gender studies – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immagini femminili nell’horror italiano https://www.carmillaonline.com/2022/10/02/immagini-femminili-nellhorror-italiano/ Sun, 02 Oct 2022 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73937 di Gioacchino Toni

Guido Colletti, La lama nel corpo. Immagini femminili nell’horror italiano, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 208, € 18,00

Nel cinema italiano sembra esistere uno stretto legame tra l’horror e la figura femminile nella sua tendenza ad assumere un ruolo sacrificale nell’immolarsi, come richiede il genere, per spaventare lo spettatore, ma, non di rado, anche per solleticarne il desiderio erotico.

Nei gender studies statunitensi degli anni Ottanta e Novanta, studiose come Linda Williams, Barbara Creed, Judith Halberstam e Isabel Cristina Pinedo hanno prodotto importanti analisi circa il ruolo della donna, sia come [...]]]> di Gioacchino Toni

Guido Colletti, La lama nel corpo. Immagini femminili nell’horror italiano, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 208, € 18,00

Nel cinema italiano sembra esistere uno stretto legame tra l’horror e la figura femminile nella sua tendenza ad assumere un ruolo sacrificale nell’immolarsi, come richiede il genere, per spaventare lo spettatore, ma, non di rado, anche per solleticarne il desiderio erotico.

Nei gender studies statunitensi degli anni Ottanta e Novanta, studiose come Linda Williams, Barbara Creed, Judith Halberstam e Isabel Cristina Pinedo hanno prodotto importanti analisi circa il ruolo della donna, sia come attrice che come spettatrice, nel genere horror.

In ambito italiano Roberto Curti, Stefano Della Casa e Deborah Toschi hanno mostrato come nel cinema gotico nazionale degli anni Sessanta la figura femminile sia costruita in modo tale da esercitare un ruolo perturbante sull’universo maschile attraverso una carica sessuale decisamente maggiore rispetto alle analoghe produzioni anglosassoni, utile a soggiogare gli antagonisti maschili rendendoli, in diversi casi, “strumenti malvagi per procura” del maligno che coincide, in ultima istanza, con la donna1.

Riprendendo tali studi il libro di Guido Colletti estende l’indagine ad un campione di film che arriva alla fine degli anni Ottanta ricercandovi «forme di ricorsività di “tipi” femminili invariati, che assumono via via “travestimenti” e caratterizzazioni diverse, nel corso dei vari decenni».

Convinto che il corpo e gli stereotipi femminili riassumano parte importante delle contraddizioni sociali italiane, basate su potere, conservatorismo e progresso, Colletti ricostruisce l’evoluzione storica del cinema horror italiano a partire dal ruolo che in esso ha il corpo femminile nella sua funzione di attrazione perturbante, nell’ambito dei rapporti tra generi, sia dal punto di vista spettatoriale che della narrazione diegetica e nel sistema dei personaggi.

Nell’ambito di una storicizzazione del “cinema di genere”, il “genere” […], è assunto come processo dinamico dipendente dalle fluttuazioni del mercato, dalla storia e dai gusti dello spettatore, anziché un’ entità strutturale fissa; può essere letto, perciò, da due prospettive differenti, talvolta non escludentesi tra loro.
Nella “funzione rituale”, il genere è creato dal pubblico, investito di significato, gli schemi narrativi dei testi si basano su pratiche sociali esistenti, superando eventuali contraddizioni delle pratiche stesse e offrendo soluzioni immaginative attraverso l’uso della metafora e la possibilità di nuove interpretazioni; nell’approccio ideologico, invece, il genere è un mezzo del potere per ipocritamente ingannare il pubblico con il mezzo d’intrattenimento e dare dei messaggi che rispondono agli interessi governativi.
È, tuttavia, l’approccio rituale quello che, nella trattazione di un genere, sembra essere più confacente allo spirito e agli obiettivi teorici di questo studio.
L’accostarsi alla funzione rituale permette quindi di non relegare la schematizzazione narrativa di genere soltanto a puro e semplice fenomeno commerciale di massa (core society), ma di renderla avvicinabile anche a un discorso d’autore. Questo secondo aspetto è decisamente importante per il cinema italiano, ove la permeabilità tra cinema d’autore e cinema di genere si fa più evidente a partire dagli anni Settanta, nel tentativo di occultare il dispositivo dell’enunciazione (p. 9).

Rispetto a studi esistenti incentrati sul gotico italiano, oltre ad ampliare, il periodo temporale esaminato, Colletti allarga, come detto, la sua analisi al thriller e allo splatter. L’aver assegnato centralità alla figura femminile nella sua disamina aggiunge alla ricostruzione storica dei film di genere aperture attinenti al ruolo della donna nel cinema del terrore. «La questione del corpo femminile è, quindi, in primis il traitd’union che lega segno filmico e teorie di gender, anche a livello comunicazionale: attività semantico-rappresentativa e cognitivo-ricettiva».

Il ricorso a una metodologia di analisi di tipo comparativo, inoltre, consente di evidenziare i legami tra narrazione cinematografica e aspetti culturali e semiotici. «L’enunciazione del dispositivo cinematografico consente di leggere, quindi, sì la corporeità come simulacro del desiderio, ma anche di problematizzarla in chiave socio-antropologica, con particolare riferimento all’uso mediatico della donna».

Degli oltre trecento film italiani censiti tra il 1957 e il 1989 è stata verificata la presenza femminile nelle singole opere ed è stata posta «l’attenzione sulla donna come corpo-attore, ovvero personaggio con più peso narrativo, ma anche persona qualitativamente delineata e definita secondo un caleidoscopico campionario di ricorrenti tratti somatici, modi di atteggiarsi, caratteri e principali stereotipi».

Nella sezione del volume dedicata ai corpi femminili sulla carta stampata – “Adult comics e cartellonistica” – , lo studioso allarga ulteriormente l’analisi toccando il «discorso sui film, le interrogazioni e le risposte della critica e dell’opinione pubblica sulla violenza e sull’erotismo al cinema».

Mentre nel film al corpo della donna è almeno concesso di essere “corpo di personaggio” senziente e parlante e, in taluni casi, complesso, a tutto tondo, la carta stampata ne propone una versione piatta, muta e, soprattutto, priva di sviluppo.

La donna diventa un passivo oggetto sul quale si condensa lo sguardo, trasformandolo in “spettacolo” epifanico; in opposizione alla dimensione teticolineare della narrazione, che si fa attiva e progredisce, sulla donna si blocca lo sguardo: la trama di un film non c’è più, c’è soltanto il suo simulacro al femminile, che, però, funge, al tempo stesso, anche da ostacolo al racconto.
Da questo punto di vista, la cartellonistica (flani, manifesti, locandine) e i suoi codici grafici e figurativi sono il medium privilegiato per questo tipo di immagine femminile, la quale segue consuetudini, regole e dettami della persuasione pubblicitaria. In altre parole la corporeità femminile, seguendo una longeva tradizione, anche nel caso del cinema, si offre a essere un tramite tra lo spettacolo e le sue aspettative.
Quindi anche supporti di carta stampata, come i manifesti sono il punto di incontro tra strategie persuasive di marketing e descrizione diegetica; la donna è il richiamo da fuori e insieme la sintesi del plot, testimonial del film (p. 143).

Alla luce della complessità insita nell’horror stesso, del suo oscillare tra infrazione al conformismo e facile ricorso a stereotipi maschilisti, tra pretese autoriali e mero intrattenimento, della questione dei pubblici a cui si rivolge e da cui è fruito, delle dinamiche tra personaggi nella loro caratterizzazione di genere, lo studio di Colletti contribuisce ad evidenziare la funzione e il ruolo sociale che viene a ricoprire il corpo femminile all’interno della cinematografia italiana – e di ciò che vi gravita attorno – nei tre decenni esaminati.


  1. Cfr.: R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e TV, Lindau, Torino, 2001; S. Della Casa, L’horror, in G. De Vincenti, L. Micciché (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. X (1960-1964), Marsilio-Edizioni Bianco & Nero, Roma-Venezia, 2001; D. Toschi, Vittima o carnefice? La rappresentazione della donna nel gotico italiano, in L. Cardone, M. Fanchi, Genere e generi, figure femminili nell’immaginario cinematografico italiano, “Comunicazioni Sociali”, 2, maggio-agosto 2007. 

]]>
Beghe di Titani (Victoriana 30/II) https://www.carmillaonline.com/2021/09/14/beghe-di-titani-victoriana-30-ii/ Tue, 14 Sep 2021 20:33:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68244 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la puntata precedente)

A fronte di alcune scene nelle prime tavole del Perseus Cycle di Edward Burne-Jones, dove le figure sono immobili come statue (tanto da sembrare perfette per un tableau vivant), una sorta di coreografia emerge invece nel quinto episodio della serie e ancor più nel sesto, entrambi dedicati all’uccisione di Medusa.

Secondo il mito, spiccata la testa della Gorgone, dal suo sangue sarebbero sorti il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore, figli dei suoi amori con Poseidone, e lo studio conservato a [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la puntata precedente)

A fronte di alcune scene nelle prime tavole del Perseus Cycle di Edward Burne-Jones, dove le figure sono immobili come statue (tanto da sembrare perfette per un tableau vivant), una sorta di coreografia emerge invece nel quinto episodio della serie e ancor più nel sesto, entrambi dedicati all’uccisione di Medusa.

Secondo il mito, spiccata la testa della Gorgone, dal suo sangue sarebbero sorti il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore, figli dei suoi amori con Poseidone, e lo studio conservato a Southampton, intitolato The Death of Medusa I o, appunto, The Birth of Pegasus and Chrysaor, 1876-85, ne offre un’impressionante trasposizione visiva (a cui si abbina, nella presenza di didascalie identificative dei personaggi, un ultimo riverbero di quella commistione tra testo e immagine così vividamente espressa nella tavola di Cardiff con le Graie). La decollazione risulta infatti disturbantemente sostitutiva di un parto per vie naturali (d’altra parte, la mitologia ci ha abituati a nascite atipiche: basti pensare ad Atena o a Dioniso, per ciascuno dei quali è stato Zeus a fare da “incubatrice”, assimilandone i feti all’interno del suo corpo). L’impudico squarcio del collo/utero di Medusa è coperto dalla figuretta fluttuante e nuda di Crisaore, e questa sovrapposizione genera un curioso effetto per cui si ha l’impressione che, dalle ginocchia in giù, il gigante neonato sia ancora dentro al canale uterino “alternativo” della genitrice. Nemmeno Pegaso è lontano dall’apertura: il cavallo, rampante e in volo, è con ogni probabilità uscito per primo e ora sovrasta la Gorgone; tuttavia, le sue zampe posteriori circondano ancora la sua spalla sinistra e, in particolare, uno degli zoccoli sta proprio dietro al collo privo di testa.

In ogni caso, in un ripudio completo di ogni tentazione gore, il corpo decapitato di Medusa, il cui busto è ancora eretto, si adagia elegantemente sul lato sinistro della sommità rocciosa che la ospita insieme al suo uccisore. Nel modo in cui le sue forme sono state modellate, e in particolare nella resa del panneggio del peplo, Burne-Jones ha adottato un linguaggio che è fortemente debitore della statuaria greca: a livello di suggestione, sembrerebbe quasi che la Gorgone morente e priva di testa si sia trasformata a tutti gli effetti in una scultura marmorea, come in una sorta di personalissimo contrappasso per aver trascorso l’esistenza a rendere chiunque la guardasse un’inerme e inanimata statua di pietra. Sul piano formale, invece, è una soluzione che non stupisce, soprattutto se si considerano le numerose sessioni di copia dal vero al British Museum che il pittore avvia subito dopo aver ottenuto la commissione, concentrandosi in special modo sulle raffigurazioni antiche di Perseo e Medusa. A lavorare al suo fianco, c’è la moglie Georgiana: ormai l’amante scomoda Maria Zambaco è stata scalzata. E a proposito degli studi portati avanti dalla coppia per la realizzazione del ciclo, sbirciando tra le collezioni del museo, salta agli occhi una hydria attica a figure rosse attribuita al Pittore di Pan e rinvenuta a Capua, circa 480-460 a. C, che mostra il corpo di Medusa decollata in una postura del tutto simile e pressoché speculare a quella predisposta da Burne-Jones per lo studio di Southampton. Vero è che si tratta di un tipo di rappresentazione legato all’iconografia del vinto in battaglia; tuttavia, una simile tangenza è decisamente affascinante, quanto lo è l’eventualità che il pittore preraffaellita sia stato influenzato da questo specifico esempio di pittura vascolare greca.

Infine, sulla destra, Perseo distoglie lo sguardo dalla testa recisa di Medusa, che allontana da sé con un gesto deciso e repentino del braccio (reiterando, per esempio, la medesima dinamica di grande potenza simbolica di certe stampe tedesche di età rivoluzionaria in cui un collaboratore del boia, mostrando la testa mozzata del consacrato Luigi XVI, rimane gorgonizzato dallo stesso spettacolo che sta offrendo, come si denota dalla sua espressione allucinata per il terrore da tabù violato). Inoltre, ai piedi dell’eroe, sono caduti attorcigliandosi alcuni serpenti che fungevano da capigliatura per la Gorgone, a indicarne inequivocabilmente la sconfitta.

Proprio in quest’ultima scelta figurativa, che rende visibile l’annientamento del Mostro-Femmina in tutte le sue peculiarità, torna a emergere il nesso mitico legato al binomio donna/serpente, ai temi del volto/maschera e dello sguardo tremendo, alla dignità terribile, ctonia e arcaicissima, dell’Avversaria dell’eroe fallico/solare, alla violenza (venata d’ambiguità, a dispetto d’ogni rarefazione simbolica) ch’egli le reca: tutti elementi connotanti la crisi continua d’un modello femminile non consumato nell’angusto spazio storicamente impostole, e che rimandano in travisamenti e inquietudini al potere dell’antica Dea. Di tale maschera dai tratti fatali e perturbanti – il conosciuto/non riconosciuto, con tutte le eco possibili –, il gorgoneion ostentato dall’eroe analogo Perseo rappresenta forse la più fortunata epifania, e a quell’immagine riecheggiata con frequenza ossessiva nell’arte occidentale (dai suoi albori fino al cinema di genere, The Gorgon/Lo sguardo che uccide della Hammer e Bram Stoker’s Dracula) pare interessante guardare per cogliere in modo indiretto, come in uno specchio, il fondo di umori, sangue e imbarazzi di tutta una dialettica col mostro.

La “Gorgone arcaica era una Dea potente della vita e della morte, e non il successivo mostro indoeuropeo che gli eroi come Perseo devono uccidere” (per citare la pioniera dell’archeomitologia, Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica), ed era connotata nelle immagini più antiche da simboli di rigenerazione (ali d’api, antenne a serpente) ormai incomprensibili nel mondo classico, e probabilmente identificabile con l’aspetto mortifero di un’unica Dea lunare del ciclo vitale – in sostanza l’Ecate poi recepita nel mondo greco. D’altro canto, proprio il suo dramma codificato nel mito, con quanto di sfuggente e onirico possa evocare a noi moderni, si rivela capace di agglutinare un tessuto incomparabilmente fitto di stereotipi e provocazioni circa il rapporto tra Femminile e mostruoso, e di conseguenza (almeno per l’ottica occidentale) tra bellezza e orrore – come suggestivamente rilevato da Jean Clair in un suo celebre saggio. Ciò conduce alla spiazzante, misteriosa statura dell’Antagonista dell’eroe, prototipo di innumerevoli epigoni: il fatto stesso che la quest di Perseo veda l’attraversamento dei “regni di tre volte tre dee” (Károly Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia) – cioè le Graie, le Ninfe datrici di armi e le Gorgoni sui confini del mondo – la iscrive quale catabasi nella sfera della Grande Dea e delle sue infinite manifestazioni triadiche, transitate nell’era cristiana (basti citare le Tre Marie evangeliche, oggetto di lunga devozione popolare) e nel folklore, e infine precipitate nel fantastico popolare (il terzetto di vampire del Dracula che Van Helsing giustizierà nelle bare – e le cui teste, nel film di Coppola, scaglierà dagli spalti). Dalla stessa matrice sorgeranno legioni di dee inquietanti e mostri-femmina, singoli (Echidna, la Sfinge, Scilla…) o a gruppi (Sirene, protovampire e demoni-donna, Succubi, Strigi), deflagranti dai più arcaici racconti sugli dei alle favole delle nutrici di tutto il mondo occidentale e ben oltre: creature pronte a insidiare e divorare, e forti di un potere di orrore e fascinazione continuamente sconfitto e riproposto, contro il quale si provano gli eroi.

Un’intera costellazione di motivi del mito di Medusa verte in effetti sul carattere fatale, attrattivo e repulsivo a un tempo, che ritroveremo fino alle ultime icone popolari della vamp. Pensiamo al tema arcaico (e iniziatico) del volto/maschera, come quelle che si affiggevano in onore di Ecate e la rappresentavano, poi degradato in tutta una letteratura sulla donna mentitrice, attrice, maschera vuota cui l’uomo opporrebbe la propria verità (pena la nullificazione, come le vittime abbrutite dalla mangiauomini, Theda Bara e colleghe). Oppure alla visione pietrificante come sguardo fatale, sostenibile solo a testa girata (ancora Van Helsing dovrà ammettere il proprio turbamento quasi paralizzante davanti ai corpi delle tre Spose del castello Dracula) e in via riflessa/mediata attraverso uno specchio/scudo (che accentua nel segno del virile il motivo folklorico delle rifrazioni rivelative – come poi nelle storie di doppi e vampiri). Ancora, si pensi al tema connesso degli occhi, spalancati o invece chiusi nel sonno: le Graie custodi con un solo occhio che si passano a turno, e in certe versioni le palpebre serrate delle Gorgoni aggredite nel sonno da Perseo (come poi delle Sorelle addormentate trafitte da Van Helsing). Del resto, una simil-gorgone pure imparentata con Ecate, la libica Lamia dal volto insonne (per condanna di Era) e mutato in maschera da incubo, poteva riposare solo levandosi gli occhi dalle orbite e deponendoli in un vaso accanto a sé… magari dopo aver bevuto molto vino. Forse non è casuale la connessione con un’altra Terribile Signora africana, la dea-leonessa egizia Sekhmet – aspetto tremendo della cosmica Hathor nel mito della distruzione dell’umanità (Papiro 86637 del Museo egizio del Cairo, c.d. Calendario dei Giorni Fortunati e Sfortunati): la dea viene addormentata con birra tinta di ocra rossa ed ematite dal Dio Sole Ra per impedirle di sterminare totalmente il genere umano.

Peraltro il viso di Medusa, in origine orchessa barbuta o dea-cinghiale – cioè la femminilissima “dea con la lingua” della fase nera del ciclo (sulla simbolica del maiale in relazione al mestruo, cfr. Jutta Voss, La Luna Nera. Il potere della donna e la simbologia del ciclo femminile, Red, 1996) –, assume nel tempo (già dalla metà del V sec. a.C.) tratti sempre più aggraziati, evocando così un crescente orrore per l’atto della decollazione e un’emozione sottilmente più perversa, nel segno dell’eredità sadica/sadiana che dalla Vergine Ghigliottina condurrà al romanzo gotico, ai supplizi di eroine romantiche (compresa la cattivissima Milady de Winter) e alle decapitazioni di belle vampire. Anche l’associazione tra Gorgone e serpenti – compagni benevoli della Dea neolitica, immagini della dea egizia Renenutet/Thermouthis, associati alla Grande Dea minoica (si pensi alle celebri statuette della dea dei serpenti, come quella conservata al Museo archeologico di Candia, proveniente da Cnosso) o a gran parte degli dei levantini e greci, nonché, se velenosi, legati alla Signora della morte – richiama una lunga tradizione di donne-serpenti della letteratura, con echi gino/sessuofobici memori di un’ostilità semitica e indoeuropea verso la bestia che striscia: la stessa protovampira Lamia, associata a Ecate in arcaicissimi tratti canini, vedrà nel tempo una privilegiata assimilazione al mondo del serpente. Se è poi vero che un altro antico legame di Medusa alla sfera animale, attraverso i cavalli, e la sua immagine come fantastica giumenta, sposa dello stallone Poseidone, madre col suo sangue del cavallo alato Pegaso, paiono meno utilizzate nei richiami artistici moderni, è almeno suggestivo raffrontarvi l’associazione perturbante, linguistica e simbolica, tra giumenta (ted. mähre) e incubo (franc. cauchemar, ingl. nightmare – in riferimento al demone incubo germanico mara) che tanto peso avrà, per esempio, nell’arte di Johann Heinrich Füssli (1741-1825). Anzi, in termini paradigmatici, proprio il grande visionario svizzero ossessionato dal tema di Perseo evocherà spesso in dipinti e bozzetti quell’inversione dei ruoli – l’uomo come testa mozza, la donna fallica, castratrice e appunto decapitatrice – che l’Occidente ginofobico s’era compiaciuto di contemplare in infinite Giuditte, Erodiadi e Crimildi: un brivido masochista che non sovverte ma piuttosto conferma la costellazione mitica (la Femmina inquietante, l’Eroe, la testa mozzata) e può svelare qualcosa sui rapporti sfuggenti, gli scambi equivoci e le contiguità tra mostro e teratomaco dei quali s’è accennato. Emblematico, del resto, è il rapporto tra la Gorgone come sesso reso volto e Baubò (figura grottesca e ineliminabile dei misteri eleusini, che parlerebbe tramite la vulva) come volto reso sesso.

La sesta “stazione”, The Death of Medusa II, o Perseus Pursued by the Gorgons, ripropone un’altra vicenda narrata in “The Doom of King Acrisius” (II, 261-262): quando le sorelle immortali di Medusa, Steno ed Euriale, si accorgono della sua uccisione, si lanciano all’inseguimento di Perseo, ma questi riesce a dileguarsi grazie ai calzari alati e all’elmo dell’invisibilità in una sorta di nebbia o di nube spiraliforme che gli circonda il capo. Nel disegno di Stoccarda, 1876-90, le due sorelle, sollevatesi in volo con gesti concitati, sono paludate in vesti scure; anche il corpo di Medusa, accasciato al suolo sulla destra, è ricoperto da un peplo azzurrino – mentre nello studio preparatorio a Southampton, 1881-82, le tre Gorgoni sono nude. È interessante rilevare come parte del tessuto panneggiato, ripiegato sull’attaccatura del collo reciso, stia svolazzando oltre le sue scapole, forse a voler suggerire lo spostamento d’aria causato da Perseo, che sta balzando sopra di lei per darsi alla fuga. Nel contempo, l’eroe sta infilando la testa mozzata nella bisaccia delle Ninfe: in entrambi i disegni, questa ha gli occhi chiusi ma, a differenza della versione di Stoccarda in cui è rimasta incompiuta, in quella di Southampton si può notare che i serpenti della sua capigliatura sono ancora irti (quindi, vivi e pericolosi). Pur nella drammaticità della situazione, i movimenti delle figure risultano comunque aggraziati e, in particolare, Steno ed Euriale sembrano muovere passi di danza: più che un inseguimento pare una pantomima, e il modo in cui le due sorelle si affiancano farebbe quasi prevedere una giravolta (con reminiscenze della Danza delle gru messa in scena da Teseo e compagni dopo l’uscita dal Labirinto?); similmente e in piena sincronia, anche Perseo effettua uno scarto laterale ritmato ed elegante, che potrebbe quasi ricordare un salto ballato.

Si conclude così la perigliosa missione di Perseo, ascrivibile a un generale contesto iniziatico (in riferimento non a qualche strambo senso esoterico, ma a quello basico di un rito di passaggio maschile all’età adulta): l’eroe rifrange nello specchio (rendendo accessibile alla vista l’invedibile per tabù), decapita e trattiene il gorgoneion della Dea Tremenda. Non solo taglia la testa/maschera con la harpe, l’antica spada a falce lunare dei Titani faccia-di-gesso delle iniziazioni (nel ciclo di Burne-Jones l’arma sembra però identificarsi nel cosiddetto falcione che, pur derivando da falx, può avere – come qui troviamo – lama diritta), ma come lui l’iniziando, in taluni riti di passaggio ellenici, poteva dover fissare una maschera lunarmente riflessa in un recipiente d’argento.

