gas – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 27 – Crisi europea, guerra, riformismo nazionalista e critica radicale dell’utopia capitale https://www.carmillaonline.com/2025/01/02/il-nuovo-disordine-mondiale-27-crisi-del-capitale-guerra-riformismo-nazionalista-e-critica-radicale-dellesistente/ Thu, 02 Jan 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86178 di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata [...]]]> di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata nel suo contrario.

Un’utopia che, per quanto “concreta” e già interagente nella Storia, ha, come qualsiasi altra, la necessità di delineare dei piani e delle prospettive di perfezionamento e realizzazione del proprio sogno di un mondo ideale. In cui, però, la perfezione corrisponde alla massimizzazione dei profitti e dello sfruttamento della forza lavoro a favore dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta da parte di pochi.

Per questo motivo, per giungere alla critica radicale di quella che Giorgio Cesarano1 definiva l’”Utopia capitale”, è sempre utile leggere e interpretare le voci dei suoi difensori, motivo per cui può rendersi necessaria la lettura di un articolo di Matthew Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, pubblicato su «Politico» a fine dicembre.

Karnitschnig è un giornalista che ha lavorato come redattore per Bloomberg, Reuters e Business Week, per poi trasferirsi al «Wall Street Journal» e diventare in seguito capo dell’ufficio tedesco dello stesso quotidiano finanziario, con sede a Berlino. Con il lancio della filiale europea del portale statunitense «Politico» con il gruppo Axel Springer nel 2015, è diventato capo dell’ufficio tedesco di Politico.eu. Per precisione è qui giusto ricordare che «Politico» è un quotidiano on line fondato negli Stati Uniti nel 2007, diventato in breve tempo uno dei media più importanti della politica di Washington e successivamente acquisito nel 2021 dalla Axel Springer Verlag.

In tale articolo Matthew Karnitschnig si accontenta, per così dire, di tracciare il ritratto di una crisi economica europea che definisce giustamente come apocalittica e che in gran parte dipende dalle differenti scelte fatte dall’economia americana rispetto a quella europea nel corso degli ultimi decenni.

Prima di iniziarne la lettura è però sempre meglio ricordare che già Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista (1848), avevano colto nel capitalismo la sua capacità fondamentale di unificare il mercato mondiale. Ciò che allora era ancora un fenomeno destinato a concentrare nelle mani del capitale europeo, inglese soprattutto, una parte considerevole della ricchezza mondiale, oggi è diventato normale, coinvolgendo un maggior numero di attori nella competizione per l’accaparramento dei mercati e della ricchezza planetaria. Così, mentre tutti si affannano ancora a disquisire sulla fine o meno della globalizzazione, occorre ricordare che Engels in un suo testo tardivo aveva individuato nello sviluppo capitalistico cinese il momento culminante nella marcia espansiva del capitalismo e Rosa Luxemburg, proprio nel suo testo L’accumulazione del capitale (1913), aveva colto i precisi limiti del mercato mondiale e la necessità dell’imperialismo come fase della concorrenza spietata tra i differenti capitalismi nazionali, obbligati proprio da questa ad abbattere ogni confine di carattere nazionale sia fuori che dentro casa.

L’uso intensivo del termine globalizzazione, purtroppo, ha nascosto da qualche decennio a questa parte queste semplici scoperte vecchie più di un secolo, per dipingere una situazione di novità che di tal fatta non porta con sé proprio nulla. Compreso l’uso smoderato degli strumenti finanziari per compensare le difficoltà e i ritardi di un’accumulazione contesa ormai fra troppi player.

Se negli anni Novanta, infatti, la globalizzazione era sembrata lo strumento più avanzato del controllo del capitalismo occidentale sul resto del mondo, appare ora chiaro che, come aveva affermato Giulio Tremonti sulla rivista «Aspenia» già allora, la miseria delle buste paga dell’Oriente non soltanto europeo ha finito col rientrare nelle buste paga dell’Occidente. Ovvero il basso costo del lavoro in tanta parte del mondo, e soprattutto in alcuni dei paesi più industrializzati posti al di là dei confini dell’Occidente (Cina e India per esempio), ha finito col rendersi necessario anche là dove per una breve occasione storica, la seconda metà del XX secolo, la classe operaia e i lavoratori in genere avevano potuto usufruire di alti salari e notevoli garanzie di carattere sociale.

Alla fine del secondo conflitto mondiale erano stati proprio gli Stati Uniti a premere sull’Europa affinché fosse realizzato un sistema di welfare utile a stabilizzare i rapporti tra le classi per abbassare la conflittualità sociale e aumentare i consumi interni, in un momento in cui prima della ripresa europea e italo-tedesca in particolare a seguito delle ricostruzioni post-belliche, gli Stati Uniti rappresentavano, con i loro stabilimenti intonsi, la fabbrica del mondo, sia per quanto riguardava i consumi materiali che per quelli immateriali (cinema, spettacolo, musica, etc.).

Sfuggivano a questo schema, certo, i paesi dell’Europa orientale o del cosiddetto «socialismo reale» in cui però le garanzie sociali erano accompagnate da una produttività lavorativa bassa e rivolta più alla produzione di beni legati alla produzione di beni e a quella dell’industria pesante, che non alla produzione e al consumo di massa, strumenti invece indispensabili per la costruzione di una comunità basata sui principi dell'”utopia capitale” (qui). Il tutto aggravato da una spesa militare molto elevata per poter mantenere paritari i rapporti di forza con l’Occidente all’interno della Guerra Fredda o presunta tale.

Sono quelli che gli storici dell’economia chiamano i «Trenta ruggenti», gli anni che vanno dal 1945 al 1975 e che vedono il capitale occidentale, europeo e nordamericano, dominare la scena economica mondiale. Anni in cui la protesta operaia e le lotte sociali, per quanto combattive, potevano ancora essere accontentate nelle loro richieste di fondo. Sia che si trattasse di miglioramenti sul piano lavorativo e salariale che su quello, formale, dei diritti.

Anni in cui i partiti di sinistra, almeno in Occidente e in Europa in particolare, poterono immaginare di governare il corso degli eventi socio-economici e politici insieme a quelli di centro e centro-destra, spingendo per soluzioni socialdemocratiche condivise con i partiti centristi e di carattere repressivo nei confronti dell’estremismo di sinistra. Il tutto con il corollario di un’estrema destra che tornava svolgere il ruolo di arma di riserva per mantenere al loro posto le spinte più estreme in direzione del rinnovamento.

Questo quadro, qui estremamente semplificato per ragioni di spazio e tempo, si incrinò a partire dalla metà degli anni Settanta, quando le vittorie delle lotte anticoloniali iniziarono a ridurre non tanto l’influenza dell’imperialismo occidentale sul resto del mondo quanto, piuttosto, le entrate e i sovrapprofitti di cui anche la classe operaia occidentale aveva potuto usufruire grazie al basso costo delle materie prime e del plusvalore massicciamente estorto in altre parti del globo o in paesi ancora non del tutto autonomi nel loro rapporto con il centro dell’accumulazione mondiale.

Primo momento in cui, come adesso2, gli Stati Uniti iniziarono ad approfittare di una crisi energetica, allora principalmente petrolifera, di cui a fare le spese fu, ancora una volta come ai nostri giorni, l’Europa occidentale nel suo insieme, sprovvista com’era di materie prime come gas e petrolio. Materie intorno alle quali lo scontro tra i teorici di un’autonomia energetica europea e dipendenti e rappresentanti delle Sette sorelle si era fatto particolarmente virulento e non soltanto sotterraneo se si pensa all’eliminazione dell’italiano Enrico Mattei. Fondatore dell’ENI e promotore di accordi con l’Algeria, appena giunta all’indipendenza, per il suo gas e il suo petrolio.

Sette sorelle fu una definizione coniata proprio da Enrico Mattei, per indicare le compagnie petrolifere che formavano il Consorzio per l’Iran e che dominarono la produzione petrolifera mondiale dagli anni 1940 sino alla cosiddetta crisi del 1973. La nascita delle Sette sorelle può essere fatta risalire alla firma degli accordi di Achnacarry siglati nel 1928 fra i rappresentanti delle compagnie petrolifere Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey (poi Exxon) e la Anglo-Persian Oil Company (APOC, diventata poi British Petroleum), cui si aggiunsero in seguito: Mobil, Chevron, Gulf e Texaco. E fu proprio questo l’accordo che Mattei osò sfidare, pagandone le conseguenze il 27 ottobre 1962, in un incidente aereo dalle modalità mai sufficientemente chiarite, ma in cui furono probabilmente coinvolti servizi segreti francesi e anglo-americani.

A far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75 % anziché il 50 % delle royalty. Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e cogli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale. Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Mentre, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico.

Tutte scelte rispetto alle quali il Dipartimento di Stato USA aveva risposto bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali. A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di lega fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo possibile incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un incontro coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre[ del 1962. In particolare quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia che, con gli accordi di Evian del 18 marzo 1962, riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.

Chiuso, a solo titolo di esempio degli scontri inter-imperialistici per il controllo delle materie prime, il capitolo Mattei, occorre ritornare a quello che è il motivo di fondo di questa riflessione ovvero l’analisi della situazione economico-politica attuale e le sue possibili conseguenze di classe. In America e in Europa. Europa che, come ai tempi di Mattei, non ha visto diminuire affatto le sue divisioni e dispute nazionali e imperiali, ma che comunque ha perso molte chance di rendersi indipendente dall’azione statunitense.

Due destini interni, prima di tutto, all’Occidente, che come stringhe di un DNA politico ed economico si avvolgono l’una all’altra senza soluzione di continuità e senza altra soluzione che un collasso di una delle due parti o dell’Occidente intero. Da qui le differenti analisi, per impostazione politica e scopi, che ne scaturiscono. Spesso accomunate, però, dal sentore di una crisi cui l’unica uscita sembra essere quella di una guerra allargata (su scala mondiale).

Una prospettiva, quest’ultima, che prevede il coinvolgimento delle classi meno abbienti, di quella media impoverita e di quella operaia, nel nazionalismo guerriero, che si promette unico capace di difenderne gli interessi, in un mondo di cui l’Occidente ha contribuito ad abbattere i confini. Così da spingere, con le differenti forme di populismo nazionalista a ristabilire i privilegi perduti. Sia che si tratti della classe operaia che ha votato per Trump, sia delle simpatie di un parte della stessa nei confronti dei populismi e dei partiti di destra in Europa. Dove, occorre ricordarlo sempre, il semplice coinvolgimento della stessa classe negli ideali del nazionalismo populista o fascista, non significa che questi siano rivendicabili anche a sinistra oppure interpretabili come manifestazioni politiche di ripresa della lotta di classe. Come sintomi del disagio, sia negli USA che in Europa, sicuramente ma non come base per possibili future alleanze.

Da questo punto di vista l’articolo di Matthew Karnitschnig è efficace nel rivelare il piano del capitale, in tutta la sua possibile spietatezza, e vedremo subito il perché, tralasciando le minacce dell’amministrazione Trump, che pure aprono l’articolo di Karnitschnig, e concentrando l’attenzione su ciò che l’analista espone con ferrea lucidità.

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi. Anche se l’UE è concentrata su Trump e su ciò che potrebbe fare in futuro, quando si tratta dell’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, tutto ciò che sta facendo con le sue persistenti minacce tariffarie e la sua ampollosità sta alzando il sipario sul traballante modello economico europeo. Se l’Europa avesse una base economica più solida e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poca influenza sul continente.
Il grado in cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è mozzafiato. Il divario nel PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato oppure, secondo altri parametri, è aumentato del 30%, principalmente a causa della minore crescita della produttività nell’UE. In parole povere, gli europei non lavorano abbastanza. Un dipendente tedesco medio, ad esempio, lavora più del 20% in meno rispetto ai suoi colleghi americani.
Un’ulteriore causa del calo della produttività in Europa è l’incapacità delle imprese di innovare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio di quanto spendono le aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività della tecnologia europea è rimasta stagnante. […] “L’Europa è in ritardo nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, ha detto Christine Lagarde nel suo discorso a Parigi. È un eufemismo. L’Europa non è solo in ritardo, non è nemmeno in gara. [poiché] è rimasta molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del PIL in ricerca e sviluppo, il principale motore dell’innovazione economica. In effetti, la spesa per tale ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000. [Così] gli investimenti dell’Europa in ricerca e sviluppo “non sono solo troppo pochi, ma una quantità considerevole sta fluendo nelle aree sbagliate”3.

Alcuni lettori potrebbero a questo punto storcere il naso di fronte a quello che lo scomparso Emilio Quadrelli avrebbe definito come una sorta di “determinismo economico”, ma è soltanto a partire dal piano del capitale che è possibile comprendere quale sarà il terreno di scontro per la classe nell’immediato futuro e quali le possibili iniziative da prendere e le parole d’ordine con cui accompagnarle. Senza l’illusione di trovarle già belle pronte nella minestra riscaldata della democrazia compartecipativa o, peggio ancora, della destra cosiddetta sociale e populista. Ma continuiamo con la lettura di Karnitschnig.

È qui che entra in gioco la Germania. Il piccolo sporco segreto della spesa europea in R&S è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti confluisce in un settore: l’automotive.
[…] Se non altro, l’Europa è stata abbastanza coerente. Nel 2003, i principali investitori aziendali in ricerca e sviluppo nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens, il gigante tedesco dell’ingegneria. Nel 2022 erano Mercedes, VW e Bosch, il produttore tedesco di componenti per auto. […] Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in ricerca e sviluppo nel settore automobilistico, le decantate case automobilistiche tedesche sono riuscite in qualche modo a perdere il treno dei veicoli elettrici. Questo fallimento è al centro del malessere economico della Germania, come dimostra il recente annuncio di VW che avrebbe chiuso alcuni stabilimenti tedeschi per la prima volta nella sua storia. Il settore automobilistico tedesco, che impiega circa 800.000 persone a livello nazionale, è stato la linfa vitale della sua economia per decenni, contribuendo più di qualsiasi altro settore alla crescita del paese. […] La crisi del mondo automobilistico tedesco è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per far fronte a una serie di altre sfide complicate che stanno minando il suo potenziale economico. Il più grande: un uno-due tra una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati. […] Detto questo, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando i lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in senso positivo. Solo nelle ultime settimane, aziende del calibro di VW, Ford e il produttore di acciaio ThyssenKrupp, solo per citarne alcuni, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti4. Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti del mondo, al costo della manodopera e alla regolamentazione onerosa, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente alzando la posta in gioco e delocalizzando in altre regioni. Quasi il 40 per cento delle aziende industriali tedesche sta prendendo in considerazione una mossa del genere, secondo un recente sondaggio5.

All’interno di un quadro del genere è chiaro che le minacce di Trump potrebbero avere conseguenze disastrose come sottolinea l’articolo pubblicato su «Repubblica» il 20 dicembre e già precedentemente citato.

Le possibili nuove restrizioni sulle importazioni di auto europee negli USA potrebbero costare 25 mila posti alle case automobilistiche. È quanto riporta lo Spiegel riportando i risultati di un’analisi della società di consulenza manageriale Kearney. Secondo il rapporto, fino a 25 mila posti di lavoro sarebbero a rischio presso Volkswagen, Mercedes-Benz, Bmw e Stellantis che hanno un business particolarmente grande negli Stati Uniti, così come i 1.000 maggiori fornitori europei, anche se alcuni dei produttori producono negli stabilimenti statunitensi.
“Ogni anno vengono esportati circa 640.000 Veicoli dall’Europa agli Stati Uniti: a seconda dello scenario, i dazi potrebbero portare a perdite di fatturato comprese tra 3,2 e 9,8 miliardi di dollari a livello di produttore, il che a sua volta avrebbe un impatto sui fornitori” spiega Nils Kuhlwein, partner di Kearney. In un primo scenario, le tariffe saranno trasferite integralmente ai clienti statunitensi. Il calcolo mostra che con tariffe del 10, 15 o 20 per cento, la domanda di veicoli importati potrebbe diminuire di 60.000 a 185.000 unità. Ciò significherebbe perdite di vendite per i produttori a prezzi di vendita di fabbrica fino a 9,8 miliardi di dollari, per i fornitori fino a 7,3 miliardi di dollari. Se le case automobilistiche trasferissero invece le tariffe ai loro fornitori, i loro risultati potrebbero diminuire fino a 3,1 miliardi di euro se venissero trasferiti i costi aggiuntivi del 60%, il che metterebbe in pericolo 25 mila posti di lavoro6.

A questo punto conviene esporre le ultime considerazioni di Karnitschnig sulla gravità e le ragioni di fondo della “crisi europea” per poi poter tirare le fila di quale potrebbe essere il futuro che ci aspetta in quanto europei e le contraddizioni su cui far conto per un’eventuale, ma per ora scarsamente visibile, ripresa della lotta di classe.

