Genesis – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 MUSICA STRANA – Intervista a Fabio Zuffanti https://www.carmillaonline.com/2016/12/20/musica-strana-intervista-fabio-zuffanti/ Tue, 20 Dec 2016 22:21:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35376 di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i [...]]]> di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i Pink Floyd, i Jethro Tull o i Deep Purple. Quella a cavallo tra anni Sessanta e Settanta fu una stagione creativa eccezionale (anche in Italia, a partire dai nostri Big Four: Area, Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e Orme) ma col passare del tempo i canoni esecutivi e compositivi del genere cominciarono a cristallizzarsi, specie dopo la crisi di fine anni Settanta, con l’affermazione del punk e della New Wave. Adesso progressive significava troppo spesso tempi dispari, inserti classicheggianti ed esibizioni autoindulgenti di virtuosisimo senza una reale tensione creativa. I cultori del genere si offenderanno ma la musica “progressiva”, col tempo, è diventata per molti sinonimo di scelte reazionarie piegate alla riproposizione e all’inseguimento di una mitica età dell’oro, anticipando la nostalgica conservazione che oggi investe tutto il rock “classico”. Per fortuna ci sono le dovute eccezioni, grazie a chi continua a pensare alla musica come un organismo vivente, che cresce affrontando nuove esperienze e si arricchisce senza star ferma in un recinto. È successo a livello mondiale con Steven Wilson e, in Italia, è sicuramente il caso di Fabio Zuffanti: un quarantenne genovese che del prog nazionale è un po’ il guru nonché il più popolare interprete, anche all’estero, con una carriera iniziata negli anni Novanta e ora nella massima maturità. Prolifico e mai fermo, Zuffanti è responsabile di band come i Finisterre o La Maschera di Cera, di progetti sinfonici sui generis come gli Höstsonaten, di rock opera, di innumerevoli collaborazioni e ovviamente di una produzione a nome proprio che comincia a farsi sempre più corposa e che annovera titoli di altissimo valore come La foce del ladrone e La quarta vittima.
Fabio: qual è il percorso che porta un ragazzo, negli anni Ottanta a decidere di suonare musica prog?
Credo sia stata una spinta inconscia, una sorta di attrazione, un tentativo di andare oltre le solite cose e cercare di esplorare mondi musicali diversificati. Sono cresciuto con un fratello maggiore che aveva una cameretta colma di dischi e libri. Erano gli anni Settanta e io ero bambino, i suoni che uscivano dalle casse erano spesso quelli di King Crimson, Genesis, Gentle Giant e altri similari. Musiche (e copertine, fattore che scatenava ancora di più la fantasia) delle quali subivo la fascinazione, pur non capendo bene chi o cosa fossero. Ma non solo, il fratello era abbastanza onnivoro musicalmente e verso la fine del decennio prese ad ascoltare anche Talking Heads, Clash, Joe Jackson e altra New Wave assortita. Ecco quindi che mi ritrovo a 14 anni, 1982, ad avere già assorbito un bel po’ di mondi musicali. Io dal canto mio all’epoca scoprivo il Battiato “pop”, i cantautori, altra New Wave di stampo più elettronico (Ultravox su tutti). Scatta anche la voglia di imparare a suonare la chitarra; il solito fratello era stato bassista in alcune formazioni cittadine e lo strumento campeggiava nella sua camera assieme ad alcune chitarre e a una pianola elettrica. Insomma, tanti strumenti e da parte mia la voglia di scoprirli. Così mi metto di buona lena e riesco a cavarne qualcosa. Per me il metodo DIY era, e resta, il più funzionale quando voglio imparare qualcosa, non ho mai avuto un maestro di musica o cose del genere. Mi ci butto e fino a che non riesco a trovare un modo per esprimermi non ne esco. Così ho fatto con gli strumenti. Alla fine tra tutti quelli che armeggiavo ha vinto il basso che reputavo il più affascinante, ritmo e note allo stesso tempo, un qualcosa anche di molto sensuale se vuoi, con quelle frequenze che ti prendono allo stomaco. A metà anni Ottanta al liceo scoppia la U2-mania. Da lì a mettere su una band per eseguire cover degli irlandesi il passo è breve. Ma a quel punto io sono già imbevuto di tonnellate di ascolti diversificati e ogni volta che si tratta di comporre qualcosa di personale ecco che scatta la voglia di metterci il cambio di tempo, l’assolo più lungo del previsto, la stranezza. Ma facevo ciò in maniera del tutto inconscia, solo non reggevo di fare quattro/cinque/sei pezzi sempre uguali e con la stessa struttura strofa/ritornello. Dovevo sempre mischiare un poco le carte in tavola, ma non per volere fare prog a tutti i costi, ma perché non amo le cose che sono sempre e solo uguali a loro stesse, ho bisogno di variazioni, di sorprese, di contaminazioni impreviste. Dopo il gruppo del liceo, ad inizio Novanta entro in una band chiamata Calce & compasso, di stampo blues/cantautorale. E anche lì, appena presa un po’ di confidenza, ecco scattare i miei input per allungare i pezzi, per mettere nella stessa canzone più elementi. Il gruppo nel 1993 cambia nome in Finisterre e a quel punto la metamorfosi è completa. Complice anche l’ingresso di Boris Valle, un tastierista imbevuto di classicismo, minimalismo e studio della contemporanea (Berio, Nono, etc.) i Finisterre diventano una band prog. Ma l’idea di base non è mai stata quella di rifare i Genesis, semmai quella di scardinare le strutture e inserirci dentro più elementi possibile. Non siamo  mai stati dei nerd del prog per cui o c’è il sinfonismo alla Genesis, Yes e EL&P o niente: ho troppe cose in testa, troppi ascolti e influenze variegate, per fermarmi a un solo aspetto del meraviglioso mondo progressive.
Perché il prog è stato considerato un genere “di destra”? Tu hai mai sofferto questa identificazione?
Assolutamente no; a Genova nei primi Novanta suonavamo spesso coi Finisterre in eventi organizzati dalla FGCI e nessuno di noi aveva idee destrorse, anzi, e mai nessuno ha osato tirarmi fuori discorsi sul prog di destra e cose del genere. Mi sarei arrabbiato molto. Il tutto nasce dal fatto che negli anni Settanta questa musica aveva una patina un poco ambigua, da una parte era seguitissima e molto apprezzata da tutti i giovani del Movimento, dall’altra raramente prendeva posizioni politiche. Spesso i testi erano favolistici, metaforici, psicologici. In realtà invece tutto ciò nascondeva grandi riflessioni nei confronti dell’esistenza, ma era un qualcosa che bisognava sforzarsi di andare a cercare, non era subito messo in evidenza. Da questo punto di vista vinceva chi mostrava in pieno la sua militanza, vedi gli Area. Avevano vita dura invece formazioni tipo il Museo Rosenbach: misero in copertina un collage nel quale spicca un busto di Mussolini. Il gruppo venne bollato come destrorso e la loro carriera ne risentì molto. Chiaramente sono aberrazioni, il Museo Rosenbach non intendeva certo fare l’apologia del duce, trattando però un concept sullo Zarathustra nietzschiano c’era di mezzo anche tutto un discorso sul potere, da qui il riferimento. Sono cose un po’ più sottili, alle quali accostarsi con un’adeguata apertura mentale.
Il prog come lo intendi tu è una musica effettivamente “progressiva”, secondo il significato originale del termine, senza barriere. Io oggi questa libertà però la vedo soprattutto in certo jazz e in tutte le esperienze musicali indefinibili, che fuggono programmaticamente un genere.
Il prog per me è una palestra che in primis mette in gioco me stesso e la mia apertura verso altri mondi, musicali e non. E la libertà che esprime è impagabile. Come dici tu, oggi come ieri, è il jazz che cerca sempre la contaminazione ma non credo che il prog abbia perso la sua voglia di abbattere steccati. Mi spiego: ascolto tanti demo e cd di gruppi giovani ed è vero che in molti casi questi cercano sempre di scimmiottare gruppi importanti, ma ci sono anche ragazzi che si trovano in sala e non si accontentano di fare la canzone da tre minuti e stop. Certo volte esagerano coi virtuosismi, con le seghe mentali e con strutture troppo complesse ma l’approccio è quello giusto: non fermarsi, andare oltre! Quindi è comunque un esercizio che fa bene, alle mani e alla testa. Poi c’è sempre tempo per affinare la proposta, cercare l’originalità e comporre musiche che arrivino veramente.
