quelli della Diaz oppure come quelli che pestano in Val di Susa o che hanno contribuito a por fine al soggiorno in questa valle di lacrime di un sacco di giovani detenuti, meno giovani fermati o semplicemente tossicodipendenti e manifestanti. “Sono poche mele marce” mi dicono “gli altri fanno il loro dovere e proteggono il cittadino”. Così, di solito, faccio spallucce e non do seguito alla discussione.

Non mi sono mai abituato all’arroganza del potere e degli uomini in divisa. Non ho mai creduto alle fandonie sugli errori commessi da qualche ruota di scorta del carro funebre delle forze del dis/ordine. Non ho mai creduto, né a Genova né a Ferrara né tanto meno a Roma o in qualsiasi altro teatro di violenze poliziesche, che le “cose siano andate male” oppure che “siano sfuggite di mano”. Ho sempre però creduto che una struttura abbia svolto e stia svolgendo il ruolo per cui è stata creata: garantire l’ordine del capitale. Ad ogni costo e con qualsiasi mezzo necessario.1

In occasione della presentazione, avvenuta a Palazzo Chigi lo scorso 27 ottobre, del libro “Dieci anni di ordine pubblico”, l’Associazione Funzionari di Polizia (Anfp) ha presentato al governo le proprie lamentele e le proprie richieste, criticando la gestione dell’ordine pubblico e chiedendo, allo stesso tempo, un ammodernamento dei reparti Mobile.

Come osservano i curatori del testo, “oggi il conflitto sociale rischia di ritornare sulla scena con tutta la sua carica dirompente, come testimoniato dalle numerose proteste contro il governo Berlusconi prima, nel 2011. E contro le politiche di austerità del governo Monti poi, nel 2012. Nonché quelle avverso l’esecutivo Renzi nel 2014“.2

DIECI_ANNI_DI_OR_55f00efbda883 Nella prefazione del testo, il segretario dei Funzionari di Polizia, Lorena La Spina, sostiene che la gestione dell’ordine pubblico, così com’è oggi, non è adeguata ai tempi. Le forze dell’ordine non dispongono di mezzi adeguati e, soprattutto, non esiste un adeguato quadro normativo.
Bene, penseranno molti lettori, lo Stato ci ripensa e i suoi funzionari più illuminati rivolgono la loro critica agli atteggiamenti brutali, alla scarsa preparazione psicologica degli agenti e a un quadro di norme e leggi che favorisce l’evasione “penale” dalle proprie responsabilità dei rappresentanti, in divisa o meno, delle forze del dis/ordine e un impiego sproporzionato di mezzi e di violenza rispetto al pericolo realmente costituito dalle loro vittime.

No, niente illusioni, le richieste sono altre. Come al solito: più armi, più controlli, più repressione e, soprattutto, più libertà di azione. La Spina, per iniziare, suggerisce “la modernizzazione dei reparti preposti al mantenimento dell’ordine pubblico”, attraverso “la creazione di vere e proprie task force “antisommossa”, altamente specializzate”, in modo da garantire “l’isolamento dei teppisti professionisti che confidano di essere protetti dalla folla”. Che poi si tratti di studenti in lotta per la scuola, lavoratori in difesa dei posti di lavoro, sfrattati che difendono il diritto ad avere una casa oppure valligiani che si difendono dalla cementificazione e dalla distruzione dell’ambiente poco importa: lo spauracchio dei black bloc torna utile sempre per giustificare qualsiasi azione in difesa delle scelte del governo e del capitale mafioso.

Secondo lo stesso sindacato di Polizia, dovrebbe poi essere valutato l’uso di proiettili di gomma, che hanno grande efficacia deterrente contro i violenti, e potrebbero essere utilizzati fucili “marcatori”, armi ad aria compressa che sparano sfere di plastica contenenti vernice colorata, “per rendere possibile l’identificazione dei facinorosi e dei violenti, anche una volta cessata l’emergenza”. Ancora una volta non importano i feriti gravi, coloro che per un proiettile di gomma sono morti o hanno perso un occhio. Quello che conta è marcare, stordire, individuare e punire. La foucaultiana sorveglianza si è ben allargata nei mezzi e nei fini.