Essendo la più grande economia dell’UE, le disgrazie economiche della Germania si stanno ripercuotendo in tutto il blocco. Ciò è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni le case automobilistiche e i macchinari tedeschi hanno trasformato nella loro fabbrica de facto. Che tu acquisti una Mercedes, una BMW o una VW, ci sono buone probabilità che il motore o il telaio dell’auto siano stati forgiati in Ungheria, Slovacchia o Polonia.
Ciò che rende la crisi dell’industria automobilistica tedesca così intrattabile per l’Europa è che il continente non ha nient’altro su cui contare. Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.
Nel 2003, le aziende che hanno investito di più in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti sono state Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, è la volta di Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook). Dato il livello dominante di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo della tecnologia, è difficile vedere come la tecnologia europea possa mai giocare nella stessa lega, tanto meno recuperare.
Uno dei motivi è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il capitale di rischio. Ma il bacino di capitale di rischio in Europa è una frazione di quello che è negli Stati Uniti. Solo nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il FMI.
Invece di investire i loro soldi nel futuro, gli europei preferiscono lasciarli in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro di risparmi europei vengono lentamente divorati dall’inflazione.
[…] Quindi, se le auto e l’IT sono fuori, l’UE potrebbe semplicemente appoggiarsi alle tecnologie del 19° secolo in cui ha sempre eccelso come le macchine e i treni, giusto? Sfortunatamente, è qui che entrano in gioco i cinesi. Secondo una recente analisi della BCE, il numero di settori in cui le imprese cinesi competono direttamente con le aziende dell’eurozona, molte delle quali sono produttrici di macchinari, è salito da circa un quarto nel 2002 ai due quinti di oggi.
Con l’Europa che si trova ad affrontare una crescita stagnante, una competitività in calo e le tensioni con Washington – per citare solo alcuni punti critici – ci si potrebbe aspettare un robusto dibattito pubblico su un ampio programma di riforme.
Magari. Il rapporto di Draghi ha avuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente e poi è stato rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, il suono perpetuo dei campanelli d’allarme da parte del FMI e della BCE cade nel vuoto.[…] Ciò è probabilmente dovuto al fatto che gli europei non stanno davvero provando alcun dolore, almeno non ancora.
Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, è in testa a tutte le classifiche globali per quanto riguarda la generosità dei sistemi di protezione sociale dei suoi membri. Con il peggioramento delle prospettive economiche della regione, tuttavia, gli europei si trovano di fronte a un brusco risveglio. [Mentre] paesi come la Francia, […] avranno difficoltà a mantenere un generoso stato sociale. Parigi spende attualmente più del 30% del PIL per la spesa sociale, tra le le più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono molto indietro.
Se le fortune economiche dell’Europa non si invertiranno presto, questi paesi dovranno affrontare alcune decisioni difficili [Così] Il risultato probabile è una radicalizzazione della politica […] Il cui successo è tanto più inquietante se si considera che il peggio delle sofferenze economiche deve probabilmente ancora venire7.

Potrebbero bastare queste righe di Karnitschnig a delineare il quadro di quanto sta avvenendo in Europa, intorno a noi. Ma chi scrive, per amor del vero e non soltanto per rigirare, per così dire, il coltello nella piaga politica, intende sfruttare il quadro illustrato dal giornalista tedesco-americano per sottolineare come questo esprima un punto di vista preciso, quello del capitale e della sua utopia e, ancor più, di quello europeo se vorrà risollevarsi dalla situazione di scarsa competitività in cui si trova attualmente. Un quadro pienamente allineato con quello già esposto da Mario Draghi alcune settimane or sono e in cui la ricostruzione delle catene del valore è già pienamente evidente di per sé. Un quadro che ci mostra come lo stesso capitalismo sia oggi sempre più deciso a non concedere alcunché alla spesa sociale o al miglioramento e protezione delle condizioni di lavoro e dei diritti collettivi reali. Come dire: non c’è più trippa per i gatti, non illudiamoci.

Qualsiasi illusoria alleanza o ammucchiata elettorale, in un contesto in cui non è più possibile aspirare per via parlamentare alle conquiste ottenute nel corso dei fatidici “Trenta ruggenti“, non farà altro che dare fiato ai movimenti nazionalisti e populisti di destra o rosso-bruni che della fasulla promessa della difesa del risparmio europeo, degli interessi nazionali (facendo finta che questi davvero corrispondano a quelli delle classi sociali meno abbienti) e dei confini giuridici e politici che li racchiudono hanno fatto la loro bandiera. Bandiera che non può assolutamente essere fatta propria da chi ancora voglia rovesciare l’ordine economico e sociale esistente.

Non possono più esistere interessi comuni in Europa tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Fin dai tempi della Comune di Parigi del 1871 che chiuse, almeno in questo continente, definitivamente la porta a qualsiasi ipotesi di collaborazione tra interessi contrapposti come quelli di classi storicamente nemiche giurate. Furono il fascismo, il nazismo e la pratica poltica dell’Internazionale ex-comunista stalinizzata a riproporre, purtroppo con successo, quell’ipotesi negli anni Venti e Trenta e con i processi resistenziali a prolungarla ancora oltre il secondo dopoguerra. Ma il trionfo di quell’ipotesi di collaborazione tra le classi significò, esattamente come nel caso del Primo macello imperialista ad opera delle socialdemocrazie, la partecipazione e il coinvolgimento in una guerra per la spartizione del mercato mondiale tra le più atroci e devastanti della Storia trascorsa fino ad allora. Sempre in nome, sostanzialmente, di un’utopia già condannata a morte dalle sue stesse insanabili contraddizioni.

Difendere l’interesse nazionale come alcuni, a sinistra e a destra, ancora fanno non significa altro che preparare una guerra in cui i cittadini e i lavoratori dovrebbero accettare qualsiasi sacrificio, pur di difendere i loro meschini e sempre irraggiungibili interessi individuali. Una rivendicazione che in qualche modo già sta alla base di tanto razzismo e di tanta xenofobia, utili soltanto a dividere un proletariato sempre più variegato, impoverito e in costante ricomposizione, sia sul piano internazionale che su quello interno ad ogni singolo paese.

In un contesto in cui l’utopia capitale, che per alcuni era giunta a un tal punto di sviluppo da far parlare della “fine della Storia“, un’idea che rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente all’epoca del suo trionfo apparente8, quando sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici, ha rivelato l’errore insito nel sogno che ciò fosse possibile e nell’illusione «che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità»9.

Una situazione foriera di sempre più devastanti guerre imperialiste e, dal punto di vista del rovesciamento dell’attuale modo di produzione o della sua difesa ad oltranza, di guerre civili inevitabili. In cui soltanto l’audacia della rivendicazione dell’internazionalismo al di sopra di ogni confine, del rifiuto della guerra e dei compromessi in nome degli interessi nazionali e la negazione radicale dei principi su cui si basa la forza dell’utopia capitale, fondendo insieme nella prassi rivoluzionaria la soggettività barbara della lotta di classe e l’oggettività delle condizioni date, potrà contribuire al superamento definitivo di tutto ciò che ancora opprime la maggioranza delle donne, dei lavoratori e dei giovani, migranti e non, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.


  1. Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e soprattutto, a partire dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine esistente costituitosi in Italia proprio tra il ’68 e il ’77.  

  2. Si vedano in proposito le minacce di Trump sui dazi e sull’obbligo di acquisto di gas e petrolio americano da parte dei paesi europei: Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, «la Repubblica», Affari & Finanza -20 dicembre 2024. Minaccia comunque già anticipata nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen che ha dichiarato a novembre, con una più che evidente menzogna sui costi, che l’Ue prenderà in considerazione la possibilità di acquistare più gas dagli Stati Uniti: «Riceviamo ancora molto Gnl dalla Russia e perché non sostituirlo con quello americano, che è più economico per noi e fa scendere i prezzi dell’energia», «Corriere della sera», 20 dicembre 2024. In un contesto in cui gli Stati Uniti sono già il principale fornitore di Gnl e petrolio dell’Ue. Nella prima metà del 2024, hanno fornito circa il 48% delle importazioni di Gnl del blocco, rispetto al 16% della Russia.  

  3. M. Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, «Politico», dicembre 2024.  

  4. Nel corso delle ultime settimane è stato però annunciato un accordo sindacale sulla base del quale alcune dcine di migliaia di lavoratori lasceranno il lavoro su base volontaria mentre la chiusura degli stabilimenti è momentaneamente rimandata. Accordo giunto in seguito alla crisi del governo semaforo di Sholz che anticipa elezioni politiche che di qui a qualche mese potrebbero stravolgere ilquadro poltico tedesco.  

  5. M. Karnitschnig, cit.  

  6. Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, cit.  

  7. M. Karnitschnig, cit.  

  8. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, 1992.  

  9. G. Segre, Perché siamo alla fine della fine della storia, «La Stampa», 27 dicembre 2024.  

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Il nuovo disordine mondiale /17: storia breve di una débâcle inevitabile https://www.carmillaonline.com/2022/09/07/il-nuovo-disordine-mondiale-17-cronaca-di-una-debacle-annunciata/ Wed, 07 Sep 2022 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73890 di Sandro Moiso

La peggior campagna elettorale di sempre, forse l’unica che nel giro di qualche settimana è riuscita a far passare il numero degli astenuti e degli indecisi dal 40 al 42%, oltre a nutrirsi del solito e farraginoso strumentario ideologico di bassa lega, sia a destra che a sinistra, ha rimpinguato il proprio verboso arsenale propagandistico di tutto quanto proviene dalle fake news che, come in ogni conflitto che “si rispetti”, riguardano la guerra in corso e le sue conseguenze militari, geopolitiche e, soprattutto, economiche.

Così, mentre Giorgia Meloni fa [...]]]> di Sandro Moiso

La peggior campagna elettorale di sempre, forse l’unica che nel giro di qualche settimana è riuscita a far passare il numero degli astenuti e degli indecisi dal 40 al 42%, oltre a nutrirsi del solito e farraginoso strumentario ideologico di bassa lega, sia a destra che a sinistra, ha rimpinguato il proprio verboso arsenale propagandistico di tutto quanto proviene dalle fake news che, come in ogni conflitto che “si rispetti”, riguardano la guerra in corso e le sue conseguenze militari, geopolitiche e, soprattutto, economiche.

Così, mentre Giorgia Meloni fa a gara con Enrico Letta nel tentativo di dimostrare di essere più servilmente atlantista dello stesso PD, il povero “ex-capitano” de noantri, si è visto messo alla berlina, sia dagli avversari che dagli alleati, per aver ribadito ciò che da mesi è possibile riscontrare sulla stampa economica internazionale e nazionale: ovvero che fino ad ora le sanzioni hanno danneggiato l’economia europea ancor più di quella russa e che la “serrata del gas” da parte di Gazprom e di Putin può costituire un pericoloso innesco per un incendio che potrebbe rivelarsi disastroso sia sul piano industriale che sociale.

Ma, prima che il genio giornalistico di Natalie Tocci accomuni chi scrive agli “utili idioti di Putin”1, proviamo a fare qualche passo indietro e, soprattutto, nella realtà. Partendo proprio dalla questione “gas”, inseparabile dalla condizione di esistenza fondamentale di un sistema che, non ci vuole un genio per capirlo, è sostanzialmente energivoro.

Tale passo, prima di ricondurci alla situazione creatasi a livello globale, come conseguenza della guerra in Ucraina, nel settore dei prezzi e dei rifornimenti di gas e idrocarburi, vede costretto l’autore di questo intervento a ricordare come l’avvento della Rivoluzione Industriale, alla metà del XVIII secolo, abbia visto un passaggio epocale dal consumo di energie che oggi si direbbero “rinnovabili “ (vento, acqua, animali e umane) a quello di un’energia che rinnovabile non era, ma che per il tramite della macchina a vapore prima e del motore elettrico o a scoppio poi, forniva alla nascente produzione industriale, e al suo modello di organizzazione sociale, una continuità e regolarità di utilizzazione che le altre non potevano fornire.

Vento, acqua, fatica dell’animale e dell’uomo dovevano infatti sottostare a limiti “naturali” (di carattere stagionale e di tempi di rinnovo) che la macchina a vapore e tutti i suoi derivati (fino all’uso dell’energia nucleare) non dovevano rispettare. Il vento poteva infatti essere troppo (nel caso della stagione invernale o degli urgani estivi) o troppo poco (come nel caso delle bonacce atlantiche, durante le quali una nave a vela poteva dover attendere per settimane il ritorno di condizioni di vento favorevoli) così come l’acqua che faceva funzionare mulini, macine oppure i primi telai meccanici. L’uomo e gli animali, per quanto messi alla catena per remare oppure far girare una macina oppure ancora per trainare strumenti agicoli di un certo peso (ad esempio aratri ed erpici), oltre a dover interrompere il lavoro per i suddetti limiti fisici naturali (si legga “fatica”), finivano comunque col consumare, per quanto in quantità minime nel caso di schiavitù e maltrattamenti connessi all’uso della forza animale, una parte del prodotto che contribuivano a creare.

Per capirci: gas, petrolio, energia elettrica non consumano il prodotto (ad esempio la farina) che concorrono a realizzare. Inoltre sono fonti di energia o energie sempre disponibili nella giusta quantità necessaria, sia di notte che di giorno, in inverno che in estate, senza forzose interruzioni. Inevitabile quindi che, per il “buon funzionamento” della macchina industriale capitalistica e i suoi ritmi produttivi, la scelta si indirizzasse sempre più verso il loro diffuso e devastante utilizzo.

Sistema che nel divenire “energivoro” ha finito col dar vita a una serie di conflitti sempre più intensi, ravvicinati e distruttivi, per l’appropriazione di materie prime di origine fossile che, se ai tempi di Marco Polo potevano costituire una semplice curiosità o una mercanzia tra le altre2, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e, in particolare, dal Primo macello imperialista diventano il premio di ogni guerra, allargata, coloniale e non3. Prova ne sia il fatto, qui citato a solo titolo di esempio, che la marcia delle truppe dell’Asse verso i territori sud-orientali dell’URSS, interrottasi forzatamente a Stalingrado, poco aveva di “ideologico”, ma molto di pratico vista la cronica fame di risorse energetiche e di petrolio della Germania. Cosa che aveva spinto Hitler a spostare un congruo numero dei tre milioni di soldati inviati sul fronte orientale con l’Operazione Barbarossa sul fronte del Caucaso; nel tentativo di appropriarsi sia delle regioni petrolifere là presenti che delle aree petrolifere incluse dai dominion inglesi in Iraq ed Iran. Come sia andata a finire ce lo dicono i libri di storia. Stesso discorso vale per la campagna d’Africa condotta con l’alleato Mussolini, alla ricerca della conquista o del mantenimento del controllo del petrolio libico e dell’interruzione dei traffici marittimi e commerciali inglesi dall’India e verso la stessa.

Ma è necessario interrompere qui il Bignami della storia del ‘900 e dei suoi devastanti conflitti, per tornare ai problemi attuali, che dimostrano, comunque, come tale secolo sia stato tutt’altro che breve e si prolunghi ancora nel nostro disastrato presente. Compresa la scarsa passione del capitalismo industriale per l’uso delle fonti energetiche alternative, nonostante la predicazione greenwashing dei media falsamente progressisti.

E visto che si parlava di Germania del Reich, proprio dalla (ex-?) locomotiva d’Europa occorre ripartire per la riflessione sulle sanzioni, e poiché il danno causato all’economia europea dalle sanzioni alla Russia e dal taglio delle forniture di gas sembra appartenere, all’interno della propaganda bellico-politica in cui siamo immersi, soltanto alle fake messe in campo dal Cremlino e dalla sua portavoce Maria Zakharova, torneremo al 30 marzo di quest’anno, quando il quotidiano tedesco «Handelsblatt», l’equivalente dell’italiano «Il Sole 24 Ore», scriveva:

L’industria tedesca ad alta intensità energetica avverte con urgenza il rischio di una possibile interruzione della fornitura di gas naturale russo. Anche il razionamento potrebbe portare a perdite di produzione, che avrebbero conseguenze per l’intera industria di trasformazione in Germania, spiegano ad esempio i manager dell’industria chimica. Laddove è necessario molto gas come fonte di energia e materia prima, le aziende sono minacciate di estinzione in caso di restrizioni.
Mercoledì, il ministro federale dell’Economia Robert Habeck (Verdi) ha annunciato il “livello di allerta precoce” del cosiddetto piano di emergenza gas, avvertendo così l’economia di un significativo deterioramento dell’approvvigionamento di gas. L’ industria che sarebbero più colpita da un’interruzione dell’offerta o dal razionamento è quella chimica che per Christian Kullmann è il “cuore dell’economia tedesca”. In questa frase Boss è contenuto un avvertimento: se non batte più, ha gravi conseguenze per tutte le industrie. E questo è uno scenario realistico in caso di fallimento delle forniture di gas all’industria4.

Per poi continuare il giorno successivo con un’intervista al Direttore delle poste tedesche, in cui si affermava:

Un embargo sarebbe devastante per la Germania e l’Europa, ha detto il manager in un’intervista a Handelsblatt. “Ci sarebbe la minaccia di un collasso di parti del nostro settore”.
Un tale passo non garantirebbe in alcun modo la fine della guerra in Ucraina. “Se ti indebolisci in modo massiccio, non vincerai”, ha detto Appel. Ha anche accolto con favore il fatto che il governo tedesco non stava saltando immediatamente su ogni questione nel conflitto ucraino, ma stava prendendo decisioni “con calma e chiarezza” […] Frank Appel teme un collasso di parti del settore in caso di boicottaggio e si oppone anche a un disaccoppiamento dalla Cina.5.