Il solare Perseo, d’altronde, appare patrocinato da divinità patriarcali, come il fallico Ermes (di cui, peraltro, sembra riecheggiare l’aspetto, come una sorta di ipostasi tutta umana), la nata-dal-solo-padre Atena e (attraverso il prestito della cappa dell’invisibilità) il rapitore Ade, subentrato alla Grande Dea quale primo responsabile della Casa dei defunti. La dialettica misterica tra lo stesso Ade, gestore dei “diritti” della morte nel segno del normativo/maschile, la rapita/violata Kore/Persefone e la “Grande Madre Terra” Demetra troverà un’ultima rifrazione nel trio letterario del cacciatore di vampiri, della vampira amante (giovane) e della vampira regina (madre), magistralmente dipinto da Joseph Sheridan Le Fanu in Carmilla e gravido di eco per la mitopoiesi neogotica: a questo proposito, può essere interessante confrontare la decapitazione di Medusa come rappresentata sul tempio di Selinunte, circa 540 a.C., con quella cinematografica di Carmilla – l’attrice Ingrid Pitt – in una notissima sequenza di The Vampire Lovers (Regno Unito, 1970), in cui il capo mozzo viene sollevato dal vindice generale Spielsdorf – interpretato non casualmente da Peter Cushing, l’ammazzavampiri per antonomasia dell’horror popolare. Gli esempi tematici potrebbero evidentemente continuare, ma proprio Perseo, col perturbante trofeo/feticcio levato in alto a rapprendere gli sguardi, pare l’ideale prefiguratore di un uso politico della visione d’orrore e insieme il più legittimo capostipite della dinastia dei cacciatori di mostri del fantastico moderno, particolarmente del cinema: un eroe dallo statuto problematico, che decapita la Femmina addormentata attraverso un gioco di rifrazioni (i media, appunto) e con il sostegno di potenti forze patriarcali, per poi scappare – letteralmente – verso nuove avventure. Tra queste, ne spicca una notissima e dall’iconografia variamente pruriginosa, ovvero la liberazione dall’ennesimo mostro (con testa gorgonica di cinghiale, come suggerisce qualche antica decorazione vascolare) della bella Andromeda incatenata allo scoglio.

(– continua)

]]>
Beghe di Titani (Victoriana 30/I) https://www.carmillaonline.com/2021/09/04/beghe-di-titani-victoriana-30-i/ Sat, 04 Sep 2021 20:30:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68037 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Chi si trovi a passare per Stoccarda, farà bene a fare un salto alla Staatsgalerie, ad ammirare alcuni gioielli – stranoti, ma sempre tali da illuminarci dentro – dell’arte preraffaellita. Nello specifico, ci riferiamo alle opere relative all’incompiuto Perseus Cycle di Edward Burne-Jones (1833-1898), tra cui spiccano le sole quattro tavole a olio effettivamente ultimate. Insieme a queste, non si possono non considerare i dieci studi a guazzo a grandezza naturale conservati alla Southampton City Art Gallery, in grado di fornire un’idea di come sarebbe [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Chi si trovi a passare per Stoccarda, farà bene a fare un salto alla Staatsgalerie, ad ammirare alcuni gioielli – stranoti, ma sempre tali da illuminarci dentro – dell’arte preraffaellita. Nello specifico, ci riferiamo alle opere relative all’incompiuto Perseus Cycle di Edward Burne-Jones (1833-1898), tra cui spiccano le sole quattro tavole a olio effettivamente ultimate. Insieme a queste, non si possono non considerare i dieci studi a guazzo a grandezza naturale conservati alla Southampton City Art Gallery, in grado di fornire un’idea di come sarebbe potuto apparire il ciclo completo (da tenere presente è anche Perseus and Andromeda, 1876, all’Art Gallery of South Australia di Adelaide, sorta di esplorazione iniziale di due dei soggetti della serie). La commissione, intrapresa nel 1875 e portata avanti praticamente fino alla sua morte, appartiene dunque all’ultima fase della produzione di Burne-Jones, e intreccia le sue letture di pagine dell’amico William Morris (1834-1896) – alla base delle tavole è “The Doom of King Acrisius” da The Earthly Paradise – a dialettiche virtualmente un po’ complicate tra i due. Ed è bene guardare dietro le cornici.

Tra il 1870 e il 1877, Burne-Jones espone soltanto due lavori, vessato com’è da attacchi della stampa (le nudità del suo Phyllis and Demophoön, 1870, sono state giudicate particolarmente riprovevoli) e ancora devastato dalla passione per la sua modella, Maria Cassavetti Zambaco (1843-1914), a sua volta pittrice, scultrice e disegnatrice di medaglie, figlia di un commerciante angloellenico e nipote del console greco. Il fatto è che Burne-Jones è sposato con Georgiana “Georgie” MacDonald (1840-1920), pittrice, artista dell’incisione e cara amica di George Eliot e John Ruskin (oltre che zia, tramite una delle varie sorelle, di Rudyard Kipling): dopo i primi anni d’idillio, il matrimonio è appunto buferato dall’ingresso di Zambaco, di cui Burne-Jones si innamora perdutamente. La donna cerca di convincerlo a lasciare la moglie, a togliersi la vita assieme col laudano, arrivando poi a tentare il suicidio nel Regent’s Canal con pubblico scandalo. Nel frattempo si sono lasciati, ma Maria continuerà ad apparire nei quadri di Edward come una dark lady o un’incantatrice (emblematico il meraviglioso The Beguiling of Merlin, 1872-77, dove i due incantatori/pittori paiono abbastanza trasparentemente in scena), e finirà comunque tagliata fuori dai giri di amici comuni. Intanto, Georgiana approfondisce l’amicizia con William Morris, la cui moglie Jane ha un rapporto con Rossetti. Nonostante alcune allusioni nelle poesie di Morris suscitino il dubbio che chieda a “Georgie” di lasciare il marito, formalmente nessuno dei due matrimoni si scioglie e tutto resta compresso nell’intreccio delle loro vite. Georgiana “vince”, e le sue lettere sul tema sono un capolavoro di buonsenso e di dolcezza; ma non giudichiamo male la tumultuosa amante, con la sua passionalità mediterranea. Maria morirà a Parigi nel 1914, in una sorta di esilio dai giorni preraffaelliti, parecchio dopo la morte di Edward. Questa è la situazione che idealmente sta dietro il Perseus Cycle.

Il periodo è difficile, ma nel 1875 arriva a Burne-Jones una commissione interessante, da parte dell’allora giovane deputato conservatore Arthur Balfour (1848-1930), poi destinato ad assurgere a Primo Ministro: un ciclo di dipinti da opere letterarie per il salotto della sua casa di Londra. Il pittore sceglie il mito di Perseo, ispirandosi al testo dell’amico Morris e progettando una sequenza di dieci scene, sei in forma di dipinti ad olio e quattro come pannelli in bassorilievo e tecnica mista. Tutte le opere devono essere incastonate in una cornice di girali d’acanto sviluppata intorno alle pareti superiori del salotto. All’esposizione alla Grosvenor Gallery di Londra nel 1878, tuttavia, il lavoro non viene gradito (in particolare, piovono critiche sulla tavola Perseus and the Graiae del National Museum Wales di Cardiff, su cui torneremo) e Burne-Jones abbandona la realizzazione dell’originale soluzione in bassorilievo che aveva inizialmente avviato.

Per quanto altri eroi della mitologia classica presentino caratteristiche più amate, pochi quanto Perseo – con la cassa che lo chiude bambino assieme alla madre, la Gorgone da decapitare e poi la testa/maschera pietrificatrice da brandire, lo scudo/specchio e la spada falcata, il cavallo alato Perseo, Andromeda e il mostro marino, le costellazioni annesse… – hanno evocato agli artisti soluzioni visive d’impatto. Non stupisce che nell’occidente sessista – e in particolare nelle arti tra Otto e Novecento, quando una serie di topoi affermati come la donna incatenata, addormentata o morta consentivano di ridurla a spudorato oggetto di controllo e creazione maschile – abbia avuto tanto successo. Anche nei meravigliosi cicli di Burne-Jones (non solo quello di Perseo, ma gli altri della Pygmalion and Galatea series, della Briar Rose e di St George and the Dragon, come del resto in tavole come King Cophetua and the Beggar Maid), dove pure tanta eleganza e dolcezza illumina i dipinti, l’eroe maschile assume un ruolo un tantino equivoco di salvatore, animatore e creatore, e le donne ridotte a oggetto trascolorano su un piano di puro mito, e di atemporale bellezza estetica.

Resta il fatto che, al di là delle ambiguità, il mito di Perseo sia una festa per la fantasia. E non è un caso che una decina d’anni fa, a misurare le potenzialità della nuova santabarbara di effetti speciali, sia stato ripescato nella forma del vecchio film Scontro di titani (Clash of the Titans) di Desmond Davis (1981), uno strano peplum fuori stagione che vantava un ottimo cast e alcune trovate brillanti, soprattutto grazie al genio di Ray Harryhausen – alternate a scene francamente narcotiche – in vista di un remake Clash of the Titans (in Italia poi titolato senza grossa fantasia Scontro tra titani) di Louis Leterrier, 2010, che in origine doveva essere molto più sovversivo. Se il film campione d’incassi del 1981 mixava miti greci a modiche concessioni nordiche – essenzialmente nel nome del mostro marino della scena-tormentone “Liberate il Kraken!” invece che Ceto come nel mito greco – il remake avrebbe dovuto essere molto più sincretista, arruolando nel progetto come vilain principale la dea-mostro ancestrale mesopotamica Tiamat, e coinvolgendo contro di lei a fianco di Zeus anche divinità non olimpiche come Thoth, Osiride, Marduk, e persino Yahweh. Ma quel progetto degli sceneggiatori John Glenn e Travis Wright avrebbe causato qualche mal di pancia sul piano della politica confessionale e confuso gli spettatori, per cui viene drasticamente riformato. Troviamo così riproposto l’Olimpo in stile sandalone del 1981 (dove Zeus era nientemeno che Laurence Olivier, Claire Bloom impersonava Era, Maggie Smith un’arrabbiatissima Teti, Ursula Andress ovviamente Afrodite), ma con un diverso design un po’ ucronico, e viene sviluppata in forma attiva un’ostilità solo virtuale nei miti greci, tra Zeus (Liam Neeson) e il fratello Ade (Ralph “Voldemort” Fiennes). Per il resto, con qualche libertà come il ritorno del Kraken (stavolta una bestiaccia a vertiginosi effetti di computergrafica invece dello stop motion di Harryhausen) e la presenza nel secondo film di Djinn stregoni del deserto, le trame delle due pellicole ricalcano più o meno la storia dei mitologi.

In Scontro di titani, per compiacere i censori che avevano posto il veto alla nudità di Andromeda, la si era fatta interpretare da un’attrice di raro candore, la fresca Judi Bowker emblema d’innocenza (già Chiara d’Assisi in Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli, 1971, e Mina Harker nel televisivo Count Dracula di Philip Saville, 1977), incatenata a una roccia ma debitamente paludata, mentre un Kraken a metà tra il Mostro della laguna nera e l’Aquila moralista del Muppet Show emergeva dalle acque: tutto il torbido di secoli di Andromede sadomaso nell’arte veniva così sostanzialmente disinfettato. Ora però sono cambiati i tempi, non basta più incatenare l’eroina (Alexa Davalos) ferma alla roccia: in Scontro tra titani viene perciò appesa a una sorta di argano steampunk (o più propriamente Ptolemypunk, roba da ingegneri alessandrini) per l’esposizione al mostro. Certo, fa effetto che Argo diventi una città di mare (ma il suo porto Nauplia non è in fondo distante) e la storia di Andromeda venga spostata in Grecia dal Levante dei Peleset (Ioppe, odierna Giaffa, ma in fondo i mitologi parlavano anche dell’Etiopia, dunque con coordinate geografiche piuttosto vaghe). Peccato per la sceneggiatura bocciata, sia perché era molto più originale e visionaria, sia perché la storia di Perseo, se la si legge un po’ tra le righe, svela imprestiti meticci molto più genericamente “mediterranei” che non “greci” nel senso del classicismo di Canova (e dei peplum). Si prevedeva l’amore tra Perseo e una Dea della terra, l’ascesa del minaccioso culto di Tiamat, un’Andromeda inizialmente circondata da schiavi sessuali maschi… Ma vari sceneggiatori si avvicendano, e alla fine invece di Tiamat c’è Ade.

La novità è che ora arriverà anche un sequel: La furia dei titani (Wrath of the Titans) di Jonathan Liebesman, 2012, dominato da un tema della morte degli dei che piacerebbe a Plutarco. In compenso, ha un ricco serraglio da Theogony Park: chimere, ciclopi, il Minotauro, un Crono immane fuggito dal Tartaro… A interpretare un’Andromeda ora finalmente attiva, a capo di truppe, e non passiva principessa da salvare, è adesso Rosamund Pike.

Uno degli aspetti d’interesse per gli artisti, nel ciclo di Perseo, è in effetti costituito dalla ricchezza di spunti creativi delle sue singole “stazioni”, quelle che per Burne-Jones diventano tavole. Per questo, merita considerarle nell’ordine – almeno a grandi linee – della sequenza da lui offerta.

La prima, The Call of Perseus, è ispirata a “The Doom of King Acrisius”, I, 248-50, combinando due scene: allo sconvolto Perseo quella che sembrava una vecchia (a sinistra, in secondo piano) si rivela Atena, pronta ad assisterlo nella terrifica impresa che lo attende (a destra, in primo piano). Delineando un’interfaccia visiva al componimento di Morris, Burne-Jones mantiene comunque un’autonomia, modificando leggermente i contenuti, come si può notare in particolare nel modo in cui è abbigliata la dea. Né nel dipinto di Stoccarda, né nel cartone preparatorio conservato a Southampton è infatti presente “l’usbergo sulle ginocchia” descritto dal poema; soltanto nel secondo è ben visibile la corazza pettorale e, per quanto in entrambi Atena sia dotata di elmo, la sua foggia è davvero troppo semplice per potersi accordare adeguatamente all’aggettivo “fair”. Eppure, la soluzione adottata da Burne-Jones nella tavola di Stoccolma supera in suggestione i versi di Morris: infatti, è come se cogliesse il momento in cui il manto della vecchia scompare per lasciar posto all’armatura di Atena, in una sorta di trasparenza improvvisa, quasi una trasfigurazione, del tessuto che freme addosso alla dea.

Atena chiama Perseo a una prova e, al contempo, gli offre una spada e uno specchio (in altre versioni uno scudo lucido), mezzi necessari per uccidere una sua nemica, la Gorgone Medusa pietrificatrice. Il giovane è nudo, e va considerato che sovente la “prova con mostri” dell’eroe – Eracle, Edipo, Odisseo… – si ascrive a un contesto iniziatico, di rito di passaggio: un transito al mondo adulto di ogni maschio della comunità. Ecco il senso della nudità, ed è almeno suggestivo ravvisare eco iniziatiche in taluni legami od omologie tra eroi e mostri combattuti. È il tema di quello che potremmo definire l’eroe analogo, come Eracle per Era e tanti altri: così Perseo, dal nome infero e lunare che evoca la Dea Tremenda nelle ipostasi di Perse, Persefone – e dunque Ecate – è associabile alla Gorgone anguicrinita, al punto da potersi domandare se in origine non ne fosse un semplice paredro. Al centro, insomma, Perse, la Dea infera dalle chiome di serpente, e accanto a lei Perseo: tanto più che l’unico verso pervenuto delle Forcidi di Eschilo assimila Perseo al cinghiale, come dea-cinghiale è la Gorgone associata alla Luna, e l’arma di lui è la harpe, la spada falcata lunare. A contrapporli sarà poi una diversa, sopravvenuta teologia che abbinerà a lui, assurto a grande eroe indoeuropeo che con la harpe decapita il mostro femmina lunare e ctonio, un’altra dea, protettrice-guerriera e vergine.

Per quanto riguarda la seconda tavola, Perseus and the Graiae, degna di particolare attenzione è la versione conservata al National Museum Wales di Cardiff, 1877-78, ovvero l’unico pannello in bassorilievo e tecnica mista a essere stato completato.

I volti e le mani delle figure sono dipinti ad olio direttamente sul supporto ligneo di quercia, mentre lo sfondo tenné, rigato dalle venature, è volutamente privo di pittura, riuscendo così a creare la suggestione di uno scenario scabro, arido e brullo. Le vesti sono invece modellate in gesso a bassorilievo e rese preziose dalla successiva applicazione della foglia d’oro per i pepli bruniti delle Graie, dalle cui pieghe traspare la base di colore rosso, e della foglia d’argento su pigmento grigio scuro per l’armatura di Perseo, con un risultato particolarmente vivido e straordinario per la cotta di maglia, che appare a tutti gli effetti “più vera del vero”. Infine, la scena è sovrastata da un testo latino composto da lettere dorate in mogano intagliato, fissate singolarmente sul pannello di quercia: il componimento, in esametri dattilici, è opera di Sir Richard Claverhouse Jebb (1841-1905), eminente classicista e traduttore, e riassume le vicende del ciclo di Perseo.

La tavola di Cardiff risulta essere la prima versione delle Graie: seguono quella di Southampton, 1877-80, dove il testo è inserito all’interno di un riquadro con fondo blu oltremare, delimitato da una cornice dorata, a ricordare certi tipi di decorazione nei manoscritti miniati, o alcune soluzioni adottate dai pittori rinascimentali (cfr. la Camera degli Sposi di Andrea Mantegna a Mantova), e per terza quella ben più tarda di Stoccarda, 1892, dipinta ad olio, dove il componimento scritto viene espunto e le tonalità diventano più scure e monocrome (evoluzione che sembrerebbe tradire tutto il peso delle critiche ricevute alla Grosvenor Gallery). E sempre a proposito di notazioni coloristiche, è interessante notare un dettaglio legato ai pepli delle Graie di quest’ultima versione: la tinta bluastra dei tessuti è quella che richiama più strettamente il colore dei mantelli da loro indossati nel poema di Morris (I, 253-55).

Le tre dee antiche (Γραῖαι, cioè grigie, ovvero le anziane per antonomasia, a incarnare le fasi dell’invecchiamento) appaiono accucciate in uno scenario desertico – ben diverso dalla sala dalle bianche colonne descritta da Morris –, e si stanno passando l’unico occhio – quello che hanno in comune, secondo il mito – e Perseo si piega a sottrarlo, tenendolo tra le dita, per costringerle a indicargli la strada. Un occhio, tra l’altro, irradiato di luce dorata; non a caso, il “lumen” di cui sono prive le Graie, come recita l’iscrizione; un organo, insomma, che diventa simile a una stella brillante, capace di illuminare il cammino (con fors’anche un vago riferimento alle metamorfosi in costellazioni che concludono il mito di Perseo). E, ancora, è tutta di Burne-Jones la trasfigurazione in pura Bellezza di soggetti canonizzati nel segno del Brutto, la cosiddetta Beautification of Ugliness. Le Graie del mito sono in generale descritte – tranne che da Eschilo – come orrende e grottesche (un solo occhio e un solo dente in comune), ma qui notiamo all’ennesima potenza la tendenza del pittore a trasfigurare con tratti delicati qualunque personaggio, a rendere eteree anche figure come queste dee arcaiche, che pure una gravità la mostrano, nell’ambito di una ben precisa poetica che smarca da un certo realismo – tra polvere, trucioli e sudore – di Millais e Holman Hunt. D’altra parte, qualcosa di questa delicata bellezza riflette l’eleganza di colori e modelli che Morris ha dispensato nei suoi incredibili tessuti e carte da parati. In più, la particolare tecnica della tavola di Cardiff permette di trovare la pelle delle Graie – soprattutto quella a sinistra – effettivamente grigia come da etimologia, più che delicata e pallida com’è di solito nei personaggi di Burne-Jones (inclusa quella dell’eroe, a prefigurare di lontano i maliziosi adolescenti di Aubrey Beardsley), conservando pur tuttavia i tratti morbidi della grazia della gioventù. Quanto ciò appaia singolare nel caso delle tre antiche dee è evidente.

La stazione pittorica successiva manca in Morris, che semplifica la storia. Secondo il mito, le Graie hanno dovuto rivelare dove si trovino le armi speciali per uccidere Medusa: così, Perseo viene indirizzato da ninfe d’acqua il cui statuto è un po’ diverso da versione a versione. Per alcuni si tratterebbe di ninfe dello Stige sulla soglia dell’Ade, per altri di ninfe marine. Proprio come Nereidi vengono spesso considerate, e lo si evince anche da due varianti di titolo attribuite alla terza tavola: Perseus and the Nereids o Perseus and the Sea Nymphs (altrimenti The Arming of Perseus).

In questo tableau rarefatto, troviamo di nuovo l’idealizzazione dei volti; in particolare, nel dipinto di Stoccarda, le ninfe diventano pressoché identiche nei lineamenti, senza contare che, rispetto allo studio conservato a Southampton, anche le loro capigliature si uniformano in crocchie brune e i pepli dai colori iridescenti come conchiglie vengono dismessi in favore di monotone nuances azzurrine. Le ninfe poggiano delicatamente i piedi su una sorta di pozzanghera, a richiamo delle acque familiari o infere, e nel cartone preparatorio, che ha una luminosità un po’ più accentuata, questa assomiglia a sua volta a una sottile lamina d’argento applicata sul terreno sabbioso, seppur sospinta a rialzarsi quasi impercettibilmente lungo il bordo, in corrispondenza di lievi increspature spumose. Le interlocutrici dell’eroe sono di nuovo tre, a ricordare le Grazie della Primavera di Botticelli (laddove le Nereidi sarebbero, malcontate, una cinquantina, mentre a rigore lo Stige verrebbe amministrato da una sola, omonima, ninfa Oceanina), e gli porgono tre oggetti, cioè l’elmo dell’invisibilità, una bisaccia speciale in cui collocare la testa mozza della Gorgone e una coppia di calzari alati. Davanti a loro, un androgino Perseo, stretto nell’armatura, ha assunto, per infilare una delle calzature, una posizione seduta un tantino innaturale e goffa, come preoccupato e forse disilluso da quelle che restano spiazzanti immagini del Femminile: si potrebbe addirittura azzardare – bentrovato ma forse un po’ forzato – che la scelta di tre simil-Grazie alluda al terzetto di belle cugine composto da Maria Zambaco, Marie Spartali Stillman e Aglaia Coronio, dette appunto “the Three Graces”. Tuttavia, è possibile che la situazione apparentemente calma (una commissione importante, la gioia della pittura che offre a Burne-Jones le sue armi incantate), ma in realtà increspata da un senso di tensione sospesa (per tutto ciò che si è detto su quegli anni turbinosi del pittore, forse evocati anche nello sfondo scurito del dipinto di Stoccarda), influisca un po’ su tutte le sue scelte iconografiche. Forse, una certa confusione e fatica del pittore è anche avvertibile nel gioco visivo di contrapposizioni tra la morbidezza degli abiti delle ninfe – che in fondo appartengono a una dimensione di bellezza intangibile e senza tempo – e la rigidezza costrittiva della tenuta che inguaina l’eroe, o la loro pacatezza a fronte della sua preoccupazione carica di implicazioni mortifere.

Tornando ancora allo sfondo scuro che lambisce le Nereidi, forse non è un caso che ci sia un’evidente somiglianza con quello delle Graie di Stoccarda: entrambi presentano infatti fluttuanti profili montagnosi dominati da nebbiose sfumature antracite, ma con connotazioni ben più drastiche per quel che riguarda il secondo dipinto: questo sembra estinguere la luce invece presente nel pannello di Cardiff, come la fiamma di una candela viene smorzata dall’incombere dello spegnitoio, a suggerire il peso di una vecchiaia incombente e il progressivo approssimarsi della morte (d’altra parte, la realizzazione delle Graie di Stoccolma precede di soli sei anni la fine dell’esistenza di Burne-Jones). Per contro, non si può non notare nella figura di Perseo una determinazione a sopravvivere in una realtà spesso durissima, ed ecco le armi speciali delle Nereidi, di cui prontamente inizia a servirsi.