a4183923227_10Il mio essere onnivoro a volte ha fatto sì che avessi il desiderio di fare magari un passo indietro rispetto alle strutture “aperte” del prog e mi venisse voglia di fare il percorso opposto, ovvero provare a vedere cose succedeva se deliberatamente mi richiudevo entro le strutture della canzone tout court. È un modo come un altro da parte mia di abbattere uno steccato, solo che invece di combatterlo mi ci rinchiudo cercando di capire come posso cambiarlo da dentro. Con i Finisterre abbiamo sperimentato più volte con la forma-canzone e io in particolare le ho dedicato un intero album (La foce del ladrone, del 2011). Il disco è andato benissimo ma il responso da parte della frangia più oltranzista dei miei fan è stato disastroso. Non ci sono state nemmeno critiche negative, ma proprio disinteresse. Fortunatamente una parte del pubblico che mi segue è curioso, altri tirano su la testa solo quando leggono i nomi Höstsonaten, la Maschera di Cera, Finisterre, ovvero nomi sicuri e dalle quali non ci si vuole attendere sorprese. Mi dicevi di avere trovato in Autumnsymphony di Höstsonaten diversi elementi jazz che potrebbero non dispiacere a un ascoltatore di quel genere: quell’album è stato uno dei meno capiti di Höstsonaten. Detto ciò io comunque faccio la mia strada e se mi venisse voglia di fare un disco rap lo farei.
Tu sei molto attivo: pubblichi, produci, scrivi. Sei un punto di riferimento nel genere che suoni. Perché non si riesce ad aggregare tutte le energie che ci sono in giro? È un problema storico attuale o più una peculiarità negativa dell’Italia?
La tua domanda è il quesito del secolo per me. Ciò che posso dirti è che conduco da anni una lotta per l’abbattimento di molti steccati. Posso essere anche d’accordo con chi preferisce “schierarsi” a favore di un genere piuttosto che un altro e sposarne filosofia e peculiarità; il metallaro, il jazzofilo, l’indie rocker, il classicista, il dark e via dicendo. Ma ci deve essere anche una strada che inglobi tutte le direzioni, anzitutto perché di curiosi come me ce ne sono molti più di quanto si pensi e poi perché mischiare le carte fa sempre bene all’elasticità mentale. Invece è tutto molto chiuso e settoriale, lo vedo col progressive: ad ogni evento ci sono solo gruppi prog che si portano dietro il (selezionatissimo) pubblico prog e quindi non se ne esce. Invece sogno concerti dove ci siano artisti diversi a condividere lo stesso spazio in modo che sia chi sta sopra il palco sia chi sta sotto possano arricchirsi, a livello di conoscenze ed emozioni. Purtroppo prevalgono i compartimenti stagni, le piccole nicchie che non comunicano tra loro. Io cerco di rendermi più trasversale che posso, specie nella frequentazione e collaborazione con musicisti diversi che possano aprirmi a nuove esperienze. Non me ne frega nulla di chiamare Steve Hackett a farmi un assolo su un disco, è la cosa più banale e poco “progressiva” che potrei fare. La sfida è chiamare, chessò, Manuel Agnelli a cantare una suite da venti minuti. Vedere cosa ne ricavo io e cosa ne ricava lui, da questa unione. Solo mettendo assieme esperienze diverse, senza paura e con la giusta forma mentis si potrà creare qualcosa di grosso e uscire per una buona volta da questa impasse infinita. Ogni anno organizzo il mio Z-Fest e cerco di proporre proprio questo; trasversalità! È dura ma con il giusto impegno i risultati non mancano.
In Italia si riesce a vivere di musica, al di là dei generi?
Non posso parlare dei colleghi perché ognuno ha la sua storia, le sue esperienze, le sue esigenze e le sue fortune o sfortune. Personalmente, dopo anni di sacrifici, sono arrivato al punto di riuscire a pagare l’affitto, le bollette e quel poco che mi serve per vivere. Certo, propongo cose non proprio popolari, quindi un po’ questa fatica me la sono anche cercata ma questo è quello che il mio cuore mi dice di fare e questo faccio. Sopravvivo grazie alle vendite dei dischi, ai diritti d’autore, alle produzioni per altri artisti, ai libri e a tanti lavori in campo musicale. Più difficile, invece, vivere di solo live.
fabio-zuffanti-zband-20Chi è che racconta l’Italia di oggi, adesso, secondo te? Sono veramente i rapper?
Mah, se il rapper sa raccontare bene e riesce a essere veramente lo specchio dei nostri giorni, come lo sono stati in diverse epoche molti altri autori, perché no? Ma il rapper deve essere tosto, io ad esempio amo molto Dargen D’Amico, uno che sperimenta con le parole e con la musica e quando rappa quello che dice colpisce: è intelligente, ha cultura e poesia. Oppure apprezzo certo rap militante (penso agli storici Assalti Frontali). Purtroppo il rap oggi è al 90% una cosa da ragazzini con storie da e per ragazzini. Anche quello è un modo di raccontare il mondo di oggi, quindi ci sta, però io non riesco ad ascoltarlo. Certo rap adolescenziale non lo ascoltavo a 16 anni, figurati ora. A parte poche eccezioni trovo i cantautori di oggi (specie quelli indie) molto deludenti, a volte dei poseur buoni solo per far breccia su un pubblico che si accontenta e segue la moda del momento. Bada: detto questo, non sono assolutamente oltranzista nei confronti dell’indie italiano. Anzi, è una realtà che mi incuriosisce assai perché nell’indie tutto sembra possibile, musiche “strane”, personaggi fuori dagli schemi, robe anti-classifica. È tutto più libero! Inoltre c’è un ottimo giro concertistico, bei locali, un pubblico folto, curioso, acculturato. Il rovescio della medaglia è che se non rispetti certe caratteristiche – anche proprio fisiche, di abbigliamento e atteggiamento – non puoi far parte di quel giro. Un giro fatto di etichette, siti e situazioni varie che rappresentano comunque una delle poche valide alternative al pop mainstream.
Gli artisti che apprezzo nel giro indie (e dei quali, in alcuni casi, sono amico e collaboratore) sono tanti. Te ne cito alcuni: Bachi Da Pietra, Beatrice Antolini, Alessandro Grazian, Colapesce, Fuzz Orchestra, Giardini Di Mirò, I Cani, Iosonouncane, Julie’s Haircut, Massimo Volume, Teatro Degli Orrori, Bologna Violenta, Mariposa… Tutta gente che come me ha un approccio che mette innanzi a tutto la voglia di esprimere qualcosa con qualsiasi mezzo e qualsiasi sforzo, prima della tecnica strumentistica. Loro sono un po’ dei figli evoluti del punk. E anche io mi sono sempre sentito facente parte di quella scuola. Però ho fatto prog che è un po’ un controsenso… ma io nei controsensi ci sguazzo: vuoi mettere la soddisfazione di quando riesci a fare qualcosa passando per la strada meno agevole?
C’è qualche esperienza prog italiana storica, tolti PFM, Banco, Orme e Area, che tu reputi straordinaria? Una chicca da consigliare ai nostri lettori?
Ne cito una per tutte, in quanto stella di prima grandezza: Ys del Balletto di Bronzo. Anno 1972, un album incredibile, tra sinfonismo novecentesco alla Bartok/Messiaen/Stravinskij, rock acido e delirante, atmosfere lugubri e opprimenti. Per me un must, uno dei dischi più rivoluzionari partoriti in terra italica.
Prima hai citato tuo fratello. E tuo padre come vedeva questa “tua” musica?
Anche lui suonava la chitarra e, ancora prima di mio fratello, mi ha insegnato i primi accordi. Era un grande appassionato d’opera ma non era chiuso ad esempio nei confronti del rock. Sapeva quali erano i suoi gusti e li coltivava, pur con le ristrettezze di mezzi della nostra famiglia, che lui sosteneva con il lavoro di operaio all’Italsider. Poi invecchiando forse non ha mai compreso bene quello che facevo, perché avessi compiuto scelte così impopolari a livello sociale (fare il musicista piuttosto che un altro lavoro più remunerativo) e soprattutto non capiva come mai, se facevo così tanti dischi e della gente mi stimava, non ero diventato ricco e famoso. Domande alle quali non sapevo rispondere, se non dicendo che faccio musica “strana”, particolare, per un pubblico di nicchia. Se ne è andato lasciandomi il rammarico di non avergli fatto capire a fondo a cosa hanno portato (nel bene e nel male, indipendentemente da fama e soldi) quei due accordi che mi ha insegnato quando avevo 13 anni.
Su cosa stai lavorando adesso?
In questo periodo sono molto concentrato sulla preparazione del mio nuovo album solista, previsto per l’autunno 2017. Con questo lavoro sto esplorando una via “rivoluzionaria” al concetto di prog ed è possibile seguirne lo sviluppo sulla mia pagina Facebook. Poi a gennaio uscirà un progetto a cui ho preso parte, promosso da Mox Cristadoro, nel quale, con altri amici musicisti, ci siamo divertiti a stravolgere e rendere prog, hard e psichedelici diversi pezzi di cantautori italiani storici. Inoltre ho in via di pubblicazione un album noise-metal con il progetto R.U.G.H.E., la registrazione di un reading assieme allo scrittore Antonio Moresco e un EP di canzoni “out” e a marzo sarò a Milano con la nuova edizione dello Z-Fest, il mio mini-festival, prima di partire per un tour in nord America. Non starò fermo, insomma!