Mentre, sempre negli stessi giorni, «Die Welt», un altro importante quotidiano tedesco equivalente del «Correiere della sera» italico, occupandosi dell’inflazione, scriveva:

Un mese dopo lo scoppio della guerra, i tedeschi stanno vivendo uno shock storico dei prezzi: al 7,3%, l’inflazione a marzo è stata più alta che mai nella Germania riunificata. Secondo l’Ufficio federale di statistica, la vita nei vecchi Stati federali era aumentata così tanto solo nel novembre 1981.
[…] La Repubblica Federale ha registrato l’inflazione più forte nel dicembre 1973 con il 7,8 per cento. E questo segno potrebbe presto essere rotto se la guerra in Ucraina dura ancora più a lungo o la disputa energetica con la Russia si intensifica.
Perché è l’improvviso aumento del prezzo dell’energia che farà salire il tasso di inflazione nel 2022. “È principalmente energia, ma anche cibo, che ancora una volta si è rivelato un driver di prezzo. L’aumento di quasi il 40% dei prezzi dell’energia spiega più della metà dell’inflazione attuale”, afferma Sebastian Dullien, direttore dell’Istituto per la macroeconomia e la ricerca economica (IMK). […] “Non si prevede che i mercati dell’energia allenteranno le tensioni nei prossimi mesi: i prezzi all’ingrosso del gas e dell’elettricità indicano che l’energia domestica in particolare rischia di diventare ancora più costosa per i clienti finali”. Nel caso del carburante, c’è un certo sgravio, anche perché temporaneamente le tasse su di esso devono essere ridotte.
Tuttavia, queste riduzioni sono matematicamente troppo piccole per compensare l’aumento dei prezzi dell’energia delle famiglie nel tasso di inflazione. “Tutto sommato, l’inflazione rimarrà alta per il resto dell’anno”, è certo Dullien.
L’IMK ha aumentato le sue stime in risposta agli eventi. […] “Se l’energia dovesse diventare ancora più costosa, ad esempio in caso di interruzione della fornitura di energia russa, l’inflazione potrebbe essere di nuovo significativamente più alta”, afferma Dullien.
[…] E oggi non sono solo i prezzi dell’energia a guidare l’inflazione in questo paese. Ad eccezione degli affitti, l’intero carrello della spesa dei tedeschi sta diventando più costoso della media.
“Il rollover a tutti i settori possibili è in pieno svolgimento. Aggiungete a ciò i ricarichi aggiuntivi nei settori dell’ospitalità, della cultura e del tempo libero, una volta terminato l’attuale ciclo di restrizioni, ed è difficile immaginare che l’inflazione diminuirà in modo significativo nel prossimo futuro “, afferma Carsten Brzeski, capo economista di ING.
[…] Gli alti tassi di inflazione stanno mettendo sotto pressione la Banca centrale europea (BCE). Perché mentre gli economisti aumentano le loro previsioni di inflazione, tagliano le loro previsioni di crescita. Il Consiglio tedesco degli esperti economici ha più che dimezzato le sue previsioni di crescita economica quest’anno all’1,8%.
Nelle loro precedenti previsioni di novembre, gli esperti economici avevano promesso una crescita del 4,6% per il 2022. Una tale combinazione di stagnazione economica e alta inflazione (chiamata anche stagflazione) è temuta perché getta le autorità monetarie in un dilemma.
“Per la BCE, questo alto rischio di stagflazione nell’eurozona metterà sotto pressione la prevista normalizzazione della politica”, afferma Brzeski. Mentre la crescita è recessiva, almeno nella prima metà dell’anno, l’inflazione complessiva sarà significativamente più alta nel lungo termine.
In un tale contesto macroeconomico, l’attenzione della BCE sembra spostarsi dalla crescita all’inflazione. “Ma per quanto la BCE possa contribuire a far arrivare i container dall’Asia più velocemente e più a buon mercato in Europa o ad aumentare la produzione di microchip a Taiwan, non può porre fine alla guerra o abbassare i prezzi dell’energia”, afferma Brzeski.
Quanto sia profondo il dilemma è reso chiaro da un’altra cifra: quando l’inflazione in Germania era del 7,3 per cento, il tasso di interesse di riferimento fissato dalla Bundesbank era dell’11,4 per cento. In questo modo, le autorità monetarie volevano contrastare massicciamente ulteriori aumenti dei prezzi. Oggi, d’altra parte, il tasso di interesse di riferimento in tutta Europa è pari a zero.
Gunther Schnabl, professore di politica economica all’Università di Lipsia, critica la BCE. A differenza della Federal Reserve statunitense, l’istituzione di Francoforte ignora il fatto che la stabilità valutaria è minacciata a lungo termine.
[…] Secondo la sua stima, le radici sono più profonde che nella crisi attuale. “Indipendentemente dalla ragione dell’inflazione, la BCE deve agire per contenere i cosiddetti effetti di secondo impatto”, afferma l’economista.
Gli effetti di secondo impatto si verificherebbero se i sindacati chiedessero una compensazione salariale a causa delle pressioni inflazionistiche, che a loro volta costringevano le aziende ad aumentare i prezzi. “Tali spirali salario-prezzo osservate nel 1970 manterrebbero alta l’inflazione per lungo tempo. Ciò sarebbe rischioso a causa della crescita negativa e degli effetti distributivi dell’inflazione dei prezzi al consumo e degli asset” 6.


La citazione può apparire troppo lunga, ma è importante perché rivela come tutto quanto sta accadendo a livello europeo e italiano fosse ampiamente prevedibile fin dall’inizio del conflitto in Ucraina. Non solo, ma anche che i paletti per la risposta all’inflazione erano già stati messi dalla BCE, insieme alla necessità, per il capitale, di contrastare qualsiasi richiesta proveniente dai sindacati o da movimenti sociali auto-organizzati per aumenti salariali o aiuti di altro genere, non alle imprese, ma alle famiglie e ai lavoratori in difficoltà.

Ma anche su altri quotidiani europei, in quei giorni si sottolineavano le conseguenze, presenti e future, dei processi inflattivi messi in atto a partire dal conflitto e dalle politiche adottate dall’Unione Europea e dell’Occidente per “contrastarlo”. Ad esempio il quotidiano spagnolo «Cinco Días», sempre in data 31 marzo, scriveva:

L’inflazione si rivela sempre più come una tassa per i poveri e i lavoratori. I prezzi hanno iniziato a salire in Spagna a cavallo dell’estate del 2021, trainati principalmente dal prezzo dell’energia, con il quale l’IPC medio annuo ha chiuso lo scorso anno al 3,1% […]. Ma quello che sembrava un aumento molto congiunturale i cui effetti sarebbero scomparsi in primavera, secondo i primi calcoli degli analisti, è diventato un vero incubo per il paniere della spesa, a causa degli effetti della guerra in Ucraina, che ha già completato un mese.
I dati sull’inflazione anticipata pubblicati dall’Istituto Nazionale di Statistica (INE) per il mese di marzo, sono arroccati ad un tasso su base annua del 9,8%, molto vicino al livello psicologico delle due cifre, dopo un aumento mensile del 3%, che colloca questa cifra tra le più alte da quella registrata nel maggio 1985. Ci sono voluti 36 anni per vedere questa mancanza di controllo dei prezzi in Spagna, anche se tutto indica che questa escalation non si fermerà qui, in quanto potrebbe persino raggiungere due cifre a breve e persino superarle.
[…] Dietro questa evoluzione continuano a pesare fattori geopolitici esterni come la durata della guerra in Ucraina e la tensione nei prezzi di prodotti strategici come il petrolio o il gas, che distorcono completamente i prezzi della componente energetica, che si manifesta in aumenti dei prezzi di elettricità, combustibili e per effetto indotto cibo e bevande analcoliche. […] Da qui la continuità dei messaggi del governatore della Banca di Spagna per raggiungere un patto di reddito che mitighi questa escalation.
Il tasso sottostante, che misura l’evoluzione dei prezzi, eliminando i prodotti alimentari freschi ed energetici, ha raggiunto un tasso su base annua del 3,4% a marzo, aumentando di quattro decimi in più rispetto a febbraio. Un fatto che lungi dall’essere rassicurante sull’evoluzione futura, anticipa le tensioni rialziste nell’indicatore generale per tutti i prossimi mesi.
Lo tsunami a cui sono sottoposti i prezzi di tutti i prodotti del carrello ha come effetto più diretto sui cittadini una netta e sempre più profonda perdita di potere d’acquisto. […] Questo calo del potere d’acquisto è particolarmente sentito nei redditi salariali e nei risparmi delle famiglie e delle imprese.
Quindi è relativamente facile fare un’approssimazione quantificabile del denaro che potrebbe supporre questo impatto dell’escalation inflazionistica in questi redditi e che potrebbe essere di circa 70.000 milioni di euro di riduzione del potere d’acquisto di salari e depositi. Come ci si arriva?
La prima cosa che bisogna specificare per fare questo calcolo è quanto i prezzi siano diventati più costosi e per questo, la cosa più giusta è prendere non solo i dati del mese – in questo caso marzo, 9,8% – ma determinare quanto i prezzi sono aumentati in media negli ultimi dodici mesi. Ciò produrrebbe un aumento misurato dell’IPC che tocca il 4,9% tra aprile 2021 e marzo 2022.
Una volta calcolata questa domanda, vengono presi i dati sul reddito salariale inclusi nei dati dei conti nazionali trimestrali, anch’essi preparati dall’INE, e mostrano che la massa salariale annuale del paese ammonta a circa 600.000 milioni di euro. Tenendo conto che l’aumento salariale medio concordato nei contratti collettivi alla fine dello scorso anno per 8,3 milioni di dipendenti – che salirà a circa 10 milioni nel corso di quest’anno a causa dei ritardi nella registrazione dei contratti – è stato dell’1,47% e che finora quest’anno questo aumento supera leggermente il 2%, si potrebbe dire che questi lavoratori secondo l’inflazione media degli ultimi dodici mesi (che sfiora il 5%) stanno perdendo tra i 3 e i 3,5 punti di potere d’acquisto. Ciò si traduce in una perdita di potere d’acquisto compresa tra 18.000 e 21.000 milioni di euro.
Inoltre, le prospettive salariali non sono molto migliori e, nel migliore dei casi, se i datori di lavoro e i sindacati raggiungessero l’accordo pluriennale di accordi di cui stanno parlando, la raccomandazione di un aumento salariale per quest’anno sarebbe di circa il 3 per cento, in modo che di fronte all’incertezza di come si evolveranno i prezzi, se la spirale inflazionistica continua, quel piccolo miglioramento dei salari potrebbe essere azzerato già nel corso di quest’anno. Pertanto, la suddetta perdita vicina a 20.000 milioni di reddito salariale a causa dell’impatto dell’inflazione sarebbe possibile anche nella fascia bassa di perdite.
Il conto successivo è ancora più semplice, la Spagna ha poco più di un trilione di euro di risparmi depositati in conti correnti. Questo denaro non è praticamente remunerato, quindi l’impatto vicino al 5% sarebbe completo, riducendo un importo approssimativo a 50.000 milioni di euro della capacità di acquisto dei risparmi degli spagnoli. Con la somma di entrambi gli importi, si ottiene il suddetto costo di 70.000 milioni di reddito e risparmio salariale.
[…] Jakob Suwalski e Giulia Branz, analisti di Scope Ratings, prevedono entro il 2022 che il tasso di inflazione supererà il 5% “anche in uno scenario di graduale convergenza verso l’obiettivo della BCE del 2% entro la fine dell’anno”. Se lo scenario è quello di una continuazione delle pressioni sui prezzi, il tasso annuo sarebbe in media dell’8%. Ritengono che un rialzo dei tassi da parte della BCE non affronterebbe direttamente gli effetti inflazionistici7.

Si è continuato citando giornali stranieri e titoli di diversi mesi or sono proprio per dimostrare come quanto recentemente affermato sul peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione dell’Europa e dell’Italietta, sempre falsa e buonista, non appartenga ad un immaginario distorto dovuto soltanto alla abilità russa nel produrre disinformatja, ma alla realtà di ciò che era ampiamente prevedibile fin dall’inizio del confronto militare, economico e politico con la Russia di Putin. Non un imprevedibile svolto di una situazione altrimenti normale, ma una conseguenza “certificata” per tempo delle scelte operate a livello politico ed economico dalla UE e dagli USA.
I quali ultimi, con il loro ruolo nel settore del controllo, produzione e vendita del petrolio e del gas, non potevano mancare in questo excursus a ritroso. Come affermava infatti il «Financial Times», giornale notoriamente filoputiniano, nei primi giorni di aprile di quest’anno:

Prima la crisi finanziaria, poi la pandemia globale e adesso la guerra in Europa spingono i governi a cambiamenti inediti, che prima sembravano impensabili. L’ultimo in ordine di tempo è costituito dalla decisione degli Stati Uniti di attingere a 180 milioni di barili di greggio dalle loro riserve petrolifere strategiche: il più grande ricorso alle scorte nazionali mai avvenuto nella storia. Tuttavia, la reazione del mercato suggerisce che anche una mossa di così ampia portata potrebbe non essere sufficiente a ridurre la spirale dei prezzi del carburante come era nelle intenzioni di Biden.
[…] Un problema della decisione di Washington è che rischia di apparire come disperata, e quindi ottenere il risultato opposto di quello desiderato. Questi sei mesi di utilizzo delle riserve nazionali lasceranno le scorte petrolifere di emergenza più grandi del mondo ai livelli più bassi dal 1984, per di più in una fase in cui l’offerta di greggio è in una situazione di grave instabilità.
Questo milione di barili in più al giorno non basterà a risolvere la crisi, comunque. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha segnalato che la produzione russa potrebbe diminuire di tre milioni di barili al giorno, a causa non solo dell’embargo statunitense sul greggio e delle altre sanzioni stabilite dai Paesi occidentali, ma anche di quella sorta di “auto-sanzione” applicata indirettamente dagli acquirenti cominciano a rifiutarsi di comprare i prodotti russi. C’è anche il rischio che il prolungamento della guerra spinga definitivamente l’Ue a limitare i suoi acquisti di petrolio russo.
Biden ha anche rivelato un piano per fare pressione sui produttori statunitensi e spingerli a pompare di più, imponendo tasse su quelli che non trivellano dove hanno licenze sulle terre federali. Affermare che le scorte torneranno a essere riempite quando i prezzi scenderanno a 80 dollari al barile è un tentativo di fissare un prezzo minimo a lungo termine per il greggio più alto di quello degli scambi futures attuali. Ma gli addetti ai lavori ritengono che gli azionisti potrebbero cercare prezzi ancora più alti prima di portare i nuovi flussi a regime. Ci sono poi dei vincoli oggettivi all’aumento della perforazione americana da considerare, non da ultimo la carenza di materiali, mezzi e uomini per comporre le squadre addette al fracking (la perforazione idraulica delle rocce).
Se gli Stati Uniti intendevano scalare posizioni per diventare il produttore di greggio più importante del mondo, in realtà il loro annuncio potrebbe avere l’effetto di rinforzare ancora di più il peso dell’Opec. Secondo le stime, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti insieme avrebbero una capacità inutilizzata di oltre 2 milioni di barili al giorno. Ma il cartello mediorientale si è mantenuto prudente rispetto alla guerra e non ha dato seguito alla richiesta di Biden di aumentare l’offerta.
[…] La Casa Bianca affronta anche un altro dilemma. Biden ha cominciato il suo mandato assumendosi l’impegno di portare avanti una politica vigorosa sul clima, ma rischia di perdere entrambe le camere del Congresso alle elezioni di mid-term di novembre. Il balzo del 50% dei prezzi della benzina in un anno fa arrabbiare soprattutto gli elettori repubblicani8.

Escluso il fallimento dei rapporti tra USA e Opec, messo in risalto anche dal rifiuto degli ultimi giorni da parte dei principali produttori di gas e petrolio di incrementare l’offerta per abbassarne i prezzi9, e sconfitta la speranza di coinvolgere Cina e India nelle sanzioni alla Russia10 non è difficile vedere che quanto previsto dal Ministro Cingolani per affrontare la prossima crisi nell’autunno-inverno 2022/2023, non è affatto lontano da quanto prospettato dalla BCE o desiderato dagli USA. Indipendentemente dall’uso che farà di tutto questo la propaganda russa.

D’altra parte, va ancora qui ricordato che una parte degli aumenti del costo del gas è da attribuire alle manovre speculative in atto sul mercato di Amsterdam, tanto da far pensare, alla Commissione europea di mettere il Ttf olandese sotto il controllo dell’Esma (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati)11, confermando così l’analisi marxiana del fatto che «l’unico limite del capitale è il capitale stesso». In questo caso inteso non come controllo sulla libera definizione dei prezzi in Borsa, ma per l’intralcio che gli interessi del capitale finanziario e della rendita finiscono col creare alla produzione industriale, peggiorandone le condizioni incrementandone i costi.

Infine, per non fare troppo torto alla stampa nazionale, val la pena di ricordare che già in data 18 marzo 2022, poco più di venti giorni dopo l’inizio delle operazioni militari in Ucraina e delle prime decisioni prese in ambito europeo e atlantico, il «Sole 24 ore» titolava in prima pagina: Ocse: la guerra costa all’Ue l’1,4% del Pil. Dal neon al grano, l’Italia più esposta.

Mentre ancora pochi giorni or sono, poteva denunciare i paesi della Nato che guadagnano con la crisi del gas, dalla Norvegia agli Usa12. Sottolineando come gli Stati Uniti esportino in Europa il triplo di Gazprom e come la Norvegia abbia scalzato la Russia come primo fornitore. Ma non solo, poiché anche la Cina starebbe facendo affari d’oro rivendendo all’Europa Gnl, mentre la Russia ha visto aumentare i profitti sul gas nonostante, e forse grazie, le sanzioni13.

La ciliegina sulla torta del disastro l’ha messa però Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, che nel corso di un’intervista concessa a Rai News24 il 7 settembre ha esordito affermando seccamente: «Noi ormai siamo sconfitti».
Giustificando tale affermazione col fatto che se non ci sarà una “rcessione” i prezzi del gas e del petrolio, e perciò dell’energia, continueranno a crescere. Anche l’incremento dell’utilizzo delle centrali a carbone, ha continuato lo stesso Tabarelli, non porterà a decisivi miglioramenti, poiché non solo la maggior parte del carbone utilizzato in Italia proviene comunque dalla Russia, ma anche perché pur utilizzando le stesse al massimo si passerebbe da un 6 al 13% dell’energia elettrica prodotta. Concludendo poi col dire che, questo inverno, se la Russia continuerà a tagliare o azzerare le forniture di gas, si dovranno fare sacrifici da tempi di guerra e che, se non ci saranno significative riduzioni dei consumi e i prezzi continueranno a salire, ci saranno inevitabilmente chiusure di stabilimenti industriali e licenziamenti.

Ma allora perché sforzarsi di spiegare ad ogni costo che le cose «andranno bene», come nei primi giorni della pandemia per gli Italiani e gli Europei e male per i Russi14? Forse in grazia di un accordo stilato da Draghi con uno stato, l’Algeria, che è in attesa di entrare a far parte dei Brics e che nei giorni scorsi ha affiancato Russia, Cina, India, Corea del Nord e altri partner ancora nelle manovre militari Vostock 2022 tenutesi nelle vicinanze del Mar del Giappone?

Non è che tutta questa propaganda militar- parlamentare sia destinata soltanto a tenere buona quella parte di opinione pubblica che prima o poi sarà portata ad esplodere imprevedibilmente per le conseguenze coincidenti di pandemia, guerra, crisi ambientale ed energetica? E’ così che i governi dei migliori o dei peggiori, fa lo stesso, pensano di poter affrontare la crisi sociale, politica ed economica che inevitabilmente verrà? Con bonus ridicoli, ristori indirizzati solo alle aziende, la promessa della riduzione di un solo grado delle temperatura domestiche e il ritardo nell’accensione dei riscaldamenti privati e pubblici? Senza mai parlare seriamente dell’inevitabile disoccupazione e miseria che conseguirà a tutto ciò? Oppure, come è successo in questi ultimi giorni a Torino con la società Iren, accontentandosi di staccare il teleriscaldamento a coloro e ai condomini che sono già in difficoltà con il pagamento delle bollette arretrate15?

