Gazprom – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Indipendenza energetica ed altre panzane/2 https://www.carmillaonline.com/2022/08/19/lindipendenza-energetica-ed-altre-panzane/ Fri, 19 Aug 2022 04:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73602 di Alexik

A questo link il capitolo precedente.

Indipendenti con una pistola alla tempia

L’inizio delle pressioni statunitensi per imporre al vecchio continente le proprie forniture di Gas Naturale Liquefatto (GNL) ha una data precisa: il 25 luglio del 2018. Quel giorno il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker si presentò al cospetto di Donald Trump nel tentativo di scongiurare l’estendersi della guerra commerciale che il presidente U.S.A. aveva simpaticamente scatenato contro i propri alleati europei, definendoli come “uno dei più grandi [...]]]> di Alexik

A questo link il capitolo precedente.

Indipendenti con una pistola alla tempia

L’inizio delle pressioni statunitensi per imporre al vecchio continente le proprie forniture di Gas Naturale Liquefatto (GNL) ha una data precisa: il 25 luglio del 2018.
Quel giorno il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker si presentò al cospetto di Donald Trump nel tentativo di scongiurare l’estendersi della guerra commerciale che il presidente U.S.A. aveva simpaticamente scatenato contro i propri alleati europei, definendoli come “uno dei più grandi nemici degli Stati Uniti”, ed imponendogli dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio.
Con “la pistola alla tempia” – cioè la minaccia di estendere i dazi anche all’import di auto – Junker accettò il “rafforzamento della cooperazione strategica sull’energia”, cioè l’impegno ad aumentare le importazioni europee di Gas Naturale Liquefatto dagli Stati Uniti.1.
In cambio, naturalmente, Trump NON tolse all’U.E. i dazi sull’alluminio e sull’acciaio2, giusto per ricordare agli europei che la competizione interimperialista non guarda in faccia nessuno.

La svolta protezionista dell’irruento inquilino della Casa Bianca rappresentava un tentativo tardivo di invertire la rotta di quella globalizzazione neoliberista che per più di 20 anni gli Stati Uniti avevano imposto al mondo intero nell’illusione di poterla dominare, e che invece aveva dato avvio al declino della loro egemonia.
Il mondo gli sfuggiva di mano.
Dal suo ingresso nella W.T.O. nel 2001, la Cina si era trasformata nella più grande economia del pianeta3, attestando il proprio primato mondiale nella produzione manifatturiera, nel commercio internazionale, nell’entità delle sue riserve valutarie e degli investimenti esteri diretti4.

Emergeva – soprattutto – come primo detentore del debito pubblico statunitense e come primo esportatore di merci negli Stati Uniti, con un avanzo della bilancia dei pagamenti con gli U.S.A. intorno ai 400 miliardi di $ annui.
Attorno a lei, e alla sua alleanza con Brasile, Russia e India, si andava consolidando una nuova governance del mondo, capace di progettare una nuova divisione internazionale del lavoro, una nuova geografia degli scambi, nuove istituzioni finanziarie internazionali (parallele rispetto a quelle controllate dagli Stati Uniti), e la sostituzione del dollaro come moneta di riserva mondiale.
La perdita del controllo da parte degli U.S.A. veniva avvertita anche da una pletora di nuove potenze di media grandezza, che sgomitavano per ritagliarsi le proprie egemonie regionali senza più chiedere il permesso, mentre gli stessi alleati europei dimostravano velleità d’autonomia intensificando la cooperazione energetica con Mosca e proseguendo verso l’accordo sugli investimenti con Pechino.

Una ridefinizione degli equilibri che gli Stati Uniti – come è prassi in occasione di ogni cambio della guardia nell’egemonia mondiale – non potevano che tentare di contrastare con la guerra, che ai tempi di Trump era ancora limitata alla sua versione commerciale.
L’amministrazione Trump aveva riservato alla Cina le principali bordate della guerra dei dazi, con l’aumento delle tariffe doganali su 370 miliardi di dollari di merci cinesi importate.5
Ma anche l’Unione Europea (ed in particolare la Germania), troppo incline alla cooperazione col ‘nemico’ doveva essere disciplinata e richiamata all’ordine. L’aumento dei dazi serviva a ricordarle la sua condizione subordinata e, en passant, a ricondurre le sue politiche energetiche sulla retta via.

