Gap – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 27 Nov 2024 21:00:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le contraddizioni e le moderne intuizioni di un editore militante https://www.carmillaonline.com/2024/01/10/la-contraddittoria-rete-di-un-editore-rivoluzionario/ Wed, 10 Jan 2024 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80486 di Sandro Moiso

Davide Serafino, Gappisti. La rete clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, Derive Approdi, Bologna 2023, pp. 288, 20 euro

Molto si è scritto, detto e discusso a proposito della lotta armata in Italia, attraverso saggi, articoli, dibattiti e testimonianze di vario indirizzo, calibro e dalle finalità non sempre limpide. Così si è scritto e discusso di formazioni molto note, altre meno, alcune importanti e altre al limite della visibilità politica e mediatica, mentre una è rimasta a lungo ai margini delle ricerche, anche se centrale per la comprensione di ciò che quell’andare “alle armi” rappresentò per i movimenti antagonisti [...]]]> di Sandro Moiso

Davide Serafino, Gappisti. La rete clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, Derive Approdi, Bologna 2023, pp. 288, 20 euro

Molto si è scritto, detto e discusso a proposito della lotta armata in Italia, attraverso saggi, articoli, dibattiti e testimonianze di vario indirizzo, calibro e dalle finalità non sempre limpide. Così si è scritto e discusso di formazioni molto note, altre meno, alcune importanti e altre al limite della visibilità politica e mediatica, mentre una è rimasta a lungo ai margini delle ricerche, anche se centrale per la comprensione di ciò che quell’andare “alle armi” rappresentò per i movimenti antagonisti e i militanti rivoluzionari dei primi anni ’70 e del lungo decennio successivo: i Gruppi di Azione Partigiana (Gap), ideati, fondati e finanziati, fino al momento della morte, da Giangiacomo Feltrinelli.

Una formazione, quella analizzata nel testo pubblicato da DeriveApprodi, spesso trattata a livello di ipotesi oppure di illazioni che, spesso, sono andate dalle narrazioni complottiste sui servizi segreti dell’Europa Orientale e i loro rapporti con l’editore milanese a quelle, più o meno benevole, che discettavano a proposito di una sorta di infantilismo politico dello stesso. La cui scelta politica è stata in alcuni casi vista quasi come la realizzazione del desiderio di un uomo che, con la sua straordinaria ricchezza, dopo aver provato tutto avrebbe voluto provare anche il brivido dell’azione “partigiana”.

Finalmente l’opera di Davide Serafino – assegnista presso la SNS di Pisa, borsista presso la Fondazione Burzio di Torino, l’IISS di Napoli e il DHI di Roma e che si è occupato dei fenomeni della violenza politica e della lotta armata in Italia attraverso la sua tesi di dottorato, La lotta armata a Genova. Dal Gruppo 22 ottobre alle Brigate rosse (1969-1981), da cui è stato tratto il volume La lotta armata a Genova (1969-1981) – che ha potuto avvalersi della testimonianza diretta di un gappista mai precedentemente identificato, ma che ebbe un ruolo di primaria importanza nei Gap e che lavorò a stretto contatto con Giangiacomo Feltrinelli finendo col diventarne quasi il braccio destro, costituisce un valido documento per la ricostruzione della storia di quella formazione e del percorso politico-militante di una figura complessa come fu quella dell’editore, fino alla mattina del 14 marzo 1972, ultimo giorno della sua vita.

Il testimone, a lungo silente, è un ingegnere oggi ottantacinquenne, Vittorio Battistoni, la cui dettagliata testimonianza, anche su precisi aspetti tecnici dell’operato dei Gap, ha permesso allo storico di ricostruire nel dettaglio una vicenda che pur avendo incrociato quelle delle più importanti formazioni del periodo, come Potere operaio e le Brigate rosse, e di organizzazioni «minori», come quella genovese del Gruppo 22 ottobre, sembrava essere rimasta ai margini degli studi sulle pratiche politiche di quel periodo.
Come afferma Giorgio Moroni nell’iniziale nota editoriale:

Succede assai raramente che un improvviso squarcio di luce sottragga alle tenebre, e in modo definitivo, le dinamiche e le ragioni di episodi e di eventi tra i più clamorosi e significativi della storia, la cui vera natura è occultata dalle risultanze giudiziarie e i cui contorni sono resi misteriosi o impenetrabili da ipotesi complottiste di maniera, condite dall’intervento dei Servizi segrati “deviati” o di agenti al soldo di potenze straniere […] Questo testimone diretto si è anche rivelato in grado, con le sue meticolose ricostruzioni, di riprodurre la temperie dei primi anni Settanta e di trasferirla inalterata allo storico Davide Serafino1.