Nella sequenza, la quarta tavola è The Finding of Medusa, 1888-92: di nuovo, l’ispirazione è a Morris, che però ambienta la scena in una sala di pietra dai muri neri, eretta oniricamente in mezzo a una landa lunare increspata di serpenti. Nello studio conservato a Southampton, siamo invece in una sorta di grotta oscura, o di forra (mentre nel disegno alla Staatsgalerie l’ambientazione rocciosa risalta maggiormente poiché rischiarata da quello che sembra un pallido albeggiare rosato). La metà sinistra dell’opera è dominata dall’alta figura paludata di Medusa, una femme fatale dai tratti fascinosi e gelidi, con chiome ribelli fluttuanti (dove, notiamo, non si riconoscono i serpenti che Morris dice impigliati tra i capelli). Lei passeggia nella sala, dice il poema, volgendo il capo da un muro all’altro, e gemendo al cader giù di quei serpenti dalle chiome. In basso sulla destra, sono invece accucciate le altre due Gorgoni, con grandi ali (vecchie e curve, dice Morris, con gli occhi resi di sasso dalla grande angoscia, mentre qui di nuovo le troviamo giovani e belle). Ci si aspetterebbe che la presenza statuaria di Medusa mirasse allo spettatore, pronta a impietrirlo; invece, lo sguardo è vagamente sfuggente, quasi fosse già stata sconfitta, e ancora più emblematiche sono le sorelle, che occhieggiano quasi spaventate. Secondo il poema, Medusa sta piangendo la propria trasformazione in mostro per aver amoreggiato in modo blasfemo con Poseidone nel tempio di Atena. Ed è alle spalle delle sorelle che sorge Perseo, rivolto all’indietro per guardare nello specchio datogli dalla dea protettrice; la bisaccia è già pronta all’uso, la mano destra è ben serrata sulla spada e il torace è protetto da un’elegante corazza con decorazione a lobi fogliati, distinguibile soltanto nel disegno di Stoccarda. L’eroe però, spiega Morris, è turbato dall’angoscia di Medusa:

 

[…] “Vorrei che mai

avesse rivolto a me il suo volto pien d’angoscia”.

Ma con ciò Pallade di tal pensier l’ha folgorato:

“È poi ver che vuole vivere colui che fu portato

a tal dolor e a tale miserare

da cui né nume né uom può liberare?

Poiché il voto tremendo di Pallade la lega

fino al passar di tutto, di cielo e terra omega

ma voglia Dio che la cosa sia finita”.

 

Atena rende l’atto di Perseo, un po’ ambiguamente, quasi un’eutanasia. Medusa risulta insomma, in tutti i sensi, una donna perduta (come le vampire vittoriane, in fondo): non può essere liberata dalla sua condanna, come invece la Bella Addormentata del ciclo della Briar Rose, e non resta che salvarla in altro modo. Del resto, per i vittoriani, una donna che non possa essere passiva e sottomessa – e Medusa, bella e potente come le dee di Rossetti, ma anche più avulsa dal contemporaneo e proiettata nel mito con tutta la torpida indolenza della femme fatale – non ha che un unico ineluttabile destino, la morte.

Come oggi generalmente accettato, fu la rilettura teologica da parte delle società patriarcali della maschera della Grande Dea neolitica – specie in aspetti oscuri o mortiferi avvertiti, a torto o a ragione, come allarmanti – a popolare di mostri-femmina l’immaginario dell’antichità: un sottofondo che, combinato nelle teratomachie divine ed eroiche dei popoli d’occidente come in infinite favole di paura, sopravvivrà fino ai miti moderni e postmoderni cifrato in elementi sorprendentemente arcaici. Persino al di là del furioso infierire contro mostri-femmina malvagi, l’immaginario occidentale pare consacrare la violenza a regola di pietà contro la diversità femminile in quanto tale. Un esempio impressionante è costituito dalla leggenda irlandese di Libon, superstite coi due fratelli a un’inondazione del I secolo che avrebbe sterminato il resto della popolazione, e per questo mutata in sirena. Libon sarebbe vissuta tranquilla nel suo mondo marino fino al 588, quando incontrò i santi Beoc e Comgall, che benevolmente le proposero di tagliarle la coda – rendendola una donna “normale” – o di ucciderla, in quanto mostro. Libon scelse la morte, e per il sacrificio, bontà loro, venne santificata e ricordata con il nome di santa Libon o santa Mengen, «colei che è nata dal mare», raffigurata nelle chiese irlandesi proprio come sirena dalle gambe a forma di coda di pesce.

(– continua)

 

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (8) https://www.carmillaonline.com/2021/08/28/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-8/ Sat, 28 Aug 2021 20:40:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67880 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

Le ultime filibustiere (dagli anni Settanta al nuovo Millennio)

 

In realtà negli anni Settanta il cinema d’avventura ‘classico’ sta ancora proponendo titoli egregi, basti pensare – proprio in tema salgariano – alle produzioni dirette da Sergio Sollima, con la migliore delle trasposizioni del ciclo indo-malese mai apparsa, cioè lo sceneggiato televisivo Sandokan, 1976 – donde vari seguiti più o meno concatenati[73] – e un apprezzabile Il Corsaro Nero, sempre del 1976: in entrambi i casi la protagonista [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

  1. Le ultime filibustiere (dagli anni Settanta al nuovo Millennio)

 

In realtà negli anni Settanta il cinema d’avventura ‘classico’ sta ancora proponendo titoli egregi, basti pensare – proprio in tema salgariano – alle produzioni dirette da Sergio Sollima, con la migliore delle trasposizioni del ciclo indo-malese mai apparsa, cioè lo sceneggiato televisivo Sandokan, 1976 – donde vari seguiti più o meno concatenati[73] – e un apprezzabile Il Corsaro Nero, sempre del 1976: in entrambi i casi la protagonista femminile è interpretata da un’incantevole Carole André. Ma se mai una versione di Jolanda viene presa in considerazione da Sollima, nei fatti il tema della piratessa non ha sviluppo: la stagione d’oro è ormai passata.

Come conferma in fondo la vicenda del più celebre dei film mancati di questo filone, progettato in Inghilterra agli inizi degli anni Settanta: sto parlando di Mistress of the Seas, in assoluto tra i titoli più noti di quel ricco fondo di pellicole irrealizzate dalla casa britannica Hammer di cui i cultori hanno pazientemente ricostruito la storia[74].

Il punto di partenza è l’omonimo novel di John Carlova sulla vita di Anne Bonny, da cui Val Guest riscrive nel 1972 una prima versione per lo schermo: la vicenda storica viene riletta liberamente (vi è immesso anche Barbanera, come del resto in Anne of the Indies) e si medita di affidare il ruolo principale a Raquel Welch. Michael Carreras della Hammer sarebbe il produttore, ma la Universal – che dovrebbe sostenere la casa britannica – rifiuta il progetto. Di cui restano almeno alcune locandine, a opera – come spesso per la Hammer – del grande illustratore Tom Chantrell, e che ci fanno rimpiangere il mancato varo. Una di esse – ne esistono due versioni quasi uguali – mostra una figura femminile un po’ discinta e armata su un corrusco sfondo rosseggiante, con uno scontro di navi lontane su cui garrisce enorme il Jolly Roger: il titolo Mistress of the Seas in grandi lettere a stampatello, ondulate come se fossero scritte sull’acqua, occupa tutta la metà inferiore del manifesto. Ma un altro, con lo strillo «The true story of Anne Bonney who slashed her way to fame and fortune alongside the most dreaded scourges of the Caribbean!», sembra più emblematico dei contenuti, mostrando oltre al solito titolo ondulato – più piccolo, in basso – una serie di bozzetti di scene del film. Certo solo virtuali, perché Chantrell lavora in anticipo sulle indicazioni offerte dalla casa produttrice, e anzi per attrarre interessi finanziari al progetto: ma che comunque suggeriscono almeno qualcosa della trama. Il primo piano – porzione destra – è occupato dalla figura eretta di Anne (riconoscibile la prevista interprete Raquel Welch), camicia annodata a coprire i seni, cinturone su una specie di perizoma, stivali ai piedi e armi nelle mani: e qui sembra fare irruzione nel cinema lo stereotipo provocante oggi tanto condiviso nell’immaginario popolare. In secondo piano nel manifesto ci sono i citati bozzetti: per cui vediamo, da sinistra, uno scontro navale, poi una figura femminile, plausibilmente Anne, trascinata al capestro, e la stessa Anne che sollevandosi nuda da un letto – ma velata dalle coperte che stringe – punta la pistola; seguono una scena di fustigazione da parte di Anne, un’immagine di pirati alle prese con un cannone, un viso maschile con benda sull’occhio (Barbanera?), e infine una figura nuda – forse ancora Anne – reclina su un’altra. La dimensione erotica è insomma abbastanza evidente.

Comunque Guest e Carreras non si arrendono, e nel 1979 riprendono in esame l’idea che sembra promettente: Anne dovrebbe essere interpretata stavolta da Caroline Munro, ma il crollo della Hammer blocca tutto.

Pochi anni dopo, nel 1982, si riparte. A riconsiderare il progetto – riscritto dallo stesso Guest, e reintitolato stavolta Pirate Annie – sono il produttore John Derek e la celebre, pettoruta moglie Bo candidata al ruolo principale, che effettuano un giro di perlustrazione di possibili set tra le isole greche. Per la parte di Rackham si pensa a Klinton Spilsbury, mentre finanziatrice sarebbe la cbs Theatrical: ma disaccordi sul budget – più che su divergenze artistiche, come comunicato – fermano ancora il film.

A riprendere in seguito l’idea è la Columbia, col produttore Jon Peters e il regista Paul Verhoeven: e stavolta si medita di girare il film proprio nei Caraibi. Si tratterebbe però di una versione R-rated, riscritta da Michael Christofer, e «as graphic as it can» – così Verhoeven, secondo cui il titolo dovrebbe suonare The Sexual Adventures and Erotic Escapades of Anne Bonney. Contenuto ‘caldo’ confermato dalle testimonianze della prevista protagonista, Geena Davis, che per la parte deve imparare a duellare, cavalcare, cavarsela in acqua. Dietro pressioni della Columbia, il progetto viene però ricalibrato su una storia più tradizionalmente d’amore, il classico triangolo tra Anne (ripensata come una sorta di Scarlett O’Hara in versione marinara) e un paio di figure di pirati; e visto che per uno dei ruoli è in lizza Harrison Ford, l’idea è di aumentare il peso del relativo personaggio a danno di quello della protagonista. Si prevede l’uscita nel 1994: ma poi le solite, diplomatiche divergenze artistiche sono annunciate a motivo prima dell’abbandono di Verhoeven, cui subentrerebbe per pressioni della protagonista l’allora marito Renny Harlin, poi dell’abbandono della medesima Davis (insoddisfatta del ridimensionamento della propria parte) con ritorno di Verhoeven. Il produttore Peters valuta allora le possibili sostitute: si parla di Jodie Foster, Laura Dern, Sharon Stone; e in ultimo la prescelta Michelle Pfeiffer, perplessa per la quantità di nudi richiesti, finisce col ritirarsi. Il progetto pare insomma affossato.

Eppure non è ancora finita: un breve script piratesco di Michael Frost Beckner e James Gorman raggiunge la Carolco Pictures e stavolta viene offerto proprio a Renny Harlin. Raynold Gideon e Bruce A. Evans lo riscrivono, Geena Davis ritorna al ruolo di piratessa – che le viene allargato apposta da Susan Shilliday – mentre per il partner maschile fioccano i rifiuti finché non accetterà Matthew Modine. Il set stavolta si sposta tra Malta, la Tailandia e gli inglesi Pinewood Studios; e il risultato è il divertente e un po’ vacuo Cutthroat Island (Corsari), 1995, una produzione Francia/Germania/Italia/usa che quasi sintetizza così sul fronte dei finanziamenti la storia delle produzioni sulle piratesse. A firmare la sceneggiatura sono Robert King (che in un mese deve ricostruire la storia allargando ancora un po’ la parte della protagonista) e Marc Norman; e pare venga pagato anche il pur uncredited Val Guest, a far supporre qualche parentela tematica con le sue originali scritture per la Hammer – «non per suggerire che Cutthroat Island sia una versione finale di Mistress of the Seas, ma che c’erano elementi di esso nel film uscito»[75]. Nei fatti però il regista sta soprattutto costruendo una storia su misura per sua moglie, la statuaria Geena Davis nei panni di Morgan Adams, figlia del pirata Black Harry (Harris Yulin).

Giamaica, 1668: dopo aver rischiato il patibolo in seguito a una notte d’amore con un tenente britannico deciso in realtà a consegnarla al Governatore – sorta di citazione di altre pellicole già citate – Morgan apprende che il padre è stato rapito dal pessimo fratello Dawg Brown (Frank Langella, l’ex-Dracula del film omonimo di John Badham, 1979), che minaccia di ucciderlo come ha già fatto con un altro congiunto. Il tutto per metter le mani sulla mappa di un tesoro spagnolo: Morgan tenterà dunque rocambolescamente di salvare il genitore, che però ferito a morte le lascia la propria nave Morning Star e relativo equipaggio, e si fa rasare la testa dove reca tatuata una parte della famosa mappa. Asportato lo scalpo, la nostra eroina scopre però dal letterato John Reed (Maury Chaykin), che viaggia con lei, che la mappa è redatta in latino: occorre trovare qualcuno in grado di tradurlo, e per questo si reca a Port Royal dove compra all’asta come schiavo – citazione da Capitan Blood – il belloccio ed erudito William Shaw (Matthew Modine), condannato a quella pena per furto. William è affascinato da Morgan, ma inizialmente non è vero il reciproco; comunque la traduzione è presto compiuta. Poi Morgan riesce a recuperare anche la seconda metà della mappa – il completamento dell’atlante del tesoro costituisce un altro topos del romanzo d’avventura – da un altro zio, Mordechai (George Murcell), prima che Dawg, che ha la terza parte, faccia fuori anche lui. Infine, raggiunta l’isola Cutthroat (nome parlante: “tagliagole”) indicata dalla mappa, tra infinite avventure e difficoltà Morgan otterrà l’oro spagnolo, ricambierà l’amore di William e riuscirà anche a cavarsela nell’ultimo scontro con Dawg, per l’occasione trascinatosi dietro la marina britannica. A questo punto,

 

[r]icordare La regina dei pirati è inevitabile: come capitan Provvidenza, Morgan è una donna pirata che opera nei Caraibi; come lei ha un rapporto di dipendenza o di parentela con un pirata «duro», zio o padre adottivo (Barbanera, nel film di Tourneur, e qui Dugw [sic] Brown). Tuttavia mentre in Tourneur motore dell’azione, pervasa da un afflato poetico di indubbia bellezza, era la sessualità, qui è soltanto un volgare scambio di ruoli: Geena Davis interpreta una parte che il cinema classico riservava agli uomini. […] E si inganna chi crede che questo sia un modo per diventare protagoniste del cinema d’avventura, da parte delle donne: qui si narra sempre la stessa storia, raccontata peggio, con l’unica differenza che Morgan è, per capriccio degli sceneggiatori, una donna, e per calcare il tono la si rende più litigiosa, audace, fanfarona e insolente di quanto non fossero gli uomini[76].

 

Nonostante venga così stroncato dalla critica, Cutthroat Island è un film divertente e veloce, giocosamente sontuoso e amabilmente prevedibile: un simpatico fumettone con due personaggi senza spessore psicologico ma belli di aspetto, e un allegro carnevale di inseguimenti, duelli, carognate e quant’altro si possa attendere da una storia popolare di caccia al tesoro. Dal punto di vista dell’evoluzione di un mito, può anche essere ravvisabile qualche intrigante eco salgariana: non solo Morgan ha per nome di battesimo quello che Jolanda porterà per cognome una volta sposata; non solo il nome del padre Black Harry trattiene la nerezza del Corsaro papà; ma c’è persino la presenza di un colore, il bruno, nel nome dello zio (Dawg Brown) come nei soprannomi degli zii di Jolanda (il Corsaro Rosso, il Corsaro Verde). D’altra parte ancora una volta la tenuta della piratessa – in  maniche di camicia, stavolta più plausibilmente stazzonata e sporca – rimanda sul piano visivo a un’intera serie di progenitrici su schermo: e il fatto che il costumista sia l’italiano Enrico Sabbatini, per una coproduzione che interessa anche il paese di Salgari, avalla credibilmente un nesso.

Certo, il rovinoso flop del film, definito quello con maggiori perdite della storia del cinema, travolgerà la Carolco Pictures: ma i guasti di una sconsiderata gestione economica (spese senza senso, per esempio, per i divi della troupe), e di una distribuzione infelice per i ritardi della post-produzione e l’uscita a Natale di «un blockbuster senza una corposa campagna di marketing [, il che] equivale a un suicidio commerciale»[77], problemi cioè di quella singola opera e non di un filone avventuroso in quanto tale, faranno in seguito guardare con sospetto dai produttori qualunque progetto di film analogo. Ostacolando all’inizio la stessa operazione Pirates of the Caribbean – poi invece tanto fortunata – e, forse, contribuendo a una rarefazione in quella saga della dimensione genuinamente ‘piratesca’ a vantaggio di una più libera componente fantastica.

Interessante peraltro un’altra motivazione offerta oggi da Harlin per spiegare il flop di un film cui pure resta affezionato, e la cui lavorazione era «andata liscia come l’olio»[78]. Spiega infatti che «al pubblico non piacque l’idea di un film di pirati con una protagonista femminile. […] non voglio negare i miei errori e credo che con un protagonista maschile il film avrebbe avuto maggiori chance di successo»[79]. È un’interpretazione corretta? Difficile dire, anche se è possibile che il pubblico delle famiglie delle grandi sale americane – quello in fondo cui deve soprattutto mirare Harlin con tale prodotto – nel 1995 non sia pronto per un simile modello.

Sarebbe però sbagliato immaginare che negli anni successivi a Cutthroat Island i pirati scompaiano: e merita citare almeno un esempio di piccola produzione sul tema. Joe D’Amato (al secolo Aristide Massaccesi) è certo più noto come regista di horror splatter, erotici e pornografici che non di avventura; eppure tra gli oltre duecento titoli della sua strabordante filmografia, e nell’anno stesso della sua morte, risulta anche un film di pirati: l’italiano I predatori delle Antille, 1999, prodotto da Gianfranco Romagnoli per Idra Music e girato a Budapest. Certo, nonostante la locandina con una bellona (s)vestita da piratessa, non si può definire propriamente tale la protagonista Elena Hamilton (Anita Rinaldi, come Anita Skultety o Skulteti), una lady britannica che, a dispetto del proprio rango, ingaggia un pirata partecipando alle sue azioni. Deve poi fronteggiare un Rackham (nell’elenco personaggi citato come Rachman: Henrik Pauer) omonimo del partner di Anne Bonny – salvo il fatto che si chiama George e non John; e comunque nella storia, in un ruolo minore, non mancano una donna pirata, Pilar (Venere Torti) e il solito tormentone del vestito.

L’amatissimo marito di Elena, Sir Francis Hamilton (Menyhért René Balog-Dutombé, riportato come Menyhert Dutombe), è un diplomatico con mandato da parte di Carlo II per trattare in Giamaica coi francesi in funzione antispagnola. Giunto nelle Antille, cade però in un agguato teso dal temuto Rackham, che stermina l’equipaggio e chiede un riscatto molto alto per il nobile prigioniero – così alto che la moglie non riuscirebbe a pagarlo, mentre il re non intende cedere al ricatto. Delusa, Elena contatta un capitano che conosce bene i Caraibi, tale Graham (Zoltán Kiss), e questi le fa il nome di Thomas Butler (Carlo De Palma), detto ‘il Pirata gentiluomo’, passato alla pirateria dopo un delitto e considerato l’unico che forse potrebbe aiutarla. Sulla nave di Graham, e con un lasciapassare per le colonie firmato dal re, Elena raggiunge così la Tortuga; e in una locale taverna, per attirare l’attenzione dell’abbrutito Butler, non esita a togliersi le mutandine e salire sul tavolo iniziando a danzare. Cercando di barcamenarsi tra il greve corteggiamento di Butler e la gelosia della sua amichetta Pilar, Elena arriva a promettersi al pirata pur di averne l’appoggio per recuperare il coniuge. Considerato il resto della produzione di D’Amato (qui accreditato come David Hills), i pochi minuti di scene di nudo, di sesso o anche solo ammiccanti come queste – e che hanno talora giustificato l’etichetta commerciale di «erotico» – appaiono curiosamente castigati.

Raggiunta Antigua, il covo di Rackham, Butler – che con lui ha un vecchio conto – scende sull’isola con un compagno e le due donne: e mentre loro stornano l’attenzione delle sentinelle, riesce ad apprendere che il diplomatico prigioniero è stato condotto a Maracaibo. Arruolata allora una squadra di specialisti – compreso un improbabile esperto orientale di arti marziali Kato (come quello dell’Ispettore Clouseau) – Butler punta sulla città, dove il governatore Don Diego de la Vega (come lo Zorro marca Disney[80]) non si è bevuto le giustificazioni fasulle addotte da Sir Francis circa lo scopo della sua missione, e ordina di torturarlo. Rackham arriva poco dopo, scopriamo che lavora per la Spagna, e incassa da Don Diego una cifra – in realtà minore dello sperato – per la cattura dell’inglese.

In un ultimo confronto con Elena, Pilar racconta di aver abbandonato a sedici anni famiglia e casa in Giamaica per seguire Butler: Elena chiarisce allora di essere interessata solo al proprio marito e le regala uno dei propri abiti. Poco dopo ‘il Pirata gentiluomo’ cattura un vascello olandese per avvicinarsi a Maracaibo senza dare nell’occhio; e durante l’arrembaggio anche Pilar combatte con ferocia a colpi di pistolone. Fingendosi olandesi, i nostri arrivano così in città dove sono ricevuti con apparente cortesia dal governatore – che però poi ne ordina l’arresto. Dopo vana resistenza i pirati (traditi da un membro della squadra) sono così incarcerati, salvo le due donne finite nelle grinfie di due vogliosi spagnoli.

Mentre però tra le mura e la nave pirata – dove Butler non è tornato nel tempo pattuito – si accende uno scambio di cannonate, Elena riesce a puntare un pugnale alla gola del lubrico Don Diego, costringendolo a liberare i prigionieri, compreso Sir Francis, e infine freddandolo con un colpo di pistola mentre tenta la fuga. Ma anche Pilar ha sparato al suo aggressore, e alla ritirata precipitosa del gruppo verso la nave segue l’esplosione del palazzo di Maracaibo, minato dall’artificiere della squadra. Pilar – vestita come una dama – ha ormai riconquistato l’amore di Butler, ed Elena (non più costretta a mantenere la promessa sessuale al capitano) ha salvato il marito. Se la sceneggiatura è di un candore fumettistico da adolescenti, il livello della recitazione praticamente amatoriale, il numero di comparse limitato e il ritmo a tratti soporifero, I predatori delle Antille suscita nondimeno un senso di sgarrupata simpatia per l’approccio artigianale con cui il tema è trattato.

Del 1999 è anche una fantasiosa ripresa italo-spagnola a cartoni animati del personaggio salgariano, Jolanda. La Figlia del Corsaro Nero, coprodotta da rai Fiction, Antena 3 Televisión e brb Internacional, in ventisei episodi[81], serie ideata da Claudio Biern Boyd, con musiche dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis, che sotto il nome Oliver Onions avevano già firmato le memorabili colonne sonore delle menzionate escursioni salgariane di Sollima.