Speriamo di sì, a patto che chi rifiuta il nefasto modo di produzione attuale rinunci a qualsiasi illusione parlamentaristica e voglia tornare all’organizzazione dal basso e alla lotta di strada. In modo da poter rivendicare, ancora una volta con forza, come negli anni ’70: le bollette e la crisi le paghino i padroni!


  1. Si veda: Natalie Tocci, Lo Zar, le sanzioni e gli “utili idioti”, «La Stampa» 6 settembre 2022  

  2. Nel XIII secolo Marco Polo narrava di cammellieri che esportavano un liquido nero e puzzolente, da Baku, nella zona del Mar Caspio, una regione al centro di contese belliche fin dai tempi di Alessandro Magno. Una sostanza densa, non raffinata, esportata in tutto il Mediterraneo e fino a Baghdad, per essere usata come mezzo di illuminazione e come balsamo o unguento. Sostanza che in quella localita’ era particolarmente abbondante, fino al punto di sgorgare naturalmente dal terreno, formando autentici laghi.  

  3. Si veda in proposito: Daniel Yergin, Il premio. L’epica storia della corsa al petrolio, Biblioteca Agip, Sperling & Kupfer Editori, 1996  

  4. Livello di allerta precoce dichiarato: queste industrie sarebbero le più colpite da un congelamento della fornitura di gas. Le imminenti strozzature di approvvigionamento di gas stanno allarmando l’economia. Per molte aziende, un arresto delle forniture dalla Russia minaccerebbe la loro esistenza, «Handelsblatt», 30 marzo 2022  

  5. INTERVISTA A FRANK APPEL: Il capo delle poste avverte dell’embargo sul gas: “Se ti indebolisci in modo massiccio, non vincerai”, «Handelsblatt», 31 marzo 2022  

  6. Daniel Eckert e Holger Zschäpitz, Inflazione senza fine? Siamo intrappolati nella trappola dei tassi di interesse chiave, «Die Welt» 30.03.2022  

  7. JESÚS GARCÍA – RAQUEL PASCUAL CORTÉS, L’inflazione inghiotte 70 miliardi di euro di salari e risparmi in 12 mesi, «Cinco Días», 31 marzo 2022  

  8. Citato in Financial Times: effetto Ucraina, gli Usa vogliono diventare il primo produttore di petrolio, «il Fatto Quotidiano» 4 aprile 2022  

  9. Matteo Meneghello, L’Opec+ taglia la produzione, «Il Sole 24 ore» 6 settembre 2022  

  10. Sissi Bellomo, Sfida dell’India sul gas: noi con Mosca, «Il Sole 24 ore» 6 settembre 2022  

  11. Gas, la Ue vuole mettere la piattaforma Ttf sotto l’ombrello dell’Esma, «Il Sole 24 ore» 7 settembre 2022  

  12. Sissi Bellomo, Gas, emergenza ma non per tutti. Eldorado per alcuni paesi della Nato, «Il Sole 24 ore» 2 settembre 2022  

  13. Riccardo Sorrentino, In sei mesi l’Ue ha versato 85 miliardi alla Russia, «Il Sole 24 ore» 7 settembre 2022  

  14. Si veda ancora Natalie Tocci, cit., «La Stampa» 6 settembre 2022  

  15. cfr. PIER FRANCESCO CARACCIOLO, L’incubo di un inverno al freddo: a Torino boom di morosità nelle bollette e LODOVICO POLETTO, Termosifoni chiusi per morosità, la rabbia di Mirafiori contro l’Iren: “Questi rincari sono un salasso”, entrambi su «La Stampa», 8 settembre 2022  

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Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money! https://www.carmillaonline.com/2022/05/18/il-nuovo-disordine-mondiale-15-follow-the-money/ Wed, 18 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72027 di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

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Il nuovo disordine mondiale / 10: il biglietto che è esploso https://www.carmillaonline.com/2022/03/30/il-nuovo-disordine-mondiale-10-il-biglietto-che-e-esploso/ Wed, 30 Mar 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71203 di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 ) “Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022) “E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere. Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo [...]]]> di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 )
“Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022)
“E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere.
Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo di calcolo eseguito per stabilirlo, potenza economica mondiale; dall’altro le considerazioni di un funzionario importante del governo dell’esistente che indica le più che probabili conseguenze della situazione venutasi a creare con la crisi pandemica, prima, e lo scoppio della guerra in Ucraina, poi.

Sintomo, al di là delle squallide diatribe politiche interne, non soltanto di un paese privo ormai di qualsiasi strategia governativa che non sia quella di approfittare delle occasioni, ma anche di un’Europa, mai stata realmente unita dal punto di vista politico ed economico, ormai entrata, nonostante le pompose e sussiegose dichiarazioni che ne accompagnano ogni riunione, più o meno straordinaria, dei propri maggiori rappresentanti e ministri, in una fase di vistoso declino del proprio peso politico su scala internazionale.

La stessa insignificanza dei suoi due maggiori rappresentanti, Ursula von der Leyen e Charles Michel, rende evidente come un’entità politica nata con aspirazioni planetarie (si pensi soltanto all’istituzione dell’euro come possibile sostituto del dollaro e poi ridotto a strumento di controllo della riduzione della spesa pubblica interna di ogni singola nazione), l’Unione Europea, stia sostanzialmente sfiorendo senza aver portato a termine nessuno degli obiettivi immaginati all’atto della sua fondazione.
In un percorso ormai sempre più evidentemente disastroso in cui gli incitamenti, nemmeno troppo mascherati, al far da sé e al si salvi chi può sembrano aver sostituito, finanche nella sostanza, i precedenti appelli all’unità di intenti e di propositi.

Se il capitalismo, come si è già ribadito in infiniti altri interventi, è il regno delle possibilità e delle opportunità da afferrare, in cui la prontezza di riflessi è più importante di qualsiasi tentativo di programmazione e in cui la forza e la capacità di appropriarsi, in qualsiasi frangente, di ciò che il caso o la necessità mettono a disposizione del predatore più rapido, risultano determinanti per il successo sia nelle iniziative economiche che politiche, la situazione creatasi dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina ha visto i maggiori paesi europei perdere terreno rispetto alle iniziative diplomatiche, militari ed economiche non soltanto degli Stati Uniti, ma anche di paesi come l’India, la Turchia, Israele e vari altri diversamente collocati sullo scacchiere mondiale1.

La riunione del Consiglio europeo tenutasi a Bruxelles, in occasione della visita del presidente Biden in Europa, ha messo perfettamente a fuoco la situazione di divisioni e differenti interessi che ormai segnano i percorsi e le politiche dei membri fondatori.
Così mentre l’obiettivo della difesa europea, di cui si vagheggia da anni, si scontra con le scarse risorse che le sarebbero messe a disposizione e un numero di soldati (5.000) francamente inappropriato alla bisogna, si nota con sempre maggior evidenza uno smarcamento della Germania dallo stesso progetto nel momento in cui il governo tedesco ha deciso una spesa di 100 miliardi di euro per favorire il riarmo nazionale.
Un riarmo che, come afferma il quotidiano «Handelsblatt» nel numero del 29 marzo 2022, richiederà:

Più munizioni, nuovi carri armati, aerei e navi da guerra – e ora anche uno scudo missilistico da miliardi di dollari: dopo il cancelliere federale Olaf Scholz (SPD), anche il leader della CDU Friedrich Merz ha segnalato l’approvazione per un possibile appalto del sistema israeliano “Arrow 3”, noto anche come “Iron Dome”.
Nel 2020, la grande coalizione aveva fermato lo sviluppo di una difesa missilistica tedesco-americana. Ma l’attacco russo all’Ucraina e la mancanza di prontezza operativa della Bundeswehr stanno ora cambiando le priorità. Gli acquisti devono essere effettuati in tutto il mondo dove i sistemi d’arma completamente sviluppati possono essere consegnati rapidamente.

Ciò si rende necessario, perché le capacità di molte aziende tedesche produttrici di armamenti sono già pienamente utilizzate, poiché, secondo la volontà espressa dalla Nato e dai paesi dell’UE, l’Ucraina dovrebbe essere rifornita di armi aggiuntive il più rapidamente possibile deviando le esportazioni di armi tedesche verso l’Ucraina per conto di paesi terzi.

Questo però non toglie dall’orizzonte la possibilità di un altro smarcamento che, nonostante le parole spese dal presidente di turno Macron, contraddistingue anche l’operato francese in ambito militare. E’ infatti impossibile credere che la Francia rinunci di punto in bianco ai sogni di autonoma grandeur che hanno sempre contraddistinto la sua politica militare e diplomatica. Confermata dalla condanna espressa da Macron nei confronti degli epiteti rivolti da Biden a Putin, durante il discorso tenuto a Varsavia, in vista della continuazione dei funambolismi diplomatico-umanitari francesi nel conflitto ucraino. Mentre il Regno Unito, oggi separato dall’UE a seguito della Brexit, continua allo stesso tempo il suo gioco diplomatico e militare nella regione baltica che, di sicuro, non può vedere di buon occhio il riarmo tedesco, soprattutto navale.

All’interno di tutti questi “giochi di guerra”, occorre ricordare che l’attivismo italiano, che ha spinto molti a considerare l’attuale capo del governo Draghi come un falco filo-americano, non fa altro che confermare lo spirito di vassallaggio che anima le politiche italiane fin dall’avvento della seconda repubblica, nata priva di quella relativa libertà di azione economica e diplomatica che aveva caratterizzato le politiche democristiane in ambito mediterraneo.
Un vassallaggio che tenta di approfittare dell’attuale situazione di necessità bellica per rilanciare su grande scala la produzione e l’esportazione di armamenti che, nel corso degli anni, ha visto scivolare l’Italia al settimo e al nono o decimo posto nella classifica mondiale dei produttori ed esportatori di armi.

Proposito oggi ancora virtuale se si considera che la cosiddetta “cittadella dell’industria degli armamenti” prevista a Torino, con tanto di uffici di rappresentanza Nato, è ancora ampiamente da realizzare, mentre nel settore aeronautico, così spesso pubblicizzato per quanto riguarda l’”eccellenza” italiana, per ora l’industria della difesa nazionale deve accontentarsi di funzionare come un’autentica “maquilladora” per il montaggio degli F-35 a Cameri. Aerei cui gli stessi Stati Uniti stanno iniziando a rinunciare in favore di altri armamenti più evoluti e sofisticati.

Propositi, però, che richiedono per ora il pieno sostegno alle iniziative statunitensi in Europa orientale e l’accoglimento di ogni richiesta di Zelensky, compresa magari anche quella di fornire truppe e impegno per garantire domani, sul territorio ucraino, l’integrità nazionale e l’autonomia difensiva del paese oggi investito dalla guerra. Davvero una gran brutta gatta da pelare, in prospettiva, qualsiasi siano i risultati del conflitto in corso.

Se sul fronte militare l’unità europea è una chimera, ancora di più lo è sul piano dei rifornimenti strategici di materie prime, in primo luogo di gas e petrolio, compresa la diatriba sul loro eventuale pagamento in rubli, come richiesto da Putin.
E’ proprio in questo settore, oggi delicatissimo vista la dipendenza europea dal gas e dal petrolio russo, che si è assistito infatti ad un’autentica corsa a far profitto da parte degli stati europei che hanno a disposizione tali risorse, come ad esempio la Norvegia che ha ignorato gli appelli di altri al fine di contenere i prezzi, oppure il differente approccio alla proposta americana, tutt’altro che disinteressata, di sostituire il gas russo con quello di produzione statunitense e di rinunciare al petrolio in arrivo dalla Russia per sostituirlo con altro la cui provenienza è ancora in gran parte da definire (considerato anche l’interesse di Arabia Saudita ed Emirati del Golfo a far affari con la Cina, magari in yuan).
Cosicché anche il tentativo maldestro di Giggino Di Maio di avvicinamento alle risorse del Qatar, si è risolto di fatto in un fallimento, diplomatico ed economico.

Sempre la Germania, evidentemente alla ricerca di una più libera e autonoma politica diplomatica ed economica, si è apertamente dichiarata contraria alla rinuncia totale e quasi immediata al petrolio russo e, al recente G4 convocato da Biden, addirittura favorevole a una riduzione progressiva delle sanzioni adottate nei confronti di Mosca (qui); mentre nel settore del gas si presenta ormai in diretta competizione con l’Italia proprio sul tema della caccia ai rigassificatori, o meglio nella corsa all’acquisto di quelle poche navi già disponibili ed attrezzate per convertire il gnl americano in gas utilizzabile in Europa. Cosa che, va ricordato, aumenterebbe mediamente del 30% il costo del gas rispetto a quello trasportato dalle linee provenienti dalla Russia.

E’ anche alla luce di questi elementi che andrebbe interpretata la svolta politico-diplomatica e militare sottesa alla visita e al discorso di “Sleepy Joe” Biden in Polonia. Discorso di un presidente anziano che riflette simbolicamente, nella sua persona, la stanchezza e le difficoltà di una grande potenza in declino che può ancora minacciare, ma non più affascinare o convincere. Svolta che si potrebbe definire storica se non fosse per l’attenzione che i media embedded hanno rivolto più agli insulti di Biden al presidente russo che non ai fatti che quel discorso e quella comparsata rappresentavano di fatto, ovvero il radicale riposizionamento militare americano nell’Europa dell’Est.

Gli osservatori più attenti da tempo segnalavano che l’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa Orientale un tempo appartenenti al Patto di Varsavia e il loro progressivo inserimento dell’Unione Europea rappresentavano per la politica di Washington non soltanto la costruzione di un muro ostile nei confronti di qualsiasi manovra russa verso occidente, ma anche, e forse soprattutto, un modo per imbrogliare le carte dei giochi di un’Unione più strettamente federata, sotto l’egida tedesca e forse anche francese, per impedirle di assurgere a ruolo di potenza autonoma sul piano internazionale.

Già nel settembre del 2015, chi scrive aveva affermato, proprio su «Carmilla», a proposito delle diatribe sull’accoglienza e sulle quote dei migranti da distribuire tra i differenti paesi europei:

quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.
La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.
Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.
[…] l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione (qui ).

Così, mentre nuove folle di migranti e profughi si accalcano alle frontiere d’Europa e gli amministratori dell’esistente si appellano, come Mario Draghi, al buon cuore dei propri cittadini per far dimenticare loro che in un prossimo futuro si potrebbero trovare in una situazione simile o peggiore, spostando l’attenzione mediatica da ciò che è essenziale a ciò che più facilmente colpisce le coscienze individuali, tutto quello che all’epoca si poteva già intuire, oggi si è trasformato in tragica realtà quotidiana.

Biden, a Varsavia, ha promosso, con parole comunque sempre calibrate sull’obiettivo, la Polonia a “nuova frontiera” della Nato e delle attenzioni americane per un’Europa non più a sola conduzione germanica; scegliendo di fatto un paese in cui l’orgoglio nazionale e nazionalista ha sempre determinato sia l’inimicizia con la Russia che una scarsa simpatia nei confronti della Germania. Nazioni viste entrambe come nemiche o, perlomeno, avverse per i propri interessi territoriali. Paese, la Polonia, che però non ha mai rinunciato a mire espansionistiche verso est, sia in nome dei territori da cui è stata separata dopo la prima e la seconda guerra mondiale, compensati con territori un tempo appartenenti alla Germania, che di altre ben più antiche aspirazioni, risalenti fino al periodo a cavallo tra tardo medioevo e prima età moderna, di cui è rimasta traccia anche nella cultura letteraria russa attraverso le pagine del Taras Bulba di Nikolaj Gogol’, ambientato per l’appunto nel XVI secolo.

Rispolverando, in sostanza, il progetto politico Intermarium, esposto fin dagli anni Venti dal polacco generale (e dittatore) Józef Piłsudski, «volto a creare un blocco di paesi che andava dal Mar Baltico al Mar Nero, nel tentativo di contenimento delle due forze imperialiste: tedesca a occidente e russa ad oriente»2. Strada già perseguita da Donald Trump che, nel luglio del 2017, partecipò al Vertice Trimarium di Varsavia.

Con il consenso degli apparati strategici statunitensi, dove alcuni immaginano di chiudere il cerchio del Mar Nero, includendo nel blocco deputato ad allargare la distanza fra Mosca e Berlino persino ciò che resta della Moldova, Ucraina e Georgia, così conferendo al Trimarium un retrosapore antiturco. […] Nei laboratori dell’intelligence statunitense circola il possente volume dello storico polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz sull’Intermarium. Per l’autore, concezione di origini medievali, quando lo spazio dei Tre Mari3 «era solido difensore della civiltà occidentale» contro i mongoli. Oggi «culturalmente e ideologicamente più che compatibile con gli interessi nazionali americani». Non basta: Chodakiewicz designa la «cultura politica americana erede della libertà e dei diritti derivati dalla tradizione del Commonwealth Polacco-Lituano-Ruteno». E invita gli Stati Uniti a usare l’Intermarium/Trimarium da “trampolino” per trattare” tutti i paesi ex-sovietici, «Federazione Russa inclusa». L’«impero» polacco come devastante braccio regionale della potenza a stelle e strisce?4

Polonia, che potrebbe diventare sede di una prossima e potente base Nato, che a sua volta potrebbe esplicitare la posizione e la vicinanza delle forze armate statunitensi nei confronti sia dell’orso russo che di un’eventuale riottosità germanica (economica, diplomatica, militare e quindi geopolitica) futura. Raccogliendo attorno a sé tutte quelle aree in cui la Germania primeggia ancora
come primo partner commerciale5 e rafforzando la posizione polacca all’interno del Gruppo di Visegrád e nei confronti dell’Ungheria, fino ad ora contraria alle sanzioni verso la Russia e che ha fino ad ora impedito sul suo territorio il passaggio di armi occidentali destinate agli ucraini.