L’energia è un campo di battaglia

L’imposizione in Europa del GNL americano significava certamente garantire grosse iniezioni di profitti per le compagnie statunitensi dei combustibili fossili, che tradizionalmente determinano – negli States come altrove – le politiche dei governi di ogni colore.6
Ma non si trattava solo di questo.
Nella guerra globale l’energia è un campo di battaglia, e gli europei dovevano decidere da quale parte del campo schierarsi. Decidere se difendere l’egemonia americana rinunciando al gas russo, anche a costo di colpire le proprie popolazioni e i propri settori industriali, dilatare il debito pubblico e mandare in recessione le proprie economie.

Nel giugno 2017 – ben prima, dunque, che le truppe russe marciassero su Kiev – il Senato degli Stati Uniti votava a stragrande maggioranza l’approvazione di un disegno di legge che consentiva, fra l’altro, di sanzionare chi forniva capitali, servizi o altro sostegno a progetti per la costruzione, espansione, manutenzione di oleodotti o gasdotti per l’esportazione di energia russa.7
Il provvedimento rappresentava un attacco non troppo velato al gasdotto Nord Stream/2 (all’epoca già in costruzione), strategico per garantire l’approvvigionamento dell’industria tedesca in vista della dismissione delle centrali nucleari in Germania e dell’abbandono del carbone.8

Ufficialmente, le pressioni per rinunciare al gas russo venivano esercitate ‘per il bene degli europei’, per salvaguardarli dal potenziale uso delle forniture di gas come forma di pressione o rappresaglia (“energy weapon”) da parte di Putin.
Si citava a riguardo, come orrido precedente, la decisione presa da Gazprom nel 2014, dopo piazza Maidan, di annullare le agevolazioni sul prezzo del gas destinato all’Ucraina, contrattate in precedenza con l’ex presidente Viktor Yanukovych.
In quell’occasione il prezzo del gas per l’Ucraina salì da 268,5 $ a 485 $ per migliaio di metri cubi (mcm).9
Oggi che il prezzo europeo sul mercato libero del gas definito all’ hub di Amsterdam ha raggiunto i 2.500 $ per mcm10, nessuno grida contro il suo utilizzo come “energy weapon” da parte degli speculatori finanziari e delle imprese dei combustibili fossili.

Altro motivo di apprensione dell’amministrazione U.S.A. riguardava l’effetto potenzialmente dissuasivo che le abbondanti forniture di gas russo all’Europa potevano avere rispetto a nuovi investimenti nello sviluppo del GNL.
In Francia nel 2016 la Commission de Regulation de l’Energie aveva negato – analizzando le forniture già esistenti – la necessità economica di un nuovo gasdotto di interconnessione attraverso i Pirenei, capace di collegare la grande capacità di rigassificazione di GNL della Spagna con il più ampio mercato europeo.11

Fatti del genere non dovevano più accadere se si voleva che il GNL americano fluisse copioso attraverso la U.E., e a maggior ragione dopo che l’accordo fra Trump e Juncker cominciò a produrre i suoi effetti.
Da quell’incontro del luglio 2018 fino al gennaio 2022 le esportazioni di GNL USA verso l’Unione Europea sono cresciute di 22 volte.
Nel 2020 gli Stati Uniti sono diventati il primo fornitore in Europa di gas liquefatto.12