Ma a cambiare davvero le cose sarà l’uscita nel 2003 di Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl (La maledizione della prima luna), rafforzata da una serie divertente di sequelDead Man’s Chest (La maledizione del forziere fantasma), 2006; At World’s End (Ai confini del mondo), 2007; On Stranger Tides (Oltre i confini del mare), 2011; Dead Men Tell No Tales (altresì noto come Salazar’s Revenge, La vendetta di Salazar), 2017[82] – che riproporranno robustamente i pirati all’immaginario collettivo anche in termini di marketing, ridando spazio, sia pure in forme molto libere, alla figura della donna pirata. Tornano così anche le nostre due eroine: Anne Bonny (interpretata da Clara Paget) compare per esempio nella vivace serie televisiva americana Black Sails, prima stagione 2014 (le successive tre 2015-2017), ambientata a New Providence e pensata come prequel alle vicende del romanzo stevensoniano Treasure Island; mentre con l’amica Mary è presente nel lungometraggio d’animazione giapponese Meitantei Konan – Konpeki no Jorī Rojā (Detective Conan: L’isola mortale), 2007, con il Jolly Roger già evocato nel sottotitolo originale («Jorī Rojā»), e nel videogioco Assassin’s Creed IV: Black Flag, pubblicato nel 2013. Per non parlare di citazioni dirette attraverso canali diversi di entertainment, si pensi alla Anne Bonny dei giochi di ruolo Atlantica Online, o in testi musicali come la canzone Anne Bonny degli statunitensi Death Grips (nell’album Government Plates, 2013); o persino di liberissime riletture come nel personaggio di Jewelry Bonney dell’anime One Piece derivato dall’omonimo manga – l’uno e l’altro felicemente in corso. Quanto al documentario televisivo americano True Caribbean Pirates (Pirati dei Caraibi – La vera storia) di Tim Prokop, 2006, che ricostruisce con interviste a storici e scene da docufiction l’epopea di alcuni tra i pirati più noti al grande pubblico, non manca una parte su Mary & Anne – interpretate rispettivamente da Kimberly Adair e Michelle Michaels. Fresca di realizzazione è poi la docuserie The Lost Pirate Kingdom di Netflix, sceneggiata da David McNab e Patrick Dickinson, diretta da Stan Griffin, Justin Rickett e dallo stesso Dickinson, 2021, con Derek Jacobi come narratore, che, partendo dal 1715, sviluppa una storia della pirateria. Mia Tomlinson vi interpreta Anne Bonny, e Jack Waldouck è Rackham.

Per venire a un film molto diverso, la commedia inglese St Trinian’s 2: The Legend of Fritton’s Gold (St. Trinian’s 2 – La leggenda del tesoro segreto), 2009, per la regia di Oliver Parker e Barnaby Thompson. Al termine, le scatenate studentesse della più improbabile istituzione scolastica britannica appaiono in galeone sul Tamigi, a strappare al villain l’unico manoscritto esistente di Queen Lear – presunta ultima opera shakespeariana, che dimostrerebbe non solo una coincidenza dell’identità del Bardo con il pirata Fritton, antenato della proprietaria, ma soprattutto il fatto che fosse una donna: e a loro volta sono vestite da piratesse. A traghettare idealmente all’epoca nostra quel modello delle Defenders of Anarchy (così il titolo di uno dei due singoli registrati dal gruppo pop Girls Aloud per la colonna sonora del precedente St Trinian’s, 2007) che Mary e Anne avevano in qualche modo vagheggiato d’incarnare.

 

 

Conclusione. E quelle che vanno per mare

 

Per gli anni successivi alle Temerarie Due, i dati in nostro possesso riportano anzitutto un altro paio di casi di donne in equipaggi di navi pirata, entrambi in Virginia: Mary Harvey (o Harley, o Farlee), processata nel 1726, ma a differenza dei compagni mandata poi libera, e Mary Crickett (o Crichett), spedita alla forca nel 1729:

 

Non è dato sapere se queste due donne si fossero travestite per diventare pirata, né se siano state indotte a ciò dai racconti su Anne Bonny e Mary Read. Comunque, la presenza delle quattro donne tra i pirati è venuta alla luce solo perché le loro navi sono state catturate. È possibile quindi che sulle navi pirata le donne abbiano avuto più spazio di quanto ne trovassero, all’epoca, sui mercantili o sui vascelli militari. In ogni caso, tale spazio, benché modesto, è esistito solo perché creato da un’attiva ribellione femminile[83].

 

Gli annali riportano poi i nomi di Flora Burn, attiva verso la metà del secolo sulla costa orientale del Nord America; e di Rachel Wall, piratessa negli anni 1781-82, finita sulla forca nel 1789 (sarà anzi l’ultima donna giustiziata in Massachusetts). Nel XIX secolo, l’elenco – ma si tratta solo dei casi più noti – prosegue coi nomi dell’ultima piratessa svedese, Johanna Hård, delle australiane Charlotte Badger e Catherine Hagerty, di Margaret Croke (tutte dei primi decenni del secolo), e dell’americana Sadie Farrell, conosciuta come Sadie the Goat (1869); mentre nel XX secolo la parte del leone (o della leonessa) se la conquistano le disinvolte signore cinesi già citate. Gli studi – specie sulle dinamiche sociali sottostanti il fenomeno – ovviamente continuano[84].

Ma accanto a questi profili storici ne fioriscono infiniti altri tra leggenda e fiction, come la plausibilmente immaginaria Charlotte de Berry (nata – si dice – nel 1636, ma menzionata per la prima volta nel penny dreadful di Edward Lloyd History of the Pirates, 1836) e quella Geraldine ‘Gunpowder Gertie’ Stubbs (inglese, nata in ipotesi nel 1879) emersa per un pesce d’aprile in un giornale canadese, poi portata sulle scene teatrali e a volte creduta un personaggio storico. C’è poi naturalmente tutta la lunga serie di predatrici immaginarie che popola i più vari tipi di storie, comprese – abbiamo visto – quelle trame di videogiochi o di giochi di ruolo dove le stesse Mary & Anne garantiscono qualche presenza.

In effetti la figura della piratessa sedimenta ormai una certa varietà di spunti simbolici, dalle provocazioni feticistiche della donna che si fa uomo – ma non troppo – fino a una più generale scelta controculturale. Qualcosa che da un lato attiene a una maschera mitica, un archetipo che può facilmente volgere in stereotipo: e da questo versante, come abbiamo visto, la sincretizzazione grazie al cinema di due diversi modelli di donna pirata, quello picaresco di Mary & Anne e quello romantico di Salgari, conduce in ultimo ai citati bozzetti di DeviantArt. Si tratti di declinazioni più intriganti o invece più volgari, tale maschera può comunque vantare un certo impatto sul nostro immaginario.

Ma d’altro canto, proprio attraverso il paradosso di scelte controcorrente, fuori da qualunque sistema (persino quello piratesco, che in generale interdiceva alle donne l’accesso alle navi), le singole figure di women in piracy mantengono un più interessante livello di provocazione. In società grevemente androcentriche, queste donne sono figure di un’esplorazione – in termini liberissimi e variegati, sia pure con alcune costanti – di vie alternative a quelle prefissate da un destino sociale. Lo sono Mary, Anne e le loro colleghe meno note, che hanno spesso pagato care le proprie scelte; ma lo è in fondo, in termini più morbidi, la stessa immaginaria Jolanda. Che, aggregandosi alla feccia dei mari, ricorda ai giovani lettori di un’Italia ormai unita – e già intampata tra scandali, trasformismi e crolli d’ideali – le trasgressioni delle eroine risorgimentali e i loro sogni di libertà: un punto virtuale per ripartire, e mettere magari sotto assedio in vista di un futuro diverso le Panama in cui ci tocca campare.

 

[73] La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa!, 1977 (film); Il ritorno di Sandokan, 1996 (sceneggiato); Il figlio di Sandokan, 1998 (miniserie).

[74] Mi appoggio qui al fondamentale testo di Glen Davies (compiled by), Last Bus To Bray: The Unfilmed Hammer, 2 voll., Des Moines, Little Shoppe of Horrors, 2010, e in particolare al vol. II (Decline, Fall & Rebirth – 1970-2010), pp. 25-28.

[75] Davies (compiled by), Last Bus To Bray, vol. II, cit., p. 28.

[76] Latorre, Avventura in cento film, cit., p. 340.

[77] Così il regista nell’«intervista-carriera» rilasciata nel 2013 a Neuchâtel a Manlio Gomarasca (Renny Harlin the king of action, “Nocturno”, dicembre 2013, pp. 86-93, in particolare p. 91).

[78] Ibidem.

[79] Ibidem.

[80] In un altro punto del film si presenta però come Don Edoardo de la Vega, forse per una dimenticanza dello sceneggiatore.

[81] Per gli anni successivi va segnalato anche lo sceneggiato radiofonico Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, in onda dal 27 marzo al 28 aprile 2006 su rai Radio 2, a cura di Emma Caggiano, diretto da Arturo Villone, scritto da Giovanna Gra e Veronica Pivetti, quest’ultima anche interprete del ruolo principale.

[82] Per le voci su probabili seguiti, ci limitiamo a quanto già detto all’inizio.

[83] Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., p. 121.

[84] Basti citare il testo di John C. Appleby, Women and English Piracy, 1540-1720: Partners and Victims of Crime, Woodbridge (Suffolk)-Rochester (ny), Boydell Press, 2013.

 

 

 

 

 

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (7) https://www.carmillaonline.com/2021/08/21/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-7/ Sat, 21 Aug 2021 20:40:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67791 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

Jolanda meets Mary & Anne (1952-1967)

 

Nello stesso 1952 e sull’onda del successo internazionale su schermo (a colori) di pirati e piratesse, anche l’Italia torna però a farsi sentire: e con un deciso salto di qualità rispetto ai fumettoni precedenti, visto che l’elegante bianco e nero di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero diretto da Cesare Olivieri e Mario Soldati, su sceneggiatura di Ennio De Concini e Ivo Perilli, pur nascendo come prodotto di consumo, ha effettivamente una marcia in più [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

  1. Jolanda meets Mary & Anne (1952-1967)

 

Nello stesso 1952 e sull’onda del successo internazionale su schermo (a colori) di pirati e piratesse, anche l’Italia torna però a farsi sentire: e con un deciso salto di qualità rispetto ai fumettoni precedenti, visto che l’elegante bianco e nero di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero diretto da Cesare Olivieri e Mario Soldati, su sceneggiatura di Ennio De Concini e Ivo Perilli, pur nascendo come prodotto di consumo, ha effettivamente una marcia in più in termini di intelligenza, cultura e malizia. Produttori (senza sciali, ma con ottimo risultato) sono Dino De Laurentiis e Carlo Ponti, usciti dalla Lux Film che comunque distribuirà il film; e le riprese sono condotte negli studi Ponti-De Laurentiis – a parte le scene in navigazione, girate su una mezza nave inchiodata alla spiaggia di Palo, che imporrà un trattamento un po’ delicato da parte degli attori. Il film viene girato in contemporanea e sugli stessi set con un altro di Soldati pure tratto da Salgari, I tre corsari, 1952, che nei fatti costituisce il prequel.

Benché di Salgari vengano rispettati lo stile e la vivacità di fondo, grazie alla rilettura di Soldati e degli sceneggiatori nella trama piratesca irrompe la provocazione, spingendo a una radicale decostruzione del romanzo. A partire dal fatto che qui Jolanda (May Britt, che la produzione tenta di imporre come nuova Greta Garbo) è stata accolta piccolissima tra gli zingari ed educata come un maschio, formazione alle armi compresa: un quadro – il contesto picaresco, il travestimento da uomo – che l’avvicina alle colleghe ‘popolari’ Mary e Anne piuttosto che all’aristocratica di Salgari, e comunque più alle Mary & Anne di Johnson che ai modelli americani (che intendevano il sembiante maschile come un atteggiamento di durezza, più che un camuffamento). In seguito al fortunoso salvataggio della sua carrozza dalle mani dei briganti, la bella Consuelo (Barbara Florian), figlia del conte di Medina Van Gould, s’invaghisce di colei che crede uno spadaccino maschio: non è chiaro come ciò sia possibile perché i tratti di Jolanda sono inequivocabili, ma lei ritiene utile non smentire (limitandosi a commentare che Consuelo potrebbe «avere una sgradita sorpresa») e comunque accetta l’anello-lasciapassare che l’altra le offre. Però, in seguito allo scontro coi briganti, il tutore di «Jolly»[69], il paterno Sam, è rimasto ferito a morte, e le racconta la verità sulla sua origine: è figlia del Corsaro Nero, il conte di Ventimiglia, ucciso a tradimento dallo stesso padre di Consuelo. L’uomo avrebbe anzi voluto far sopprimere la piccola, ma – come nelle fiabe e, già prima, nel sofocleo Edipo re – l’incaricato del crimine, appunto Sam, l’aveva salvata; e c’è anche un tesoro di cui ora le passa la mappa perché lo recuperi.

Chiusa a questo punto la prima fase, picaresca, si passa alla seconda, nel segno della pirateria: Jolanda, in cerca di giustizia, di vendetta e naturalmente del tesoro, ritrova i vecchi compagni del padre, si innamora riamata del figlio di Morgan, Ralf (Renato Salvatori – una soluzione che permette di rispettare maggiormente il profilo dello storico Henry Morgan) e sbatte il naso contro le ambiguità della politica quando Van Gould, nel contesto della firma della nuova pace tra Spagna e Inghilterra, carpisce con un trucco il permesso di far arrestare i pirati presenti a Maracaibo. Ma la ragazza, che non si è accodata ai filoinglesi, sfugge all’arresto e raggiunge l’innamorata Consuelo per rapirla ed effettuare uno scambio di prigionieri: l’ironico, pungente insistere sul tema del genere – la sequenza della festa «costruita in funzione dell’ambiguità sessuale»[70], gli sguardi scambiati e l’occhiolino di Jolanda, il minuetto di corteggiamento, i discorsi sull’amore al chiaro di luna – rimarca il tema del travestimento dell’eroina e le relative dinamiche innescate sul piano erotico. Jolanda prende così Consuelo in ostaggio (continuando, si noti, a fingersi un uomo, e simulando di voler chiedere la sua mano): ma una certa disattenzione durante lo scambio permette a Van Gould di catturarla. Il vilain la crede un uomo al corrente dei segreti del palazzo, e tenta invano di farsi rivelare la collocazione del tesoro. Ordina dunque di frustarla, e allo spettatore non sfugge che è legata esattamente come la statua del Cristo presente nella sala: un’associazione un po’ torbida di sacro e profano cui corrisponde l’altra parallela nel convento, pieno di immagini sacre, in cui i pirati liberati cercano di resistere agli spagnoli.

All’inizio la scena è evocata solo dal suono dello staffile e dai gemiti di Jolanda; ma quando Van Gould le strappa la camicia per sottoporla a ulteriori sevizie, finisce col rivelare per un attimo «i primi seni nudi del cinema italiano del dopoguerra»[71]. Con delusione della sconvolta Consuelo, Van Gould capisce ora che si tratta di Jolanda e sta per ucciderla quando viene ferito: l’intervento di Morgan padre ha capovolto nuovamente la situazione. Van Gould finirà malissimo, alla deriva in un’imbarcazione carica di lebbrosi, su un mare pieno di squali, e in ultimo Jolanda e amici recupereranno il tesoro. Nonostante le differenze dai modelli dei film americani immediatamente precedenti, questa Jolanda in maniche di camicia può richiamare il look della protagonista di Anne of the Indies e prelude a una serie di piratesse abbigliate allo stesso modo negli anni seguenti.

La versione di Soldati costituisce insomma un primo importante passo dell’assimilazione tra l’eroina italica e le colleghe anglosassoni, sul filo di una progressiva riscoperta dei pirati che vede tornare anche la salgariana Neala ne Il figlio del Corsaro Rosso di Primo Zeglio, 1959, interpretata da Vira Silenti: ma il fenomeno verrà rimarcato in modo anche più netto in alcuni film successivi, fino a una sostanziale compenetrazione tra le figure.

A partire dall’italo-tedesco La Venere dei pirati, 1960, di Mario Costa, da un soggetto di Kurt Nachmann e Rolf Olsen rielaborato da Ottavio Poggi, e sceneggiato da Nino Stresa per la Max Production e la Rapid Film: una storia brillante in cui l’impavida Sandra, interpretata dalla bella Gianna Maria Canale (volto noto all’epoca e, fino a pochi anni prima, compagna di Riccardo Freda, che tra l’altro la dirige nell’orrorifico I vampiri del 1957) è una simil-Jolanda. Ma la pellicola ricorda al contempo le avventurose mattatrici del cinema piratesco americano. L’ambientazione è italiana, con l’ipotetico ducato adriatico di Doruzza governato dal vilain Zulian – Paul Müller, non ancora ‘divo’ dei film di Jess Franco – e dalla viperina figlia Isabella – Scilla Gabel, al secolo Gianfranca Gabellini, altro viso notissimo d’epoca in ruoli di belle un po’ ambigue, indimenticabile nel di poco posteriore Mulino delle donne di pietra, 1960, regia di Giorgio Ferroni. In risposta alle loro persecuzioni, la coraggiosa Sandra figlia del capitano Mirko diviene la più celebre piratessa dell’Adriatico, guadagnandosi per avvenenza il soprannome di ‘Venere dei pirati’: come la Jolanda soldatiana (e con il medesimo compiacimento della sceneggiatura) anche lei viene sottoposta ad angherie – incatenata a un muro per essere frustata, imbarcata su una nave di schiave che i pessimi duchi pregustano di vendere per gli harem levantini, e in seguito catturata e condannata alla forca. A salvarla appena in tempo, con l’aiuto dei predoni del mare e dei sudditi ribellatisi a Zulian, sarà l’aitante conte Cesare di Santacroce (Massimo Serato), inizialmente candidato alla mano di Isabella: infiltrato tra i pirati per catturare la ‘Venere’, ne ha appreso la vera storia e ha finito per innamorarsene. E in chiusura Sandra vedrà riconosciuto il suo vero lignaggio dal cattivo duca colpito a morte: ancora una volta, come nella Jolanda di Soldati, si scopre l’origine aristocratica di lei, di cui l’usurpatore aveva ordinato la soppressione, ma il solito sicario – qui il simil-padre Mirko – si è invece preso a carico la bimba. Segue l’ovvio matrimonio tra Sandra, legittima duchessina di Doruzza, e il conte Cesare, con Isabella ormai relegata in convento.

La maschera della ‘donna che si fa uomo’, nel caso della femminilissima Sandra, riguarda la sua abilità di marinaio e di combattente ma anche il modo di vestire, come osserva il padre putativo Mirko all’inizio del film, tentando invano di proporle un abito da dama: «non mi piace più vederti tra la ciurma vestita come un maschiaccio»; al che lei protesta che è stato lui «a insegnarmi a governare il battello, ad arrampicarmi sulle sartie, a tenere una spada in mano». E il candore (improbabile, con quella vita) della camicia che ostenta – e che compare in quegli anni come l’abito connotante eroi ed eroine della pirateria – richiama ancora una volta la Jolanda soldatiana. Battute come «Una spada non ha sesso» (così Sandra ribatte all’Albanese, un pirata che ha appena mugugnato che se fosse stata un uomo l’avrebbe sfidata a duello, venendo poi battuto) possono sembrare aperte a un superamento degli stereotipi – poi invece prontamente confermati dalla scelta di Sandra di vestire da donna quando, sulla nave, vuole far colpo sul conte.

Del resto, con la stessa tenuta in camicia da uomo si presenta, l’anno successivo, una Mary Read rivista e corretta – e finalmente appare anche lei, visto che il mito dell’amica Anne è stato anche troppo sfruttato dal cinema. Le avventure di Mary Read, 1961, segna l’esordio come regista di Umberto Lenzi – poi noto per pellicole di generi piuttosto diversi – ed è anche il primo film italiano di Lisa Gastoni, appunto interprete della protagonista. La sceneggiatura è di Ernesto Gastaldi, Ugo Guerra e Luciano Martino, il produttore Fortunato Misiano e le case di produzione Romana Film e Société Nouvelle de Cinématographie; se poi formalmente ci si ispira alla prima delle due eroine di Johnson, di fatto un riferimento forte è ancora la salgariana Jolanda.

Come in Johnson ma anche nel film di Soldati, una prima parte delle Avventure di Mary Read è ancora a carattere picaresco, con le peripezie dell’eroina eponima che, fingendosi un giovanotto, mette a frutto fortunati colpi come ladra di strada in compagnia del buffo nonno Mangiatrippa. Catturata, finisce in carcere a Londra dove riesce incredibilmente a mantenere la propria identità maschile – salvo che con il compagno di cella, Peter, di cui si innamora. A sua volta questi simula, anche di fronte a Mary, visto che non è un furfante bensì il figlio di tale Lord Goodwin arrestato per equivoco. Il giovane, liberato, fa credere a Mary che lo stiano cambiando semplicemente di prigione: ma quando lei riesce a fuggire scopre la verità e, dopo essersi tolta la soddisfazione di un paio di schiaffoni al mentitore, delusa si arruola come marinaio insieme al nonno sulla nave di capitan Poof, «il più fortunato corsaro del re». Mary è in realtà ormai costretta a mostrare la propria identità femminile, comunque svolge bene il suo lavoro, e sta cercando di resistere alla corte di Poof, quando viene avvistato un vascello spagnolo. Nello scontro che segue il corsaro viene ucciso, e gli Spagnoli hanno la meglio: però Mary, condotta nella cabina del comandante vincitore, riesce a stordirlo con una botta in testa e libera i compagni, che si impossessano della nave. Buttati a mare gli spagnoli, i pirati acclamano Mary come nuovo capitano: allora lei decide di abbandonare la guerra di corsa per predare in proprio, e assume il nome del defunto Poof.

Inizia così, per vendetta, a depredare navi inglesi: e nella prima che cattura trova una giovane, prima ballerina di Luigi XIV, attesa in Florida a una festa del viceré. La ragazza inizialmente non si accorge che Mary, nella giubba imbottita di Poof, è a sua volta una donna; ad ogni modo i vestiti eleganti della prigioniera si rendono utili allorché alla festa è proprio Mary a sostituirla. Con una specie di spogliarello danzato riesce a attrarre su di sé l’attenzione degli invitati, ma quando (ancora morigeratamente vestita: la censura non permetterebbe di fare diversamente) punta la pistola sul viceré, i pirati hanno ormai bloccato la sala e rapinano tutti i presenti.

Mary però non è felice – come nota il giovane pirata Ivan, di cui lei rifiuta la corte, ancora scottata dalla precedente esperienza con Peter. E anzi, quando scopre che alla testa dell’enorme incrociatore inviato per debellare i predoni c’è proprio il figlio di Lord Goodwin, si dirige vendicativa a New Bristol da dove quello deve iniziare la missione. Con un agguato lungo la strada, i pirati bloccano e fanno spogliare il conte di Berry e la sua pupilla: e a sostituirli alla festa del governatore inglese sono Mary e Mangiatrippa. Lì la ragazza rivede Peter, che la abborda senza riconoscerla: ma quando, in giardino, lei si rivela la sua antica compagna di cella, riesce a fargli raccontare il piano approntato per sorprendere i pirati. Catturato allora uno degli sloop della squadra, Mary fa in modo che l’incrociatore di Peter cannoneggi per equivoco nientemeno che la nave del governatore… Il giovane aristocratico, degradato, realizza che solo Mary può aver giocato quel tiro collaborando con Poof: per cui ottiene di poter tentare da solo di rendere la pariglia, e travestito da marinaio (ecco il solito infiltrato) raggiunge la base dei pirati a San Salvador. Riesce anche a salire sulla nave all’àncora e trova Mary nella cuccetta, senza credere che Poof sia lei: ma quando, catturato, ha già la corda al collo, Mary lo fa sciogliere (la solita piratessa che salva il bellimbusto) e lo sfida a duello. Peter ha la meglio, e sarebbe intenzionato – secondo i patti – a consegnare la perdente al governatore, quando iniziano a piovere colpi sulla nave e sull’abitato: gli inglesi attaccano, e Mary stordita è condotta sul loro vascello. Coricata sul ponte e creduta priva di sensi, la ragazza si considera ormai perduta e decide di togliersi l’ultimo sfizio di sparare a Peter: ma, prima di esplodere il colpo, sente che il giovane sta raccontando di aver ucciso Poof in duello e salvato la sua bella prigioniera, guadagnandosi così reintegrazione nel grado e pubbliche lodi. Nell’ultima scena, sei mesi dopo a Londra, Mary è ormai sua moglie.