A questa scelta americana di sviluppare una maggiore influenza politica e presenza militare nei paesi dell’est europeo, a partire dalla Polonia letteralmente incoronata come genuina paladina dei diritti e delle libertà occidentali in quella stessa area, va affiancata la decisione della presidenza statunitense di incrementare ulteriormente la spesa militare per l’anno a venire, portandola alla cifra complessiva di 813,3 miliardi di dollari. Tale previsione di spesa, se promulgata, potrebbe essere la più grande di sempre nell’ambito della “difesa”.
Con una manovra che è stata definita, sia in patria che in Europa, come un’autentica manovra economica di guerra. «E’ un budget di guerra in tempi di pace – almeno sul suolo statunitense – quello che la Casa Bianca ha proposto ieri inviando numeri e tabelle, progetti e richieste al Congresso. La cifra totale del bilancio americano per l’anno fiscale 2023 è di 5800 miliardi di dollari. Ed è la voce sicurezza nazionale a prendersi la fetta più consistente dei fondi. Per la macchina della difesa Usa, la Casa Bianca chiede 813,3 miliardi di dollari, un incremento del 4% rispetto allo scorso anno: di questi 773 sono destinati al Pentagono»6.

Ma, com’è facile immaginare, non è soltanto la necessità di rispondere “energicamente” all’azione di Putin in Ucraina a giustificare l’aumentata richiesta di fondi.

La finanziaria, come ha detto Kathleen Hicks, numero due del Pentagono, «tiene a mente l’Ucraina», ma non si ferma nel cuore dell’Europa. Ha riassunto con efficacia la visione Usa, il capo della divisione finanziaria del Pentagono, Michael J. McCord: «La minaccia russa è molto acuta, ma la priorità è contrastare le ambizioni della Cina nel Pacifico».
Biden ha proposto «uno dei più grandi investimenti nella storia, con fondi necessari per garantire che l’esercito Usa resti il meglio preparato, addestrato ed equipaggiato al mondo». Non si tratta solo di conservare, ma di innovare: infatti una fetta record dei soldi – 131 miliardi- andrà alla ricerca e sviluppo per nuove armi. Al Pentagono sono rimasti impressionati dai passi in avanti che russi e cinesi hanno fatto sui missili ipersonici, mentre i test Usa recenti in tale settore non sono stati un successo.
[…] La lista delle priorità disegna il futuro delle forze armate Usa: detto dei maggiori investimenti in armi sofisticate e della rinuncia a 24 F-35, Washington ha individuato nella costruzione di nuove fregate e navi, nel sistema missilistico e nelle armi spaziali i mezzi per monitorare e intimidire la Cina. […] Washington allarga il campo di azione del futuro, ma già oggi resta impegnata su più fronti. Il contenimento russo ha nella missione iniziata in marzo 8000 uomini in Alaska uno dei capisaldi Usa, mentre sono iniziate le esercitazioni con l’esercito filippino nell’Estremo oriente: ci sono 9mila uomini, truppe anfibie, aviazione e mezzi navali. Avvertimento questo alle ambizioni cinesi su Taiwan7.

Se si osserva che per finanziare tale budget il presidente Biden si è dichiarato favorevole ad un aumento delle tasse sui patrimoni dei più ricchi (fino al 20% per quelli superiori ai 100 milioni di dollari) e, allo stesso tempo, ad una riduzione delle richieste a favore della spesa sociale8, si capirà che ci si trova davvero davanti ad un’autentica manovra “da guerra”.
Nel riportare tutto ciò, non vi è alcun narcisismo geopolitico o economicistico, quanto piuttosto la necessità, come già sottolineato altre volte, di segnalare l’imminenza di una guerra allargata cui il principale imperialismo si va preparando da tempo, soprattutto dopo il ritiro tutt’altro che elegante e vittorioso dallo scenario afghano.

Chi, oggi, si accontentasse ancora dei risultati che potrebbero essere conseguiti dalle trattative in corso tra russi e ucraini, oppure della fin troppo sbandierata data del 9 maggio per vedere un segnale di ritorno alla normalità e di scampato pericolo, commetterebbe un grave errore. Abbassando ancora una volta la guardia nei confronti degli avversari, che sono tanti ad Est come a Ovest.
La rapacità capitalistica e imperiale di cui le maggiori forze in campo sono espressione non darà più tregua, procedendo di vittoria in vittoria o di sconfitta in sconfitta verso la catastrofe finale destinata a ristabilire il vecchio ordine occidentale oppure uno nuovo9 su scala planetaria, ma che difficilmente potrebbe prevedere ancora l’attuale multipolarismo, dovuto più al processo di invecchiamento dell’ordine americano che ad una scelta ben precisa e ponderata.

Ad anticipare i disastri che verranno, soprattutto per i lavoratori e la gente comune di tutto il mondo, ci hanno pensato non soltanto le dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia posta in esergo a questo intervento, ma anche il «Financial Times» del 29 marzo, con un editoriale intitolato I britannici affrontano uno “shock storico” per i loro redditi, avverte il governatore della BoE, in cui il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, afferma che l’invasione russa dell’Ucraina esacerberà la crisi del costo della vita nel Regno Unito.

Bailey ha detto che i britannici stanno affrontando uno “shock molto grande per aggregare entrate e spese reali” dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni importati. E, a un evento organizzato dal think-tank Bruegel, a Bruxelles, ha ancor affermato: “Questo è davvero uno shock storico per i redditi reali”. Bailey ha detto che l’invasione russa dell’Ucraina ha esacerbato lo shock dell’approvvigionamento energetico, aggiungendo: “Lo shock dei prezzi dell’energia quest’anno sarà più grande di qualsiasi singolo anno dal 1970. L’avvertenza è che gli anni 1970 hanno avuto una successione di anni difficili e speriamo vivamente che non sia il caso ora. Ma come singolo anno, questo è uno shock molto, molto grande”. L’inflazione del Regno Unito è salita vertiginosamente durante gli anni 1970 dopo che i membri arabi dell’Opec, il cartello dei produttori di petrolio, hanno imposto un embargo sul greggio ai paesi che avevano sostenuto Israele nella guerra dello Yom Kippur. Bailey ha detto che il Regno Unito e l’eurozona stanno affrontando uno shock energetico simile, perché entrambi si affidano allo stesso mercato del gas, aggiungendo che è diverso per gli Stati Uniti a causa della loro maggiore offerta interna. […] La scorsa settimana, l’Office for Budget Responsibility, il cane da guardia fiscale della Gran Bretagna, ha previsto che il reddito reale delle famiglie britanniche quest’anno si contrarrà nel modo più grave da quando sono iniziate le registrazioni nel 1950. Bailey ha dichiarato: “Ci aspettiamo che causi la crescita e il rallentamento della domanda. Stiamo iniziando a vederne la prova sia nei sondaggi tra i consumatori che in quelli aziendali”.
[…] Nel frattempo il cancelliere Rishi Sunak ha detto al comitato ristretto del Tesoro della Camera dei Comuni di essere determinato a frenare l’indebitamento e la spesa pubblica, temendo che una politica fiscale più accomodante potesse alimentare ulteriormente l’inflazione. Sunak ha detto che un aumento di un punto percentuale dell’inflazione e dei tassi di interesse potrebbe “spazzare via” il margine di manovra che aveva incorporato nei suoi piani fiscali e di spesa in vista delle prossime elezioni10.

Facendo così pensare che i 100 milioni di nuovi poveri di cui ha parlato Visco, potrebbero essere non soltanto nei paesi “già” poveri ma anche, e forse soprattutto, qui, nel cuore dell’impero, fortemente provato dalla pandemia e dai suoi effetti economici, dove il biglietto che molti avevano creduto di acquistare per un viaggio in prima, o al massimo in seconda classe, è letteralmente esploso tra le mani degli acquirenti. Annullandolo insieme ai privilegi che si pensavano “acquisiti” e alla stessa destinazione immaginata. Trasformando la prevista trasferta verso una qualsiasi Disneyland dell’immaginario occidentale in un’autentica discesa negli inferi novecenteschi, tra i demoni che li abitano e che non sono mai del tutto scomparsi.

Mentre soltanto noi, se saremo conseguenti una volta acquisita la coscienza del fatto che ogni guerra ha anche sempre un suo fronte interno, che non segue linee verticali di divisione tra le nazioni ma soltanto orizzontali tra le classi, potremmo decidere come dirottare questo treno degli orrori verso una nuova e imprevista destinazione.

(10 – continua)


  1. Su questi ultimi si veda qui  

  2. Si veda in proposito: Le teorie geopolitiche di Pilsudsky per l’Europa centro-orientale: prometeismo e Intermarium, in Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci editore, Roma 2021, pp. 210-217  

  3. Mediterraneo, Baltico e Mar Nero  

  4. Meglio un muro che la guerra, in Trimarium tra Russia e Germania, «Limes» n° 12/2017, p.23  

  5. Nell’ordine, la Germania rappresenta il 29,6% del commercio totale della Slovacchia; il 29,4% di quello della Repubblica Ceca; il 27,5% di quello polacco; il 27% dell’Ungheria; circa il 18% di quello sloveno e ancora il primo partner per la Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Bulgaria  

  6. Alberto Simoni, Biden, manovra di guerra. “Per la difesa 813 miliardi”, «La Stampa», 29 marzo 2022  

  7. A. Simoni, cit.  

  8. Biden’s Budget Calls for Increase in Defense Spending, «Wall Street Journal», March 29, 2022  

  9. Come il recente incontro tra i rappresentanti di India e Cina, proprio nei giorni in cui Biden era in Europa, potrebbe far pensare, visti i gravi screzi che hanno caratterizzato da anni i rapporti tra le due potenze asiatiche  

  10. Valentina Romei-George Parker, Britons face ‘historic shock’ to their incomes, BoE governor warns, «Financial Times», 29 marzo 2022  

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Il nuovo disordine mondiale / 8: mai più per un pugno di conchiglie https://www.carmillaonline.com/2022/03/22/il-nuovo-disordine-mondiale-8-mai-piu-per-un-pugno-di-conchiglie/ Tue, 22 Mar 2022 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71094 di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu [...]]]> di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu un commercio tra eguali, basato su diverse valute. Soprattutto conchiglie importate dalle Maldive e dal Brasile.
Nel corso del tempo, le relazioni tra Africa ed Europa si incentrarono sempre di più sul commercio degli schiavi, danneggiando il relativo potere politico ed economico dell’Africa, mentre i valori di scambio monetario si spostarono drasticamente a vantaggio dell’Europa.

Questo, almeno, è quanto raccontato e analizzato da Toby Green, Senior Lecturer di Storia e cultura lusofona africana presso il King’s College di Londra, in un testo molto importante e sicuramente destinato a diventare di riferimento per quanto riguarda la storiografia sul colonialismo1.

Se l’imposizione di un sistema monetario basato sul denaro, come feticcio e valore equivalente per gli scambi commerciali, si rivelò decisivo per lo sviluppo degli scambi avviati dalla prima grande globalizzazione coloniale e capitalistica, oggi l’assoluta e trionfale diffusione del sistema su cui si fondò l’accumulazione primitiva e l’instaurazione di un autentico regime di rapina, basato sullo scambio ineguale, causa, sia al cuore che alla periferia dell’impero occidentale, sconvolgimenti pari soltanto a quelli che la rapida diffusione della rete e dei social ha causato al sistema di informazione e disinformazione mediatica, politica e militare operativo tra gli Stati e tra i governi di questi e i loro cittadini2.

Apparentemente, fino ad ora, la narrazione dell’attuale conflitto russo-ucraino sembra essere stata relegata ad una guerra tra due nazioni, in cui una è formalmente aggredita mentre l’altra riveste i panni dell’aggressore, oppure ad una guerra tra Russia e Nato con l’Unione Europea come addentellato. In realtà, se osservata con maggior distacco e su un piano storico più ampio, questa guerra, soltanto per ora non ancora trasformatasi in mondiale, porta alla luce contraddizioni e criticità che per lungo tempo, sicuramente in Occidente, sono state nascoste sia dai governi che dalla comunicazione mainstream.
Non solo, però, ma anche da una concezione, ancora figlia del colonialismo e dell’idea, ereditata spesso anche da certo socialismo e anarchismo di ispirazione tardo ottocentesca, del cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” ovvero della necessità per la “razza bianca” di farsi carico dell’educazione politica e morale, oltre che economica, dei popoli “altri”.

Da qui lo sfoggio in gran spolvero, in ogni occasione e soprattutto in tempi di giustificazionismo di guerra, delle idee di democrazia, libertà civili e individuali e diritti formali che hanno finito spesso col coinvolgere nelle diatribe interimperialistiche, militari ed economiche, anche porzioni di classi e partiti che, invece, avrebbero avuto interesse a tenersi ben lontane da tali questioni. Non per indifferenza, ma proprio per presa coscienza della truffa, esercitata soltanto in nome degli interessi proprietari e finanziari, contenuta in tali immorali chiamate alle armi (ideologiche prima e militari successivamente) di coloro che dai conflitti militari ed economici del capitale hanno sempre e soltanto da perdere, spesso la vita ma mai le “storiche” catene.

Ora, di fronte al baratro della natalità occidentale, in vista di un 2050 in cui le stime demografiche prevedono che su circa dieci miliardi di abitanti del pianeta soltanto un miliardo o poco più sarà dislocato in Europa e Nord America, è evidente che, in maniera prima impercettibile poi sempre più evidente, la lotta per le risorse e le ricchezze del pianeta ha cominciato a vedere protagoniste nazioni che, fino a qualche decennio or sono, l’idea colonialista del mondo ereditata dall’Occidente insieme alle sue fortune dai secoli precedenti contribuiva a definire come sottosviluppate, in via di sviluppo oppure appartenenti al Terzo Mondo (quando il secondo era rappresentato dal cosiddetto socialismo reale di stampo sovietico).

Alcune di queste nazioni (come India, Pakistan, Indonesia, Egitto, Nigeria, Etiopia, Congo e Tanzania) non soltanto appartengono al gruppo di quelle destinate ad avere il maggior incremento demografico nel prossimo futuro, ma sono anche tra quelle che alla votazione avvenuta recentemente alle Nazioni Unite si sono astenute dal condannare la Russia e dall’approvare le sanzioni internazionali nei confronti del suo regime e della sua economia. Tra queste appunto, oltre alla Cina, troviamo infatti l’India, il Pakistan, il Congo, la Tanzania e altre trenta variamente dislocate tra Asia, Africa e America Latina3.

Quella astensione, occorre ribadirlo con forza, non ha segnato certamente un appoggio più o meno mascherato all’autocrate del Cremlino, erede a sua volta della tradizione di un impero sovranazionale, sia in epoca zarista che in epoca staliniana e post-staliniana, ma piuttosto una sorta di rivendicazione di indipendenza di diverse nazioni, certo non tutte di pari grado e importanza o estensione spaziale e demografica, dall’ormai insopportabile e antistorica pretesa dell’Occidente di essere punto focale e riferimento per il mondo intero.

Sono stati e nazioni spesso di diverso credo religioso, in alcuni casi divise da rivalità economiche, militari e talvolta etniche, quasi sempre governate da partiti e personaggi tutt’altro che progressisti, ma accomunate sempre dall’essere state in precedenza colonie degli imperi occidentali e dal far parte di un’umanità colorata e non bianca.
Intravedere in tutto questo una prosecuzione della lotta anti-coloniale sarebbe certamente illusorio e fuorviante, ma occorre coglier in tutto ciò un aspetto importante di quel “nuovo disordine mondiale” di cui si va parlando, anche in questa serie di articoli, da diverso tempo a questa parte.

In prospettiva, una separazione di interessi anche dal dollaro e dal suo sistema, che, sicuramente, le drastiche sanzioni prese dall’Occidente nei confronti della Russia, in primo luogo l’esclusione dal circuito Swift per i pagamenti interbancari e le transazioni finanziarie internazionali, hanno contribuito indirettamente a incoraggiare.
Da questo punto di vista si può iniziare a cogliere proprio ciò che si diceva in apertura, ovvero che quello che era diventato strumento di dominio ed accentramento economico alle origini del capitalismo (la moneta europea nelle sue varie forme nazionali, auree e cartacee), rafforzatosi poi, dopo Bretton Woods4, con la “folgorante” carriera del dollaro come strumento monetario internazionale per gli scambi commerciali e le transazioni finanziarie su scala planetaria, inizia a rivoltarsi proprio contro coloro che per secoli oppure decenni ne hanno mantenuto il controllo. Dando vita a guerre, non solo “monetarie”, di cui anche la creazione dell’euro è stato un effetto, che sempre più si orientano alla sostituzione della moneta americana con altre, bitcoin compresi.

Come era già stato proposto al decimo summit dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) tenutosi a Johannesburg, in Sud Africa nel 2018. In tale contesto, nella più totale indifferenza europea, un atteggiamento miope che ha rivelato tutta l’impotenza politica dell’Unione europea di fronte ai grandi cambiamenti geopolitici che stanno determinando la storia, i cinque paesi, soprattutto Russia e Cina, avevano confermato politiche di diversificazione delle loro riserve monetarie e di progressiva dedollarizzazione delle economie.

In Russia, per esempio, nell’ultimo decennio la quota dell’oro è decuplicata, mentre gli investimenti nei titoli di debito del Tesoro USA sono calati al minimo. Se nel 2010 Mosca deteneva obbligazioni americane per 176 miliardi di dollari, nel 2018 ne deteneva 15 miliardi. La Russia è poi fra i primi cinque paesi per riserve auree. Secondo alcune stime, all’epoca del summit deteneva circa 2.000 tonnellate di oro, pari al 18% di tutte le riserve auree nel mondo. Simili processi erano in corso anche in Cina, che negli anni precedenti il 2018 aveva acquistato 800 tonnellate d’oro, e, anche se in modo più attento, aveva diminuito gli investimenti in titoli di debito americano, scesi dal picco di 1,6 trilioni di dollari del 2014 ai circa 1,2 trilioni5.
Mentre l’Europa, nel frattempo, ha preferito trascurare i Brics intesi come gruppo, sottovalutando che esso, nel frattempo, rappresentava all’epoca il 23% del pil mondiale e il 18% dell’intero commercio globale, limitandosi a rapporti bilaterali.