Probabilmente Trump non ammetterebbe mai di dovere buona parte di questo risultato alle politiche del suo predecessore, alla scelta, cioè, di Barak Obama di spingere sulla fratturazione idraulica per l’estrazione di gas e petrolio di scisto.  Una scelta – catastrofica dal punto di vista ambientale, sociale e climatico – che ha portato gli Stati Uniti ad uno status di sostanziale autosufficienza energetica.
Tale condizione ha permesso agli U.S.A. non solo un notevole vantaggio competitivo rispetto alle economie concorrenti, su cui pesa invece l’onere delle importazioni energetiche, ma anche di poter esercitare una maggiore aggressività nei rapporti internazionali.
Questo perchè, prima dello sviluppo dello scisto, la possibilità degli U.S.A. di imporre sanzioni contro paesi produttori di gas e petrolio era limitata dalle prevedibili conseguenze sui prezzi internazionali degli idrocarburi, di cui anche gli U.S.A., in qualità di importatori, avrebbero pagato pegno.
Da quando però loro produzione interna è tale da porli relativamente al riparo dalle dinamiche dei mercati internazionali, gli è molto più facile adottare la linea dura delle sanzioni, scaricando i costi di questo particolare capitolo delle loro guerre su quella parte di mondo che non produce energia e dovrà pagarla a un prezzo sempre più alto.  (Continua)

Immagini e grafici:

President Trump Visits Cameron LNG Export Terminal. Fonte: The White House. Foto di pubblico dominio.
China is the World’s Manufacturing Superpower. Fonte: Statista. Licenza CC BY-NC-ND.
Commissione Europea, EU-U.S. LNG TRADE. U.S. liquefied natural gas (LNG) has the potential to help match EU gas needs, gennaio 2022.


  1. Cat Contiguglia, Trump: EU is one of United States’ biggest foes, www.politico.eu, 15 luglio 2018. Anna Mikulska, A Closer Look at the Trump and Juncker Agreement, Kleinman Center for Energy Policy, 31 luglio 2018. 

  2. I dazi da entrambe le parti vennero revocati alla fine di ottobre 2021, sotto la presidenza Biden. Brahim Maarad, La guerra dei dazi tra Usa e Ue è finita, 31 ottobre 2021. 

  3. Sulla base della “purchasing power parity“. Relativamente al PIL è ancora in seconda posizione dopo gli U.S.A. 

  4. China’s Economic Rise: History, Trends, Challenges, and Implications for the United States, EveryCRSReport, 12 luglio 2006. Rosaria Amato, La Cina primo Paese al mondo per investimenti esteri diretti, La Repubblica, 25 gennaio 2021.  

  5. Le cifre si riferiscono al periodo 2018/19. L’aumento dei dazi sulle merci cinesi venne attuato previa investigazione sulla base della sezione 301 del Trade Act – che autorizza il presidente ad adottare ritorsioni contro pratiche di governi stranieri che limitino il commercio degli U.S.A. In: Elena Dal Maso, Gli Usa rivedono dazi sulla Cina per 370 miliardi dopo i giochi di guerra su Taiwan. Che cosa accadrà ora, Milano Finanza, 11 agosto 2022. 

  6. Va detto che Donald Trump ne incarnava particolarmente gli interessi, sia come esponente del negazionismo climatico che come promotore, nel corso del suo mandato, di 112 provvedimenti di deregulation ambientale, in gran parte a favore dell’industria petrolifera e gasiera. Come, ad esempio, il piano per l’estrazione di petrolio e gas nell’Arctic National Wildlife Refuge in Alaska, l’apertura alla trivellazione su 18 milioni di acri nella National Petroleum Reserve, il via libera alla costruzione del Dakota Access pipeline, l’abrogazione di norme sull’inquinamento da fracking, l’alleggerimento di quelle sulla sicurezza delle perforazioni petrolifere offshore, e così via. Per la lista completa vedi: Nadja Popovich, Livia Albeck-Ripka, Kendra Pierre-Louis, The Trump Administration Rolled Back More Than 100 Environmental Rules. Here’s the Full List, The New York Times, 20 gennaio 2021. 

  7. Rice University, Baker Institute for Public Policy, Russia’s Use of the “Energy Weapon” in Europe, Issue Brief 18 luglio 2017, p. 1 

  8. Decisioni prese da Berlino in seguito alla catastrofe di Fukushima ed agli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici. 