Gli sfollagente di gomma, oggi disposizione dei poliziotti “si rivelano spesso insufficienti a contenere i manifestanti”, per cui il tonfa, già ampiamente sperimentato a Genova nel 2001, essendo un’arma a tutti gli effetti si rivelerebbe più utile essendo in grado (ma questo non è detto nel testo) di provocare gravissime lesioni, quali traumi o ossa fratturate.

Per altro verso, osservano i Funzionari, le misure di prevenzione attualmente previste si rivelano inidonee a fronte di soggetti la cui «pericolosità sociale possa dirsi “qualificata” da un sostanziale abuso del diritto di manifestare». E così ben venga il Daspo anche in ordine pubblico. È infatti «certamente debole», denuncia La Spina, «l’ambito degli strumenti volti a fronteggiare e contenere il pericolo nelle fasi immediatamente precedenti gli scontri»“.3

Anche perché, gli stessi funzionari, ritengono che già si sia troppo permissivi nei confronti di coloro che partecipano ai cortei con il volto coperto o facendo uso di caschi protettivi: troppo lievi le pene da 1 a 6 mesi. Non bastano le telecamere diffuse sul territorio e gli arresti in differita: occorre di più, occorre andare oltre quella legge Reale, legge 22 maggio 1975, n. 152, che già diversi rappresentanti politici suggerirono di ampliare e rinforzare dopo gli scontri di Roma del 17 ottobre 2011.4

Ma, per ora, niente codice identificativo sulle divise, perché i soliti Funzionari sono contrari all’uso di un codice identificativo poiché “rappresenta un punto di arrivo, che si potrà concretizzare solo quando il livello degli strumenti legislativi e tecnici a disposizione potrà garantire un contesto di legalità non manipolabile” (?). Evidentemente le norme europee, strombazzate ad ogni piè sospinto per giustificare qualsiasi iniziativa economica e giuridica a danno dei giovani e dei lavoratori, in questo caso non contano.

Il tutto (insieme alla richiesta di scudi in kevlar, uniformi paracolpi e collegamenti radio hi-tech) è giustificato dall’enumerazione dei poliziotti feriti durante le manifestazioni (“soprattutto in quelle ambientaliste” significa forse “in quelle contro il Tav”?), anche se non conta se il codice di richiesta di soccorso sia stato rosso, giallo o verde. Così come continuano a non contare Carlo Giuliani, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giannino Zibecchi, Giuseppe Uva: tutti morti ammazzati, con così tanti altri che non è nemmeno più possibile elencarli tutti.

Infine, l’aumento del 19% delle manifestazioni di piazza, avvenuto dal 2005 ad oggi secondo il testo in questione, che sembra preoccupare tanto il governo, le forze politiche, gli amministratori ed gli apparati repressivi, sembra essere messo in evidenza soltanto come ulteriore motivo per reprimere ancora di più ogni forma di organizzazione dal basso, criminalizzare ogni accenno di lotta sociale e per promuovere nuove paure insieme ad una ulteriore fascistizzazione dello Stato.

Però, almeno su una cosa non si illudano i signori funzionari: non ci sarà mai più, come dopo Valle Giulia nel ’68, un altro annebbiato Pasolini a giustificarne le quotidiane Saint Louis.


  1. Si veda anche “Distrutto di polizia”, Carmilla on line, 1 marzo 2012  

  2. Armando Forgione, Roberto Massucci e Nicola Ferrigni, Dieci anni di ordine pubblico, Focus sulle manifestazioni politiche – sindacali – sportive, Eurilink  

  3. Questa citazione, come altre informazioni contenute nel testo, è tratta da Alberto Custodero, Polizia: ”Per le manifestazioni di piazza servono armi diverse e nuove tecnologie”, Repubblica. it, 27 ottobre 2015  

  4. «Si deve tornare alla Legge Reale. Anzi bisogna fare la Legge Reale 2. Non è tempo di rimpalli ma di un’assunzione di responsabilità da parte di tutte le forze politiche per creare una legislazione speciale e specifica che introduca specifiche figure di reato, aggravamento dei reati e delle pene oggi previste, allargamento del fermo e dell’arresto, riti direttissimi che permettano in pochi giorni di arrivare a sentenza di primo grado». Roberto Maroni: “Nuove misure contro le violenze“, Antonio Di Pietro: “Torniamo alla legge Reale” – Repubblica.it  

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