Quanto ciò disti dalla storia dell’originale Mary è evidente, anche se la bellezza un po’ algida e introversa di Lisa Gastoni può rendere qualcosa delle sghembe timidezze del modello storico. Certo lo stile lieve di tutto il racconto lo inscrive nel modello dell’avventura più candida e quasi fiabesca, priva delle maliziose sottigliezze della Jolanda soldatiana e dello stesso velato sadismo della Venere dei pirati.

WHITE SLAVE SHIP, (aka L’AMMUTINAMENTO), Pier Angeli, 1961

Si era citata Polly: An Opera, di John Gay, 1729 sequel della famosissima Beggar’s Opera, 1728, come protoversione teatrale della storia di una ragazza che si traveste ‘da maschio’ e si fa pirata, con plausibile ispirazione diretta alle gesta di Anne e Mary: ed è interessante notare che del 1961 è anche un film, L’ammutinamento diretto da Silvio Amadio, che sembra ricondurre allo stesso ordine di fantasie. Il tema è quello di varie pellicole d’epoca, storie di navi piene di donne prigioniere – prostitute, vagabonde, carcerate assortite delle prigioni inglesi, naturalmente tutte giovani e carine, quasi una versione “morbida” dei WIP (= women in prison) film – che conoscono avventure sul mare tra coralità di violenze, sadismi di piccolo cabotaggio e amori. A far notare L’ammutinamento è la presenza come protagonista di una prostituta Polly interpretata da Anna Maria Pierangeli, e di Armand Mestral nei panni di Calico Jack, cioè guarda caso proprio il nome del partner (d’affari e di parte di sentimenti) delle Dinamiche Due. Vedervi un omaggio all’opera di Gay è eccessivo, ma è possibile che gli sceneggiatori (Sandro Continenza, Marcello Coscia, Ruggero Jacobbi), dovendo immaginare la storia di un ammutinamento su una nave di donne carcerate, siano andati a pescarsi qualche saggio popolare sulla pirateria trovando un cenno all’archetipica Polly.

D’altra parte Gianna Maria Canale tornerà più dura e grintosa nel 1962 con l’italo-francese La tigre dei sette mari, diretto da Luigi Capuano su soggetto di Nino Battiferri, sceneggiatura dello stesso Capuano, Arpad DeRiso e Ottavio Poggi, quest’ultimo anche produttore per Liber Film, e con distribuzione Euro International Film. Forse non casualmente si chiama Consuelo come un personaggio della Jolanda soldatiana; e a giustificare il ruolo di capitana pirata è non solo il suo stato di famiglia – è figlia del vecchio pirata noto come ‘il Tigre’ – ma anche l’abilità con le armi, che al momento della successione le fa battere persino il fidanzato William. Il padre viene ucciso da Robert, un traditore al soldo del governatore spagnolo Inigo de Cordoba (a sua volta interpretato da un godibilissimo Ernesto Calindri, con Grazia Maria Spina nel ruolo della giovane e machiavellica moglie Anna, entrambi attivissimi nel donare alla storia un piacevole sapore di commedia); e William dovrà dimostrare a Consuelo – che nel frattempo è sfuggita agli spagnoli e preda ferocemente col soprannome di ‘Tigre dei sette mari’ – di non essere l’assassino, come Robert ha tentato di far credere. Per smascherarlo si fa catturare dagli spagnoli, viene liberato da Consuelo, poi sono acciuffati tutti e due ma riusciranno a cavarsela.

Vestita come la Sandra de La Venere dei pirati, in camicia da uomo e stivali – interessante anzi notare il riciclo di stilemi nelle locandine, cfr. immagine qui sotto – , o con giubbe da capitano (a un certo punto si veste anche da ufficiale spagnolo), all’inizio Consuelo si cambia l’abito per rivedere il fidanzato tornato dalla missione, e lo scambio è indicativo di un chiodo fisso degli sceneggiatori: alla battuta di lei che gli appare con la gonna («Guarda, è un regalo di mio padre: ti piace?») William ribatte: «Ti preferisco così, vestita come una donna». Anche se poi lei rifiuta il sogno di suo padre che la vorrebbe gran dama, per vagheggiare piuttosto il comando della nave – e il film termina ironicamente col battibecco tra i due innamorati su chi debba dar ordini sulla nave. C’è d’altra parte il solito topos della forca, da cui William scampa; ma il lieto fine parallelo – garantito dall’astuta moglie del governatore, che ha fatto liberare i pirati a patto di incamerarne il tesoro – suona beffardo. Consuelo, a differenza di Jolanda, non riesce insomma a recuperare l’oro paterno e si unisce con l’amato in un clima di cocciute contrapposizioni, a lasciare sul temerario mondo dei pirati l’ombra di una sostanziale immaturità; mentre il governatore, pur non riuscendo a impiccarli, vede però confermata l’utilità istituzionale del suo ruolo e per sovrapprezzo si tiene l’oro – in una sorta di velatissima e morbida satira che in fondo simpatizza con l’autorità. Come del resto piuttosto prevedibile nel contesto ideologico italiano di quegli anni, al confronto del quale Salgari appare persino eversivo.

A conferma – se mai ve ne fosse stato bisogno – che Gianna Maria Canale figuri in Italia nei primi anni Sessanta come la donna pirata per antonomasia (oltre che mattatrice in una quantità di altri film di genere, soprattutto in costume), la vediamo tornare in maniche di camicia e stivali, spada alla mano, ne Il leone di San Marco di Luigi Capuano, 1963. Dimentichiamo i Caraibi: qui è Rossana, bella piratessa partecipe delle incursioni dei predoni uscocchi contro Venezia, ma esplode l’amore con il campione della Serenissima, Manrico Venier (Gordon Scott): ovviamente entrambi verranno sospettati di tradimento… A conferma di un certo kink, la troviamo a in certo punto incatenata a un muro, ma tutto corre in modo molto morbido tra colori vivaci, scorci lagunari e schermaglie, fino all’ovvio lieto fine. L’ultimo film della bellissima attrice prima del prematuro ritiro sarà ancora di ambientazione veneziana, Il ponte dei sospiri di Carlo Campogalliani (pure al suo ultimo film) e Piero Pierotti, dell’anno dopo, basato su un romanzo di Michel Zevaco. Poi, rimasta temporaneamente lesa al volto per un grave incidente stradale, Gianna Maria Canale si ritira in un’isola – non Tortuga ma Giannutri –, scegliendo l’invisibilità. Tornerà sul continente solo a tarda età, per la mancanza di servizi nell’isola, morendo ottantunenne a Sutri nel 2009.

In ogni caso, il successo del tema piratesco a inizi anni Sessanta può far comprendere meglio il varo di alcune strane scampagnate dei pirati in tv: e in particolare del celebre sceneggiato musicale rai Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, 1961, scritto da Vittorio Metz e diretto da Alda Grimaldi, con le continuazioni Le nuove avventure di Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, 1962, e Giovanna alla riscossa più forte di un bicchiere di gin, 1966. Trasmesso di domenica pomeriggio all’interno della cosiddetta tv dei ragazzi, il programma celebra la figura di Giovanna, «la nonna-sprint più forte di un bicchiere di gin», interpretata da Anna Campori, alla testa di una ciurma di compagni tra i quali spicca il buffo, balbettante nostromo Nicolino (Pietro De Vico); ma nella prima serie appare anche Jolanda, interpretata da Franca Badeschi. Le comiche avventure dell’inusuale eroina nei più vari luoghi della terra ibridano spunti salgariani con altri del genere cappa-e-spada (per esempio, almeno nell’ultima serie, compaiono Cirano e il dumasiano Signor de Tréville): ed è divertente paragonare il mirabolante ascensore che, se la memoria non inganna chi scrive, sposta i personaggi nel tempo e nello spazio, con il coevo tardis, macchina del tempo/astronave in forma di cabina telefonica, apparso già al tempo nelle storie del Doctor Who. Purtroppo la sciagurata prassi rai del tempo di cancellare le registrazioni – almeno quelle non giudicate degne di conservazione per la posterità – priva della possibilità di riavvicinarsi a storie indubbiamente ingenue ma di grande, surreale fantasia[72].

Lentamente però i film sui pirati si diradano: e canto del cigno dell’età d’oro delle piratesse è nuovamente una pellicola americana, The King’s Pirate (Il pirata del re) diretta da Don Weis, 1967, modesto remake del vecchio Against All Flags e basato sul soggetto di Aeneas MacKenzie con sceneggiatura dello stesso MacKenzie, Joseph Hoffman più Paul Wayne, prodotto da Robert Arthur per la Universal. Ancora una volta c’è un ardimentoso ufficiale britannico, Brian Fleming, che si infiltra tra i pirati del Madagascar e si confronta con la bella Jessica Stephens interpretata da Jill St. John: carina, ma non ha certo il carisma di Maureen O’Hara. Il fatto che invece in questo remake appaiano come personaggi alcune figure dell’originaria saga di Libertatia, assenti in Against All Flags (il capitano Mission – da leggersi come Misson – e il compare Caraccioli), confermano un ennesimo e in apparenza più filologico ritorno a Johnson.

[69] Qui come diminutivo di Jolanda, ma l’assonanza col Jolly Roger, la bandiera ‘classica’ dei pirati, pare particolarmente suggestiva: sul tema, cfr. il grande studio di Renato Giovannoli, Jolly Roger. Le bandiere dei pirati, Milano, Medusa, 2011. Intrigante, ai fini della nostra ricognizione, anche considerando che proprio a Rackham si attribuisce talora (a torto) l’invenzione di tale vessillo.

[70] Latorre, Avventura in cento film, cit., p. 196.

[71] Ivi, p. 197.

[72] Sopravvive solo, per una singola puntata, una registrazione in Super 8 di cattiva qualità girata da un attore, e donata alle teche rai dalla protagonista Campori.

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (6) https://www.carmillaonline.com/2021/08/14/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-6/ Sat, 14 Aug 2021 20:31:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67622 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

PARTE II

Una spada non ha sesso: gli apocrifi

 

 Definendo un modello (1920-1952)

Fin qui un canone di importanza seminale per l’immaginario moderno sulla donna pirata, in particolare nei paesi anglosassoni e in Italia: ma il gioco delle varianti tra trasposizioni e ispirazioni più o meno dirette condurrà nei fatti a un ricco corpo di – si passi il termine – apocrifi. Dove proprio la contaminazione tra topoi vedrà realizzarsi su grande schermo una sorta di fusione tra i modelli tanto diversi [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

PARTE II

Una spada non ha sesso: gli apocrifi

 

  1.  Definendo un modello (1920-1952)

Fin qui un canone di importanza seminale per l’immaginario moderno sulla donna pirata, in particolare nei paesi anglosassoni e in Italia: ma il gioco delle varianti tra trasposizioni e ispirazioni più o meno dirette condurrà nei fatti a un ricco corpo di – si passi il termine – apocrifi. Dove proprio la contaminazione tra topoi vedrà realizzarsi su grande schermo una sorta di fusione tra i modelli tanto diversi di Mary & Anne da un lato e di Jolanda dall’altro.

Certo, ben prima del cinema c’è il teatro: e sulle scene la prima storia di una ragazza che si traveste ‘da maschio’ e si fa pirata, con plausibile ispirazione diretta alle gesta delle Due, è probabilmente quella di Polly: An Opera, being the Second Part of the Beggar’s Opera, scritta nel 1729. A firmarla è quel John Gay che aveva appunto composto la celeberrima Beggar’s Opera, 1728: e lì già appariva la prostituta Jenny Diver, che in Polly diviene amante del pirata Morano, ma poi si innamora di un altro pirata. Quest’ultimo – ecco il colpo di scena – si rivelerà però Polly travestita: dove la somiglianza con la storia descritta da Johnson è evidente, tanto più per la dialettica polare tra la disinvolta Jenny/Anne e la pudica Polly/Mary.

Frattanto appaiono infiniti racconti di donne pirata in chiave di fiction, e anche le vite di Mary & Anne divengono oggetto di una lussureggiante produzione narrativa che arriva fino a oggi: nell’impossibilità di trattarne in questa sede, basti citare titoli come Mary Read: The Pirate Wench di Frank Shay, 1934, o il più recente Mary Read di guerra e mare di Michela Piazza, 2012[66]. Ma è col cinema che il modello può esprimere le sue potenzialità col massimo impatto sull’immaginario.

Grazie allo straordinario corpus salgariano, nel cinema italiano piratesse e partner di pirati compaiono molto presto. Un po’ di confusione regna nelle fonti tra due Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, 1920 e 1921, per la Rosa Film varata, con la benedizione dei figli di Salgari, proprio per portare sugli schermi le storie del padre: sarebbero diretti entrambi da Vitale De Stefano – il Massinissa di Cabiria – e sceneggiati da Edoardo Nulli, nell’ambito di un ciclo di cinque pellicole tratte dalla saga salgariana dei corsari. Si tratta plausibilmente dello stesso film, interpretato nel ruolo del titolo da Anita Faraboni, o secondo altri da Ketty (rectius Kitty) Watson (attrice americana, 1886-1967, talora identificata in Adele Marinelli) – in realtà le due attrici figurano entrambe nella saga, i cui film però sono tutti perduti. Nella stessa serie figura Gli ultimi filibustieri, 1921, degli stessi regista e sceneggiatore, con l’attrice nota come La Bella Argentina per la parte di Neala.

Affermatosi il sonoro, nel 1940 esce La figlia del Corsaro Verde diretto da Enrico Guazzoni per le Produzioni Manenti, sceneggiato da Alessandro De Stefani e arricchito in ruoli minori dalle caratterizzazioni di Polidor (al secolo Ferdinand Guillaume) e del noto pugile Primo Carnera. Nel film la protagonista Manuela (Doris Duranti, «selvaggia e combattiva», come definita da Osvaldo Scaccia in “Film”, 19 aprile 1941) salva dalla morte Carlos, figlio del governatore infiltrato tra i pirati e da loro scoperto: a riproporre il tema della ragazza che salva l’uomo, ma in particolare – ne vedremo gli sviluppi – l’uomo dell’altra parte (considerato che il Corsaro Verde era stato giustiziato per ordine del padre di Carlos). D’altronde e parallelamente non mancano le ragazze da salvare, come ancora Neala (l’attrice Loredana, all’anagrafe Loredana Padoan) prigioniera del cattivo governatore di Las Palmas ne Gli ultimi filibustieri di Marco Elter, 1943, sequel de Il figlio del Corsaro Rosso degli stessi anno e regista, sceneggiato a più mani (della partita è anche Pietro Germi) e prodotto dalla B. C. Film. Una quasi-corsara,  Donna Consuelo, marchesa di Velasco, appare in La vendetta del corsaro di Primo Zeglio, 1951, interpretata dall’attrice dominicana María Montez, ultimo suo film prima della tragica fine (annegata nella vasca da bagno forse a seguito di attacco cardiaco). E fin qui trame candide, stereotipi a gogò, genuino divertimento senza pretese.

THE SPANISH MAIN, Maureen O’Hara, Paul Henreid, Binnie Barnes, 1945

Ma nel frattempo, al di là dell’Oceano, il ben più corazzato cinema americano ha già portato spesso sugli schermi i pirati. È ovvio che prima o poi dovesse comparire anche il Duo Dinamico del capitano Johnson, che in effetti proprio a metà degli anni Quaranta avvia una propria storia su grande schermo – sia pure separatamente, a partire da Anne. In The Spanish Main (Nel mar dei Caraibi), 1945, diretto e prodotto a vivaci colori da Frank Borzage per RKO Radio Pictures, su soggetto di Aeneas MacKenzie e sceneggiatura di George Worthing Yates e Herman J. Mankiewicz, protagonista è l’avventuroso Laurent Van Horn (sintesi immaginaria, si direbbe, dei due storici pirati Nicholas van Hoorn e Laurens de Graaf): e, dopo una prima fuga dalle carceri spagnole, lo vediamo catturare un galeone su cui viaggia la contessa Francisca (Maureen O’Hara), destinata a sposare il pessimo viceré di Cartagena. Tra pirata e prigioniera nasce qualcosa, ma la piratessa Anne Bonny (Binnie Barnes), prima amante di Van Horn, è pronta a tutto per spedire a Cartagena la rivale: in seguito anzi ai suoi maneggi i pirati sono catturati dal viceré, e Francisca rischia la vita per liberarli. Anne si riscatta finendo ferita mentre protegge le spalle a Van Horn, e benedice la coppia prima di morire; gli altri si salvano e riprendono l’allegra vita di predatori. In questa libera rilettura in technicolor Anne appare non solo come la classica, tragica dark lady hollywoodiana, pronta in nome della passione agli atti più disperati, ma pure una crossdresser un po’ spigolosa e maschile, in giacca rossa e cappello floscio, destinata all’ovvia sconfitta nel paragone con la bellissima avversaria – come lo spettatore già sospetta dal primo duro confronto tra le due donne alla locanda. Non manca la dialettica nevrotica di scontro (Anne che tradisce Van Horn, consegnandolo al patibolo) e salvazione del partner di turno.

THE SPANISH MAIN, Paul Henreid, Binnie Barnes, Maureen O’Hara, Martha Bamattre, 1945

Se il film di Borzage può segnare idealmente l’inizio dell’età d’oro delle Due Toste nel cinema, la vocazione tragica dell’Anne di Hollywood trova conferma in una pellicola di poco successiva. Anne of the Indies (La regina dei pirati), 1951, del grande Jacques Tourneur su sceneggiatura di Arthur Caesar, Philip Dunne ed Herbert Sass, prodotto da George Jessel e distribuito dalla 20th Century Fox, ha per protagonista il temerario capitano Anne Providence (Jean Peters, futura moglie di Howard Hughes – invece della prima interprete destinata al ruolo, Susan Hayward) ma in qualche modo è ispirato proprio alla vita di Anne Bonny. O meglio: alla base c’è una short story apparsa nel 1946 sul “Saturday Evening Post”, Queen Anne Of The Indies (il titolo resterà tra quelli proposti per il film) a firma del citato Sass, che in seguito viene interpellato per trarne un trattamento cinematografico. Lo scrittore si mette all’opera e nel ’48 presenta una versione riadattata della vera storia di Anne Bonny. Poi il tutto sparisce nei meandri degli studios, Sass resta tagliato fuori e, quando il film esce, il risultato è talmente diverso che se non ci fosse il credit al nome dello scrittore non si coglierebbero proprio i collegamenti. È comunque plausibile che il cognome Providence attribuito alla protagonista costituisca un richiamo all’omonima isola delle Bahamas citata da Johnson.

Se The Spanish Main era una godibile avventura con morte finale della dark lady, qui la storia si inabissa nel dramma vero e proprio. Catturando una nave inglese, la capitana Anne Providence trova nella stiva un prigioniero, Pierre François LaRochelle (Louis Jourdan), già comandante di una nave corsara francese. Dopo un iniziale arruolamento quale navigatore, però, il tipo mostra atteggiamenti ambigui che innescano un rapporto complesso con Anne. Sottoposto alla frusta, rivela infine di trovarsi sulle tracce del tesoro di Morgan e si accorda per dividerlo con la capitana – che tuttavia, in maniera abnorme e con l’ingenuità di chi non ha mai amato in precedenza, è molto più attratta da lui che dall’oro, e in apparenza ricambiata. Invano il collega Barbanera, che di Anne è stato il mentore[67], la mette in guardia e finisce offeso e allontanato (viene il sospetto che questa sia la fonte per la complessa dialettica tra Barbanera e la figlia Angelica nel quarto Pirati dei Caraibi); ma poi le prove che Pierre è un infiltrato degli inglesi vengono alla luce. La sua idea sarebbe stata di consegnare Anne ai connazionali per farsi restituire la propria nave, con cui praticava la pirateria; ma ha taciuto anche di essere sposato, e che sua moglie Molly (Debra Paget) lo attende a Port Royal. Anne sfugge così all’agguato delle navi britanniche con la propria Sheba Queen (la «Regina di Saba», femme fatale per eccellenza), e furiosa rapisce Molly: dopo aver pensato di venderla come schiava a Maracaibo, decide infine di legarla alla prua della nave per impedire agli avversari di colpire. Catturato nuovamente Pierre (che ora fa il corsaro per conto di un lord), Anne lo abbandona con Molly senza viveri né acqua su un’isola deserta, restando all’àncora in attesa del loro decesso: ma poi, tormentata dal rimorso, fa inviare ai due quanto necessario per salvarsi e tornare in Giamaica. L’arrivo dell’offeso e vendicativo Barbanera fa precipitare la situazione: per salvare Pierre dal pirata che lo odia, invece di allontanarsi Anne sceglie di combattere contro il simil-padre, e alla fine verrà uccisa da una cannonata. Una gelida, anonima e burocratica mano cancella in ultimo il nome della capitana, «affondata vicino alle Bahamas».

In modo molto più profondo che in The Spanish Main, la ‘mascolinità’ di Anne (in questo caso fisicamente graziosa) si manifesta nell’approccio alla vita – predazione, durezza, ignoranza dei sentimenti – appreso da Barbanera, e in cui è rimasta intrappolata. Scoprendosi dunque incapace, di fronte al primo innamoramento, di manifestare in modo libero i propri sentimenti: con la frustrazione deflagrante di scoprirsi tradita e l’innesco di una situazione disperata che la conduce al ripudio della figura paterna e alla morte. Come ha rilevato José María Latorre, in questa pellicola

 

la sessualità è la molla stessa della vicenda: Anna […] scopre quasi nello stesso momento sensualità, amore, inganni, gelosia, vendetta, perdono e morte. Il film segna inoltre un punto e a capo nell’ambito del film d’avventura: l’acida malinconia del tono, l’opacità nel trattamento dei personaggi, la tragica conclusione, il pessimismo, la mediocrità del principale interprete maschile, l’antipatia che, benché vittima delle circostanze, suscita il personaggio femminile, il risveglio della sensualità di Anna e i rapporti che intrattiene con gli uomini che si prendono cura di lei rendono La regina dei pirati un’opera singolare[68].

Si noti la presenza in questo film di un vestito da donna trattenuto nella quota di bottino di Pierre, e che per la prima volta attira l’attenzione di Anne; in seguito lei lo proverà, spingendo lui a scioglierle per la prima volta i capelli – e il tutto finisce in un bacio. La dialettica simbolica tra l’abito da donna e la tenuta in camicia da uomo correrà avanti idealmente per tutta la storia su schermo delle piratesse.

Ma lo sappiamo, nel cinema popolare l’archetipo tende a farsi stereotipo, e negli anni Cinquanta il fortunatissimo fenomeno pop della rilettura farsesca dei generi nella saga di Abbott e Costello – Gianni e Pinotto, nella traduzione italiana – interessa anche il cappa e spada di pirati. Come i due comici ricalibrano per esempio in chiave commedia il genere horror – con solo lievi ritocchi, ampliando il ruolo dei caratteristi di tradizione shakespeariana e rispettando i mattatori che diventano però maschere –, attraverso la propria versione delle “macedonie all monsters” alla Erle C. Kenton (Abbott and Costello Meet Frankenstein, 1948), così fanno anche con il film di pirati: e la Anne Bonny un po’ rigida e virile presentata in The Spanish Main sembra influire direttamente, virata in chiave solo più fascinosa, sulla Anne Benney di Kidd il pirata (Abbott and Costello Meet Captain Kidd) una commedia del 1952 diretta da Charles Lamont su sceneggiatura di Howard Dimsdale e John Grant. L’interprete di Anne – qui contrapporta al furfantesco Kidd del grande Charles Laughton, tra mappe del tesoro confuse con biglietti galanti – è in effetti ora Hillary Brooke, ospite fissa in quegli anni del The Abbott and Costello Show, e che qui i nostri sostengono contro il vilain. Come nella scampagnata horror di cui sopra, i comprimari archetipici o piuttosto stereotipici dei due protagonisti sono comunque rispettati: e proprio il varo di questa puntata la dice lunga su quanto a inizio anni Cinquanta il film di pirati rappresenti un genere consolidato.