Ecco allora che la prima cosa da segnalare, ancora più della ricostruzione dei fatti la cui scoperta, da parte di chi scrive queste poche note, si preferisce lasciare al lettore per non rovinare la lettura di un libro spesso emozionante, è la validità di un metodo che, in qualche modo, rivaluta una sorta di oral history, la storia orale (trattandosi di testimonianze raccolte durante lunghi incontri personali tenutisi a Chiavari) come unico strumento, o quasi, valido per superare i limiti sia della storia documentaria ricostruita attraverso le veline dei giornali oppure gli atti e le inchieste della magistratura, degli archivi di polizia o, ancora, del loro diretto equivalente politico: gli scritti, i documenti e le testimonianze prodotti dalle organizzazioni politiche oppure dai loro più visibili e noti dirigenti e rappresentanti. Quasi sempre orientati, questi ultimi, a sottolineare la continuità ideologica oppure la coerenza individuale dei maggiori protagonisti più che a illuminare la complessità dei fatti che hanno contribuito a determinare un certo momento storico e una scelta politica derivata, invece spesso, da mille contraddizioni e sovrapposizioni di ipotesi, comportamenti e azioni.

Una storia dal basso, si potrebbe dire, che è l’unica e sola capace di illuminare non solo i vertici, ma anche il contorno sociale, culturale e politico di ogni singola vicenda e dei suoi protagonisti anche minori e meno noti. Storie che magari languiscono per decenni negli scantinati della memoria collettiva e individuale, ma che quando ritornano alla luce, spesso “illuminano” il passato più di tante altre ufficiali o più note al pubblico dei militanti o dei media, rivelando possibilità interpretative più vicine alla concreta realtà dei fatti che non alla loro manipolazione ideologica o istituzionale e poliziesca.

Come scrive Serafino nell’introduzione:

Questa ricerca non vuole essere “solamente” una ricerca sulla figura di Feltrinelli, su cui è già stato detto e scritto molto, ma vuole provare a ricostruire, per la prima volta, la parabola del gruppo armato fondato dall’editore. I Gap furono un gruppo atipico e forse nemmeno un gruppo vero e proprio – non avevano una struttura solida e organizzata, non avevano una vera e propria forma organizzativa, o quantomeno questa era piuttosto fluida, i vari Gap locali presentavano molte differenze tra di loro – ma una rete di relazioni intessuta dall’editore con singoli militanti e con porzioni di altre formazioni molto più ramificate di quanto si è soliti pensare, tanto che appare verosimile, almeno nei suoi caratteri generali, l’opinione di Gianbattista Lazagna secondo cui i Gap erano una sigla universale utilizzata da Feltrinelli per i gruppi clandestini a lui collegati, che poi l’editore cercò di dotare di una strategia comune. Il gruppo non sopravvisse al proprio fondatore e i suoi militanti andarono incontro a destini diversi: chi si avvicinò alle nascenti formazioni armate, soprattutto alle Brigate rosse; chi si avvicinò ai gruppi della sinistra rivoluzionaria; chi, scosso dalla morte violenta di Feltrinelli, si ritirò a vita privata [e] offre una chiave di lettura che consente di entrare meglio nelle vicende dei Gap e aiuta a sottrarre la figura dell’editore ai cliché del miliardario folgorato sulla via di L’Avana, del ricco mecenate della rivoluzione, provando a rendere giustizia non solamente alla figura di Feltrinelli militante politico – un militante le cui idee, al di là che siano state capaci o meno di cogliere i cambiamenti in atto, furono sempre il frutto di un’analisi razionale e non di un’estasi mistica rivoluzionaria – ma anche a quella di coloro che scelsero di collaborare con l’editore, come Vitttorio Battistoni, e che in lui videro un interlocutore credibile e affidabile, un sincero compagno di lotte politiche e non solamente, come vorrebbero altri cliché altrettanto banali, un ingenuo finanziatore dei gruppi rivoluzionari2.

Per certi versi i Gap ricalcarono più le bande partigiane cui si ispirarono fin dall’inizio, proprio per la visione antifascista e antigolpista che ispirava inizialmente Feltrinelli, più che le organizzazioni maggiormente centralizzate, sia dal punto di vista ideologico che organizzativo, che si svilupparono successivamente su un modello più di carattere marxista-leninista e questo, visto che l’unica centralizzazione sembrava convergere sulla figura dell’editore, fu forse il principale motivo del loro rapido sbandamento, successivo alla morte dello stesso.

Una visione che era in contraddizione con quella di un gruppo come Potere operaio che «non considerò mai prioritario, dal punto di vista politico, lo scontro con il Msi e i neofascisti – tale scontro era visto come una battaglia di retroguardia, in alcuni frangenti necessaria, ma pur sempre di retroguardia»3. Ma che non impedì mai a Feltrinelli di finanziare:

riviste, movimenti, gruppi e singoli militanti della sinistra rivoluzionaria e armata italiana e internazionale, l’acquisto di basi e di armi e la creazione di una rete logistica a disposizione dell’intera area rivoluzionaria, ma non lo fece nel modo ingenuo, e fondamentalmente stupido, che molti vogliono far credere, lo fece sempre con cognizione di causa e coerenza, lo fece – e fu il primo in Italia – avendo in mente una strategia rivoluzionaria globale. Una strategia ambiziosa e farraginosa allo stesso tempo, una strategia che strideva con l’impostazione neoresistenziale dei primi Gap, una strategia che non si sarebbe mai dispiegata pienamente e che, sostanzialmente, fallì, non soltanto per la morte precoce dell’editore, ma per i limiti intrinseci a un progetto che voleva tenere insieme realtà sociali ed economiche diversissime – dal Sudamerica alla Palestina, dalla Sardegna alle metropoli europee – e gruppi che muovevano da necessità e perseguivano obiettivi molto lontani tra di loro4.