Se tale processo andrà avanti, sarà certamente lungo e richiederà scelte dolorose soprattutto per le classi lavoratrici di quegli stessi paesi, se non sanguinose sul piano politico-militare, mentre la centralizzazione finanziaria e monetaria a livello mondiale non è certo per ora ancora in discussione. Però iniziano ad essere messe in discussione l’autorità della moneta e delle istituzioni che la hanno fino ad ora rappresentata. Certo è che non saranno più le conchiglie di ciprea o nzimbu, di cui si parlava in apertura, a soddisfare le intenzioni e le mire dei rappresentanti di tutte quelle economie che definire emergenti costituirebbe ormai soltanto un pallidissimo eufemismo.

Intanto si possono citare alcuni episodi “esemplari”. Iniziando dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che in un Tweet avrebbe definito boomers (vecchi coglioni o qualcosa del genere) i rappresentanti del Senato americano che rimproveravano minacciosamente il suo governo nello stesso momento in cui relativizzava il dollaro (scelto nel 2001 come «moneta nazionale» da predecessori) instaurando il bitcoin come seconda «moneta nazionale» nel giugno 2021.
«Ok boomers», ha twittato Bukele. «Non siamo la vostra colonia, il vostro cortile o il vostro zerbino. Non immischiatevi nei nostri affari interni. Non cercare di controllare qualcosa che non puoi controllare». Ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno «zero giurisdizione» in El Salvador, una nazione sovrana e indipendente».

Bene, non siamo certamente davanti ad uno delle economie più importanti del pianeta e nemmeno davanti ad un governo rivoluzionario, anzi, ma cogliamo la connessione con gli altri Stati latino-americani astenutisi nel voto alle Nazioni Unite, esattamente come El Salvador (Bolivia, Nicaragua e Cuba e Venezuela che, semplicemente, non ha nemmeno votato), senza dimenticare, però, nemmeno quei vertici militari brasiliani che scoraggiarono Trump, più delle mobilitazioni pro-Maduro in Venezuela, dal posare gli stivali militari americani sul terreno sudamericano per risolvere il fallito tentativo di rovesciamento del regime venezuelano messo in atto da Juan Gaidò.
Movimenti e soggetti nazionalisti? Certamente. Rivoluzionari? Per niente. Ma che, rappresentano un autentico pain in the ass per l’amministrazione degli Stati Uniti proprio nel continente che pensava di avere assoggettato una volta per tutte.

Di maggior peso, invece, appare sul piano internazionale l’atteggiamento del primo ministro pakistano Imran Khan che, dopo che i capi di 22 missioni diplomatiche, comprese quelle degli stati membri dell’Unione Europea, avevano rilasciato una lettera congiunta il 1° marzo, sollecitando il Pakistan a sostenere la risoluzione nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che condannava l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, ha affermato, durante un raduno politico: «Cosa pensate di noi? Che siamo i vostri schiavi… che qualsiasi cosa voi diciate, noi la faremo?»
Opportunismo tattico? Molto. Spirito di rivalsa di una nazione islamica sempre ambigua nel comportamento nei confronti dell’Afghanistan e dei talebani? Probabile. Retorica nazionalista adatta a nascondere i veri propositi e obblighi di un governo comunque considerato filo-occidentale? Ancor più probabile.

Dall’Africa non sono giunte voci altrettanto “chiare”, ma l’elenco di nazioni astenute è davvero impressionante, a partire dal Sud Africa e continuando, oltre alle due citate prima, con Algeria, Angola, Burundi, Repubblica Centro Africana, Madagascar, Mali, Mozambico, Namibia, Sudan, Sudan del Sud, Uganda e Zimbabwe. Mentre Etiopia, Marocco, Guinea, Togo, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale e Burkina Faso non hanno nemmeno votato.

E’ evidente non soltanto che la presenza militare russa e quella economica cinese esercitano ormai una forte influenza sulle politiche interne ed estere di quei governi, ma anche che un certo spirito di rivalsa anti-occidentale, condiviso da ampi settori dell’opinione pubblica locale e utile a sedarne in anticipo le eventuali proteste per condizioni di vita dovute alle politiche economiche messe in atto da quegli stessi governi, agita gran parte dei paesi ex-coloniali.

Occorre qui ripeterlo: non si tratta più di lotte di liberazione nazionale, com’era avvenuto fino alla metà degli anni Settanta o, ancora, con il passaggio di poteri in Sud Africa nei primi anni Novanta, ma piuttosto di una sorta di rivendicazione della possibilità di partecipare, con voce in capitolo, al gran banchetto della spartizione delle ricchezze mondiali che, a quanto pare, l’Occidente e il suo imperialismo sembrano ben determinati a trattenere tra le proprie mani o, per meglio esprimere il concetto, grinfie.

La favoletta della globalizzazione che avrebbe reso tutti più ricchi e moderni con relativa equità è fallita da tempo6, ma la diffusione dei sistemi produttivi ad essa associati ha portato a risultati imprevisti. Come la scalata cinese al predominio nella produzione industriale e lo sviluppo dell’economia indiana e l’importanza di entrambe le nazioni nella formazione di ingegneri e tecnici dalle conoscenze e abilità che spesso superano quelle occidentali in diversi settori avanzati. Mentre l’espansione del capitalismo cinese in Africa, come si è già detto, ha poi contribuito al resto.

Nulla che spinga in direzione di quel superamento del modo di produzione attuale cui sarebbe giusto aspirare ormai in ogni parte del mondo, ma sicuramente tutti elementi di contraddizioni ormai insanabili, che rivelano l’intima essenza di quel disordine mondiale di cui abbiamo parlato così spesso. Di cui l’esplosione della guerra in Ucraina potrebbe costituire nient’altro che l’aperitivo per le portate principali che devono ancora essere messe in tavola.

Impressione rafforzata poi da altri fatti, spesso inerenti paesi legati tradizionalmente all’Occidente e che hanno votato a favore della condanna di Mosca. Come la Turchia che, da anni, sta conducendo un gioco diplomatico e militare a sé, sia nel Medio Oriente che in Asia Centrale e in Libia, talvolta convergente e talvolta divergente da quello condotto dalla Russia. Motivo per cui l’impegno di Erdogan nelle attuali trattative avrà sicuramente un prezzo anche per l’Occidente.

Oppure l’Arabia Saudita e alcuni paesi del Golfo che non hanno accettato la proposta di Biden di regolamentare il prezzo del petrolio aumentandone il flusso verso Ovest, ma rivendicato piuttosto il diritto di trattare prezzo e quantità dello stesso con la Cina. Così, sempre per l’area del Golfo, va segnalato che, se dall’inizio della guerra in Siria, 11 anni fa, il presidente siriano Bashar al-Assad ha viaggiato pochissimo al di fuori del Paese, e solo per recarsi in Russia e in Iran, il 18 marzo scorso si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti, facendosi fotografare nel sontuoso palazzo dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati e sovrano di Dubai. Cosa che ha scandalizzato non poco il governo degli Stati Uniti.

Infine, occorrerebbe osservare ancora i comportamenti dell’India, che acquista il 70% dei suoi armamenti dalla Russia e che si è già dichiarata pronta ad acquistare gas e petrolio russo in quantità. Certamente in relazione alla sua rivalità economica e militare con la Cina, ma con un gioco diplomatico e finanziario che riduce, al momento, il ruolo dell’Occidente per quanto riguarda i suoi interessi i immediati.

Sarebbero ancora molto numerosi i casi e le contraddizioni che si potrebbero citare e soltanto i rappresentanti del capitalismo occidentale e i suoi media ed intellettuali asserviti sembrano non essersene accorti, continuando a raccontare storie che, come la strage al Teatro di Mariupol, poi smentita dagli stessi che l’avevano gonfiata ad uso propagandistico come autentica “carneficina”, rinverdendo i fasti della campagna di disinformazione europea ai tempi della caduta di Nicolae Ceaușescu nel 1989, non costituiscono altro che continue fake news di cui, forse, stanno addirittura perdendo il controllo. Con rischio ulteriore di far precipitare il conflitto attuale, ancora locale, in uno su scala mondiale. In cui le classi meno abbienti avrebbero soltanto da perdere, in ogni angolo del pianeta.

Come c’è da attendersi, in fin dei conti, da un ambiente politico-culturale in cui l’imbecillità trionfante spacciata per informazione fa sì che personaggi del calibro di David Parenzo possano zittire in malo modo un esperto di questioni internazionali come Alessandro Orsini, se soltanto quest’ultimo osa criticare l’operato della Nato e degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan; oppure in cui i discorsi di Zelensky vengono scritti dallo stesso sceneggiatore della serie televisiva che lo lanciò verso l’attuale presidenza. Tra gli applausi dei media e dei politici europei e nord americani.

(8 – continua)


  1. Toby Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi, Torino 2021  

  2. Su quest’ultimo tema si veda su Carmilla il contributo di Gioacchino Toni contenuto in Il nuovo disordine mondiale / 7: il trionfo della disinformazione digitale di massa, 20/03/2022  

  3. Sullo stesso tema si confronti: Dario Fabbri, Una guerra per procura nel mondo che cambia, “Scenari”, 18 marzo 2022, pp. 2-3  

  4. Accordi di Deliberazione della Conferenza monetaria e finanziaria che si tenne dal 1° al 24 luglio 1944 presso la città di Bretton Woods, in New Hampshire (USA), con la partecipazione dei delegati di tutti i paesi alleati contro il Patto tripartito, compresa l’URSS. Entrati in vigore il 27 dic. 1945, oltre a prevedere la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, gli accordi istituirono il nuovo sistema monetario internazionale, basato sul principio di stabilità costituito dai cambi fissi tra le monete e dal ruolo centrale del dollaro. Tra i paesi firmatari, tra gli attuali appartenenti ai Brics attuali, risultava soltanto la Russia, all’epoca URSS.  

  5. Fonte: www.tendenzamercati.net  

  6. Se n’è parlato qui  

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Le tre sepolture di Giulio Regeni https://www.carmillaonline.com/2016/03/01/le-tre-sepolture-di-giulio-regeni/ Mon, 29 Feb 2016 23:01:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28772 di Sandro Moiso

sepoltura 1 Se, pur nel dramma rappresentato dalla sua morte, Giulio Regeni avesse avuto come unica sepoltura quella avvenuta a Fiumicello sarebbe stato, per così dire, fortunato. Accompagnato dall’affetto dei suoi cari e dei numerosi amici o anche soltanto di coloro che hanno avuto modo di conoscerlo di persona o di apprezzare il suo lavoro di ricerca, avrebbe avuto una sola, ma dignitosissima e commovente cerimonia funebre.

Purtroppo altre due orrende, macabre e tutt’altro che dignitose, per coloro che le hanno messe in atto, sepolture sono seguite al suo tragico decesso. La prima è stata rappresentata dai servizi [...]]]> di Sandro Moiso

sepoltura 1 Se, pur nel dramma rappresentato dalla sua morte, Giulio Regeni avesse avuto come unica sepoltura quella avvenuta a Fiumicello sarebbe stato, per così dire, fortunato. Accompagnato dall’affetto dei suoi cari e dei numerosi amici o anche soltanto di coloro che hanno avuto modo di conoscerlo di persona o di apprezzare il suo lavoro di ricerca, avrebbe avuto una sola, ma dignitosissima e commovente cerimonia funebre.

Purtroppo altre due orrende, macabre e tutt’altro che dignitose, per coloro che le hanno messe in atto, sepolture sono seguite al suo tragico decesso.
La prima è stata rappresentata dai servizi egiziani fin dal primo momento della sua scomparsa e delle prime ricerche messe in atto per ritrovarlo. Secondo quanto riferito in un’intervista rilasciata al quotidiano filo governativo egiziano AlYoum7, il titolare delle indagini, il generale Khaled Shalabi, ha parlato di un incidente stradale sostenendo che la polizia avrebbe ritrovato il cadavere dopo la segnalazione di un passante.

Ma sul luogo dove la polizia aveva sostenuto di aver ritrovato il cadavere di Giulio Regeni nove giorni dopo la sua sparizione, sulla parte superiore di un cavalcavia dell’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria d’Egitto, non ci sono mai state tracce “né di brusche frenate, né di vetri, né di sangue, né di ripulitura nello spesso strato di polvere mista a rifiuti che ricopre tutto”.1 In compenso come altri hanno già riportato vi sono significative tracce di pratica di torture messe in atto dal generale Khaled Shalabi, che “venne condannato nel 2003 per aver falsificato rapporti di polizia e per aver torturato – fino a ucciderlo – un uomo, insieme ad altri due poliziotti”,2 anche se la sentenza fu poi sospesa.

La terza ed ultima sepoltura però, ed anche la più blasfema, è quella messa in atto dalle autorità governative e da vari media italiani che, pur fingendo di voler ottenere giustizia e pur facendo, come al solito e così come piace al nostro Presidente del Consiglio, la voce grossa, in realtà tardano a denunciare con certezza e sicurezza che gli autori del barbaro assassinio potranno essere soltanto individuati tra gli agenti dei servizi, nemmeno tanto segreti, del sanguinario regime di Al Sisi.

Così si sta letteralmente prendendo e perdendo tempo, in attesa che lo scorrere dei giorni, delle settimane, dei mesi finisca con il fare levigare la memoria dell’omicidio politico dalle sabbie millenarie del deserto egiziano. Fino a farne scomparire ogni traccia, quasi si trattasse del naso della Sfinge o di qualche altra decorazione delle antiche piramidi ormai erose dal vento e svuotate più dai tombaroli secolari che non dagli archeologi.

Un autentico sepolcro di menzogne e depistaggi, dalla diffusione di notizie riguardanti una presunta collaborazione di Giulio con agenzie di intelligence oppure un rapimento dovuto ai Fratelli Mussulmani3 fino all’ipotesi di una vendetta personale avvallata negli ultimi giorni dalle autorità egiziane,4 viene ormai quotidianamente costruito al fine di ostruire ogni possibile accesso alla più semplice delle verità. Anzi la sponda che l’informazione nazionale presta, in gran parte, alle notizie rilanciate dai giornali filo-governativi egiziani, come il sopracitato AlYoum7 oppure Al Ahram, permette al regime di Al Sisi di presentarsi come vittima di un possibile complotto.

Così, mentre il macellaio si traveste da agnello, le indagini brancolano in un buio, più che voluto, desiderato. Soprattutto dalle stesse autorità italiane che, denunciando la scarsa collaborazione di quelle egiziane, sembrano non veder l’ora di poter archiviare il tutto come delitto irrisolto. Che volete che sia, in fondo, un ricercatore scomparso, magari di sinistra, ai margini di un deserto immenso in cui sono scomparse culture millenarie, faraoni, templi e armate?

Contro le illazioni su una sua possibile collaborazione con qualche forma di intelligence Oxford Analytica, il think tank britannico col quale aveva collaborato Giulio Regeni, ha fatto sapere “di non voler parlare in questo momento coi media italiani sulla vicenda del ricercatore ucciso in Egitto. Fonti in contatto col centro studi hanno riferito che si respira un’aria di irritazione fra i responsabili dell’organizzazione, che negano di essere legati a qualunque agenzia di intelligence e lamentano inesattezze sulle ricostruzioni della loro attività”.5 Mentre “invece, al Department of Politics and International Studies (Polis), l’istituto che Regeni frequentava nel campus di Sidwick Site, trapela un misto di dolore e irritazione. Glen Rangwala, un docente esperto di questioni mediorientali, si limita a dire di non voler fare commenti dopo “le inesattezze” – deplora – comparse su alcuni media italiani”.6

Un balletto così vergognoso quello inscenato tra Mukhabarat (la centrale dei servizi segreti egiziani7 ), governo e media italiani da spingere il mondo accademico inglese a formulare un appello “affinché il Parlamento britannico chieda e ottenga sulla morte di Regeni ‘un’indagine indipendente e imparziale’. Quale evidentemente non è ritenuta quella italo-egiziana”.8

Ma cosa spinge ad un comportamento tanto vile il nostro governo e buona parte dei nostri media? Soltanto gli interessi economici oppure anche qualcosa d’altro? “Non fosse altro perché sul tavolo delle relazioni tra i due Paesi, oltre al cruciale ruolo strategico svolto dal Cairo in chiave antiterrorismo, ci sono commesse per 10 miliardi di dollari (7 soltanto dell’Eni per lo sfruttamento del giacimento di gas Zohr, il più grande mai scoperto nel Mediterraneo9 ). Può il destino di un ventottenne “comunista” valere di più di quel fiume di denaro?10 E già soltanto su questo il regime di Al Sisi potrebbe ampiamente scommettere che l’Italia non vorrà fare di questo assassinio una questione capitale.

abu omarMa anche un’altra risposta è arrivata in questi giorni proprio da Strasburgo. La Corte europea dei diritti umani ha infatti condannato l’Italia per il rapimento e la detenzione illegale dell’ex imam Abu Omar, avvenuto a Milano il 17 febbraio 2003 con la decisiva collaborazione del Sismi, servizio segreto militare. Collaborazione, guarda caso con la CIA e i servizi segreti egiziani. “Tenuto conto delle prove, la Corte ha stabilito che le autorità italiane erano a conoscenza che Abu Omar era stato vittima di un’operazione di ‘extraordinary rendition’ cominciata con il suo rapimento in Italia e continuata con il suo trasferimento all’estero“, afferma la Corte di Strasburgo e prosegue: “L’Italia ha applicato il legittimo principio del segreto di Stato in modo improprio e tale da assicurare che i responsabili per il rapimento, la detenzione illegale e i maltrattamenti ad Abu Omar non dovessero rispondere delle loro azioni”. Concludendo poi che: “nonostante gli sforzi degli inquirenti e giudici italiani, che hanno identificato le persone responsabili e assicurato la loro condanna, questa è rimasta lettera morta a causa del comportamento dell’esecutivo”.11

Ci sono segreti, e la storia d’Italia almeno da piazza Fontana in avanti lo dimostra tristemente, che non possono essere rivelati. A qualsiasi costo. Perché ne nascondono altri. Asservimenti che non possono essere rifiutati, come le rivelazioni degli ultimi giorni, a proposito dei controlli esercitati dai servizi di sicurezza americani sui governi “amici” e anche su quello italiano, ben dimostrano. Al massimo possono produrre un abbaiare di cani, come quando di notte siamo risvegliati da un breve latrato che, una volta interrotto, ci lascia tornare ai nostri sogni.