  9. Rice University, Baker Institute for Public Policy, Russia’s Use of the “Energy Weapon” in Europe, Issue Brief 18 luglio 2017, p. 3.  

  10. Gazprom avverte l’Europa: con l’inverno il prezzo del gas potrebbe aumentare di un altro 60%, Rai News, 16 agosto 2022. 

  11. Rice University, Baker Institute for Public Policy, Russia’s Use of the “Energy Weapon” in Europe, Issue Brief 18 luglio 2017, p. 5. 

  12. Concerned Health Professionals of New York and the Science, Environmental Health Network, Physicians for Social Responsibility, Compendium of Scientific, Medical, and Media Findings Demonstrating Risks and Harms of Fracking and Associated Gas and Oil Infrastructure, Ottava edizione, aprile 2022, pp. 11/18. 

]]>
Il nuovo disordine mondiale/16: Il mondo con i confini di prima non esiste già più https://www.carmillaonline.com/2022/06/19/il-nuovo-disordine-mondiale-16-il-mondo-con-i-confini-di-prima-non-esiste-gia-piu/ Sun, 19 Jun 2022 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72599 di Sandro Moiso

«Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso, La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti una volta se ne potessero costruire in un secolo.» (Karl Marx, lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871)

«Mamma, voglio solo farti sapere che sono [...]]]> di Sandro Moiso

«Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso, La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti una volta se ne potessero costruire in un secolo.» (Karl Marx, lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871)

«Mamma, voglio solo farti sapere che sono vivo e che spero di tornare a casa al più presto» ( Alexander Drueke – ex sergente dell’esercito statunitense fatto prigioniero dai russi in Ucraina)

Parafrasando la gelida portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, in un’intervista a Sky News Arabia, in cui ha affermato che «L’ Ucraina che conoscevamo, all’interno di quei confini, non c’è più. Quei confini non ci sono più», si può affermare che il mondo uscito sia dal secondo conflitto mondiale che dalla fine della Guerra Fredda è definitivamente tramontato. E così pure quei confini che si era dato sotto l’egida imperiale occidentale e americana. Non solo, ma anche lo stesso strumento che quest’ultima si era data per violarli ovunque almeno a livello commerciale e finanziario, ovvero la globalizzazione, sta definitivamente tramontando.

Prova di ciò non sono soltanto i 120 e passa giorni di guerra in cui, proclamando fin troppo facili vittorie militari e sanzionatorie sulla Russia oppure rovistando tra le feci di Putin per individuare i segni di malattie oncologiche o d’altra natura che ne indicassero una prossima fine, i rappresentanti politici e mediatici dell’Occidente si sono comportati esattamente come i buoi borghesi di cui parlava Marx a Kugelmann nel 1871, ma anche l’andamento dei combattimenti, con la lenta ma progressiva avanzata delle forze russe sul fronte del Donbass1, e quanto si è visto ed udito al 25° Forum economico internazionale di San Pietroburgo (SPIEF).

Forum a cui, dopo gli iniziali sbeffeggiamenti della stampa italiana mainstream che tendeva a definirlo come la “Davos degli sfigati”, hanno partecipato i rappresentanti economici e politici di circa 140 paesi e svariati rappresentanti delle maggiori imprese francesi, canadesi, americane e altre ancora dello schieramento occidentale “anti-putiniano” e “filo-ucraino” (tra cui Unicredit e Confindustria italiana). Come a sottolineare che se le Olimpiadi invernali di Sochi si erano potute boicottare, altrettanto non si poteva fare con il Forum tenutosi sulle rive del Baltico.