Eppure, forse proprio in questo risiedeva la vera modernità, la fondamentale intuizione di Giangiacomo Feltrinelli e dei militanti che lo accompagnarono in quel primo periglioso e rovinoso tratto di strada, poi abbandonato in seguito da coloro che ne furono gli emuli successivi, tutti intenti a collegarsi ad un’unica causa all’interno di un mondo, invece, sempre più complesso e contraddittorio. Quello della guerra civile globale con cui ancora oggi dobbiamo fare i conti.

L’interesse principale di questa ricerca risiede quindi, e soprattutto, nella riscoperta di un’intuizione troppo moderna per i tempi in cui venne formulata e nella immediatezza dell’esposizione e della narrazione dei fatti e delle idee. Qualità, oggi, da considerare davvero di non poco conto.


  1. G. Moroni, Nota editoriale in D. Serafino, Gappisti. La rete clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, Derive Approdi, Bologna 2023, p. 5.  

  2. D. Serafino, Introduzione a op.cit., pp. 9-10.  

  3. Ivi, p. 154.  

  4. Ibidem, pp. 10-11.  

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I comunisti della capitale… (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2022/11/09/i-comunisti-della-capitale-seconda-parte/ Wed, 09 Nov 2022 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74526 di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Per quanto possano esserci stati attriti tattici di secondaria importanza, la svolta a cui si opposero come poterono nuclei organizzati di comunisti come quello di Roma, veniva dalla direzione stalinista del movimento comunista internazionale. Questo dato essenziale, oggi convalidato da qualsiasi ricerca storica degna del nome, i “comunisti dissidenti” di Bandiera rossa non riuscirono né a capirlo né a crederlo, restando così prigionieri delle proprie illusioni e votati alla sconfitta. La loro convinzione che [...]]]> di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Per quanto possano esserci stati attriti tattici di secondaria importanza, la svolta a cui si opposero come poterono nuclei organizzati di comunisti come quello di Roma, veniva dalla direzione stalinista del movimento comunista internazionale. Questo dato essenziale, oggi convalidato da qualsiasi ricerca storica degna del nome, i “comunisti dissidenti” di Bandiera rossa non riuscirono né a capirlo né a crederlo, restando così prigionieri delle proprie illusioni e votati alla sconfitta. La loro convinzione che fossero mature le condizioni per un nuovo assalto al cielo era infondata per il loro errato giudizio sullo stalinismo e sull’Urss. E lo era anche, a un livello ancora più profondo, per ciò che riguarda i rapporti di forza su scala internazionale tra classe capitalistica e movimento proletario. Vediamo il primo aspetto, torneremo in seguito sul secondo.

Il 26 novembre 1943, nel suo discorso da Mosca “L’Italia in guerra contro la Germania hitleriana”, Togliatti afferma in modo inequivocabile sull’Italia post-fascista quanto segue:

Sarebbe assurdo pensare al governo di un solo partito o al dominio di una sola classe. L’unità e la collaborazione di tutte le forze democratiche e popolari dovranno essere l’asse della politica italiana, la base su cui verrà costruito un vero regime democratico, che distrugga le radici del fascismo e dia alla nazione delle garanzie serie contro ogni possibile ripetizione della tragica avventura ch’è costata all’Italia il suo benessere, la sua libertà, la sua indipendenza, il suo onore. Ma questo non vuol dire che nella vita del paese non debbano essere operate profonde riforme… la nuova democrazia italiana… con un ragionevole intervento dello stato dovrà impedire che dei gruppi di plutocrati avidi ed egoisti [gli Agnelli ad esempio? – n.] sfruttino il monopolio delle risorse del paese per asservire il popolo intero e gettare il paese nell’abisso di criminali avventure di guerra.