Le proteste di alcuni membri del governo e le indagini di questi giorni sembrano infatti ricordare l’abbaiar dei cani, spesso inutile e soltanto molesto. Perché mentre la guerra si delinea sempre più come unico orizzonte possibile, gli alleati possono chiedere ed ottenere dal governo italiano tutto ciò che vogliono. E falsificare la verità di un delitto non sarà certo la sola richiesta o la peggiore.

sepoltura 2 Il governo del pifferaio magico ci aveva garantito, qualche giorno fa, che i droni americani della base di Sigonella sarebbero stati usati soltanto per azioni di risposta a pericoli immediati e che, in sé, non avrebbero rappresentato un preludio ad una escalation militare. Peccato che, successivamente, sia stato riunito il Consiglio supremo di Difesa che “ha valutato ‘la situazione in Libia, con riferimento sia al travagliato percorso di formazione del governo di accordo nazionale sia alle predisposizioni per una eventuale missione militare di supporto’“.12 Mentre è stata rivelata, ad esempio dal quotidiano Le Monde, la presenza di truppe francesi in Libia, così come quella di corpi speciali americani e britannici.

Così sebbene lo si neghi, si è discusso del fatto che “Gli specialisti del Cosubin e del Col Moschin ma anche i parà della Folgore potranno agire grazie alle stesse garanzie funzionali degli 007 che la legge ha concesso loro con il provvedimento varato larga maggioranza proprio in previsione di un possibile intervento in Libia“. Potrebbero essere circa 3000 i soldati italiani “impiegati a protezione dei siti sensibili come gli impianti energetici, i giacimenti, gli oleodotti13 che ancora forniscono l’ENI, mentre “la macchina dei raid è già in azione. C’è una ricognizione aerea continua, condotta dai droni americani e italiani che decollano da Sigonella; da quelli francesi che perlustrano l’area desertica del Fezzan e da quelli britannici che partono da Cipro. Altri velivoli spia, inclusi i nostri Amx schierati a Trapani, scattano foto e monitorano le comunicazioni radio grazie ad apparati a lungo raggio, che gli permettono di restare fuori dallo spazio aereo libico. Una sorveglianza che avrebbe permesso di selezionare circa duecento potenziali bersagli […] Ma nessuno si illude: una manciata di bombardamenti e colpi di mano isolati non riuscirà a fermare la crescita del Califfato. Per sconfiggerlo servono truppe di terra: soldati libici con un sostegno occidentale. E bisogna trovare un governo riconosciuto che legittimi questo “sostegno” […] l’ipotesi che sta rapidamente prendendo piede tra Roma e Washington è quella di abbandonare il parlamento di Tobruk e l’armata del generale Haftar – che stanno soffocando anche il secondo tentativo dell’Onu – per puntare sull’altra compagine, quella di Tripoli. Al momento è una sorta di “ultima minaccia”, per cercare di sbloccare le resistenze di Tobruk, ma potrebbe trasformarsi in fretta in un’opzione concreta. Con un ribaltamento di fronti: mentre a Tripoli il potere è in mano a formazioni islamiche più o meno moderate, il governo rivale aveva ispirazione laica e supporto occidentale. E con la prospettiva di dividere il paese in tre entità principali, che ricalcano l’antica organizzazione amministrativa ottomana: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Una soluzione che potrebbe placare anche le potenze regionali, come Egitto, Turchia, Qatar ed Emirati14.

Un balzo indietro di oltre cento anni senza consultare, nemmeno per conoscenza, i libri di storia […] un “piano B” per la Libia che troppo assomiglia a vecchi progetti coloniali europei”.15 Confermato dallo odierne dichiarazioni del Segretario alla Difesa statunitense Ash Carter che ha dichiarato: “L’Italia, essendo così vicina, ha offerto di prendere la guida in Libia. E noi abbiamo già promesso che li appoggeremo con forza16

Piano, ormai tutt’altro che “segreto”, che va in direzione totalmente contraria al comunicato congiunto pubblicato dopo la riunione ministeriale per la Libia del 13 dicembre 2015 in cui veniva affermato “il nostro pieno appoggio al popolo libico per il mantenimento dell’unità della Libia e delle sue istituzioni che operano per il bene del paese“.

Menzogne, nient’altro che menzogne: la guerra al terrorismo, la difesa della democrazia, la fedeltà e l’affidabilità degli alleati, l’azione umanitaria a favore dei profughi, la collaborazione tra stati e polizie per stabilire la verità sul caso Regeni. Vittima, come noi tutti, i vivi e i morti, di una macchina di oppressione, violenza, sfruttamento e falsificazione che solo la lotta per la liberazione dell’umano che è ancora in noi potrà un giorno ribaltare e distruggere.
migranti


  1. http://www.corriere.it/video-articoli/2016/02/07/egitto-luogo-dove-stato-trovato-corpo-giulio-regeni/5049aef8-cdaa-11e5-9bb8-c57cba20e8ac.shtml?refresh_ce-cp  

  2. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/10/news/regeni_informativa_da_egitto_nessun_elemento_riconduce_a_rapina_-133135353/  

  3. http://www.panorama.it/news/esteri/morte-di-giulio-regeni-legitto-rifiuta-le-accuse/  

  4. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/24/news/regeni_egitto_non_escludiamo_nessuna_pista_-134137778/?ref=HREA-1  

  5. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/16/news/regeni_famiglia_non_era_uomo_dei_servizi_segreti_-133551437/?ref=HREC1-8  

  6. ancora http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/16/news/regeni_famiglia_non_era_uomo_dei_servizi_segreti_-133551437/?ref=HREC1-8  

  7. che si dividono rispettivamente in Gihāz al-Mukhābarāt al-ʿĀmma (Apparato d’informazioni generali), Idārat al-Mukhābarāt al-Harbiyya wa al-Istiṭlāʿ (Direzione dei servizi militari e d’indagine) e Gihāz Mabāḥith Amn al-Dawla (Apparato d’informazioni per la sicurezza dello Stato)  

  8. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/15/news/giulio_tradito_dai_suoi_report_sui_gruppi_di_opposizione_intercettati_dagli_apparati_-133450148/?ref=HREA-1  

  9. con riserve stimate in 850 miliardi di metri cubi di metano  

  10. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/12/news/giulio_i_giorni_della_paura_e_la_verita_del_testimone_preso_da_agenti_in_borghese_proprio_davanti_alla_metro_-133248679/  

  11. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/12/news/giulio_i_giorni_della_paura_e_la_verita_del_testimone_preso_da_agenti_in_borghese_proprio_davanti_alla_metro_-133248679/  

  12. http://www.huffingtonpost.it/2016/02/25/libia-_n_9318500.html?1456431239&utm_hp_ref=italy  

  13. Fiorenzo Sarzanini, Intervento in Libia. Ok a missioni segrete dei nostri corpi speciali, Corriere della sera, Venerdì 26 febbraio 2016  

  14. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/24/news/l_allarme_la_casa_bianca_agiremo_ogni_volta_che_verra_individuata_una_minaccia_diretta_renzi_roma_fara_la_sua_parte_-134100071/  

  15. libia-divisione-in-tre-sconfitta_n_9306502.html  

  16. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/29/news/libia_usa_appoggeremo_con_forza_ruolo_guida_dell_italia_in_intervento_militare_-134513426/?ref=HRER1-1  

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Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica https://www.carmillaonline.com/2015/09/23/chi-ricorda-debra-libanos-come-un-falso-mito-cancella-la-memoria-storica/ Wed, 23 Sep 2015 21:30:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25059 di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità [...]]]> di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità dell’accaduto, prendevano una decisione di fatto non più differibile, visti i cospicui risultati raccolti nel frattempo dalla ricerca storica nonostante i numerosi ostacoli incontrati e, spesso, da quelle stesse istituzioni frapposti, e abbandonavano, quindi, quell’imbarazzante atteggiamento omertoso che aveva contribuito in modo decisivo a censurare e ad allontanare dall’orizzonte della memoria collettiva italiana i crimini coloniali ed in particolare quelli commessi in A.O.I. (Africa Orientale Italiana). Ben tre interpellanze parlamentari e il lungo ed aspro, nonché noto, confronto polemico, consumatosi a mezzo stampa, tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli avevano finalmente acceso e puntato i riflettori di una parte almeno dell’opinione pubblica sul passato coloniale italiano, su pagine di “storia patria” in buona sostanza sconosciute o quasi a molti italiani. Il successore alla Difesa di Domenico Corcione, cioè Beniamino Andreatta, ministro del primo governo Prodi, si trovò ad affrontare nel 1997 lo scandalo dei crimini commessi dai soldati italiani in Somalia durante la missione ONU nota come Restore Hope, a cui l’Italia partecipò con un impiego di uomini, denominato Missione Ibis, inferiore solo a quello statunitense e con cui non si lasciò sfuggire l’occasione né di rimettere piede in una sua ex colonia del Corno d’Africa, né di macchiarsi di violenze e crimini contro civili, come già accaduto in epoca fascista.

2Si potrebbe pertanto supporre che a partire da queste vicende della metà dagli anni ’90, ricostruite ed analizzate nel dettaglio anche da Simone Belladonna nel suo libro, sia andato via via aumentando l’interesse per l’imperialismo italiano e soprattutto per gli aspetti peggiori e criminali di esso (o “più criminali”, si potrebbe dire, essendo un’aggressione coloniale già in quanto tale definibile, oggi, come un crimine contro l’umanità, se si applica l’art.7 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998) e che all’infaticabile e meritorio lavoro di ricerca storica di Angelo Del Boca innanzi tutto, che già a metà degli anni ’60 faceva uscire il suo primo libro sulla guerra d’Abissinia, e di Giorgio Rochat in secondo luogo, si siano aggiunti gli sforzi di altri storici e ricercatori. Ed in parte è quanto è accaduto, poiché al maggior africanista italiano e all’esperto studioso di storia militare sopra citati si sono affiancati, sia prima sia dopo le ammissioni governative del 1996, altri storici che con i loro lavori hanno di molto ampliato ed arricchito, per quantità e qualità, la conoscenza sia della guerra d’Etiopia e dell’uso di gas e armi chimiche in particolare, sia, più in generale, di altre pagine cupe della nostra storia recente: l’imperialismo italiano nel suo complesso e i crimini dalle nostre truppe commessi non solo in Abissinia, ma anche in Libia, oppure nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale; i campi di internamento per civili su suolo italiano o nelle zone di occupazione militare, ecc. Per citarne alcuni, con la consapevolezza di, involontariamente, dimenticarne altri, si possono ricordare i lavori di: A. Aruffo, L. Borgomaneri, D. Bidussa, A. Burgio, I. Campbell, S. Capogreco, M. Dominioni, F. Focardi, N. Labanca, G. Oliva, D. Rodogno, E. Salerno ed anche S. Belladonna, il cui libro da poco dato alle stampe costituisce l’occasione per la stesura di queste riflessioni.

3Ma se dall’ambito ristretto degli addetti ai lavori, degli storici e dei lettori interessati al passato coloniale italiano otto-novecentesco ci spostiamo in direzione dell’opinione pubblica, da intendersi in questo caso come consapevolezza e conoscenza diffuse dell’imperialismo italiano, delle sue guerre e delle sue politiche di repressione e occupazione, allora lo scenario cambia bruscamente e si delinea un quadro di sostanziale ignoranza, formatasi nel corso degli ultimi settant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla perdita dell’impero; insipienza che va addirittura oltre l’amnesia o il ricordo sfocato e impreciso di un passato che inevitabilmente si allontana sempre più, perché consiste in una sostanziale non conoscenza di quel passato, cioè di un pezzo della nostra storia lungo una sessantina d’anni, quelli che separano l’Italia di Depretis da quella di Mussolini e del secondo conflitto mondiale, in quanto fu a partire dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla guerra d’Etiopia e conseguente proclamazione dell’impero del 1935/’36 che l’Italia interpretò a più riprese una politica imperialistica di conquista coloniale dell’agognato “posto al sole” in terra d’Africa.
E non si trattò, come la vulgata più diffusa vorrebbe, di un colonialismo minore, più proclamato che praticato, ovvero, addirittura, bonario e benevolo, nonché – come ogni colonialismo occidentale ha sempre preteso di essere – civilizzatore. Per ambizioni e finalità, non ebbe molto da invidiare a quello di altre potenze europee del tempo e il suo carattere “tardivo” fu motivato dall’altrettanto tarda unificazione nazionale, un po’ come accadde all’imperialismo tedesco, bismarckiano prima e guglielmino poi. Prese le mosse, la conquista italiana di un “posto al sole”, negli anni ’80 dell’Ottocento e conobbe un momento apicale con la guerra italo-turca per la Libia del 1911/’12 e, quindi, nella sua fase “liberale” e non ancora fascista, si sviluppò negli stessi decenni in cui, per fare qualche esempio, la Francia si impossessò di Tunisia, Indocina, Marocco e l’Inghilterra prese il controllo di Suez e dell’Egitto, tasselli essenziali e strategici dei rispettivi imperi. Certamente i risultati italiani furono di ben minore portata, ma questo lo si dovette soprattutto a rapporti di forza nello scacchiere internazionale ed africano nei quali l’Italia era la parte debole, non certo alle intenzioni dei governi italiani, della classe dirigente liberale e dei settori del mondo economico coinvolti, soprattutto dai tempi di Crispi in poi. Per farsi largo tra le potenze del tempo, l’Italia intraprese due grandi guerre coloniali, che aggiunsero ulteriori elementi di criticità ai già incrinati e logori rapporti dei rispettivi scenari internazionali, che, pochi anni dopo l’una e l’altra guerra italiana, avrebbero condotto ai due conflitti mondiali: si tratta della già citata guerra di Libia e, ovviamente, di quella d’Etiopia. Ma il numero delle guerre potrebbe raddoppiare se si considera che tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, l’Italia – già fascista – fu impegnata nella riconquista di Tripolitania e Cirenaica e che quella del 1935/’36 fu, in realtà, la seconda guerra per l’Abissinia, preceduta da quella crispina, conclusasi con la disfatta di Adua del 1896, che costò più vittime di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. La mussoliniana aggressione dell’impero etiope, poi, fu realizzata con un dispiegamento di uomini, mezzi, forze mai visto prima in una guerra africana o coloniale, tanto che, come ricorda Belladonna (S. Belladonna, cit, p.19) sulla scorta delle analisi di G. Rochat, si deve parlare di una guerra “nazionale”, non solo coloniale. «Guerra coloniale voleva dire un corpo di spedizione piccolo con molte truppe africane, obiettivi limitati e tempi lunghi, poca pubblicità e scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica (come la riconquista della Libia). Mandare centinaia di migliaia di soldati invece voleva dire toccare direttamente tutti gli ambienti: ogni rione, ogni parrocchia, ogni villaggio avrebbe avuto i suoi “ragazzi di leva”. Voleva dire mobilitare la grande macchina propagandistica del regime, tutti i giornali, le scuole, i parroci, le industrie. Appunto una guerra “nazionale” […]» (G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, pp.25-26).

E pertanto non solo per aspirazioni ed obiettivi politici o per mezzi ed uomini impiegati quello italiano non fu un colonialismo “minore”, ma anche per coinvolgimento, via propagandistica, dell’opinione pubblica e dell’intero paese. Se il caso etiope, sopra ricordato da Rochat, è il più evidente, poiché architettato e messo in opera dalla macchina della propaganda di un regime totalitario, per sua natura avvezzo al modellamento coercitivo del pensare collettivo e pubblico, non meno importante fu il caso della sbornia nazional-colonialistica degli anni attorno alla guerra di Libia, che forgiò i capisaldi dell’ideologia nazionalistica che poi traslò nell’interventismo del 1914/’15, e di seguito nel fascismo e che ripropose, sostanzialmente immutate, le sue parole d’ordine anche nel 1935/’36.

Sulla scorta di queste, seppur sbrigative, considerazioni, verrebbe da chiedersi perché allora quello italiano sia dagli italiani stessi considerato un colonialismo di rango inferiore e magari un po’ “straccione” o perché, peggio ancora, esso sia così poco ricordato e conosciuto.
Se poi si apre il capitolo dei crimini coloniali italiani le cose peggiorano ulteriormente e una spessa coltre di nubi sopraggiunge ed avvolgendoli nasconde i fatti più incresciosi e i comportamenti più violenti e criminali di cui si sono rese responsabili le forze armate italiane nelle colonie. E’ come se un fitto ed impenetrabile muro di nebbia impedisse alla coscienza collettiva degli italiani di vedere il proprio passato e le permettesse di vivere pacificata nella serena ignoranza della propria storia rimossa. A tal proposito basta gettare uno sguardo all’editoria scolastica, per rendersi conto come dei crimini di guerra italiani, dei gas in Etiopia, e prima ancora dei campi di concentramento libici in cui fu deportato il 50% della popolazione della Cirenaica, della brutale repressione contro la resistenza prima libica poi abissina, dei campi di internamento nei Balcani aggrediti e occupati insieme all’alleato nazista, ecc quasi non ci sia traccia. Pochi i manuali di storia che dedicano più di qualche riga o paragrafo a questi argomenti e quasi mai entrando nelle questioni con sufficiente profondità di prospettiva e accuratezza di analisi.