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Hard Rock Cafone #1 https://www.carmillaonline.com/2015/07/02/hard-rock-cafone-1/ Thu, 02 Jul 2015 20:22:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23484 hrc100di Dziga Cacace   

e noi dietro col fiato corto

Affanculo tutti: i SANTARITA SAKKASCIA  Scrivo da anni di hard rock cafone, avendo usurpato il nome per questa rubrica di Rolling Stone da un grandioso gruppo dei primi anni Novanta, quando l’underground vero esisteva ancora. Si chiamavano Santarita Sakkascia, romani e romanisti (Deppiù, come recita la loro cover “ramonata” di un canto tifoso di Lando Fiorini) e suonavano tutto. Dal punk al metal passando dal reggae e dalla psichedelia. Lo facevano bene e con un’intelligenza estrema nei testi, ma siccome erano anche [...]]]> hrc100di Dziga Cacace   

e noi dietro col fiato corto

Affanculo tutti: i SANTARITA SAKKASCIA 
Scrivo da anni di hard rock cafone, avendo usurpato il nome per questa rubrica di Rolling Stone da un grandioso gruppo dei primi anni Novanta, quando l’underground vero esisteva ancora. Si chiamavano Santarita Sakkascia, romani e romanisti (Deppiù, come recita la loro cover “ramonata” di un canto tifoso di Lando Fiorini) e suonavano tutto. Dal punk al metal passando dal reggae e dalla psichedelia. Lo facevano bene e con un’intelligenza estrema nei testi, ma siccome erano anche sarcastici alcuni criticonzi pigri li imbarcarono nel filone demenziale. Esistenziale piuttosto. E non scherzo. Concerti, centri sociali e il rito domenicale della sala prove sfociarono in cassette e CD autonomamente prodotti e distribuiti. Ne riparlo oggi con Emanuele Gabellini, allora bassista, oggi artista e “ambasciatore dell’ordine dei confusionari”. Nessun rimpianto, perché erano liberi sul serio, tanto da finire agli arresti per la liberatoria e blasfemissima Santi Numi (vedasi Youtube: si astengano i bigotti, godano gli altri). A fianco alla caciara dell’inno alle fetentissime scarpe Mecap o al vertice geniale del surreale incontro con John Zorn “alla fermata del 23”, c’era anche l’insofferenza genuina per i politicanti (Manco si skiatti), per la Videocracy 15 anni prima del documentario di Gandini (Sti cazzi e Nostalgia di Khomeini) e per la tentacolare società dei consumi (Senza titolo).
hrc101Colpivano anche l’inquietudine e il disagio urbano di Sono depresso e di Sto come ‘na pigna, che parlava di droga come Vasco non è mai stato capace. Il loro manifesto anarchico era però nella rabbia autentica di Affanculo tutti che ben rappresentava il disorientamento dell’Italia del 1994, post Tangentopoli e nella merda come prima, col virus berlusconiano inoculato in vena. E non scrivo inoculato a caso. Hard Rock Cafone, autoprodotto nello studio PanPot e distribuito da Helter Skelter, vendette diverse migliaia di copie, sicuramente molte più di quante oggi servano per entrare nei primi posti in classifica. Ma la storia dei Santarita Sakkascia finì poco dopo, nel 1996, proprio perché lo si faceva per piacere; a se stessi e non a una casa discografica e rientrando giusto delle spese. “Non ci potevamo vivere, ci potevamo morire!”, ricorda Emanuele. Che, a chi mantiene in Rete un culto sotterraneo, annuncia che prima o poi si rifaranno vivi anche se “non si sa in che forma”. Ne abbiamo bisogno. (Dicembre 2009)