Approfittando di tale contraddittoria situazione, il 17 giugno, lo stesso Vladimir Putin è così intervenuto esponendo un visione strategica degli interessi russi, ma non soltanto, che, al di là delle chiare ragioni propagandistiche, conteneva numerosi motivi di interesse. Infatti, proprio nei giorni in cui iniziavano a chiudersi i rubinetti di Gazprom verso l’Europa, nonostante la minaccia delle temute sanzioni prospettate da quest’ultima nei confronti dell’economia russa, il presidente della Federazione Russa ha potuto affermare:

“Gli Usa pensano di essere l’unico centro del mondo”, ma “l’era del mondo unipolare è finito”, un cambiamento storico che “non è reversibile”. […] Sono invece “in atto nell’economia e nella politica internazionale cambiamenti tettonici e rivoluzionari”2.

“Nulla sarà come prima” ma “nulla è eterno”, ha detto il presidente della federazione russa. “I nostri partner in Occidente minano intenzionalmente le relazioni internazionali in nome delle loro illusioni geopolitiche”. “Si gioca solo in una parte del campo” ma a queste condizioni il “mondo è instabile”.
[…] Le sanzioni contro la Russia “sono folli e sconsiderate, il loro scopo è schiacciare l’economia della Federazione russa ma non hanno funzionato”. “Le oscure previsioni relative all’economia russa, tenute all’inizio della primavera, non sono corrette. La struttura delle sanzioni occidentali è stata costruita sulla falsa tesi che l’economia della federazione russa non sia sovrana”. ma, ha precisato, “la Russia non seguirà mai la strada dell’autarchia, nonostante i sogni dell’Occidente”. […] E ha affermato che “l’inflazione nella UE è di oltre il 20% e che l’Europa perderà oltre 400 bilioni di dollari per le sanzioni contro la Russia e che questo aumenterà le diseguaglianze sociali”. E ha aggiunto: “Alcune monete globali si stanno suicidando” […] Il capo del Cremlino ha definito senza mezzi termini la politica occidentale “predatoria e coloniale”3.

Anche se il giorno successivo Herman Gref, il capo di Sberbank, la più grande banca russa, ha parzialmente ridimensionato l’ottimismo di Putin, affermando che alla Russia occorrerà almeno un decennio per tornare ai livelli precedenti la guerra, poiché le nazioni che hanno interrotto i legami con la Russia sono responsabili del 56% delle sue esportazioni e del 51% delle sue importazioni, va ancora considerato il discorso del ministro degli esteri Lavrov che, secondo quanto riportato dall’agenzia Tass e successivamente da Adnkronos (giovedì 16 giugno 2022), in un’intervista a margine dello stesso Forum all’emittente Ntv ha affermato: «I contatti con l’Europa non sono più una “priorità”. Abbiamo sempre lavorato con l’Occidente e l’Oriente, il Nord e il Sud. Dato che l’Occidente ha tagliato tutti i contatti, abbiamo obiettivamente lavorato con l’Oriente come prima. Stiamo espandendo i contatti con l’Oriente. In termini assoluti questi contatti stanno crescendo, mentre in termini relativi l’Europa è scomparsa dalle nostre priorità».

Quando parla di Oriente, Lavrov intende prima di tutto Cina e India, ma è impossibile non pensare alla Turchia (le cui imprese sono pronte a sostituire quelle occidentali che hanno lasciato il territorio russo a seguito delle sanzioni), ai paesi arabi del Golfo, all’Iran, al Pakistan, Indonesia e molti altri ancora, senza tener per ora conto dell’area di influenza cinese nella penisola indocinese (in cui sta realizzando una nuova base militare) e a Singapore (snodo economico-finanziario importantissimo) in cui la popolazione è quasi del tutto di origine cinese.

Tutto ciò apre uno scenario del tutto nuovo sul piano storico e geopolitico poiché quest’area estendentesi dai confini orientali d’Europa fino al Mar della Cina, passando per l’Oceano Indiano e lo stretto di Malacca, oltre a comprende quasi i due terzi della popolazione mondiale, ingloba insieme l’intero Heartland e buona parte di quel Rimland sul cui controllo, insieme a quello dei mari, le potenze talassocratiche, come quella statunitense, hanno sempre contato per limitare l’espansione del primo (quando questo comprendeva soltanto il territorio russo)4.