Questa linea di condotta era perfettamente coerente con l’obiettivo strategico perseguito da Stalin, che non era più la rivoluzione proletaria internazionale, cui lo stalinismo aveva rinunciato da tempo, bensì la costruzione in Russia di un industrialismo di stato capace di ridurre il gap economico-tecnologico rispetto alle grandi potenze occidentali. In tale prospettiva strategica di coesistenza e di concorrenza pacifica tra il campo occidentale e quello del “socialismo reale”, rientrava la pace con gli imperialisti d’Occidente, la divisione del mondo in sfere di influenza, nonché la spartizione dell’Europa che prevedeva l’assegnazione dell’Italia al dominio delle democrazie anglo-sassoni. Contro questo muro si infranse l’attività politica del Mcd’I che pagò dazio alla fine della guerra con la sua rapida disgregazione e scomparsa. Una fine amara perché la battaglia politica del Mcd’I per la rinascita di un movimento comunista rivoluzionario in Italia non si era certo limitata ai giornali e alla propaganda delle proprie idee, ma aveva visto la sua partecipazione alla resistenza armata anti-nazista e anti-fascista, svolta da posizioni autonome. Broder ricostruisce con estrema puntualità il peculiare modo di partecipare alla resistenza di questo insieme di militanti. Parlo di insieme perché il Mcd’I non fu mai un organismo centralizzato, a differenza del PCI-partito nuovo, restando piuttosto, dall’inizio alla fine, una federazione di vari gruppi di comunisti attraversati da influenze ideologiche molteplici (incluso l’anarchismo). Nella biblioteca di sezione del Mcd’I la “Storia della rivoluzione russa” di Trotsky, e scritti di Bordiga, Bucharin o Malatesta potevano stare accanto alle opere di Marx Engels e Lenin senza provocare guerre di religione. L’aspirazione di questi compagni ad essere dei militanti ben attrezzati si materializza nella scuola di formazione di Grotta Rossa. Già negli “anni della cospirazione” la loro priorità non era l’azione militare, bensì la ricostituzione dell’organizzazione comunista. Questa impostazione consentirà a Bandiera rossa di essere uno dei pochissimi esempi di “leadership politica comunista” nell’azione militare nel corso di tutta la resistenza italiana. Quando su Roma, dal settembre 1943, si stringe la morsa sanguinaria delle truppe naziste ed inizia l’attività militare dell’Armata rossa (così il Mcd’I denominò i suoi nuclei d’azione armata), la priorità di questa area di compagni rimane non lo scontro frontale con i nazisti, ma la preparazione delle forze e delle strutture per quando le truppe naziste avrebbero lasciato la città. Il loro sforzo principale – riuscito solo in piccola parte – resta il radicamento sociale negli strati proletari e popolari più schiacciati, ridotti alla fame nera. Tuttavia la Wehrmacht e la polizia fascista, mettendo in atto la coscrizione obbligatoria e la deportazione, obbligano chi intenda resistere a questa duplice violenza ad organizzarsi in gruppi armati. Il Mcd’I non si tira indietro. La consistenza delle sue milizie sarà sempre piuttosto limitata, ma il movimento arriva ad avere 27 unità locali, 8 gruppi speciali, e collegamenti con 39 bande “esterne”, alcune delle quali estranee ai suoi orientamenti politici. Pagherà un pesante tributo di sangue nei 9 mesi di occupazione nazista della città, designata capitale della Repubblica sociale italiana.

Seguendo un tracciato del tutto differente, i Gap del PCI operanti per lo più nel centro di Roma, furono dediti esclusivamente ad un’attività militare finalizzata a provocare rappresaglie naziste come strumento per stimolare la popolazione a sollevarsi contro lo straniero nell’ottica di un “nuovo risorgimento” dell’Italia – nelle parole di Rosario Bentivegna, uno dei gappisti più noti, a “scuotere la popolazione, eccitarla in modo che si sollevasse contro i tedeschi”, una tattica fallimentare perché a Roma non ci fu alcuna insurrezione. Ci fu, invece, una catena di sanguinose repressioni nazi-fasciste: tra le più brutali quelle compiute al Trionfale, al Quadraro e l’eccidio delle Fosse ardeatine dopo l’attentato di via Rasella, organizzato dai GAP il 23 marzo 1944 contro una compagnia di riservisti alto-atesini senza ruoli di combattimento. In tutti e tre i casi gli appartenenti al Mcd’I e all’Armata rossa pagarono il prezzo più alto tra le diverse componenti della resistenza romana: 68 dei 335 prigionieri (e passanti) fucilati alle Fosse ardeatine erano militanti del Mcd’I che – con ottime ragioni, a mio avviso – criticò i metodi terroristici dei Gap e si espresse a favore di un approccio “difensivo” alla lotta contro le forze nazifasciste in ritirata.