hrc102Fortemente illogico: LEONARD NIMOY
Conosco poco la mitologia di Star Trek – che m’è sempre sembrato uno sconclusionato pigiama party ambientato nello spazio – ma lo Spock di Leonard Nimoy era indubbiamente il riflessivo e soprattutto atarassico membro dell’Enterprise, contrapposto all’emotivo ciccione interpretato da William Shatner. Però nella vita la passione c’era, eccome: per la musica. Tanto che quando arrivò la proposta indecente di fare un disco, il buon Leonard colse l’occasione al volo. Teletrasportato in studio, sfornò la bellezza di cinque Lp di successo variabile, prodotti in maniera saccarinosa e ineccepibile, trasformando la duttilità della voce di Nimoy – elastico come un dolmen – in una recitazione ieratica e giocando sul suo ruolo televisivo, tanto che il primo album venne chiamato Highly Illogical. Forse in riferimento all’operazione, che però – e dal popolo che ha inventato Disneyland non mi aspettavo altro – è diventato un piccolo capolavoro di cattivo gusto, capace di resistere negli anni come l’arredamento afro tipico dei Sessanta. Ho assaggiato col brivido che si prova quando, in trasferta estera, ti offrono il cervello di scimmia al cucchiaio o le locuste arrosto. Un dieci per cento di curiosità e un novanta di schifo. La pasta dolciastra si fa calare: una droga a cui rimani sotto, ipnotizzato dalla voce incapace di estendersi oltre la mezza ottava e fantasiosa come quella dell’annunciatore della stazione quando dice la fatidica frase “treno locale, ferma a tutte le stazioni”.
2m8BXUfrifeheoheVEXk1Zl6o1_500Le canzoni sono spesso apologhi morali degni dei Baci Perugina o bozzetti satirici surreali, con occhi alieni, sulla vita terrestre e sulla condizione umana, alla faccia di André Malraux. Pulsar, arpe, echi e suoni siderali condiscono il tutto, senza dimenticare le versioni asmatiche di classici come Sunny o Proud Mary. Ma in questo obbrobrio c’è una straordinaria coerenza che ha reso le canzoni dei classici, tanto che l’uscita del film Il signore degli anelli ha riportato la briosa (diciamo così) Ballad of Bilbo Baggins in classifica. Oggi Leonard Nimoy ha assunto la fisionomia di un Toni Negri incazzato, ha pubblicato due indecise autobiografie (intitolate una Io non sono Spock, l’altra Sono Spock) e sporadicamente fa qualche comparsata, come nell’ultimo Star Trek cinematografico. Ma musica, basta. Del resto ci vuole orecchio, non necessariamente a punta. (Marzo 2010)

hrc103Ho provato a far perdere la pazienza a IAN PAICE
I batteristi sono un po’ come i portieri nel calcio: se non son matti, non ci piacciono. Ian Paice è l’eccezione: se John Bonham dei Led Zepp era un amabile attaccabrighe che poteva scolare litri e litri di vodka, e se Keith Moon degli Who era capace di entrare da un gioielliere ebreo vestito da gerarca nazista, beh, Paice è sempre stato the “quiet one”, quello che, in mezzo agli altri Deep Purple, era il bonaccione. Come si è dimostrato in un pomeriggio in cui avrei fatto saltare i nervi a un eremita buddista. L’appuntamento è a Marano Vicentino, in un confortevole bed n’ breakfest. Quando arrivo, a pomeriggio inoltrato, Paice sta dormendo e manager e promoter – clamorosamente fiduciosi o più umanamente pelandroni – me lo affidano. Mi dicono: lo svegli, lo intervisti e ce lo porti al soundcheck. Prendo nota della strada e attendo. All’ora stabilita mando a chiamare il batterista che si presenta poco dopo in t-shirt nera, pantaloni bianchi e stridenti mocassini color crema. La faccia è quella di sempre, i capelli – mi dicono – originali ma il dubbio rimane (mica come la certezza per Blackmore, che ha il tuppo dagli anni Ottanta); è in forma, giusto un po’ di trippetta, ma niente a confronto della mia che ho vent’anni di meno: si direbbe che lui abbia firmato un patto col diavolo. Consente che videoregistri tutto e risponde quattro volte alla prima domanda perché, nell’ordine: il microfono è spento, cede una gamba del cavalletto, trilla un telefono. Ad ogni modo è in Italia perché gli piace il posto, si mangia e si beve da dio e, onestamente – riconosce –, suonare dal vivo è il modo migliore per tenersi in forma, nelle pause che gli concedono gli incessanti tour mondiali dei Deep Purple. Il nastro gira e lui risponde amabilmente, simpatico e disponibile. Diplomatico quando vado sulla politica (non mi pare un extraparlamentare di sinistra, comunque) o su Ritchie Blackmore che crede di vivere in una fiaba tolkeniana (“If he’s happy, why not?”). Nel tempo libero sta in famiglia (le combinazioni: è sposato con la gemella della moglie di Jon Lord, tastierista fondatore dei Deep Purple), ascolta jazz classico e guarda il calcio in tivù, da tifoso molto deluso del Nottingham Forest. Dillo a me, che sono genoano in serie C. Probabilmente consapevole che i Purple abbiano prodotto alcuni tra i peggiori videoclip della storia, disprezza la logica commerciale di MTV, ammira la tecnica dei giovani batteristi (“Something that I can’t even understand!”) ma invoca originalità e sudore. Del resto, chi ha visto Live8 s’è reso conto dell’abisso drammatico tra i gruppi storici e la masnada di giovinastri che guadagnano la ribalta mediatica grazie a modelle e cocaina. Il nuovo album della band è nato nel giro di un mese, senza tergiversazioni: duro, compatto e potente. Non vede l’ora di andare a suonarlo in giro: è la classica frase promozionale ma dopo mezz’ora con lui, il suo entusiasmo pare sincero. Finita l’intervista partiamo alla volta della Gabbia, disco-pub con – pensa – un palco a forma di gabbia che rimanda più a fantasie S&M che alla musica, ma tant’è. Siamo già in ritardo e mi perdo nella pianura veneta, confuso da rotonde poco palladiane, dalla segnaletica enigmistica e stordito dalla concimazione dei campi (Paice: “Holy Shit! Move quick, please!”).
hrc10bIl ritardo aumenta e la situazione diventa uncomfortable, ma Ian conserva bonomia e humour. Gli dico che penseranno che l’abbia rapito e lui ribatte: “Usually, the kidnapper knows where to go!”. Alla fine ce la facciamo, dopo mezz’ora di panico: un ciula con la maglietta di In Rock a fianco di Ian Paice, persi tra i campi di radicchio… Dopo il soundcheck si cena in una birreria. S’è aggregata un sacco di gente e mangiamo tutti assieme sotto lo sguardo severo di un bassorilievo di Mussolini. Ian degusta birra e stufato e firma dischi tra una portata e l’altra. Sopra la cassa un fez nero e un manganello con scritto “Me ne frego”! Io faccio più fatica a fregarmene e trinco Soave, perdente al confronto dei commensali autoctoni che, da buoni veneti, bevono come dei SUV. Poi si va al concerto, dove il batterista si accompagna a una band locale di vecchie glorie, l’Altro Mondo, per un set tutto a base di Deep Purple. Nel break Ian risponde alle domande del pubblico (la differenza tra Blackmore e Steve Morse? “Well, Steve’s on stage every night!”) e si produce in un mirabolante assolo grazie al quale rimango sordo per tre giorni. Poi, alle due di notte, trionfa il vero rock n’roll: Ian si apparta cinque minuti, si asciuga il sudore e la fatica, cambia maglietta, stappa una birra e poi si concede con pazienza da miniaturista medievale alla scrittura di un centinaio di autografi su piatti, foto, rullanti, dischi, cd, magliette, bacchette e dvd: non gli risparmiano nulla e lui firma. Come il patto col diavolo tanti anni fa. (Settembre 2005)