In fondo le storie di pirati sono avvertite come un epos americano, non è strano i pirati piacciano: e solo un anno più tardi una nuova capitana pirata appare in Against All Flags (Contro tutte le bandiere), 1952, diretto da George Sherman e prodotto da Howard Christie con distribuzione Universal. In questa produzione dai colori vivacissimi e dagli altrettanto vivaci fondali dipinti, la nostra Anne non c’è: ma il fatto che la scintillante piratessa Prudence ‘Spitfire’ (nella versione italiana «Schizzafuoco») Stevens sia interpretata da quella stessa Maureen O’Hara che al termine di The Spanish Main si allontanava sul mare con l’amato pirata Van Horn, finisce con lo stabilire una sorta di nesso – come se la contessa Francisca avesse cambiato identità e seguito la strada della defunta Anne. Tanto più che la storia è firmata da Joseph Hoffman e Aeneas MacKenzie, quest’ultimo già soggettista di The Spanish Main: nei fatti è Hoffman a riscrivere l’originaria sceneggiatura di MacKenzie, ma è evidente che in queste avventure gli stessi temi tornano di continuo.

Così anche qui c’è un infiltrato tra i pirati – l’ufficiale britannico Brian Hawke, interpretato da un Errol Flynn meno agile di un tempo e in deriva alcolica – e come nell’italianissimo La figlia del Corsaro Verde si tratta dell’eroe, diversamente da quanto narrato in Anne of the Indies, dove appariva figura equivoca; anche qui a sospettare di lui è un pirata ‘storico’ – in Anne of the Indies era Barbanera, qui è il Roc Brasiliano di Anthony Quinn; e se in Anne of the Indies Barbanera ricopriva un ruolo di mentore e quasi padre, qui l’anomalia di una presenza femminile tra i pirati è giustificata tout court con una successione di Spitfire al padre, capitano e proprietario di una nave. Come in The Spanish Main anche in questo caso troviamo una bella e aristocratica prigioniera che si innamora del (falso) pirata, la figlia dell’imperatore Moghul Patma (Alice Kelley), suscitando la gelosia di Spitfire che se ne è pure invaghita; anche qui l’inganno dell’infiltrato viene scoperto, ed è la piratessa a salvargli la vita (in questo caso da una strana morte in pasto ai granchi: Spitfire mima di pugnalare Hawke per allievargli le sofferenze, e invece taglia le corde). Se poi in Anne of the Indies era la protagonista a far legare Molly sulla linea di fuoco della nave, qui Roc usa similmente come scudo la corrispondente figura femminile fragile, Padma, per sfuggire dalla baia assediata; e come in The Spanish Main, un duello finale tra eroe e villain sarà risolutivo. La piratessa si vergogna comicamente del proprio nome di battesimo Prudence; quanto al soprannome ‘Schizzafuoco’, Hawke ne chiede ragione al barbiere/boia del luogo, che risponde: «Ah, lo scoprirete da solo se provate a metterle una mano addosso»: un avviso che può ben ricordare la disavventura del «giovane» che, attesta Johnson, «aveva cercato di giacersi» con Anne contro la sua volontà. Più avanti scopriremo che, molestata, Spitfire ha già ucciso in duello alla pistola un uomo; e il tema dei baci che offre solo quando ne ha voglia conferma il modello. Inevitabilmente, in un contesto che non esalta il femminismo, Hawke riuscirà ad ammansirla.

Certo la dinamica spadaccina Spitfire, pur nei panni sportivi che richiamano certe colleghe dei cappa-e-spada (solo di rado indossa un abito lungo da dama, e deve farsi spiegare da Hawke cosa siano i finti nei), è figura molto diversa dalle due Anne dei film precedenti: qui la logica è quella morbida del classico film d’avventura. La sua prima apparizione la vede per esempio scegliere dei fiori da una venditrice di colore come una qualunque signora americana della buona società. Si apprende poi che suo padre (ex-bracconiere in fuga con la figlia bambina, a evocare di sfuggita un passato picaresco) era divenuto capitano della costa come esperto di fortificazioni, ma senza darsi a un’effettiva pirateria: prendeva solo una parte del bottino, e ora anche la figlia si comporta nello stesso modo – ad addolcire insomma il bozzetto della capitana. E il fatto che anzi Spitfire mediti di andarsene da quella tana di bruti stempera il disincanto verso la pirateria dai toni disperati di Anne of the Indies a un più semplice e tranquillizzante cambio di vita. Come poi accade, col lieto fine e il lungo bacio col protagonista.

Ma è intrigante la collocazione della base pirata in Madagascar, nei luoghi di quella Libertatia (o Libertalia) fondata come colonia nel tardo XVIII secolo, secondo il solito Johnson, dal capitano provenzale James Misson. Se i pirati in Madagascar c’erano davvero, prevale oggi l’interpretazione per cui Misson e Libertatia sarebbero invenzioni del Nostro: ma appunto il richiamo alla fonte-Johnson costituisce un’ulteriore connection tra Spitfire Stevens e le nostre due amiche.

 

[66] Ma anche (senza pretese di esaustività) i romanzi Anne Bonny, Pirate Queen: The True Saga of a Fabulous Female Buccaneer di Douglas Brown, 1962 (con strillo «She Could Fight Like The Devil and Love Like An Angel»); Mistress of the Seas di John Carlova, 1964; Anne Bonny di Chloe Gartner, 1977; Lobas de mar di Zoé Valdés, 2003; The Only Life That Mattered: The Short and Merry Lives of Anne Bonny, Mary Read, and Calico Jack Rackam di James L. Nelson, 2004; A Pirata. A história aventurosa de Mary Read, pirata das Caraíbas di Luísa Costa Gomes, 2006; Alain Surget, Mary Tempête. Le destin d’une femme pirate, 2007; Mary Read: Sailor, Soldier, Pirate di Cherie Pugh, 2008; Heart of a Pirate: A Novel of Anne Bonny di Pamela Johnson, 2009; The Legendary Adventures of the Pirate Queens: A Serio-Comic Novel of Anne Bonny & Mary Read di James Grant Goldin, 2012.

[67] Si noti che il Barbanera storico, che aveva – pare – moglie e figlio a Londra più una dozzina di altre spose in giro, mostrava verso l’altro sesso un atteggiamento profondamente patologico. Se era sua abitudine costringere le mogli, dopo essersene soddisfatto, ad accoppiarsi coi suoi amici, si dimostrava anche più tremendo con le prigioniere: «notoriamente strangolava le donne catturate e ne gettava i corpi in mare. […] A bordo, le donne non erano né necessarie né desiderate»: così Burg, Pirati e sodomia, cit., p. 161 – anche se in effetti questo è un caso limite. Per inciso, Barbanera era stato mentore di vita piratesca di uno Stede Bonnet dal cognome dunque simile al Bonn(e)y di Anne: un’ispirazione per gli sceneggiatori?

[68] José María Latorre, Avventura in cento film, Recco (Ge), Le Mani, 1999, pp. 179-180.

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (5) https://www.carmillaonline.com/2021/08/07/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-5/ Sat, 07 Aug 2021 20:44:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67511 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

Vite parallele (2)

Come detto, la narrazione di Johnson articola i racconti delle vite di Mary e Anne in due fasi, la prima a giustificare l’anomalia del loro arruolamento tra i pirati, e la seconda con le avventure di predazione. Sulla prima fase, sui topoi derivati e sul raffronto con il profilo della Jolanda salgariana qualcosa si è già accennato: mentre passando alla seconda, un elemento che subito emerge nel racconto di Johnson riguarda il coraggio che connota le due compagne in battaglia. [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

  1. Vite parallele (2)

Come detto, la narrazione di Johnson articola i racconti delle vite di Mary e Anne in due fasi, la prima a giustificare l’anomalia del loro arruolamento tra i pirati, e la seconda con le avventure di predazione. Sulla prima fase, sui topoi derivati e sul raffronto con il profilo della Jolanda salgariana qualcosa si è già accennato: mentre passando alla seconda, un elemento che subito emerge nel racconto di Johnson riguarda il coraggio che connota le due compagne in battaglia. Un coraggio generalmente considerato – e non solo all’epoca – valore ‘maschile’, ma vissuto dalle due con intensità peculiare («nel momento dell’azione – così i testimoni – nessuno era mai più risoluto o più pronto a un abbordaggio o ad alcuna impresa rischiosa più» di loro) forse anche per rivendicare provocatoriamente il diritto al posto sulla nave davanti ai pavidi compagni maschi. Una sorta insomma di ulteriore ‘giustificazione’, non solo da parte delle interessate ma dello stesso narratore.

Anzi le due motiverebbero anche idealmente quella necessità e il suo ovvio (è il caso di dirlo) pendant, cioè il rischio della forca: non certo a sognare una bella morte – da cui faranno il possibile per sfuggire – ma a proclamare un senso a una vita discostata da schemi e valori istituzionali. Stigmatizzando – così Mary, e Anne pare d’accordo – che senza quel rischio i veri delinquenti, quelli che approfittano di vedove, orfani e vicini poveri, prenderebbero a predare anche sui mari: una giustificazione plausibilmente sincera, dove istanze di giustizia sociale (Mary pensa forse alla coeva «massiccia e violenta riconversione dei rapporti di proprietà che aveva luogo nella nativa Inghilterra»[43]) vanno a braccetto con l’urgenza di affermare una propria identità e dignità. La ritrosia stessa ad ammettere – solo a condanna pronunziata, e quasi a malincuore – di essere incinte sembra indicativa di un pudore che ha a che fare con una definizione di sé.

Se la fortuna popolare del tema della donna guerriera conoscerà riflusso ed eclissi con l’emergere di un concetto borghese di femminilità all’inizio dell’Ottocento, pure esso sopravvivrà in chiave di archetipo con significati diversi, quale icona fascinosa, provocatoria e magari provocante per la cultura dominante maschile (arrivando in ultimo fino ai modelli su schermo), e per contro come sogno di emancipazione e indipendenza per le donne. Anzi la frequente ripubblicazione della storia di Mary e Anne

 

nella letteratura romantica del diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo secolo ha sicuramente catturato l’immaginazione di molte giovani donne che si sentivano imprigionate nel concetto borghese di femminilità e domesticità. Julia Wheelwright ha sottolineato che le femministe del diciannovesimo secolo utilizzavano spesso l’esempio delle donne soldato e marinaio ‘per mettere in discussione l’idea dominante dell’innata debolezza fisica e mentale della donna’. Bonny, Read e le altre rappresentavano la confutazione delle teorie allora prevalenti sull’incapacità femminile[44].

 

D’altra parte, più pragmaticamente, il coraggio risulta una risorsa; e anzi l’unica possibile ricetta per la sopravvivenza propria e dei propri cari (l’uomo amato da Mary), non solo in una società violenta come quella della Tortuga, ma più in generale in un mondo di poveri dove Mary Read e Moll Flanders camminano una accanto all’altra. Se la lettura generalizzata della pirateria dell’Atlantico come forma di lotta di classe da parte di qualche proletariato fa perdere di vista la maggiore complessità del fenomeno – come ricostruisce Valerio Evangelisti nel suo ciclo di romanzi pirateschi[45], in cui emerge invece con lucidità un certo rapporto tra filibusta e protocapitalismo americano – è indubbio che temi ed elementi di rivolta sociale siano effettivamente presenti nelle testimonianze. Questi aspetti si perderanno completamente nelle riletture cinematografiche del personaggio della piratessa.

In effetti il racconto non parla solo della possibilità della forca, ma della sua realtà concreta – a cui le due eroine picaresche sfuggono. Lo spettacolo della forca (magari accompagnato dagli spaventosi sermoni grevi di moralismo, santificazioni dell’ordine e terrori assortiti per voce di predicatori come il famoso e famigerato Cotton Mather) è all’epoca un vero e proprio teatro del conflitto sociale: esecuzioni collettive di pirati, come quella avvenuta a Providence nelle Bahamas nel dicembre 1718 (insomma proprio negli anni e sui luoghi delle Due) col Jolly Roger issato a monito sul patibolo e cento soldati schierati, vedono i condannati opporre con discorsi provocatori alla folla il proprio stile di vita contro il potere che li condanna. Ma trasformato il mondo e trasposte le vicende piratesche in racconti d’avventura, il patibolo riemergerà come frequente elemento di drammatizzazione avventurosa non privo di risvolti feticistici: e l’esecuzione interrotta all’ultimo momento, della piratessa o del partner amato/odiato (a seconda delle versioni), costituirà come vedremo un fortunato ed edulcorato topos di romanzi e film.

Del tema del travestimento maschile già si è parlato trattando la prima fase del racconto – ma nella seconda riemerge con sviluppi ulteriori sui due fronti dell’identità e dell’erotica. Se, come detto, l’interpretazione dell’episodio – ai limiti della commedia – sulle inattese rivelazioni incrociate tra Mary e Anne si profila equivoca, pur senza forzarne i diversi echi allusivi resta inevitabile pensare alla costellazione tematica delle pratiche (omo)sessuali sulle navi pirata. Di tali prassi, attestate dalla documentazione d’archivio, l’episodio in questione potrebbe insomma costituire una (velata) emersione in chiave narrativa: uno spunto-chiave in realtà poi mai utilizzato nella mitopoiesi su schermo.

D’altro canto, pur attraverso la diversità caratteriale tra la pudica Mary e la disinvolta Anne, un elemento comune alle rispettive vite sentimentali emerge in una certa libertà dalle forme istituzionali: in particolare da quelle dinamiche matrimoniali che le documentazioni d’epoca vedono sempre più ossessivamente associate alla conservazione della proprietà – per chi ovviamente ne abbia. La ‘vendita’ con cui Anne si concede a Rackham, le sue relazioni da libertina, compresa forse quella con Mary, e il matrimonio di coscienza di quest’ultima si inscrivono insomma in quell’orizzonte della libertà coniugale che indurrà l’Inghilterra nel 1753 a promulgare il cosiddetto Hardwicke’s Act, per far considerare giuridicamente valido solo il matrimonio celebrato pubblicamente in chiesa. Anche da questo punto di vista le suggestioni cinematografiche, coi loro ‘buoni’ sul fronte dell’ordine, tendono in generale verso sviluppi conservativi.

E c’è poi il tema della morte, dove ancora una volta Johnson lavora sui documenti – e la sua onestà è dimostrata dall’ammissione d’ignoranza con cui chiude la storia di Anne. Un finale in fondo non conciliatorio, e che non sarebbe spiaciuto a Sade: l’onesta Mary muore, la disinvolta Anne in qualche modo si salva. Del resto, senza nulla togliere alla storicità della chiusura, si tratta della logica del romanzo picaresco, dove a cavarsela – giungendo magari a tarda età, come plausibilmente Anne – è il più fortunato e il più abile, non certo il più candido. Anche in questo caso gli schermi procedono verso finali molto più concilianti.

Se tale è il quadro su Mary e Anne (ma soprattutto, ribadiamolo, sulle Mary e Anne di Johnson e dell’immaginario condiviso dei lettori), ancora una volta le affinità con la Jolanda di Salgari sono scarsine – a partire da un coraggio che emerge in forme del tutto diverse.

Certo, Jolanda è donna, e come tale dotata – per il (tardo)romantico Salgari, ma in fondo ancor oggi per l’italiano medio – di una peculiare sensibilità: per cui impedisce che si uccidano i prigionieri[46], sa commuoversi per gli uomini inabissati con la nave[47] e, talora, persino per gli animali (l’uccello agami, avvicinato con un trucco dal compagno Carmaux per finire arrosto[48]). Una sensibilità che la rende d’altronde icona di devota crocerossina al fianco di Morgan ferito e vaneggiante di febbre nella foresta, commossa[49], ma efficiente nel medicare[50], e capace di vegliare indefessamente accanto a lui[51]. Mostrandosi anzi, persino in tale situazione estrema, icona di perfetta casalinga: «Non dimenticava anche la cena e faceva raccolta di mangli […] e anche dei grossi aranci, che faceva cadere dai rami più bassi servendosi della spada»[52], nonché di uova di trampolieri, per cui «[s]cartò quelle passate, raccolse quelle che dalla loro trasparenza le parevano più fresche e le mise nella sottana, che aveva doppiata attorno alla cintola»[53]. Fino ad abbattere un lamantino tranciandone un’abbondante porzione da cucinare[54].

Ma d’altro canto Jolanda è pure modello di coraggio: prima sul mare, dove affronta quietamente intrepida la furia delle onde e la prospettiva di affondare[55], e poi in quella foresta piena di minacce e luogo d’iniziazione che la vede passare da ragazza a donna. In quel contesto mitico-simbolico dove impazza il serpente[56], Jolanda, a differenza di Eva, dimostra lealtà assoluta e cura intelligente verso Adamo/Morgan: appare come la ragazza con la pistola, capace di vegliare sul compagno ferito se necessario facendo fuoco, per cui abbatte un antropofago[57]; uccide un ragno mostruoso[58]; accanto al ferito vaneggiante fronteggia un giaguaro («Ritta sempre dietro ai due fuochi, colla spada tesa e la pistola nella sinistra, lo fissava intrepidamente, risoluta ad opporre la più fiera resistenza. Non tremava più: si era irrigidita ed i suoi muscoli in quel momento si sentivano capaci di sostenere qualsiasi urto, pur di difendere il filibustiere che dormiva dietro di lei»), e infine volge in fuga la fiera col fuoco[59]; accorre in aiuto di Morgan costringendo a fuggire anche un coguaro[60]. Per scontrarsi, spada alla mano, addirittura coi cannibali: «La scherma non le era sconosciuta e sapeva valersi delle armi usate in quei tempi» – una notazione peraltro offerta quasi di sfuggita – anche se poi medita di soccorrere un aggressore ferito[61].

Se però le sue proiezioni e i suoi epigoni al cinema brilleranno nell’uso delle armi in tutti gli scontri possibili, la Jolanda originale le utilizza solo in questo paio di occasioni contro gli antropofagi: nello scontro sulla nave, come abbiamo visto, si limita a brandire la spada (senza usarla) e fatta prigioniera non tocca le armi, neppure nella convulsa scena finale dove in fondo ce lo aspetteremmo. Va detto che Jolanda resta un’aristocratica: meglio, un’aristocratica descritta da chi, come Salgari, aristocratico non è, e paludata delle virtù – coraggio, pietà, sensibilità – che un certo tipo di educazione dovrebbe coltivare. Anche una basilare educazione alle armi rientra dunque nel contesto di ciò che un ipotetico aristocratico d’epoca potrebbe aver fatto insegnare alla figlia, senza snaturarne in alcun modo la femminilità. Se poi Jolanda corre varie volte il pericolo di essere uccisa, non rischia mai il patibolo.

A differenza peraltro delle linfatiche e decadenti eroine di tanta letteratura dell’epoca, Jolanda gode di sano e buon appetito (come quando «[s]i sedette sull’orlo della zattera, mettendosi a fianco la spada e trangugiò una mezza dozzina d’uova»[62]); mostra un’innegabile ingegnosità costruendosi «una piccola tettoia per ripararsi dai raggi del sole diventati ardentissimi»[63]; e sembra far propri gli insegnamenti del quasi coevo Amore e ginnastica di De Amicis, 1892: «Aggrappandosi alle liane, che pendevano numerose dai tronchi e che erano resistenti come corde di canape e, badando attentamente dove posava i piedi per non venir inghiottita dalle sabbie, dopo un quarto d’ora di ginnastica faticosa si trovò finalmente sul terreno solido»[64].

Nei fatti, le sue doti le guadagnano una crescente, incondizionata devozione di Morgan che presto diverrà passione. Ma col tradimento di alcuni autoctoni dei Caraibi, Jolanda è di nuovo catturata e si cerca nuovamente e senza frutto di estorcerle la cessione dei beni di famiglia in America: e parallelamente restano frustrati i tentativi dei pirati di intercettare i rapitori prima che la trascinino nell’imprendibile Panama. Tra varie avventure, pur di recuperare Jolanda, Morgan si risolve dunque infine alla mossa più azzardata, attaccare la città: e all’inizio del 1671 i pirati, forti della maggior flotta mai raccolta alla Tortuga, e facendosi strada tra fortini da espugnare, borgate incendiate e attacchi di indiani, riescono dopo un furioso combattimento a penetrare in Panama. Al capitolo trentacinquesimo, ultimo del romanzo, Morgan e i più fidati ex-compagni del Corsaro Nero, tra i quali i vecchi Carmaux e Wan Stiller – i caratteristi più continuativamente in scena – irrompono infine nella sala del palazzo dove il villain Medina sta per l’ultima volta cercando di spingere Jolanda a firmare, e il bozzetto la dice già lunga: «Di fronte, dall’altro lato della tavola, si trovava Jolanda, ritta, in una posa fiera e risoluta. / – No, signore, non firmerò giammai! – aveva gridato». Una scena – considerando la città ormai caduta – dai risvolti un tantino surreali e dal valore soprattutto simbolico.

All’arrivo però dei filibustieri Medina spara contro Jolanda e uccide il capitano pirata Pierre le Picard che si è esposto bravamente per proteggerla: a quel punto la ragazza, pur nel mezzo dello scontro, si inginocchia presso il corpo e «pareva che pregasse» – tanto che rischia di essere trafitta alle spalle dal villain in seconda del romanzo, il perfido capitano Valera, subito dopo infilzato da Wan Stiller. Indomita nel resistere all’oppressione, pia, ora la ragazza si mostra anche misericordiosa, tentando di intervenire per far risparmiare Medina già ferito da Morgan: ma la «botta segreta del Corsaro Nero» – sorta di rivalsa simbolica del padre defunto contro la stirpe dei traditori – arriva più veloce e lo abbatte. La scena, che definisce un ritratto meglio di tante parole, merita di essere citata:

 

Jolanda si era precipitata verso il conte, pallida come una morta, commossa.

– Signor conte!… – gli disse, inginocchiandosi presso di lui e prendendogli le mani che diventavano ormai già fredde. – Perdonatemi… non volevo la vostra morte…

Il bastardo aprì gli occhi già velati e li fissò sulla fanciulla. Rantolava ed una schiuma sanguigna gli macchiava le smorte labbra.

Fece cenno che lo rialzassero.

Morgan, gettata via la spada con un gesto di orrore, si era pure inginocchiato presso il morente e lo aveva aiutato a sollevarsi, onde il sangue non lo soffocasse.

– Sono… stato… cattivo… – mormorò con voce semispenta. – Perdonate… mi…. Jolanda… perdona… temi… dite…lo.

– Vi perdono, signor conte – rispose la fanciulla, singhiozzando […].

 

E il villain pentito fa ancora in tempo a benedire maschiamente con una stretta di mano l’amore di Morgan per Jolanda[65]. Al di là di una stridente non-corrispondenza tra questo cavalleresco Morgan e il suo pragmatico e furbetto modello storico – beninteso per la sovrana libertà dello scrittore, nell’ambito di un romanzo godibilissimo – è evidente che la Jolanda qui descritta è un modello di virtù italiche dell’Ottocento e una sorta di sogno di Salgari per le generazioni future. Mentre ha ben poco a che vedere con le virtuali sorelle descritte da Johnson:

 

Jolanda si era alzata piangendo. Staccò dalla parete un crocefisso, lo depose sul petto del conte, poi gli chiuse gli occhi.

– Andiamo, signora – disse Morgan, tergendosi due lagrime. – Tutto questo sangue mi fa orrore.