Nonostante queste difficilissime prove, il prestigio e il seguito del Mcd’I continuano a crescere fino alla fine del 1944, quando i membri del movimento oltrepassano le 13.000 unità (ma il PCI, con una progressione fulminea, aveva già oltrepassato i 50.000). Il momento di massima euforia è nei giorni successivi all’entrata delle truppe alleate in Roma avvenuta il 4 giugno 1944. Scrive Corvisieri:

I nove terribili mesi dell’occupazione e del terrore nazifascista erano finiti. Per i militanti più vecchi come De Luca (uscito da Regina Coeli alla testa di un corteo di detenuti politici), Poce, Volpini e tanti altri l’attesa era stata molto più lunga: da venti anni aspettavano quelle radiose giornate. La fame e la miseria generale, che tuttavia restavano, non frenarono le manifestazioni popolari di entusiasmo per la ritrovata libertà. La fine di un incubo. I militanti più attivi del Mcd’I si erano impossessati delle sedi necessarie alla loro attività e s’impegnarono a fondo nel reclutare giovani per l’Armata Rossa. Poce, a conferma dell’autorità di cui godeva, fu affiancato al vice-questore.
Furono giorni di vertigine per chi aveva tanto sofferto e anelato alla sconfitta del fascismo come nella necessaria premessa per la rivoluzione socialista. Il sogno di allestire un esercito popolare di liberazione, una Armata Rossa, apparve per qualche tempo di possibile realizzazione. Durante la occupazione di Roma, Armata Rossa era stata una piccola ma agguerrita formazione che raggruppava alcune centinaia di combattenti del Mcd’I e del PCI (sbandati o dissidenti dal partito); ora si trattava di sviluppare questo nucleo fino ad avere una forza armata popolare che conducesse autonomamente la guerra contro i tedeschi e i fascisti, affiancandosi agli Alleati e stabilendo un contatto non solo ideale con i partigiani del nord.

In pochi giorni la campagna di reclutamento dei volontari vede l’adesione di 40-50 mila giovani. E immediatamente scatta l’altolà degli Alleati “liberatori”, che “preoccupati dal movimento dei volontari che sarebbe stato difficile da controllare, emisero un decreto che ordinava la sospensione degli arruolamenti e ogni altra iniziativa non autorizzata. Poce, avendo insistito il Mcd’I nella sua azione, passò da vice-questore al carcere. Tornò in quella Regina Coeli che aveva conosciuto a più riprese durante il fascismo e ci restò per un paio di mesi.”

Fatto altamente simbolico dell’avvio della democrazia post-fascista (non però anti-fascista, come usa dire). L’esperienza romana è uno dei pochi casi in cui, pur essendoci rapporti con i comandi anglo-americani, viene mantenuta sia l’autonomia dell’organizzazione comunista che quella dei gruppi armati, perché “i proletari combattono per sé stessi”, e non per la borghesia. Poce si scontra con questi comandi quando pretendono di imporre al Mcd’I che a Roma non ci debba essere una insurrezione, e rinuncia al suo proposito solo quando sa che PCI, Psi e azionisti hanno accettato il diktat. Alla vigilia dell’occupazione di Roma da parte delle truppe alleate si rifiuta di mettere le proprie milizie sotto il controllo dei commissariati romani di pubblica sicurezza. Sennonché è proprio questa autonomia che i nuovi padroni, alleati e protettori dei vecchi padroni, non intendono in alcun modo accettare, tant’è che oltre Poce, anche altri militanti del Mcd’I vengono arrestati dalle forze della repressione democratica. Del resto, il 19 luglio 1943 i bombardamenti alleati su Roma erano cominciati, guarda caso, dal quartiere rosso di San Lorenzo con una strage di 1.600 persone. Nello scontro inter-imperialistico tra truppe nazifasciste e truppe a guida anglo-americana appariva sempre più chiaro, ormai, che la Resistenza avrebbe dovuto avere più un ruolo subalterno. Come ebbe poi a riconoscere senza mezzi termini Ferruccio Parri: Rifiutiamo per noi le penne del pavone. Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice.

Un giudizio storico-politico che, contro ogni bolsa retorica resistenziale di “estrema sinistra”, oggi appare indiscutibile. Per dirla con Paul Ginsborg: “la Resistenza non fu mai servile nei confronti degli Alleati, ma non può esservi alcun dubbio sulla sua essenziale subordinazione” ai comandi Alleati. I “comunisti dissidenti” di Roma cercarono invano di sottrarsi a questo amaro destino di donatori di sangue per la vittoria degli Alleati (imperialisti). Decimati dai nazi-fascisti; controllati, intimiditi e colpiti dalle autorità alleate; calunniati, minacciati, attaccati politicamente dal PCI; grazie alla loro speciale dedizione alla causa, erano riusciti a crescere fino alla fine del 1944, ma non ebbero la forza di tenere il campo dopo il crollo del nazifascismo e la fine della guerra. Si divisero prima tra favorevoli e contrari all’ingresso nel PCI; si dispersero poi in più direzioni, per dissolversi completamente nell’estate del 1947. Il PCI accettò nelle sue fila la gran parte dei militanti di base, respingendo invece i capi.