hrc104Io sono amico di FABIO FRIZZI
Dietro l’ombra lunga di Ennio Morricone si nasconde una ricchissima generazione di compositori che hanno fatto grande il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta. La riscoperta è partita dall’estero (le varie raccolte Easy Tempo, i recuperi di Tarantino) ma negli ultimi tempi s’è sviluppato anche da noi un gusto per quella musica libera e lo dimostra il felice esperimento dei Calibro 35 che, tra cover e composizioni originali, sono già al secondo album (bello, tra l’altro). Durante la mia gavetta tivù da schiavo tipo Boris, ho avuto la fortuna di conoscere uno dei Maestri del periodo suddetto, quando lui era un ragazzo capace di sfornare 4 o 5 colonne sonore all’anno. L’ho massacrato di domande e siamo diventati presto amici. Il suo nome vi sembrerà un lapsus di Luca Giurato, ma Fabio Frizzi (fratello di, esatto) ha firmato musiche che avete ascoltato e apprezzato tantissime volte: dall’immortale colonna sonora di Fantozzi a quella di Febbre da cavallo, quando il triumvirato con Tempera e Bixio era un marchio di garanzia. Da solo è presto il compositore di riferimento di Lucio Fulci, diventando famoso in Francia e USA. Quentin ha una passionaccia per lui: l’ha messo nella soundtrack di Kill Bill e solo per questioni di diritti non appare anche in Unglourious Basterds. Precocissimo, Fabio suonicchia in due musicarelli con Mal, ma esordisce realmente a 23 anni con Amore libero, pruriginoso (allora; oggi… pfui!) debutto di Laura Gemser. Da lì non si ferma più, tra poliziotteschi, horror, commedie sexy e qualche Monnezza. Ha scritto 80 film, 30 fiction, balletti, musical, composizioni per chitarra classica e anche la marcetta de I fatti vostri di RaiDue che, pensateci bene, ha una caratteristica virale degna del miglior Nino Rota. Basta? Macché: è direttore d’orchestra, docente e ha fatto cinque figli. In più è una bella persona, un artista e un artigiano, totalmente sereno anche se i maggiori riconoscimenti al suo lavoro gli arrivano dall’estero, dove non esiste certo intellettualismo da terrazza romana che dà patenti di artisticità solo agli amichetti del giro buono. Oggi che il cinema produce poco, Fabio compone per tante fiction e lo fa come un tempo: “tra Bach e Beatles, ma tirando sempre al classico!”. E lo dimostra quello che ritiene il suo esito forse migliore: la colonna sonora della fiction Il Capitano, con protagonista nel tema la voce della grande Edda Dall’Orso. Ecco, uno così non vi capiterà di trovarlo nel salotto della Dandini, ma in una colonna sonora di Hollywood sì. (Gennaio 2010)

hrc105A New Day Yesterday: JOE BONAMASSA
Dici blues e pensi solo al vecchio nero che, dopo una giornata a raccogliere cotone, canticchia sommesso il suo dolore sul portico di casa. Sbagli, perché il blues, in un secolo di vita, ha continuato ad evolversi. Come oggi dimostra Joe Bonamassa, un entusiasta ragazzone di neanche trent’anni ma con le capacità musicali di un veterano. Italiano di quinta generazione, torna – primo della famiglia – a casa. Lo intervisto nel front lounge del suo tour bus. Intorno ha iPod, un portatile sempre in Rete e un grasso sigaro cubano in bocca, l’unico vizio assieme a collezionare chitarre e bere Diet Coke a garganella. Il tour è andato bene ma ha mangiato da bestia ed è ingrassato. Con una chitarrina in mano a 4 anni e il benestare di BB King a dodici, ha già praticamente suonato con tutti ma crede (e ha ragione da vendere) che riproporre il blues come nel 1930, per la gioia dei puristi necrofili, sia la morte della musica del diavolo. Infatti lui imbastardisce il suo sound con diverse influenze e per rilassarsi ascolta la classica, per trovare idee i vecchi Genesis e per fare l’amore, niente: “Una cosa per volta, non voglio perdere la concentrazione”. Nei suoi dischi e dal vivo capita anche di ascoltare dei pezzi degli Yes, ma è quando parla di gente come Paul Kossoff, Rory Gallagher o Jimmy Page che gli brillano gli occhi. È un pacioccone con le idee estremamente chiare e sa che aver cantato di puttane e whisky a dieci anni non è stato esattamente realistico. Per sentire il blues bisogna un po’ vivere e siccome è in tour da vent’anni, adesso gli argomenti non mancano. E poi la storia si ripete: ha preso una vecchia canzone d’inizio secolo di Charlie Patton e l’ha trasformata in un canto di dolore per la New Orleans devastata dall’uragano Katrina. Allora si sospettava di dighe aperte per sgomberare i neri dai terreni da riedificare; lui qualche sospetto ce l’ha anche per il presente. Ma non c’è solo il blues, ci sono anche i piaceri della vita, come gli episodi dei Simpson o gli action movie di kung fu che guarda assieme a band e crew. Apprezza Zucchero (confessa che se l’è scaricato) e oggi vorrebbe fare una jam con Amy Winehouse. Insomma: vive nel presente. In serata il Transilvania di Milano è pieno da scoppiare. Giovani chitarromani, vecchi bluesman de noartri, il purista cagacazzo che si lamenta dell’uso degli effetti e pure il reduce di Woodstock che probabilmente non si fa una doccia da allora. Joe è uno showman smaliziato e appaga tutti: cita i maestri bianchi e neri e spazia dall’acustico all’hard. Ne nasce una sintesi dialetticamente marxista ed eccitante, moderna, viva: il blues ha un futuro. (Marzo 2007)