E la trasse con dolce violenza fuori da quella sala dove cinque cadaveri giacevano al suolo, illuminati dalla funebre luce dei doppieri.

 

Un mese e otto giorni più tardi si celebrano infine alla Tortuga le nozze tra Jolanda e Morgan che, trasferitosi in Giamaica «colla giovane sposa che adorava», inizia la sua (spregiudicata) carriera di governo, mentre anche i vecchi compagni si ritirano a vita privata. A differenza di Mary e Anne, con le loro relazioni al di fuori di forme e schemi istituzionali, Jolanda conosce la tradizionale dinamica di castità prematrimoniale (catafratta dalla devozione dei suoi amici, peraltro compagni del padre) e matrimonio istituzionale, dove anche i beni già concupiti dal villain trovano un giusto assetto.

Jolanda, assurta a modello di sposa amatissima e amantissima, esce insomma di scena con tale fuggevole inciso – dal romanzo ma in fondo dal ciclo, perché nel prosieguo si guadagnerà solo alcune rapide menzioni come moglie di Morgan. Mentre le altre figure femminili, pur solidali coi pirati come la bella Neala, sorella del Corsaro Rosso, non verranno considerate piratesse.

 

 

[43] Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., p. 124.

[44] Ivi, p. 127. Per il testo citato, cfr. Julia Wheelwright, Amazons and Military Maids: Women Who Dressed as Men in the Pursuit of Life, Liberty, and Happiness, London, Pandora, 1989, pp. 15 e 119 (citazione).

[45] Tortuga, 2008; Veracruz, 2009; Cartagena. Gli ultimi della Tortuga, 2012 – tutti Milano, Mondadori, nella collana «Strade blu». Si veda, a firma di chi scrive, L’anno scorso a Cartagena, “LN │ librinuovi.net”, 1° maggio 2013 (ultima visita: 7 agosto 2021) e Evangelisti, predazioni americane, “Club Dante”, 28 maggio 2013 (ultima visita: 7 agosto 2021).

[46] Cap. XIV.

[47] Cap. XX.

[48] Cap. XIX.

[49] Cap. XX.

[50] Cap. XXI.

[51] Cap. XXII.

[52] Cap. XXI.

[53] Cap. XXIV.

[54] Cap. XXIII.

[55] Capp. XIII, XIV, XVIII.

[56] Cap. XX.

[57] Ibidem.

[58] Cap. XXI.

[59] Cap. XXII.

[60] Cap. XXV.

[61] Cap. XXIV.

[62] Cap. XXV.

[63] Ibidem.

[64] Ibidem.

[65] Viene da domandarsi quanto abbia influito sulla genesi della figura di Jolanda la famosa, storica vicenda della ‘bella signora di Panama’ («La Santa Roja») corteggiata ora con cavalleria ora con brutalità da Morgan – quasi che il pirata salgariano e il conte di Medina rappresentino in chiave schizoide due personalità del Morgan storico. Alla vicenda, John Steinbeck dedicherà peraltro il suo celebre Cup of Gold: A Life of Sir Henry Morgan, Buccaneer, with Occasional Reference to History, New York, Robert M. McBride & Co., 1929 (trad. it. La Santa Rossa. Romanzo, unica traduzione autorizzata dall’inglese di Giorgio Monicelli, Milano-Verona, A. Mondadori, 1947).

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (4) https://www.carmillaonline.com/2021/07/24/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-4/ Sat, 24 Jul 2021 20:41:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67373 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

4. Lascia stare quel fucile

Abbiamo lasciato Mary Read mentre passa con baldanza dalla condizione di preda a quella di pirata. È vero che presto sembrano cambiare le cose: Sua Maestà Britannica proclama il perdono per i predoni che depongano le armi entro un certo termine, e i compagni di Mary decidono di approfittare dell’offerta e dei benefit recati dalla condizione di pentiti (1717-1719). Ma presto il denaro torna a scarseggiare, la vita per mare offre opportunità ben diverse da quella stanziale (sia [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

4. Lascia stare quel fucile

Abbiamo lasciato Mary Read mentre passa con baldanza dalla condizione di preda a quella di pirata. È vero che presto sembrano cambiare le cose: Sua Maestà Britannica proclama il perdono per i predoni che depongano le armi entro un certo termine, e i compagni di Mary decidono di approfittare dell’offerta e dei benefit recati dalla condizione di pentiti (1717-1719). Ma presto il denaro torna a scarseggiare, la vita per mare offre opportunità ben diverse da quella stanziale (sia pure in una realtà dinamica come quella del Nuovo Mondo), e la Nostra coglie l’occasione della guerra di corsa bandita dalle autorità inglesi contro la Spagna per riprendere a predare. Peccato che molto presto parecchi pentiti si accorgano che la patente inglese da corsari va stretta, tornando allegramente a mettersi in proprio: e così anche Mary, che in questo contesto si imbarca con Rackham (1720) incontrando Anne e partecipando al furto della famosa corvetta. Nei fatti, nonostante le dichiarazioni di Mary al processo – che cioè «sempre aveva aborrita la vita del pirata e […] ci si era immischiata soltanto perché costretta, tanto quella volta quanto la precedente, con l’idea di abbandonarla alla prima occasione buona»[19] – verrà pubblicamente smentita da testimoni che hanno navigato con lei. Costoro deporranno infatti che

 

nel momento dell’azione nessuno era mai più risoluto o più pronto a un abbordaggio o ad alcuna impresa rischiosa più di lei e di Anne Bonny; e in particolare dissero che nel momento in cui la loro nave fu attaccata e catturata, quando si arrivò al combattimento corpo a corpo, nessuno tenne il ponte eccetto Mary Read e Anne Bonny e un altro pirata[20].

 

Anzi, Mary «aveva gridato a quelli sottocoperta di venire fuori e combattere come uomini, e vedendo che nessuno accennava a muoversi, aveva fatto fuoco già nella stiva, uccidendo un uomo e ferendone altri»[21]: un’accusa peraltro che l’interessata respingerà. Nondimeno, ci dice ancora Johnson,

 

vera o falsa che fosse, se una cosa è certa è che Mary Read non mancava di coraggio, né davvero era meno rimarchevole il suo pudore, secondo la sua personale nozione di virtù. Nessuno a bordo ebbe mai il minimo sospetto del suo vero sesso, fino che Anne Bonny, che in fatto di castità non era altrettanto riservata, la prese in particolare simpatia […][22].

 

E qui arriviamo alla parte più surreale dell’intera vicenda. Tra le due la bricconcella è Anne, all’epoca amante del capitano – anche se Johnson pare implicare che il suo vero sesso non fosse evidente:

 

per farla breve, Anne Bonny la prese per un bel giovinetto e per qualche ragione meglio nota a lei stessa, per prima rivelò il proprio sesso a Mary Read. Conoscendo Mary Read dov’ella volesse andare a parare ed essendo ben consapevole della propria inadeguatezza a quel proposito, fu costretta a mettere le cose in chiaro, e così, con gran disappunto di Anne Bonny, le fece capire di essere anch’ella una donna; ma questa intimità disturbò a tal punto il Capitano Rackham, che era l’amante di Anne Bonny, da renderlo furiosamente geloso, e quando questi minacciò che avrebbe tagliata la gola al suo nuovo amante, per chetarlo, Anne Bonny mise a parte anche lui del segreto[23].

 

Se Anne «per prima rivelò il proprio sesso» significa che viene creduta un uomo: e viene da domandarsi se passi per il matelot di Rackham, servo-compagno secondo una prassi diffusa sulle navi pirata, per le cui implicazioni in tema sessuale rimando al famoso e discusso saggio di B. R. Burg, Sodomy and the Pirate Tradition[24]. In effetti Anne, per quanto imberbe, deve risultare piuttosto mascolina: Johnson la presenta «così robusta che una volta che un giovane aveva cercato di giacersi con lei contro la sua volontà, l’aveva conciato così male da lasciarlo invalido per un bel pezzo»[25]. Che per esempio i mozzi, in genere molto giovani, sulle navi pirata fungano da strumenti di piacere è cosa nota; nel caso citato il «giovane» non ha fatto i conti con la vivacità del soggetto.

Ma ora l’equivoco prosegue nella curiosa scena con Mary, a sua volta creduta un uomo: un episodio che incontrerà grande fortuna nell’immaginario dei porti[26], anche se le sue stranezze sono state ampiamente rimarcate – in particolare la probabilità statistica della presenza di due donne travestite, non in accordo tra loro e non riconosciute sulla medesima nave (dove la privacy non è certo garantita), sembra piuttosto bassa. Si è suggerito che il racconto possa adombrare, in termini censurati, un almeno temporaneo rapporto omosessuale tra Anne e Mary; ma si è anche sospettato che in realtà sulla nave il vero sesso di Anne (e anche di Mary) non fosse un mistero per nessuno – e sul punto dovremo tornare.

Tutti d’accordo, continua comunque Johnson, i tre mantengono il segreto; ma quando, tempo dopo, i pirati provvedono all’arruolamento forzato di un tipo «avvenentissimo o, almeno, che tale appariva agli occhi di Mary Read» (pare di cogliere una certa ironia)[27], ecco che la giovane se ne innamora al punto da non trovar «più quiete, notte e giorno»[28]. Però le risorse della vedovella sono parecchie, per cui si attira le simpatie di lui parlando con sprezzo della vita da pirata, e solo quando «vide ch’egli le si era affezionato, da uomo a uomo, gli permise di scoprirla, lasciando negligentemente in mostra il seno, che era bianchissimo» (un episodio che giustifica idealmente il ritratto nell’edizione olandese di A General History sui cui ci siamo soffermati)[29]. A farla breve, l’amicizia si converte in torrida passione.

Mandatory Credit: Photo by Historia/Shutterstock (9873095a)
Mary Read Fights A Fellow Crew Member On the Beach Whilst Anne Bonney Spectates. Both Read and Bonney Are Said to Have Been Attracted to One Another Despite Neither of Them Being Aware That They Were Both Women. According to One Witness the Only Deciphering Characteristic the Women Shared to Prove Their Sex Was the Largeness of Their Breasts Which is Represented in the Image. Illustration by Fortunino Matania in Britannia and Eve, February 1932
Mary Read Fights Male Pirate – c. 1708-1721

Con abilità consumata da narratore che gioca col pubblico, Johnson racconta anzi l’episodio dell’amante di Mary sfidato a duello da un pirata: lei non vuole esporlo all’accusa di codardia, ma per non fargli correre rischi trova il modo di attaccar briga con lo stesso avversario e ucciderlo in duello «con sciabola e pistola»[30], un paio d’ore prima che incontri l’altro.

Poi Mary e il tipo si fidanzano, lei dice «di considerare quella promessa un matrimonio in coscienza, come se fosse stato celebrato in chiesa da un pastore»[31] e in breve si trova incinta. Questa la situazione al momento del processo, dove Mary

 

[d]ichiarò di non avere mai commesso adulterio né d’aver mai fornicato; lodò la giustizia della corte […] per aver distinto la natura dei loro delitti ed aver assolto il marito, come ella lo chiamava, assieme a diverse altre persone; e quando le fu domandato chi fosse, non volle rispondere, ma soltanto disse che era un onest’uomo e non aveva inclinazione per quella vita, e che insieme avevano deciso di lasciare i pirati alla prima occasione per dedicarsi a una vita onesta[32].

 

Per quanto tempo le due hanno continuato a fingersi uomini con il resto dell’equipaggio? Il testo di Johnson rimane ambiguo, circonfondendo la situazione di romantico segreto: ma se l’equivoco valeva sulla nave, all’esterno le idee erano certamente più chiare. Già un proclama (5 settembre 1720) del capitano Woodes Rogers, governatore delle Bahamas, pubblicato sulla “Boston Gazette” e altrove, stigmatizzando il furto della corvetta e gli atti di pirateria con essa compiuti, menziona insieme con Rackham («Rackum» nel testo) e alcuni compagni anche «due donne, di nome Ann Fulford alias Bonny, e Mary Read»[33]. Successivamente il governatore della Giamaica Nicholas Lawes riporta che «le donne, ragazze nubili di Providence Island, risultano aver preso parte attiva in atti di pirateria, in abiti maschili e armate»[34], e vari giornali d’epoca (“The American Weekly Mercury”, ancora “The Boston Gazette”, “The Boston News-Letter”) parlano di due donne nell’equipaggio di Rackam senza fornirne i nomi. Certo, è attestato che durante l’attacco del 19 ottobre 1720 le due indossino abiti maschili (porgendo la polvere agli uomini che manovrano i cannoni – questo sembra anzi il ruolo specifico di Anne, mentre Mary ha una lunga esperienza di combattimento); e così pure in uno scontro successivo, con giubbe da uomo, lunghi pantaloni e un foulard sulla testa, impugnando ciascuna pistola e machete. In questa seconda occasione le due incitano anzi a uccidere la donna che poi in effetti fungerà da testimone contro di loro: e proprio lei riporterà di aver capito di aver davanti due donne per la dimensione dei loro seni. Qualunque valore si attribuisca a queste testimonianze, la storia di un irriconoscibile travestimento da uomini perde forza. Tanto più che al di fuori delle necessità dello scontro armato, cioè nella quotidiana gestione della nave, altre fonti suggeriscono che Mary e Anne vestissero tranquillamente in abiti femminili.

Insomma, due ragazzacce – a sentire per esempio quell’altra testimonianza citata nel pamphlet The Tryals of Captain John Rackam and Other Pirates, 1721, che dipinge Mary e Anne come «entrambe molto depravate», in quanto «non facevano che bestemmiare e imprecare, e […] erano non solo pronte, ma desiderose di fare qualsiasi cosa»[35]. Ma quello dell’identità femminile delle due sembra il segreto di Pulcinella, tanto più considerando la brevità dell’esperienza piratesca che condividono – e sulla quale disponiamo di un quadro di cronaca piuttosto preciso. È possibile che nel primissimo periodo di presenza delle due sulla nave si creino curiosi equivoci; come è possibile che chi sia appena arrivato (per esempio il giovane forzato all’arruolamento, e su cui Mary mette gli occhi) possa non riconoscere subito il vero sesso di quei due compagni sbarbati – non c’è insomma motivo per rifiutare le affermazioni di Johnson. Ma è importante recepire soprattutto il senso di quel farsi/fingersi uomo attribuito alle due, e che diverrà un elemento-chiave del loro mito: una soluzione contingente di tipo pratico che attraverso la narrazione assume connotazioni romanzesche e simboliche di ben altra portata.

Le avventure piratesche delle due sono comunque interrotte dal casuale incontro con due sloop pieni di soldati in un tardo pomeriggio del novembre 1720, a Negril Bay, pochi mesi dopo il furto della corvetta. Anche una certa commozione della corte nei confronti di Mary non può evitarne la condanna a morte, tanto più che un ex-prigioniero dei pirati testimonia alcune opinioni piuttosto nette manifestate in passato dell’imputata:

 

che per quanto riguardava l’impiccagione non la reputava una troppo cattiva cosa, ché, non fosse stato per quella, ogni codardaccio si sarebbe fatto pirata e avrebbe infestati i mari in modo tale che agli uomini coraggiosi sarebbe toccato di morirsi di fame; che se fosse dato ai pirati di scegliere, non vorrebbero punizione più leggera della morte, la paura della quale conserverebbe onesto più d’un furfante vigliacco; che molti di quelli che ora imbrogliano le vedove e gli orfani, e calpestano i loro vicini poveri che non hanno denaro bastevole per ottenere giustizia, si metterebbero allora a rubare sui mari, e l’oceano sarebbe affollato di bricconi come la terraferma, e nessun mercante si arrischierebbe a prendere il largo, sicché in breve tempo non varrebbe più la pena continuare nel mestiere piratesco[36].

 

Opinioni in fondo condivise da Anne che, all’ultimo incontro con Rackham subito prima dell’esecuzione di lui (avvenuta il 18 novembre 1720), dice che le spiace vederlo in catene, ma «se si fosse battuto come un uomo non sarebbe stato impiccato come un cane»[37].

Le due donne vengono in realtà processate separatamente dal resto dell’equipaggio (non è chiaro perché), in data 28 novembre: e se entrambe si professano innocenti delle accuse – con scarso successo, visto che non possono addurre a difesa testimoni che controbilancino quelli a carico – all’apposita domanda del governatore se qualche motivo osti all’esecuzione della sentenza non rispondono alcunché. Soltanto dopo la pronunzia di condanna all’impiccagione (riporta un documento del Colonial Office) «le prigioniere informarono la corte di essere incinte e pregarono che l’esecuzione venisse sospesa. La corte ordinò pertanto un rinvio della sentenza stessa e dispose che fosse eseguito un controllo medico»[38].

L’accertato stato di gravidanza rinvia l’esecuzione di Mary, che forse – ipotizza Johnson – potrebbe anche ottenere il perdono se subito dopo il processo non venisse «colta da una violenta febbre, della quale morì in prigione»[39]. È l’aprile 1721, trecento anni fa, qualcuno dice il giorno 8 – o forse più tardi, dato che la sepoltura seguirà il 28 del mese, come risulta dai registri parrocchiali del distretto giamaicano di Saint Catherine. Visto che il figlio pare attribuibile all’unione con l’ignoto tipo «avvenentissimo», arruolato forzatamente dopo il furto della corvetta del 22 agosto 1720, e consumata prima della cattura, presumibilmente non era ancora stato partorito – tanto più che non esistono documenti che lo riguardino. All’ex-bimba dallo sghembo candore cresciuta di espedienti, e che ancora una volta potrebbe cavarsela, la vita non riserva insomma il lieto fine della Dodicesima notte.

Mentre va un po’ meglio, come al solito, alla socialmente più fortunata Anne. Per i giudici, che conoscendo suo padre tenderebbero alla clemenza, è «assai brutta circostanza che pesava a suo sfavore» il fatto che abbia abbandonato il marito[40], e alla fine condannano a morte anche lei: ma anche Anne è incinta, e dopo il parto l’esecuzione è rimandata varie volte – per intervento, si può immaginare, degli amici del padre. Johnson conclude di non sapere cosa sia avvenuto di lei, «sappiamo soltanto che non fu giustiziata»[41]. È dibattuto se Anne possa essere tornata dal marito[42], se invece abbia ripreso vita da pirata sotto diversa identità o se – com’è più probabile, e pare dimostrato da alcuni discendenti – il padre sia riuscito a ottenerne il rilascio, conducendola a Charles Town (l’attuale Charleston) in South Carolina. Lì sarebbe nato il secondo figlio di Rackham, e sempre lì – un po’ in fretta per sistemare la situazione – Anne avrebbe sposato tale Joseph Burleigh (21 dicembre 1721) dandogli poi ben dieci figli. L’ex-piratessa, ormai completamente rispettabile, sarebbe morta ottantenne (ottantaquattrenne per altri) il 22 aprile 1782, e sepolta due giorni dopo nel cimitero di York County in Virginia.

Le notizie di Salgari, che ipotizza la plausibile impiccagione di entrambe, sono insomma almeno incomplete.

 

[19] Johnson, Storia generale dei Pirati, cit., p. 147.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] B. R. [Barry Richard] Burg, Sodomy and the Pirate Tradition: English Sea Rovers in the Seventeenth-Century Caribbean, New York-London, New York University Press, 1983 (trad. it. Pirati e sodomia, Milano, Elèuthera, 1994).

[25] Johnson, Storia generale dei Pirati, cit., pp. 157-158.

[26] «Al nuovo arrivato [al Café des Réfugiés, a New Orleans] veniva immancabilmente indicata per prima una pittura che rappresentava la saletta di una nave, nella quale due marinai, dall’aspetto di filibustieri, ma di bel viso, stavano in atteggiamento strano, anzi equivoco; uno di essi abbracciava l’altro, che lo respingeva, ma come con rammarico. Quel quadro si richiamava alla storia straordinaria di Ann Bonny e Mary Read, che in quell’epoca [1809-1811] era ancora molto nota in tutti i grandi porti dell’emisfero occidentale». Si cita da Georges Blond, Histoire de la Flibuste, Paris, Stock, 1969 (trad. it. Storia della Filibusta, Milano, Mursia, 1970, p. 294). Non è però chiaro se Blond stia lavorando in termini probabilistici, o se abbia invece notizie certe della presenza di quell’illustrazione al Café des Réfugiés.

[27] Johnson, Storia generale dei pirati, cit., p. 148.

[28] Ibidem.

[29] Ibidem.

[30] Ibidem. L’episodio ha ispirato un paio di celebri illustrazioni. La prima e più popolare, l’incisione Mary Read killing (oppure: kills) her antagonist, è inserita al capitolo The adventures and heroism of Mary Read – titolo che già la dice lunga su una certa ammirazione – della raccolta di storie piratesche a firma di Charles Ellms, The Pirates Own Book, or Authentic Narratives of the Lives, Exploits, and Executions of the Most Celebrated Sea Robbers, Boston, Samuel N. Dickinson, (1836/)1837. Mary (un po’ strano l’abito, soprattutto il cappello) vi è raffigurata davanti a un albero, mentre infilza l’avversario – che pare stupito – con mossa decisa. L’altra a colori, a firma del pittore, disegnatore e litografo francese Alexandre Debelle, e intitolata Mary Read, è tratta dall’opera di Christian Pitois (che si firma semplicemente «P. Christian»), Histoire des pirates et corsaires de l’Océan et de la Méditerranée depuis leur origine jusqu’à nos jours, 4 tt., Paris, D. Cavaillés, 1846-1850 (le pp. 294-302 del t. III, 1847, sono dedicate all’Histoire de Marie Read et d’Anne Bonny, femmes-pirates): il vinto si trova a terra, ferito alla testa, davanti a una giovane dai tratti regolari, con pantaloni a mezza gamba e stivali, che si apre fiera la camicia rossa a mostrare un seno – probabilmente per indicare con sprezzo all’avversario che è una donna ad averlo battuto.

[31] Johnson, Storia generale dei pirati, cit., p. 149.

[32] Ibidem.

[33] Cit. in David Cordingly, Women Sailors and Sailors’ Women: An Untold Maritime History, New York, Random House, 2001 (trad. it. Donne Corsare, Casale Monferrato [al], Piemme, 2004, p. 129). Il testo di Cordingly è fondamentale per inquadrare il rapporto tra donne e marineria – piratesca compresa – nei secoli che stiamo considerando.

[34] Cit. in Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., pp. 117-118.

[35] Cit. in Cordingly, Donne Corsare, cit., p. 131.

[36] Johnson, Storia generale dei Pirati, cit., pp. 149-150.

[37] Ivi, p. 158.

[38] Cit. in Cordingly, Donne Corsare, cit., p. 134.

[39] Johnson, Storia generale dei Pirati, cit., p. 150.

[40] Ivi, p. 158.

[41] Ibidem.

[42] Mario Monti, I Pirati, Milano, Longanesi, 1973, pp. 142-144, in cui si ipotizza in termini di suggestione un nesso con la cupa storia del castello dei Fenwick, nel South Carolina, immaginando che la donna di Mastro Fenwick, fuggita con uno sconosciuto poi fatto squartare dai cavalli, sia nientemeno che Anne, e il poveretto James Bonny (il testo di Monti è oggi riproposto: Bologna, Odoya, 2013).

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (3) https://www.carmillaonline.com/2021/07/17/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-3/ Sat, 17 Jul 2021 20:52:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67268 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

Vite parallele (1)

Ma interrompiamo per un momento la narrazione di Johnson, per notare alcuni aspetti poi riproposti con diversa frequenza nelle avventure delle women in piracy.

A partire dallo spazio concesso dal narratore a vicende preliminari che con la pirateria non c’entrano affatto, tra amori, truffe, battaglie e temporanei riconoscimenti di status, fino a configurare per ciascuna biografia la vera e propria prima parte di un dittico (le vite delle due sono da Johnson presentate in sequenza, prima Mary e poi Anne). [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

  1. Vite parallele (1)

Ma interrompiamo per un momento la narrazione di Johnson, per notare alcuni aspetti poi riproposti con diversa frequenza nelle avventure delle women in piracy.