4E le cose non migliorano se passiamo dalla manualistica scolastica ad altri mezzi e prodotti culturali e di informazione: giornali, televisione, produzione documentaristica e cinematografica.
E allora gli studenti e gli italiani in generale conoscono qualcosa – sempre troppo poco, certo, ma comunque qualcosa – di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine, ma ignorano per lo più la strage di Debrà Libanòs, in cui la furia di fascisti e soldati italiani si scatenò in una rappresaglia che fu una vera e propria mattanza, per punire l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il generale Graziani, viceré di Etiopia dopo il rientro di Badoglio a Roma a guerra conclusa: prima venne la popolazione civile di Addis Abeba, che subì un pogrom squadrista che durò tre giorni; poi i notabili dell’etnia amhara, fucilati o deportati nei campi di concentramento, in particolare a Nocra in Eritrea e a Danane in Somalia; poi i cantastorie e gli indovini, accusati di propagare notizie anti italiane di villaggio in villaggio, che vennero arrestati e uccisi ed infine i monaci, i docenti di teologia, gli studenti del convento copto di Debrà Libanòs, considerato il centro nevralgico della resistenza abissina ed anche il luogo in cui gli attentatori fuggiaschi avrebbero trovato rifugio ed aiuto. [Per i fatti di Debrà Libanòs si veda, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005]

Se ci limitiamo anche solo all’episodio culminante del monastero, il numero delle vittime va da un minimo di 1400 circa a un massimo di 2000 circa, eliminate secondo modalità e logiche che non presentano sostanziali differenze da quelle delle cosiddette “eliminazioni caotiche” degli Einsatzkommandos nazisti sul fronte orientale e contro gli ebrei sovietici, o da quelle delle rappresaglie stragiste dagli stessi tedeschi utilizzate per reprimere la resistenza partigiana nell’Europa occupata ed anche in Italia. Questa la sequenza delle fasi principali dello sterminio: controllo militare del luogo, rastrellamento e concentramento delle vittime, trasporto con camion delle stesse in un luogo prescelto per l’esecuzione di massa, la piana di Laga Wolde non lontana dal monastero, uccisione tramite fucilazione e ammassamento dei cadaveri in fosse comuni. E non solo il modus operandi, ma anche la logica e le finalità che mossero i fascisti e i soldati italiani in Etiopia non differivano da quelle che avrebbero mosso i nazisti qualche anno dopo: repressione vendicativa della popolazione civile rea di collaborazione con i resistenti, rottura dei collegamenti tra partigiani e civili, governo e controllo del territorio tramite il terrore, dimostrazione di forza brutale.
E ancora, risulta difficile rilevare essenziali differenze tra gli ordini impartiti, tra gli altri, dal colonnello Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine e le decisioni prese dal governatore del Regno del Montenegro, generale Alessandro Pirzio Biroli, che nel giugno del 1943, come rappresaglia per l’uccisione presso Podgorica da parte dei partigiani di 9 italiani del 383° reggimento di fanteria, fece fucilare 180 ostaggi, secondo una proporzione di 1 a 20, il doppio di quella applicata a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo1944. Ma di queste “Fosse Ardeatine jugoslave”, che ci vedono coinvolti in qualità di carnefici e non di vittime, non c’è memoria. [Per la repressione italiana della resistenza partigiana in Jugoslavia si vedano, tra gli altri: A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit; G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2003]

E, per aggiungere un altro ed ultimo esempio tra i tanti possibili di questa sperequazione della memoria storica, è grosso modo noto a tutti gli italiani, anche grazie alla ricca ed ottima produzione cinematografica americana, l’uso massiccio da parte statunitense di defoglianti durante la guerra del Vietnam, ma pochi in Italia sanno che una trentina di anni prima il Regio Esercito italiano avvelenò la popolazione, gli animali e la vegetazione dell’Etiopia con tonnellate di ordigni caricati con iprite o arsina.

5Ma quali sono allora le cause e i motivi di questa sperequazione della memoria, come poco sopra è stata definita, che porta la coscienza collettiva di un popolo, quello italiano, a conoscere e commemorare, come è doveroso e fondamentale, i crimini di guerra subiti, ma ad allontanare dal piano del proprio orizzonte visivo quelli compiuti?
Che cosa, dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, ha impedito e continua ad impedirci di impostare un rapporto con il nostro passato recente che sulla base di una verità storica seriamente ricostruita permetta di fare di quel passato stesso, per quanto scomodo o spiacevole possa essere, un tassello, un mattone per costruire un’identità storica collettiva consapevole e critica?
La ricerca storica procede nel suo lavoro di scavo e di ricostruzione, di indagine, di spiegazione e comprensione, ma non riesce a fare breccia nella coscienza collettiva, non è capace di sedimentarsi in essa perché si scontra con l’ostruzionismo pervicace di un mito collettivo, di una leggenda a cui, consciamente o inconsciamente, teniamo più che ad ogni altra immagine di noi stessi: la leggenda del “buon italiano”, degli “italiani, brava gente”. [Si vedano a tal riguardo, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit.; S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004]

Si tratta di una rappresentazione collettiva ampiamente auto assolutoria e rassicurante secondo la quale l’italiano – per indole, carattere o storia – non sarebbe capace di atti efferati, di crudeltà e crimini e, pertanto, anche in tempo di guerra, sarebbe mite, bonario e tollerante, sempre ben disposto anche nei confronti del nemico, se non addirittura sentimentale e comunque sempre umano. Uno stereotipo in piena regola, costruito su misura come un abito sartoriale, tagliato e cucito da mani esperte per le migliori occasioni e per le foto in posa.
Un’autorappresentazione fantasiosa, tanto deformata quanto a sua volta deformante – di cui in seguito verranno indicate per sommi capi genesi e ragioni – che dal dopoguerra è andata progressivamente radicandosi, innervandosi per divenire infine contenuto e forma essenziali dell’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso.
Da simili premesse, quali conseguenze? Numerose e tutte venefiche, in quanto travisano la realtà e producono, nell’ordine, falsità, oblio ed ignoranza. E pertanto il colonialismo italiano sarebbe stato un “colonialismo umanitario”, che costruiva ponti, pozzi e strade, quasi più missionario che conquistatore, che esportava – non violava – civiltà. Proprio come vuole il più inattaccabile degli stereotipi a supporto dell’ideologia imperialistica, quello della missione civilizzatrice, del “fardello dell’uomo bianco”, che nelle sue varianti ha resistito, e resiste, ben oltre l’età storica del colonialismo. Sullo sfondo di una visione così edulcorata della presenza italiana in Africa non c’è posto per crimini, violenze o stragi, che risultano conseguentemente minimizzati, quando non totalmente rimossi. E il paradigma di pensiero si sposta facilmente dall’Africa all’Europa, ai Balcani o al fronte russo, dove, ancora una volta i crimini compiuti vengono dimenticati o addirittura – è il caso dell’ARMIR – responsabilità e ruoli vengono capovolti e i soldati italiani da “invasori” diventano “vittime”. [Si veda a tal proposito Th. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009]

Storture e travisamenti diventano riduzionismo e sfiorano il negazionismo quando si tocca la delicata questione del razzismo, che non riguarderebbe, se non limitatamente e in forme sempre blande, l’indole italiana, senza che di questa edulcorata lettura del fenomeno si possano trovare riscontri, dati e fatti comprovanti e a fronte, invece, delle Leggi razziali e antisemite del ’38 e dei provvedimenti legislativi segregazionisti e razzisti introdotti in A.O.I nel 1936 e 1937, che non solo mostrano come l’atteggiamento degli italiani in Etiopia fosse tutt’altro che fraterno e benevolo nei confronti della popolazione africana, ma anche dimostrano, scavalcando e confutando facilmente le interpretazioni minimaliste del razzismo italiano che immancabilmente lo vorrebbero spiegare come diretta emanazione e imposizione di Berlino su Roma, che esso conobbe invece una genesi e sviluppi propri e complessivamente autonomi dall’antisemitismo tedesco e collocabili per l’appunto in terra africana. [Si consulti E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2003]

E allora anche il ricorso ai campi di concentramento non rientrerebbe nelle modalità propriamente italiane di esercitare il potere, reprimere e combattere i nemici, nonostante la costruzione di campi, per condizioni di internamento terribili, in Libia prima ancora che sul territorio nazionale o nelle zone di occupazione in Jugoslavia. Il lager diventa quindi una esclusiva dei nazisti, che, per bilanciamento complementare del mito del “buon italiano”, assurgono a mito negativo, quello del “tedesco malvagio”, per indole o per tratto etnico-nazionale. [Si consultino, tra gli altri, E. Collotti, L. Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia in guerra, Ediesse, Roma, 1996; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, Roma-Bari, 2013]

6-1Di fronte ad un così ben articolato armamentario di distorsioni e banalizzazioni storiche, i tentativi non tanto di fare luce sui crimini coloniali italiani, da questo punto di vista un cospicuo lavoro è già stato e continua ad essere svolto, ma piuttosto quelli di divulgare i risultati della ricerca, affinché possano divenire parte essenziale di una autocoscienza storica nazionale consapevole e critica, sembrano quasi sempre destinati alla sconfitta. Tale è la resistenza opposta dal meccanismo di rimozione censoria del “buon italiano”. Ovviamente quello italiano non è l’unico caso di memoria storica collettiva di problematica incubazione e di distorta e gravemente parziale formazione: ne sono un esempio le memorie conflittuali che in Spagna si confrontano davanti al passato franchista e ai crimini dai nazionalisti compiuti, e poi negati, durante la guerra civile ed immediatamente dopo, in un paese in cui la fine del regime si è associata alla continuità istituzionale per mezzo della monarchia. Ma il confronto più significativo va fatto con la Germania, che, pur avendo dovuto fare i conti subito dopo la fine della guerra con il macigno dell’allora recente passato nazista e dei suoi crimini contro l’umanità, aveva mantenuto e coltivato per decenni un proprio mito, anch’esso auto assolutorio e rassicurante, quello del “blasone immacolato” della Wehrmacht. A partire dall’immediato dopoguerra era stata ripetutamente proposta la teoria secondo cui l’esercito si sarebbe comportato onorevolmente e sarebbe uscito “pulito” dal secondo conflitto mondiale e, soprattutto, dal nazismo. Esso non avrebbe fatto altro che adempiere al proprio dovere e non si sarebbe sostanzialmente macchiato di crimini o di atrocità, che, pertanto, sarebbero stati compiuti solo da SS e Waffen-SS, dalla Gestapo e dal partito. In questo modo un’istituzione forte dello stato – l’esercito – e il grosso della popolazione tedesca coscritta e inviata sui fronti a combattere erano privi di colpe particolari e venivano sottratti al sospetto di aver commesso atti efferati, mentre l’esclusiva dell’orrore veniva attribuita al regime, al partito e ai corpi di polizia da esso dipendenti. [Tra gli altri, si consultino F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli editore, Roma, 1997]

Fu una mostra sui crimini della Wehrmacht organizzata dal Hamburger Institut für Sozialforschung tra il 1995 e il 1999 (Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944 – Guerra di sterminio. Crimini della Wehrmacht dal 1941 al 1944) e poi dal 2001 al 2004 (Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941–1944 – I crimini della Wehrmacht. Le dimensioni della guerra di sterminio 1941-1944) a creare scompiglio e a mettere in discussione l’assunto di fondo della leggenda del “buon soldato tedesco”. La prima mostra attraversò 33 città in Germania ed Austria per un totale di 800.000 visitatori e la seconda fu portata in 11 città tedesche, a Vienna e in Lussemburgo e raccolse 420.000 visitatori. [Sito ufficiale della mostra]
Le dimensioni e il successo di pubblico della Wehrmachtsausstellung e il dibattito e le polemiche che ne scaturirono evidenziano come fosse difficile per molti tedeschi misurarsi con un’immagine di sé diversa da quella fino a quel momento coltivata, come fosse impegnativo dover rinunciare all’idea di un esercito complessivamente estraneo alle inumane pratiche del regime e del partito e dover ampliare considerevolmente l’area del coinvolgimento attivo nei crimini del nazionalsocialismo fino a farvi rientrare, appunto, l’esercito nel suo complesso. Coinvolgimento generalizzato del popolo, dello stato, dell’intera società, degli apparati economici nella costruzione e realizzazione del regime e nelle sue imprese, dalla guerra alla Shoah, che la ricerca storica aveva già ampiamente appurato e dimostrato, sempre più abbandonando letture “hitleriste” e, dagli anni Settanta in poi, virando verso approcci di tipo strutturalista, ma nell’opinione pubblica il mito della “Wehrmacht pulita” aveva resistito ben più a lungo.

Anche in Italia, il mito degli “italiani, brava gente” trovò terreno fertile in cui attecchire nell’immediato dopoguerra, perché lo vollero un po’ tutti. Agli ex fascisti, che intendevano a tutti i costi evitare di dover rendere conto dei crimini compiuti, risultava utile far passare l’immagine buonista del soldato italiano, che, associata alle censure capillari operate dal regime negli anni precedenti su argomenti quali, per esempio, i gas in Etiopia di cui ovviamente non c’era traccia nella cospicua memorialistica coloniale, gettava fumo negli occhi e contribuiva ad avvalorare il teorema innocentista ed auto assolutorio. Tutto questo però, si badi bene, al costo di un tanto paradossale quanto totale capovolgimento dell’immagine dell’Uomo Nuovo fascista che il regime aveva teorizzato, propagandato e costruito per vent’anni. Di quell’idealtipo fascista l’esempio più fulgido era stato proprio Rodolfo Graziani, il “macellaio degli arabi” – secondo la definizione che ne avevano dato i libici – non certo l’immagine auto denigratoria e derisoria confezionata ad hoc di un soldato italiano forse un po’ bislacco e pasticcione, magari non efficiente come altri nel combattere, ma che compensa tali deficienze marziali con cameratismo, umanità e compassione anche verso il nemico.
Ma interessava anche al maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, che si proponeva di conseguire il fine della riconciliazione popolare, della armonizzazione nazionale, attraverso un rapporto col recente passato che privilegiasse più la continuità che la rottura ed evitando l’epurazione della classe dirigente e militare precedente. A tal fine era quanto mai utile costruire una rappresentazione “vittimistica”, quindi assolutoria, di un popolo italiano interamente e sostanzialmente buono, che aveva subito e non voluto o condiviso il fascismo, corpo estraneo o parentesi malata, per dirla con Croce, nella storia del paese.
Ma anche ai partiti della sinistra e in particolare al Partito comunista la favola del buon italiano tornava comoda. Attraverso di essa era possibile sottolineare ed amplificare i meriti dell’Italia partigiana e di quella forza politica che più delle altre antifasciste l’aveva combattuta, il Pci appunto, contrapponendo un popolo buono ad un regime feroce. Si poteva impostare l’equazione, politicamente legittimante lo stesso partito, tra Resistenza e popolo italiano, il cui risultato sarebbe stato quello di un partito comunista parte integrante della nazione e forza politica nazionale, anche a costo di rinunciare alla necessaria epurazione e alla doverosa punizione dei maggiorenti e dei criminali del precedente regime. Il tutto culminò, come è noto, nell’amnistia da Togliatti stesso voluta per il conseguimento – per dirla con le parole del segretario del Pci – “della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani”.
E diedero il loro contributo a questa mitopoiesi postbellica anche gli Alleati, per i quali l’Italia, paese strategico e confinante con la “cortina di ferro” e da governarsi più in continuità con il passato che attraverso traumatiche rotture, era così importante da meritare un trattamento diverso da quello dei suoi alleati del Patto Tripartito, con i quali aveva scatenato e combattuto la seconda guerra mondiale e così non vennero mai istruite una “Norimberga italiana” o una “Tokio italiana”. I criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia, dalla Grecia o dalle ex colonie africane non furono mai consegnati e le pene inflitte da tribunali italiani furono poche, lievi e incommensurabilmente inadeguate ai crimini perpetrati.

Ma se tutto questo spiega il passato, perché ancora oggi, quando ci separano dalla guerra di Etiopia ottant’anni esatti, quando le ragioni del dopoguerra sono ormai soltanto analisi storica, parlare dei gas in Abissinia e di altre atrocità continua a suscitare come automatica reazione la riproposizione della formula magica del “buon italiano”?
Possibile che quelle motivazioni, così strettamente legate al periodo fascista e coloniale, alla sua fine e alla problematica costruzione di una nuova identità nazionale, in un paese prima aggressore e poi aggredito, prima nemico degli Alleati poi in parte cobelligerante, spaccato in due territorialmente e politicamente, attraversato dalla lotta partigiana e dalla guerra civile, tessera fondamentale nel nuovo mosaico europeo della guerra fredda, ecc, possibile – ci si chiedeva – che ancora oggi mantengano un senso?
O dobbiamo forse, più semplicemente, rassegnarci ad ammettere che, al di là di tutte le considerazioni di ordine storico e politico sopra abbozzate ed indipendentemente da esse, a noi italiani piacciono questi panni? Ci sentiamo bene in essi? Ci rassicura l’immagine un po’ da commedia e un po’ da tragedia di un italiano sempre succube degli eventi della Grande Storia che lo sovrastano, ma capace anche di ricostruirsi un proprio piccolo mondo privato, nella famiglia, nel borgo o quartiere, con gli amici o i commilitoni, dove è in grado di conservare e coltivare quel lato umano che lo caratterizzerebbe comunque e sempre e che gli consente, quando poi dalla Grande Storia è chiamato alla guerra, di combattere con onore, ma mai con brutalità e talvolta di fraternizzare pure col nemico e di fare all’amore con le donne dei paesi invasi, mai, ovviamente, di violentarle?
Qualunque sia la spiegazione, è certo che tale falsa e sciocca, menzognera e meschina autorappresentazione collettiva è così radicata in noi che riemerge ad ogni occasione buona e contribuisce, oggi come in passato, a mantenere umido e pronto il terreno per la semina dei più nefasti revisionismi e giustificazionismi, atti a riabilitare un passato vergognoso attraverso il potente fertilizzante dell’ignoranza della storia.
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Immagini, in ordine dall’alto al basso:
– manifesto della R.S.I, Vogliamo essere comandati dai negri? Giammai! Italia, 1944
– copertina di A. Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-41, Feltrinelli, Milano, I edizione, 1965.
– copertina di S. Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015
Gruppo di militari italiani intorno a una bomba C.500.T caricata a iprite
– cartolina coloniale, Armamenti, 1935-‘36
La raccolta dei cadaveri della rappresaglia fascista, Addis Abeba, febbraio 1937

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