hrc106La voce nera di MARC STORACE
La “Notte della chitarre” svizzera non è un film dell’orrore, ma la celebrazione elvetica della sei corde, un concertone fantastico tenuto a Berna questa primavera, nonostante una nevicata di proporzioni siberiane. E senza alcun ritardo, figurati. In mezzo a tanti guitar heroes locali, c’era anche un vocalist d’eccezione: Marc Storace. Se vent’anni fa avevate vent’anni, ricorderete quando sul vagone dell’heavy metal mondiale saltarono su anche quei rockettari dei Krokus: nome sinistro, ma attitudine gioiosa, all’assalto del mondo dagli alpeggi di Heidi. Ma Marc – voce a metà strada tra Bon Scott e Robert Plant, ma più nera – in realtà viene da Malta ed è un perfetto mix anglo-siculo. Non ha più la capigliatura da Napo Orso Capo degli Ottanta, ma il sorriso levantino è sempre lo stesso. E anche la voce, dopo oltre tre decenni di carriera, conserva quell’amabile raucedine da bocconata di sabbia nella strozza. Nei Sessanta, il nostro cavaliere di Malta passa l’adolescenza sull’isola e viene folgorato come tutta la sua generazione da Elvis e Beatles. E vista la vicinanza geografica, ammette, anche da Celentano e Fausto Leali. E conosce presto l’amore (si sa: le ragazze maltesi amano far visitare La Valletta, ah ah). E allora Marc non ha più dubbi su cosa farà da grande: a vent’anni è a Londra e poi in Svizzera, nel cuore dell’Emmental. Che non produce solo caciottelle, ma anche la musica dei Tea, misconosciuta formazione con cui il brevilineo Marc gira l’Europa. Ancora esperienze, un’audizione coi Rainbow e poi l’occasione della vita: la chiamata dei Krokus. L’abbinamento è perfetto: i “big noses” Fernando Von Arb (chitarra) e Chris Von Rohr (basso) e la voce scartavetrata del tozzo e irruento Storace fanno dei Krokus una band hard coi fiocchi che conquista prima la Confederazione, poi il mercato anglossassone. Il rock’n’rolex funziona e i Krokus vendono dieci milioni di dischi mentre MTV passa a rotazione i loro videoclip che sfoggiano impunemente patatone, tutini attillati, teste laccate e gonfie e anche una discreta ironia. Seguono le consuete massacranti tournée in USA e Giappone, fino all’inevitabile sipario: finiscono gli Ottanta e la musica che gira intorno è ancora più dura e violenta. E i Krokus si mettono a riposo. Non Marc, che suona pop e soul assieme a Vic Vergeat e poi, quasi per caso, lancia il fortunato progetto degli Acoustical Mountain, scarno combo che rilegge il rock con due chitarre e la sua voce. Doveva essere la schitarrata da dopo-sci, complice il grappino, ma il gruppo diventa un must in tutte le località sciistiche svizzere. Nel 1994 c’è la prima reunion dei Krokus, anche se i tempi non sono ancora maturi. Il successo vero torna nel 2001, passati definitivamente grunge e condonati i crimini sartoriali a base di lurex. Storace è orgoglioso del suo passato, ma non è un nostalgico. Ammette i compromessi col business, riconosce il male (“the evil, my dear”) che si annida nel successo, dispensa buonumore e autoironia. Come sul palco, dove gioca coi cliché del rocker mai cresciuto, in tutti i sensi. Marc ha una voglia di musica e di vita straripante, è tuttora pieno di progetti (tra cui l’immancabile sogno cafonissimo di un’incisione con orchestra sinfonica) e il resto dell’anno lo vedrà impegnatissimo ancora coi Krokus. Ventisei anni dopo l’esordio, di originale nella band c’è solo lui, ma se i Queen si riuniscono senza voce, sarà mai un problema se i Krokus hanno solo quella? (Settembre 2006)

hrc107Il vangelo secondo MAURIZIO SOLIERI
Se uno fa due calcoli e sa di cristologia, Maurizio Solieri si accompagna a Vasco Rossi da 33 anni ed è la pietra angolare su cui il Blasco ha costruito la sua chiesa. In occasione dell’uscita di un vangelo (Questa sera rock’n’roll, scritto con Massimo Poggini) incontro il chitarrista davanti a un rosso di pregio, dopo una presentazione del libro di fronte a una platea un po’ desolante ma agguerrita. Lui è uno splendore: chioma fluente, giacca da motociclista, abbronzato e con la lingua tagliente, addolcita solo dall’accento sornione e dalla “R” arrotata. Il libro appena pubblicato è la sua storia, ma anche quella di chi ha fatto rock nei primi anni Ottanta, quando si potevano avere in scaletta Albachiara, Siamo solo noi e Colpa d’Alfredo e fare il pienone in Emilia e il deserto a Campi Bisenzio, il famoso “gran suzzèsso” davanti a dieci spettatori silenti. Maurizio – oltre a dividere il palco con Vasco – chiaramente, fa le sue cose (un album solista l’anno scorso, diverse date con la sua band) incurante di come sia cambiato la discografia, anche se “morta” sarebbe la parola giusta. “Di un disco di Solieri di 57 anni non gliene frega un cazzo a nessuno… mentre di un quattordicenne punk: figaaata!”, mi dice, ridendo. Non è una lamentela, è una constatazione, di fronte a un mercato dove il supposto indie che urlacchia su due accordi (è quello che pensate voi, sì, lui) ha più possibilità ormai di chi suona da anni. È anche atterrito dai reality show: “Va bene 15 minuti di notorietà, ma non di più, dài! Di quante cantanti che imitano la Pausini abbiamo bisogno?!”. Nel libro c’è l’entusiasmo e la disillusione, le classiche “maialità” in tour – come le chiama lui – come gli abusi (alcolici, nel suo caso), il ricordo affettuoso di Massimo Riva e il rapporto non sempre idilliaco col Vasco, raccontato con sincerità e senza leccare il culo. E a parlargli, Maurizio è franco e non accampa scuse, pigliandosi responsabilità e dandole, per una carriera felice, con soddisfazioni personali (la Steve Rogers Band) e anche qualche momento buio, con la fortuna ma anche la sfiga di essere la chitarra per antonomasia di Vasco, status che dà lustro ma non troppo lavoro usciti dall’orbita del rocker di Zocca. Tra un tour e l’altro Solieri viaggia molto, ascolta (dai Gov’t Mule ai fantastici Black Country Communion, passando per Jeff Beck e Derek Trucks), legge di musica –specialmente stampa estera perché le riviste italiane gli fan girare i coglioni – e soprattutto vede una paccata di film. Ha goduto con il documentario chitarristico It Might Get Loud e con l’ultimo Polanski, ma l’emozione cinefila più grande gli è arrivata l’estate scorsa, quando ha incontrato Bernardo Bertolucci: “Oh: sapeva TUTTO! Di me e Vasco, di Hendrix e di Jack White!”. Questo è essere giovani (BB, intendo). (Dicembre 2010)

(Continua – 1)

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

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Vic Vergeat story https://www.carmillaonline.com/2013/12/19/vic-vergeat-story/ Thu, 19 Dec 2013 22:06:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11431 di Filippo Casaccia

vvs01Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock. Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia [...]]]> di Filippo Casaccia

vvs01Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock.
Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia suonato – disco, concerto o turno in sala che fosse – ha lasciato il segno, umano e artistico.
Per raccontare la sua storia ho girato assieme al mio collega Riccardo un centinaio di ore di interviste e di concerti, anche se poi la vita ha preso il sopravvento e il documentario non l’abbiamo fatto. Ma la storia c’è e non dipende dal fatto che ci sia sfuggita di mano.
La storia c’è ed è questa, così come me l’ha raccontata il protagonista.