A partire dallo spazio concesso dal narratore a vicende preliminari che con la pirateria non c’entrano affatto, tra amori, truffe, battaglie e temporanei riconoscimenti di status, fino a configurare per ciascuna biografia la vera e propria prima parte di un dittico (le vite delle due sono da Johnson presentate in sequenza, prima Mary e poi Anne). Si è citata Moll Flanders, ed è appunto con stile e sapori del romanzo picaresco che Johnson ‘giustifica’ narrativamente l’anomalia di un paio di ingressi femminili nel mondo dei pirati. Una formula, questa dell’ampio preambolo in terraferma, che talora vedremo riproporsi ancora nel cinema – dove la carriera della bella piratessa potrà conoscere il prologo di altre vicende (tra zingari, ladri di strada, eccetera) più o meno avventurose.

Un secondo elemento presente in entrambe le vite descritte da Johnson riguarda il topos del travestimento, da sempre testatissimo motore narrativo ma insieme ricco di implicazioni simboliche. In linea generale, Mary e Anne proseguono «una sotterranea tradizione di travestimento femminile, profondamente radicata e diffusa in tutta Europa, ma soprattutto nell’Inghilterra della prima età moderna, in Olanda e in Germania. Il travestimento era usato principalmente, pur se non esclusivamente, dalle donne proletarie»[16], e i casi delle Nostre ben esemplificano le due ragioni principali del fenomeno, la necessità economica (Mary) e il desiderio di amore e avventura (Anne)[17]. Il travisamento è anzi protratto a tal punto nel tempo – specie nel caso di Mary – da assurgere a stile di vita, ponendo al lettore domande sugli stessi profili identitari dell’eroina: ma in ogni caso le peculiari situazioni descritte da Johnson diverranno una sorta di generico e imprescindibile calco per infinite possibili avventure di epigoni (basti pensare a quando, nel secondo film di Pirati dei Caraibi, Elizabeth si traveste da mozzo per raggiungere la Tortuga).

Se d’altra parte la società piratesca rappresenta per sua natura una sorta di mondo alla rovescia, Mary ed Anne – che non sono, ricordiamolo, principesse guerriere o armatrici in cerca di vendetta, ma figure ‘comuni’ tra popolo e borghesia – ne costituiscono una sorta di cartina al tornasole col ribaltamento di ogni attesa sociale, a partire da quelle relative al ruolo ‘giusto’ della donna.

Da un lato, si torna così al tema della confusione sessuale, e vedremo come da questo fronte le vicende delle due ragazze – prima parallele, poi finalmente incrociate – conoscano sviluppi abbastanza curiosi, per come almeno li presenta Johnson: col risultato di un intreccio intrigante che ricalca le avventure classiche di camuffamenti e agnizioni, e insieme sfida il lettore a immaginare contesti storici più plausibili.

Ma dall’altro, proprio questo elemento di sovversione sessuale traghetta sottotesto al tema erotico, con tutto il frisson che comporta: le avventure di Mary sia con la «gentildonna francese» sia in uniforme maschile e il nesso travestimento / azione / libertinaggio nella vita di Anne condurranno presto a una vicenda a due, dove la componente pruriginosa verrà anzi rafforzata dalla stessa dialettica caratteriale tra la pudica Mary e la libera Anne. Anche questo elemento conoscerà sia pur liberamente sviluppi nei posteri femminili al cinema.

Il che però conduce al fronte più generale delle relazioni delle piratesse coi partner maschili. L’amore di Mary per il commilitone, e le passioni di Anne, in particolare per lo spiantato James e il capitano pirata Rackham, sono giocati su una sovversione dei ruoli: la donna che si finge uomo e combatte, che si ribella alla struttura familiare, che aderisce a una struttura sociale a sua volta sovversiva, muove in una dimensione di spiazzamento e di conflitto almeno potenziale anche con l’ordine maschile ‘riconosciuto’. E su questo rapporto di amore e conflittualità verso i partner maschili – variamente declinata – dovremo tornare nell’esame delle riletture su schermo.

Ciò detto sulle Avventurose Due, è però interessante avviare almeno una rapida comparazione coi topoi della saga di un’altra piratessa emblematica del nostro immaginario, e cioè proprio la Jolanda di Salgari: e immediata emerge la distanza tra il profilo di questa giovane aristocratica e quello delle più modeste colleghe che lo scrittore conosce (forse) troppo tardi, e comunque liquida nel modo citato. D’altra parte è un po’ tutto il contesto di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, apparso a puntate su rivista nel 1904 e in volume nel 1905, con gli occhi al Femminile italico del secolo precedente – eroine da opere liriche e da romanzi neri, combattenti garibaldine, angelicate patriote e martiri – a distare dall’immaginario avventuroso e picaresco, pragmatico e disinibito delle storie di ragazzacce anglosassoni del Settecento: e se il cinema finirà con l’ibridare i tratti di Jolanda con quelli di Mary e di Anne, una lettura comparata degli scritti di Johnson e Salgari è almeno interessante.

Jolanda appare all’ottavo capitolo del romanzo che la vede protagonista: una scelta che permette di costruirne in absentia un ritratto colmo di attese, collocandolo all’interno di un tessuto di elementi essi pure destinati a una ricca serie di calchi e riproposizioni. Al posto dell’intreccio di derive familiari e sociali di Mary & Anne, qui troviamo la memoria di un eroe-padre defunto e la presenza protettiva dei suoi vecchi amici, ‘giustificando’ l’anomalia di un’eroina femminile attraverso la chiave del sequel di una precedente saga maschile; e in parallelo, a motore della vicenda, non può mancare il ricordo di un nemico che lascia un minaccioso erede (a ricondurre magari a un’altra eroina, stavolta in nero, la Milady di Alexandre Dumas père, col suo erede vendicatore). Anche da un punto di vista ambientale, dunque, non occorre un ampio preambolo picaresco fuori zona: con piglio letteralmente cinematografico (sceneggiatura veloce, vivaci movimenti di macchina, uso abilissimo dei caratteristi) Salgari ci porta da subito nel mar dei pirati tra esotismo documentaristico e avventuroso sfondo storico.

Caratteristiche più autonome di una filiazione letteraria del personaggio sono invece altre, pure emergenti nei primi sette capitoli: la prima presentazione di Jolanda la vede come damsel in distress, prigioniera dei villain, per di più in un monastero e anzi nei suoi recessi più gotici (la cripta); e, sempre come nel gotico, il cattivo non solo mira a proprietà immobiliari (si pensi al vampiro Varney del celebre penny dreadful eponimo, 1845-1847), ma tenta di scippare quelle della ragazza (come il cattivo Montoni in The Mysteries of Udolpho di Ann Radcliffe, 1794).

Quando dunque, all’ottavo capitolo, Salgari fa apparire l’eroina in scena, la sua carta d’identità è ormai definita e si può concederle un degno ingresso – con una sontuosità negata alle due colleghe anglofone. Dopo una catabasi dei suoi amici nelle tenebre piranesiane del monastero e uno scontro armato con le guardie che la sorvegliano, Jolanda appare in «un’alcova, le cui tende rosse, con ricamo d’oro sbiadito dal tempo e dall’umidità, erano abbassate»: dove non troviamo soltanto una copia italica e tardiva delle eroine radcliffiane liberate da prigioni e monasteri, ma una donna-tesoro custodita in un tabernacolo – questa preziosità di Jolanda verrà esaltata a ogni piè sospinto nel corso del romanzo – e un’immagine sacralizzata di sessualità ancora intatta, sorta di giardino conchiuso cui l’eroico Morgan guarderà devotamente ammirato fino agli ultimi ovvi sviluppi. Lo stacco dall’orizzonte sessuale di Mary e Anne è evidente.

Questo del resto è l’aspetto di Jolanda:

 

Era una bellissima fanciulla, di quindici o sedici anni, alta e flessibile come un giunco, dalla pelle pallidissima, quasi alabastrina, con la tinta che ricordava suo padre, il Corsaro Nero, con due occhi grandi, d’un nero intenso; con lunghe palpebre che lasciavano cadere sul viso la loro ombra.

I capelli, neri come l’ala di un corvo, li teneva sciolti sulle spalle, legati solamente presso la nuca da una piccola fila di perle.

Indossava un semplice accappatoio bianco, con guernizioni di trine e un sottile ricamo d’oro sulle larghe maniche.

 

E poco dopo – badiamo a questo dettaglio, si rivelerà importante – «[s]i gettò sulle spalle una lunga mantiglia di seta nera con pizzi di Venezia, prese un grazioso cappello di feltro scuro adorno d’una piuma nera».

Nonostante Jolanda appaia impavida sotto il fuoco avversario e non tema di consigliare a Morgan, per salvare «tante vite umane», la propria consegna ai nemici («Sono una donna e non faranno a me verun male»[18]), si noti che vale anche per lei lo statuto classico delle donne del tardo Ottocento, tenute all’oscuro degli aspetti importanti delle vicende al fine di ‘proteggerle’: i pirati-cavalieri a lei devoti non si comportano insomma in modo troppo diverso dagli ammazzavampiri-cavalieri dello stokeriano Dracula (1897) verso Mina Harker, e questa situazione di silenzio peloso si prolungherà nel tempo, come necessità più volte ribadita, lungo il corso del romanzo. Impensabili, va da sé, ‘protezioni’ del genere per Mary & Anne, che la dimensione del segreto la gestiscono in proprio quale elemento di integrazione.

Se in effetti fino al capitolo undicesimo Jolanda è la classica donna da proteggere e salvare, al dodicesimo il suo intervento – sola voce e presenza, anche se ha la spada in pugno – basta a capovolgere la situazione dello scontro:

 

Il momento era terribile e lo scoraggiamento cominciava ad impossessarsi di quei forti e ruvidi uomini del mare, quando, improvvisamente, una voce metallica ed imperiosa, che ricordava i comandi taglienti del Corsaro Nero, si levò sul ponte della Folgore, dominando il rimbombo delle artiglierie e le urla dei combattenti:

– Su, uomini del mare!… All’abbordaggio!…

Tutti si erano voltati, dimenticando per un istante che gli spagnoli stavano sopra di loro e che li fucilavano.

Jolanda di Ventimiglia, tutta vestita di nero, come usava suo padre, con una lunga piuma pure nera infissa nei capelli ed una spada nella destra, era comparsa sul ponte della Folgore, fra il fumo delle artiglierie, e additava ai corsari la fregata.

– Su, uomini del mare!… – ripeté, con quell’accento che sapeva ritrovare suo padre nei momenti più terribili. – All’abbordaggio! La figlia del Corsaro Nero vi guarda!…

 

Una situazione che poco dopo verrà commentata così dai protagonisti:

 

– Io!… – esclamò la fanciulla sorridendo. – Mi sono rammentata della frase che mio padre lanciava, quando spingeva i suoi uomini all’abbordaggio e l’ho pronunciata. Una cosa che qualunque altra donna avrebbe potuto fare.

– No, signora – rispose Morgan, con insolito calore. – Un’altra donna non avrebbe avuto il coraggio di esporsi al fuoco d’una così grossa fregata e si sarebbe ben guardata dal lasciare la sua cabina. Solo voi, nelle cui vene scorre il sangue del più grande eroe del mare, avreste potuto fare ciò che avete fatto. Abbiate, signora, la riconoscenza mia e quella dei miei uomini.

 

Il coraggio di Jolanda è insomma per Morgan – e in fondo per Salgari, e per gli stessi lettori – una sorta di fatto genetico. Ma è interessante notare che Jolanda si fa copia del genitore, «tutta vestita di nero, come usava suo padre, con una lunga piuma pure nera infissa nei capelli ed una spada nella destra». Un colpo d’occhio còlto nella confusione della battaglia, e che sembra non comportare da parte di Jolanda un vero e proprio cambio d’abito: a parte che non si capisce dove in quel frangente potrebbe aver recuperato altri vestiti, la ragazza ha plausibilmente addosso quelli già descritti, la «lunga mantiglia di seta nera con pizzi di Venezia» e il «grazioso cappello di feltro scuro adorno d’una piuma nera», che nell’emozione del momento appaiono trasfigurati in quelli dell’antico capo. Ma è interessante notare come questa trasformazione momentanea in uomo – non ne verranno raccontate altre – verrà recepita in infinite illustrazioni e copertine, che mostreranno Jolanda magari combattente sulla nave (e anche questo manca) negli stessi abiti del Corsaro Nero: un ennesimo travestimento da uomo dal valore ormai del tutto simbolico.

 

[16] Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., pp. 121-122.

[17] Una terza ragione può essere ravvisata nella volontà di far perdere le proprie tracce: per esempio un’altra piratessa, la già citata Jacquotte Delahaye attiva attorno al 1660, per sfuggire a chi le dava la caccia avrebbe finto la propria morte mantenendo un’identità maschile – si dice – per anni.

[18] Cap. undicesimo. I capitoli di Jolanda non sarebbero numerati, ma ai fini della nostra analisi e della più agevole percezione dell’ordine degli episodi citati si utilizzerà un’indicazione numerica.

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (2) https://www.carmillaonline.com/2021/07/10/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-2/ Sat, 10 Jul 2021 20:47:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67058 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

2. Le dodicesime notti

Ci accingiamo ora a raccontare una storia ricca di colpi di scena e di avventure sorprendenti; voglio dire quella di Mary Read e di Anne Bonny, alias Bonn, che erano i veri nomi di queste due piratesse. I bizzarri casi delle loro errabonde vite sono tali che qualcuno sarà tentato di prendere tutta la storia per nulla più che un’invenzione romanzesca e fantastica, ma dacché essa è suffragata da molte migliaia di testimoni (mi riferisco agli abitanti di Giamaica che furono presenti ai loro processi e udirono [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

2. Le dodicesime notti

Ci accingiamo ora a raccontare una storia ricca di colpi di scena e di avventure sorprendenti; voglio dire quella di Mary Read e di Anne Bonny, alias Bonn, che erano i veri nomi di queste due piratesse. I bizzarri casi delle loro errabonde vite sono tali che qualcuno sarà tentato di prendere tutta la storia per nulla più che un’invenzione romanzesca e fantastica, ma dacché essa è suffragata da molte migliaia di testimoni (mi riferisco agli abitanti di Giamaica che furono presenti ai loro processi e udirono il racconto delle loro vite dopo che per la prima volta si scoprì il loro vero sesso), la veridicità della loro storia non è contestabile, non più del fatto che al mondo siano esistiti di tali uomini come Roberts e Barbanera, che furono pirati.

 

Così Johnson[7] – e se oggi, grazie a nuovi studi e all’emersione di alcuni importanti documenti, dal punto di vista storico è possibile integrare e a volte correggere quanto tramandato nelle diverse versioni di A General History, ai fini di un esame sul mito delle Fantastiche Due in rapporto all’archetipo della donna pirata è necessario partire proprio da quel testo fondamentale. Dove la storia delle due cattive ragazze inizia in modo relativamente simile: vite parallele all’insegna dell’inquietudine, con situazioni degne del Moll Flanders di quel Defoe identificato da molti con ‘Johnson’ (pubblicato l’anno successivo alle loro avventure, 1722) o delle incisioni di William Hogarth.

Per l’inglese Mary Read il travestimento maschile costituirebbe addirittura una costante dall’infanzia. La madre ha avuto un maschietto dal marito marinaio, che purtroppo non torna dal mare; a quel punto si trova di nuovo incinta per un’avventura – non è chiaro con chi – e per sfuggire occhiate e giudizi si rifugia in campagna dove alla chetichella partorisce Mary (l’anno è incerto, tra il 1670 e il 1698, ma con maggiore probabilità di una data tarda). Però il primogenito muore, e allora la ragazza ha l’idea di spacciare la bimba per il figlio legittimo, presentandola come tale alla suocera relativamente benestante – che prende a sganciare una corona alla settimana. Cresciuta Mary come un ragazzo, la pragmatica mamma si decide a spiegare la verità solo quando la bambina inizia «ad avere del giudizio»[8]: e, posto che la storia un po’ improbabile sia andata davvero così, è difficile dire come questo terremoto identitario possa avere giocato nella formazione della psicologia di Mary.

Morta la nonna ed esaurita quella fonte di reddito, Mary ormai tredicenne verrebbe impiegata come valletto a servizio di una gentildonna francese; «Ma ella non vi si trattenne a lungo: crescendo robusta e coraggiosa e avendo altresì un’indole vagabonda, si arruolò su una nave da guerra, ove prestò servizio per qualche tempo e poi se ne andò, raggiunse le Fiandre e portò le armi in un reggimento di fanteria, col grado di cadetto»[9]. Tutto è possibile, tanto più che il testo lascia aperta una serie di ipotesi: dal fatto che la «gentildonna francese» – di un paese cioè ben più disinvolto dell’Inghilterra quanto a morale sessuale – abbia mangiato la foglia e non sia dispiaciuta per l’ambiguità della situazione (il che potrebbe spiegare anche il defilarsi di Mary) all’eventualità che il racconto – avventure militari alla Barry Lyndon comprese – veda aggiustamenti e fantasie. Sarebbe interessante sapere da chi Johnson riceva queste informazioni, che se derivate da dichiarazioni dell’epoca del processo andrebbero prese con una certa prudenza; e d’altra parte ci sono motivi per ritenere il tutto almeno plausibile. Come per la vita sul mare, sappiamo che anche nell’esercito all’epoca trova posto un numero relativamente considerevole di donne sotto falsa identità: nel 1762 uno scrittore inglese anonimo (probabilmente identificabile con il poeta e drammaturgo irlandese Oliver Goldsmith) riporterà che nell’esercito di Sua Maestà il numero di donne è tale che meriterebbe un battaglione apposta. Anzi all’epoca di Mary le ballate sulle donne guerriere sono particolarmente popolari, esaltando doti di forza, indipendenza, coraggio e talvolta ferocia.

La storia continua dunque con Mary che passa a un reggimento di cavalleria (nel contesto della Guerra dei Nove Anni, 1688-1697, o più probabilmente della Guerra di successione spagnola, 1701-1713/1714), si invaghisce di un compagno d’armi fiammingo, lo segue con pertinacia e si caccia nei guai fino a rivelarglisi per donna; anzi riesce a risultare così «riservata e modesta […] e al medesimo tempo […] così servizievole e amabile nei modi»[10] da indurlo al matrimonio – non senza aver prima concluso la campagna militare e procurato abiti acconci.

Il congedo dei due sposi dall’esercito e l’apertura di una locanda a Breda frequentatissima da ex-commilitoni[11] non segnano però la fine delle avventure: presto il marito muore, con la Pace di Rijswijk (1697 – ma più probabilmente, correggono gli storici, si fa riferimento al Trattato di Utrecht, 1713) le truppe abbandonano l’area e l’attività della locanda langue, per cui la vedova si arruola nuovamente in panni maschili – ora in fanteria, in Olanda. Ma non ci sono prospettive: così Mary di lì a poco cambia ancora, portando travestimento e desiderio di una vita migliore su un vascello diretto alle Indie Occidentali. Il veliero del marinaio Mary viene però catturato da pirati inglesi, e visto che lei «era l’unica persona inglese a bordo la presero con sé, mentre lasciarono andare la nave dopo averla saccheggiata. Fece allora per qualche tempo la vita del pirata»[12]. E se l’arruolamento forzato rappresenta una comune prassi con cui i predoni del tempo rimpinguano gli equipaggi, suona deliziosa la disinvoltura con cui il nostro Johnson glissa sul passaggio-chiave della vita di Mary, quello all’illegalità.

Mary Read viene da una situazione di disagio economico, ma lo status di Anne Bonny – irlandese, nata nei pressi di Cork – è un po’ diverso. Johnson racconta con brio le circostanze boccaccesche – non ci soffermiamo qui sui dettagli – che conducono il padre avvocato (William Cormac) a separarsi dalla moglie a causa della relazione ch’egli ha intessuto con una giovane domestica (Mary Brennan): e da quell’unione irregolare nasce appunto Anne. Qualcuno parla dell’8 marzo 1702; in ogni caso la bimba ha nove anni quando il padre, che vive da solo ma le è affezionato, decide infine di richiamarla in casa – e per evitare scandali, visto che tutta la città ricorda quella storia e la ricca moglie gli ha lasciato una rendita annuale che lui non vorrebbe perdersi, la veste «coi pantaloni, come un ragazzo, spacciandola poi per il figlio di un parente ch’egli doveva educare per farne il proprio scrivano»[13]. Inizia qui la saga di travestimenti di Anne, curiosamente parallela a quella di Mary: due Dodicesime notti che se conosceranno avventure e bizzarrie degne di una play teatrale (o di un film, anche se il cinema scantonerà dal testo di Johnson) non giungeranno purtroppo a uno stesso lieto fine.

La moglie separata dell’avvocato scopre ben presto la verità, non è disposta a mantenere la prole bastarda del fedifrago e interrompe lo stanziamento dell’assegno; lui per ripicca prende a convivere pubblicamente con la domestica, ma lo scandalo gli allontana i clienti – e alla fine, con la famigliola illegittima, l’uomo decide di abbandonare il Vecchio Mondo in direzione Carolina. Dove da avvocato si ricicla in commerciante, e in seguito – con un po’ di fortuna – in proprietario di una ricca piantagione; qui la compagna muore, ma Anne è ormai cresciuta. Ed è, ci spiega Johnson,

 

di indole ardente e coraggiosa, per cui, quando fu condannata, vennero riportate diverse storie sul suo conto, che la mettevano in cattiva luce; come quella per cui una volta in un accesso d’ira avrebbe ucciso con un coltello una domestica inglese mentre stava rassettando la casa del padre; ma come ho verificato da un’ulteriore indagine, questa era una storia senza alcun fondamento[14].

 

Sarebbe interessante capire, come al solito, chi o quali documenti abbia interpellato il Nostro: comunque la ragazza destinata a un buon matrimonio si innamora di un marinaio spiantato, se lo sposa e finisce cacciata dal padre furibondo. A quel punto il marito, «deluso nelle sue aspettative»[15] – il che non avalla l’idea di un matrimonio per amore – si trasferisce con lei per cercare lavoro a Nassau sull’isola di (New) Providence nelle Bahamas (tra il 1714 e il 1718), allora celebre base per pirati inglesi: e lì Anne incontra il capitano pirata John Rackham, detto Calico Jack, che riesce a corteggiarla così bene da strapparla al consorte. Nell’Appendice al secondo volume di Johnson si integra anzi questa storia raccontando come il cognome Bonny sia quello del marito di Anne, James, presentato come giovanotto piacente e pirata di vita sobria (ecco il lavoro trovato dal marinaio spiantato): ma Anne evidentemente non è soddisfatta. Si trasforma in una libertina (qualunque grado di libertà il termine implichi) e Rackham, che ha guadagnato un po’ predando come corsaro, ha buon gioco nel conquistarla – non senza un atto di cessione dell’accondiscendente James. Dietro bustarella, ovviamente: si tratta del rito popolare noto come ‘vendita della moglie’, per chiudere una vecchia relazione e iniziarne una nuova senza strascichi.

Da Rackham, Anne ha presto un figlio: anzi trascorre a Cuba presso amici di lui i mesi della maternità per poi tornare al più presto dal partner. A quel punto, nonostante le minacce di farla frustare per immoralità saettatele contro dal governatore, Anne aiuta Rackham a sottrarre una corvetta dal porto – prima raccogliendo informazioni alla chetichella, e poi partecipando all’azione una notte di pioggia, pistola in una mano e spada nell’altra (22 agosto 1720): non riescono a vendicarsi del tipo che ha informato il governatore, ma spariscono verso una nuova vita, con lei travestita da uomo.

 

[7] Johnson, Storia generale dei Pirati, cit., p. 143.

[8] Ivi, p. 144.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p. 145.

[11] Stando alle fonti, il nome era De drie hoefijzers (“I tre ferri di cavallo”) e sorgeva vicino al castello di Breda, in Olanda.

[12] Johnson, Storia generale dei Pirati, cit., p. 146.

[13] Ivi, p. 157.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 158.

]]>