La vittoria del PCI sul Mcd’I è, in realtà, parte di un processo assai più ampio e profondo di nuova stabilizzazione del capitalismo globale dopo il trentennio di devastanti sconvolgimenti che va dal 1914 al 1945 passando per due guerre mondiali e la Grande Depressione. L’impressionante salasso di capitale fisso e di esseri umani avvenuto in questo frangente; il totale tracollo delle tre potenze dell’Asse; l’emergere sulle loro rovine e sul disfacimento dell’impero coloniale britannico di un nuovo, potentissimo guardiano dell’ordine capitalistico mondiale dotato di armi di sterminio di massa e in possesso di ingenti quantità di capitali da anticipare ai paesi europei vinti, gli Stati Uniti d’America; aprono una fase di forte ripresa dell’economia. E per i paesi europei, un periodo di pace nel quale i proletari in massa vengono risucchiati in una macchina produttiva democratica (fuori dai luoghi di lavoro) che pare promettergli un futuro differente dall’incubo vissuto da due generazioni di lavoratori. Non erano stati solo i dissidenti romani, erano stati in centinaia di migliaia, se non milioni di proletari italiani, jugoslavi, greci, albanesi e così via a sognare la ripresa e la conclusione vittoriosa del ciclo rivoluzionario degli anni 1917-1927. Che non si trattasse di sparuti gruppi settari e infantili, lo hanno riconosciuto in seguito gli stessi massimi pedagoghi della “via italiana al socialismo”. Ha scritto ad esempio Giorgio Amendola: “Vi era nel partito un profondo contrasto tra una grande parte degli aderenti che vedeva l’insurrezione [del 25 aprile ‘45] in maniera ingenua come già l’inizio del socialismo, e il gruppo dirigente che aveva coscienza dei limiti di classe della situazione italiana e cercava di correggere questo orientamento massimalista”. E lo stesso Togliatti, ha confessato ripetutamente che fu dura far comprendere alla massa dei militanti che la scelta di Salerno e dell’unità nazionale con la borghesia italiana in quanto tale non era una furba tattica doppiogiochista per fregare gli avversari borghesi, bensì la definitiva rinuncia alla prospettiva della rivoluzione sociale.

Con la mano ferma dello studioso che sa bene quello che dice, con ammirevole sobrietà nello stile, David Broder ci conduce a vedere e a vivere il progressivo impatto devastante che questo nuovo corso del capitalismo mondiale e del “movimento comunista internazionale” ebbe sui “dissidenti comunisti” di Roma. Davvero un libro da leggere. Che si chiude con queste parole:

i militanti del Mcd’I erano guidati più dalla fede in ciò per cui stavano combattendo che da una chiara idea su come raggiungere il proprio scopo. Questi proletari romani sognavano il sol dell’avvenire e una vittoria che non era soltanto degna della lotta per conseguirla, ma anche inevitabile, assicurata dal movimento della storia. Questa fede permise una coesione che altrimenti sarebbe mancata alla loro organizzazione piuttosto traballante, una teleologia capace di dare senso ai loro terribili sacrifici. Ma quando l’obiettivo finale scomparve dal loro orizzonte, non gli rimase alcuna tradizione da difendere. Alcuni di loro modificarono il proprio modo di vedere per abbracciare lo spirito dei tempi; i più rivolsero semplicemente le loro speranze al di fuori della politica. Non ci fu alcun lieto fine, né alcuna redenzione, e neppure un articolo di giornale che spiegasse perché gli ultimi seguaci avevano staccato la spina. Non potettero avanzare alcuna giustificazione, né indicare una svolta sbagliata. La loro storia non è stata altro che una storia di fede nel futuro, e della sua sconfitta.

Eppure: se un domani ci sarà una Roma senza Quirinale, senza Vaticano, senza i pescecani e senza la sterminata burocrazia che oggi l’appestano. Se sui sette colli nuove generazioni di proletari dovessero fondare la Comune romana sognata nel 1943-’45 da questi sconfitti esploratori del futuro. Allora la loro vicenda, i loro nomi sconosciuti grandeggeranno sulle forze nazionali e internazionali e sui “celebri personaggi” che li dispersero.

Fine

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I morti siete voi https://www.carmillaonline.com/2019/07/02/i-morti-siete-voi/ Mon, 01 Jul 2019 22:01:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53498 di Luca Cangianti

[Da oggi è in libreria il nuovo romanzo di Luca Cangianti, I morti siete voi (Diarkos, 2019, pp. 238, € 16,00). In questa opera storico-fantastica troverete: le avventure di Bandiera Rossa, la formazione partigiana più numerosa della Capitale, un’armata Brancaleone di ladruncoli, borgatari, ragazzine ribelli e osti autodidatti che praticavano un comunismo libertario ed estremista suscitando l’opposizione del Partito comunista italiano; il fantomatico Raggio della morte inventato da Guglielmo Marconi; i quartieri popolari della Garbatella, di Tor Pignattara e le loro cavità sotterranee; assalti, espropri, azioni [...]]]> di Luca Cangianti

[Da oggi è in libreria il nuovo romanzo di Luca Cangianti, I morti siete voi (Diarkos, 2019, pp. 238, € 16,00). In questa opera storico-fantastica troverete: le avventure di Bandiera Rossa, la formazione partigiana più numerosa della Capitale, un’armata Brancaleone di ladruncoli, borgatari, ragazzine ribelli e osti autodidatti che praticavano un comunismo libertario ed estremista suscitando l’opposizione del Partito comunista italiano; il fantomatico Raggio della morte inventato da Guglielmo Marconi; i quartieri popolari della Garbatella, di Tor Pignattara e le loro cavità sotterranee; assalti, espropri, azioni di guerriglia queer e poi loro… “i morti”; infine il giardino incantato di Villa Mirafiori, il sogno di un altro mondo possibile e il G8 di Genova 2001. Per iniziare eccovi il primo capitolo.]