Fatto assolutamente rivoluzionario dal punto di vista geopolitico, che è già stato anticipato in qualche modo dall’apertura della moderna via della seta cinese (ancora qui), ma che oggi rischia di acquisire un’importanza strategica fondamentale non solo dal punto di vista economico, ma anche militare. Poiché la ridefinizione della destinazione delle materie prime e delle linee commerciali su scala mondiale potrebbe costituire la base non solo di un nuovo quadro di alleanze, ma anche un’ulteriore spinta, se mai ce ne fosse ancora bisogno, in direzione di quella guerra allargata che agita ormai vaste aree del pianeta, non solo in Europa, e i sonni dei governi occidentali. Guerra in cui, prevedibilmente, nessuna degli attori in scena rinuncerebbe all’uso dell’arma nucleare piuttosto che soccombere.

Tale scenario, in cui non è prevista dai grandi della Terra alcuna azione di classe intesa a contrastare l’imperialismo di ogni provenienza come si è già detto in più di un’occasione, anche in caso di un’ulteriore assenza di moti classisti, antimperialisti e antimilitaristi internazionali, potrebbe però portare se non alla scomparsa, almeno alla riduzione dell’importanza dell’imperialismo fino a ora dominante, quello Occidentale a guida statunitense, e all’ulteriore divisione dello stesso al suo interno. Anche sul piano militare.

Piaccia o meno, il nuovo ordine multipolare previsto dalla strategia putiniana avrebbe infatti questa caratteristica: di aprire ad un’età di conflitti la cui stabilizzazione sarebbe molto più difficile e lunga di quella successiva alla seconda guerra mondiale, con la divisione del mondo tra i soli due vincitori di quello stesso. Molti vincitori, si potrebbe dire, equivarrebbero a molti nemici e molti conflitti, anche sociali, in cui la scelta di campo dei rivoluzionari potrà essere sempre meno rivolta all’appoggio di una delle parti in causa, ma, obbligatoriamente, sempre più alla salvezza della specie. Contro il capitalismo e l’imperialismo comunque, sotto qualsiasi aspetto o colore possano essi ripresentarsi .

(16 – continua)


  1. “Le battaglie hanno rivelato un consumo di munizioni enorme, si pensava — ha notato l’istituto britannico Rusi — che il ricorso alle cosiddette bombe intelligenti riducesse l’uso di quelle «normali» (meno precise) e invece non è stato così. La guerra è ingorda di vite, di materiale, di bombe. Se al fronte non si producono vittorie decisive i condottieri dovranno trovare alternative. I difensori avranno un problema in più: mantenere il supporto Nato ad un alto livello. Negli ultimi giorni hanno ricevuto assicurazioni con formule diverse. Gli Usa hanno varato l’ennesimo «pacchetto», altri Paesi hanno promesso forniture consistenti. Il premier britannico Johnson ha offerto un programma che dovrebbe permettere l’addestramento di 10 mila ucraini ogni 120 giorni, però ha messo in guardia sul pericolo che cresca «la fatica» in campo occidentale. Come ha detto l’ex ambasciatore americano Ivo Daalder per Washington ci sono due strade: uno status quo sanguinoso e prolungato oppure la fine o riduzione dell’appoggio.” (Andrea Marinelli e Guido Olimpio, Eserciti impantanati e migliaia di vittime. Si va verso la scenario coreano?, “Corriere della sera”, 19 giugno 2022)  

  2. Vladimir Putin: “Il mondo è cambiato, l’era del dominio americano è finita”, Huffington Post, 17 giugno 2022  

  3. Putin: “L’era del mondo dominata dagli Usa è finita per sempre”. E attacca la Ue, RaiNews, 17 giugno 2022  

  4. Su tali concetti si veda qui  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money! https://www.carmillaonline.com/2022/05/18/il-nuovo-disordine-mondiale-15-follow-the-money/ Wed, 18 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72027 di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

]]>