Vittorio Vergeat, di famiglia della Val Vigezzo, nasce nel 1951 a Domodossola e rimane presto folgorato dal rock’n’roll, ottenendo a dieci anni la sua prima chitarra.
È il classico bambino prodigio: ribelle, insofferente alle regole e alla disciplina, ma con le idee chiare su come e cosa suonare. Per tenerlo a freno i genitori lo mandano in collegio, da cui fugge: il suo liceo lo frequenta tra Como e Chiasso (nomen omen) suonando nei beat Black Birds. Dolce Delilah nel 1967 è il battesimo su vinile, che sul retro presenta anche la sua prima composizione, l’ingenua Torna verso il sole che però sfodera un distorsore acidissimo (“Il tecnico del suono, in camice bianco, si lamentava: si è rotto qualcosa!”). All’epoca Vic non è ancora iscritto alla SIAE e la canzone viene accreditata al produttore: “La prima inchiappettata”, termine tecnico conosciuto da molti musicisti.
La “vecchia” musica pop è intanto soppiantata dal rock e il chitarrista studia sui Beatles prima e su Hendrix poi: Jimi rompe ogni schema e il suo strumento lo fa cantare, piangere, urlare. Anche per l’esuberante Vergeat la chitarra diventa un simbolo fallico da masturbare, un corpo femminile da accarezzare e una mitragliatrice da far deflagrare. Lo fa con gli Underground a Lugano, assieme all’uomo orchestra Hunka Munka. Diventano un’attrazione che riempie i locali, al punto che i gestori temono la fuga di Vic, cosa che fa puntualmente, scappando una notte con la sua chitarra e la fidanzatina alla volta di Londra.
Siamo nel 1969 e la capitale britannica è la sua università. Per 7 mesi Vic è tutte le sere prima a mangiare al Ritz – perché è un dandy viziato – e poi al leggendario club Marquee per imparare dai maestri.
vvs02bArmato della sua Les Paul ’58 frequenta gli Hawkwind, un gruppo di storditi profeti dello space rock: “Loro erano drogatissimi e io ero pulito e innocente. Perlomeno ancora!”, e finisce subito, dopo alcuni giorni in sala di registrazione. Il leader Dave Brock oggi nega, ma della sua lucidità di allora francamente dubiterei molto.

Vergeat torna a casa nell’ottobre 1970, in Italia, e assieme alla sezione ritmica della cult band psichedelica Brainticket (Cosimo Lampis alla batteria e Werner Fröhlich al basso, due mastini) forma i Toad, che registrano il primo omonimo album due mesi dopo, a Londra. Suonano spesso in Svizzera, anche al festival di Montreux (nel gennaio 1971) dove in diretta televisiva Vic rompe tre volte le corde della sua chitarra… In Italia le date sono invece sporadiche (lo Space Electronic a Firenze, il Piper a Roma, ovviamente a Domodossola) e la band “frontaliera” viene – e verrà sempre – equivocata come esclusivamente elvetica, con conseguente poca considerazione. Sbagliando.

vvs02Grazie anche al lavoro del sound engineer Martin Birch (mastermind produttivo di Deep Purple, Iron Maiden, Blue Oyster Cult, Rainbow, Whitesnake e tanti altri), il primo disco è bello e inventivo, con la Firebird straripante del leader in evidenza, e si muove con originalità tra le coordinate stabilite da Grand Funk Railroad e Led Zeppelin. Il cantante Benji Jaeger si chiama fuori frustrato (“Non si divertiva molto quando improvvisavo per quindici minuti. E quindici minuti era un assolino!”) e i Toad diventano un power trio che nel 1972 sforna il perfetto Tomorrow Blue, capolavoro riconosciuto hard rock e progressive, dove l’ascendenza heavy blues è stemperata nella capacità melodica di Vic e dalla varietà di ritmi e atmosfere, aggiungendo alla ricetta anche un violino indemoniato.
I Toad partecipano ai classici raduni italiani dell’epoca (Palermo Pop Festival nell’agosto 1971, assieme a Black Sabbath e Colosseum; Villa Pamphili a Roma, nel 1972) ma i grandi riconoscimenti li hanno in Francia, Germania e Svizzera, con buoni riscontri di vendite – specialmente con il singolo Stay! – accolte con tipica spocchia giovanile: “Quando eravamo tra i primi in classifica ero incazzato nero! Volevo essere il 33!”.
Succede anche di aprire per i Deep Purple o per i Genesis in un tour francese (e in questo caso di diventare dopo alcune date gli headliner), ma il momento non viene sfruttato. Il gruppo si prende una pausa e Vergeat va a vivere a Roma.

vvs03In attesa di realizzare un album solista, presta la sua chitarra alla RCA (facendo turni per Renato Zero e Morricone) e si butta in grandi jam, complice l’amicizia con i membri del Rovescio della Medaglia. Addirittura interpreta un cantastorie hippie nella truffaldina riedizione di uno spaghetti-western, Sparate a vista a Killer Kid, anonima pellicola jugoslava e tedesca di metà anni Sessanta con l’unico merito di avere come protagonista secondario Mario Girotti. Che a inizio Settanta diventa Terence Hill e sfonda grazie ai film di Trinità… e allora vai di riciclo. Ma il pubblico – non sembra senza motivi – non abbocca.
Nel 1974, mentre tutto il rock commerciale si divarica e va verso l’hard o il pop e finisce quella magia per cui si poteva suonare tutto, Vic diventa l’unico biancuzzo in una scatenata band soul nera, quella di Wess, gli Airedales: è il suo master in una piccola facoltà.
Dopo Dreams, un disco di rock’n’roll a nome Toad, gradevole ma un po’ sfocato e che non ha alcun riscontro commerciale, Vic torna a Londra in piena esplosione punk e collabora con Pete Sinfield (già paroliere di Emerson Lake and Palmer e della Premiata Forneria Marconi), con Mitch Mitchell (il batterista della Experience di Hendrix) e John Giblin (bassista sessionman extraordinaire, avrebbe poi suonato con Peter Gabriel, Paul McCartney e i Simple Minds). Non ne viene fuori nulla.

vvs04Si torna sulla strada ancora con i Toad che dal vivo sono un calderone ribollente, dove confluiscono blues, hard e funk, in naturale combustione. Una scelta musicale istintiva che il business (a differenza del pubblico dei concerti) non capisce e non asseconda. I manager vogliono un Vic guitar hero, truce, tutto pelle e borchie e la Capitol prova a lanciarlo sul mercato statunitense con un’immagine tamarrissima. Lo cura Dieter Dirks, deus ex machina del successo degli Scorpions, e Vergat (come viene rinominato per facilitare la pronuncia yankee, roba da chiodi) pubblica un album, Down to the Bone, dalla terribile copertina metallara: “Mi chiedevano di fare la faccia cattiva, sul palco o davanti ai fotografi…”. La cosa pare funzionare (il disco entra nella classifica di Billboard) e in realtà sotto la scorza della produzione c’è la consueta varietà di generi, spaziando dal boogie al funky al soul. Seguono diverse date in giro per gli USA, aprendo per Nazareth, Scorpions, Rory Gallagher e Joe Perry Project (del chitarrista degli Aerosmith), ma Vic è una rockstar irrisolta e non è il tipo che la manda a dire. E così, all’interno delle major losangeline, diventa il musicista genialoide da tenere a distanza, da trattare con le pinze perché poco controllabile. La sua sezione ritmica diventerà multimilionaria nei Ratt, gruppaccio hair metal, mentre il nuovo album solista, Weapon of Love, non esce, dopo epocali scazzi col produttore.