***

Acqua Santa

L’esplosione provocò una ventata d’aria infuocata. Il tenente fu sbalzato in avanti e cadde a terra sbattendo il volto su una pietra. Sotto lo zigomo sinistro una ferita cominciò a sanguinare. Mentre strisciava verso un magazzino a pochi metri di distanza, avvertì una pioggia di detriti. Si rifugiò sotto una sezione di un grande tubo di acciaio. Gli sembrava massiccio e capace di proteggerlo nel caso l’intera costruzione fosse venuta giù. Un bagliore colorò di giallo il ponte levatoio, il muro alla Carnot, gli alloggi, gli automezzi, i pini e le colline intorno alla Caserma dell’Acqua Santa. Il tenente ansimava, tossiva, aveva la sensazione che tutti gli organi dentro il torace e il ventre stessero bruciando. La bocca era impastata di terra, sputò più volte ed ebbe anche un conato di vomito. Avvertì un rumore provenire dal sottosuolo: sembrava generato da una turbina impazzita che aumentava progressivamente i giri. Una seconda esplosione fece tremare la terra. Seguì il silenzio.

Nella semioscurità del suo rifugio cominciò a tastarsi il corpo per capire se avesse altre ferite oltre a quella del volto che aveva tamponato con un fazzoletto. Le gambe stavano bene, il torace e l’addome anche, la scapola destra invece era intorpidita e se provava a muovere il braccio provava dolore. Portò la mano sinistra dietro la spalla: la divisa era lacerata. Si guardò la mano sporca di sangue ed ebbe nuovamente un senso di vertigine. Dall’esterno del magazzino giungevano i lamenti e le urla dei feriti, ma anche suoni striduli che non riusciva a identificare. Aspettò ancora alcuni minuti e uscì dal rifugio di metallo. Arrivò agli stipiti del magazzino e fu accecato dal sole di luglio.

A una decina di metri giaceva immobile un aviere nella sua divisa grigio-azzurra. Accucciati sul suo corpo tre commilitoni emettevano versi indecifrabili, come degli schiocchi palatali ripetuti a breve distanza. L’uomo si spostò alla destra del deposito per vedere cosa stessero facendo. Uno dei tre si voltò di scatto emettendo un ringhio ferino. Stringeva nella mano un pezzo di carne, aveva la bocca imbrattata di sangue e la pelle ricoperta di squame. I suoi occhi erano due buchi neri che sprofondavano in un abisso insondabile. Il tenente si diede alla fuga, barcollando e inciampando. Altre creature simili inseguivano i militari della caserma, li atterravano e ne dilaniavano le carni a morsi. Da dietro un muretto un soldato con un fucile 91 sparava su uno di quei mostri che avanzava con la divisa della milizia fascista. I proiettili entravano nel torace senza arrestarlo. A tre metri di distanza la creatura spiccò un salto e fu addosso al militare che emise un grido soffocato. Il tenente notò molte altre camicie nere che fuggivano disordinatamente. Raggiunse il viale alberato che portava all’uscita della caserma. Uno degli edifici principali era distrutto, il portale d’entrata non era presidiato. Il sole era alto e il clima afoso. Imboccò via Appia Pignatelli in direzione di Roma. Una colonna di fumo nero saliva dalla città, un’altra meno densa dall’aeroporto di Ciampino.

Aveva perso molto sangue, ma il suo volto legnoso era composto e non lasciava trasparire il dolore che pur doveva provare. Quando udì il rumore di un veicolo si mise in mezzo alla strada e si accasciò a terra. All’uomo che gli apparve sfocato davanti agli occhi, prima di svenire disse: «Tenente Ferrari Vittorio, 1° Reggimento Granatieri di Sardegna, 3° battaglione, 9a compagnia».

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Guerriglia partigiana a Roma https://www.carmillaonline.com/2017/10/11/guerriglia-partigiana-a-roma/ Tue, 10 Oct 2017 22:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40974 di Luca Cangianti

Davide Conti, Guerriglia Partigiana a Roma. Gap comunisti, Gap socialisti e Sac azioniste nella Capitale 1943-’44, Odradek, 2016, € 30,00.