Tutti gli anni Ottanta passano all’insegna della frenesia tipica dell’artista valvigezzino: diventa padre due volte, si sposa, divorzia, sembra formare un supergruppo con Rick Wakeman e Carl Palmer, ha un nuovo successo in Svizzera con una band pop rock (i Bank, assieme a Hugh Bullen, già bassista di Battisti e Pino Daniele), perde un ingaggio milionario con la MCA e incide con il cantante dei Krokus, Marc Storace, una bella cover di When a Man Loves a Woman. Ma il singolo viene bloccato dalla casa discografica finché lo stesso arrangiamento – come per magia – viene fuori nel successo planetario di Michael Bolton…
Gli anni Novanta vanno però meglio, anche se non nel modo più prevedibile: infatti nel 1993, assieme alla figlia Neve, Vic scrive la sigla di Pingu, un cartone animato elvetico venduto in tutto il mondo: canta David Hasselhoff, il bel tomo di Supercar e Baywatch e la canzoncina ottiene un buon successo. Ma soprattutto Vic riforma i Toad e fa uscire un album intenso e roccioso, Hate to Hate in cui si scaglia contro la guerra in Iraq (ed era solo la prima guerra in Iraq). Torna in tour col suo gruppo storico e poi – come ospite di lusso – assieme a una band svizzera che sta andando benissimo, i Gotthard, partecipando al vendutissimo D-Frosted.

vvs0xNel 1998 incontra Gianna Nannini grazie alla conoscenza comune del manager Peter Zumsteg e con lei scrive parte dell’album Cuore (e anche un’altra sigla che funziona, quella di Lupo Alberto!). Dopo oltre un anno di concerti assieme, Vic decide di dedicarsi di nuovo alla sua carriera solista: nel 2002 licenzia un buon album dal vivo, No compromise, e partecipa anche a due tributi hendrixiani che rilanciano il suo nome tra gli appassionati e i critici.
Qualcosa però si blocca: dopo anni e anni di tentativi, il guerriero è stanco di combattere.
Ed è qui che arrivo io.

Curando da qualche tempo una rubrica per Rolling Stone, chiamo incuriosito una piccola ma agguerrita etichetta discografica di La Spezia, la Akarma, che lo produce e distribuisce. Mi dicono: “Attento! È diffidente coi giornalisti, il Vergeat!”. Gli telefono, ci annusiamo e finiamo a parlare di Mike Bloomfield e Peter Green, due perdenti nella logica mercantile dell’industria musicale, due geni per noi e per tutti quelli che la musica la ascoltano sul serio.
Per capirci al volo: Mike Bloomfield è la chitarra di Highway 61 Revisited di Bob Dylan mentre Peter Green è il fondatore dei Fleetwood Mac, prima che abbandonassero il blues per tirare dune di coca su per il naso… Due musicisti che hanno saputo mettere in musica con sincerità estrema tutta la loro ansia e difficoltà di vivere, senza mai sembrare dei semplici imitatori della tradizione black.

Vic accetta che lo intervisti e vado a trovarlo a casa sua, a Domodossola. E scopro che se gli piacciono i beautiful losers come Green e Bloomfield, allo stesso modo non ama chi è riuscito ad avere un successo trasversale, come Prince o Springsteen, per esempio.
vvs05La sua storia è decisamente interessante: come ha fatto uno così, mostruosamente dotato in termini compositivi, esecutivi e spettacolari, a non avere avuto un riconoscimento unanime?
Perché, tutte le volte che il successo sembrava dietro l’angolo, qualcosa s’è messo di traverso?
Con il mio collega Riccardo decidiamo di realizzare subito un dvd-concerto, a budget zero e con attrezzature di fortuna. E ci viene anche molto bene: Live at Music Village ottiene recensioni positive in modo imbarazzante, però la distribuzione è difficoltosa se non nulla e il dvd rimane una chicca per appassionati.

Negli anni di frequentazione che seguono vediamo Vic suonare a festival e feste di piazza, in pub, teatri e (letteralmente, in esibizioni sempre clamorose) per la strada, acustico ed elettrico, al Blue Note di Milano come all’Hard Rock Cafè di Mosca. Sempre a fianco del pazientissimo e talentuoso bassista Michi e con amici vecchi e nuovi (Mel Collins, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, tra le collaborazioni più recenti), inseguendo ogni volta progetti artistici inediti, talvolta strampalati, più spesso generosamente incoscienti.
Cosa abbiamo capito di lui? Vic ha una voce chitarristica unica, non fa prove (“Un pittore dipinge la tela una volta sola, no?”) e improvvisa sempre la scaletta del concerto (facendoci impazzire quando si tratta di filmarlo). Consulta gli I-Ching, odia il calcio ma tifa Valentino Rossi peggio di uno hooligan; dimentica ovunque occhiali e cellulare, non sopporta Emilio Fede e le zanzare, gli piacciono il Tenente Colombo, il vino rosé e la sua Ducati è sempre l’ultimo e più prezioso modello esistente (adesso è una Panigale R, in recente sostituzione di una Desmo 16). E poi Vic fa esattamente quello che non bisognerebbe fare quando si suona la chitarra. Cioè: arti marziali e roccia…
È un vanitoso (con un gusto sartoriale tutto suo), un pasticcione e un lamentoso, è logorroico e “tra l’altro” è la sua formula per allargare all’infinito ogni discorso. È idealistico e incoerente, sicurissimo fino al momento in cui non cambia idea. Lo sa e non può farci niente. Perché è vero e non sa mentire, nel bene e nel male.

vvs06Il documentario che volevamo dedicargli non ha trovato committenti: le case discografiche non avevano più un euro e la sua storia, per me paradigmatica di un mondo che sta scomparendo, non sembrava interessare nessuno.
Però quella che mi era sembrata una carriera senza la fortuna che meritava, oggi la vedo in modo molto differente e mi pare che contino di più i risultati ottenuti di quelli che si poteva sognare di realizzare. Del resto Vic è stato ambizioso, sí, ma mai abbastanza da dover accettare delle imposizioni: dopo una partenza fulmicotonica a neanche vent’anni, è come se avesse attuato una lenta ritirata dalle trappole e dalla fatica dello stardom, che può vincolare a una formula e diventare un obbligo. Non senza qualche legittima frustrazione, è ovvio, ma il successo di questo ragazzino di sessant’anni, oggi, sono la moglie Carmen, i figli e i tantissimi amici, la musica che ha scritto e la gioia che regala ogni volta che imbraccia una chitarra.
E non è poco.

Da ascoltare
Toad – Toad (1971)
Toad – Tomorrow Blue (1972)
Vic Vergeat – No Compromise (Live, 2002)
Vic Vergeat – Just the Two of Us (acustico, 2011)
Vic Vergeat – Live (acustico, 2012)

Da vedere
Vic Vergeat Band – Live at Music Village (2006)

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