I “centri di fuoco” composti da due o tre partigiani armati di fucile, pistola e bombe a mano avevano la consegna di appostarsi al riparo degli edifici lungo le vie principali di Roma. Ogni combattente doveva avere con sé viveri confezionati e acqua per tre giorni; si era disposto inoltre che tutte le squadre fossero dotate di materiali di pronto soccorso. I “centri di fuoco” sarebbero entrati [...]]]> di Luca Cangianti

Davide Conti, Guerriglia Partigiana a Roma. Gap comunisti, Gap socialisti e Sac azioniste nella Capitale 1943-’44, Odradek, 2016, € 30,00.

I “centri di fuoco” composti da due o tre partigiani armati di fucile, pistola e bombe a mano avevano la consegna di appostarsi al riparo degli edifici lungo le vie principali di Roma. Ogni combattente doveva avere con sé viveri confezionati e acqua per tre giorni; si era disposto inoltre che tutte le squadre fossero dotate di materiali di pronto soccorso. I “centri di fuoco” sarebbero entrati in azione di loro iniziativa come gli fosse venuto a tiro un obiettivo nazifascista, aiutandosi gli uni con gli altri, ma restando autonomi. Nell’assalto alle sezioni rionali del Fascio avrebbero dovuto agire con immediatezza: “Non è ammessa nessuna pietà. Non sono ammessi prigionieri. È ammesso il rispetto ai morti che debbono essere composti lungo la via prospiciente il gruppo rionale”. Questo si legge nelle istruzioni “segretissime” ai capizona azionisti, comunisti e socialisti in vista dell’insurrezione contro l’occupazione nazifascista della Capitale.
Di contro ai monarchici badogliani e all’ala moderata del Comitato di liberazione nazionale (democristiani, liberali e demolaburisti), che volevano lasciar partire i tedeschi senza colpo ferire, facendo posto degli Alleati, i partiti di sinistra del Cln (il Partito d’Azione, quello comunista e quello socialista) si schierarono per l’opzione insurrezionale, sfidando il monopolio della violenza nazifascista con un capillare contropotere armato. Tuttavia, quando all’inizio del giugno 1944 arrivarono i giorni decisivi della liberazione, le formazioni partigiane rimasero sostanzialmente con le armi “al piede”, in attesa di ordini che non furono mai diramati. A differenza di Napoli e delle grandi città del Centronord, Roma non insorse, nonostante nei 271 giorni di occupazione si fosse articolata una vasta rete di resistenza armata la cui struttura è analizzata in Guerriglia Partigiana a Roma, il libro di Davide Conti edito da Odradek.

Nel dibattito sulla mancata insurrezione di Roma gli elementi addotti sono stati molti: le pressioni vaticane volte a scongiurare l’istaurazione di un potere rivoluzionario nel suo cortile di casa, l’opposizione dei comandi alleati, la debolezza della Resistenza romana dopo l’ondata di arresti dell’aprile 1944, la “svolta di Salerno” del Pci – sostenuta o addirittura ispirata da Stalin – con il relativo ingresso dei comunisti nel governo Badoglio. Secondo le nuove indicazioni del Pci, infatti, la lotta di liberazione non avrebbe dovuto portare al superamento del capitalismo, ma unicamente alla distruzione del fascismo. La stessa forma statuale che avrebbe dovuto assumere l’Italia (repubblica o monarchia) sarebbe stata affrontata alla fine della guerra. Da questo punto di vista la linea politica del Pci assumeva una posizione di raccordo tra i partiti moderati del Cln, da una parte, e azionisti e socialisti che dall’altra spingevano più intransigentemente per l’insurrezione e la repubblica: “All’interno di questa lotta politica – riassume Conti – l’interesse della classe operaia si identificava con l’interesse nazionale ed anzi era proprio nella forma storicamente data dalla guerra di liberazione nazionale che si manifestava la lotta di classe… Il carattere prioritariamente nazionale della lotta avrebbe consentito una unità di fondo tra le diverse anime dell’antifascismo ed entro questo perimetro comune i comunisti avrebbero esercitato una funzione egemone grazie alla forza ed alla preponderanza della loro capacità militare”. Va infine ricordato che la vera bestia nera dei comunisti italiani erano proprio un altro tipo di comunisti, quelli dissidenti di Bandiera Rossa. Essi criticavano da sinistra il Cln, non accettavano la collaborazione di classe togliattiana e vedevano nella Resistenza il primo passo verso l’instaurazione di una società comunista.1 Di questa formazione, per altro maggioritaria nella Resistenza romana, Conti sceglie tuttavia di non occuparsi, concentrando l’attenzione sui soli partiti di sinistra con struttura nazionale che all’interno del Cln avevano deciso di creare un Comitato militare centrale per coordinare le attività militari.

Un punto di forza di Guerriglia Partigiana a Roma è la ricchezza di documenti provenienti dagli archivi dei partiti, da fonti giudiziarie e di polizia, cui si aggiungono fondi privati, memoriali, fonti orali e materiale stampato. L’opera dedica una sezione a ognuno dei tre partiti che nel complesso avevano costruito una rete militare clandestina di circa duemila persone, anche se solo la metà erano realmente armate. Conti analizza le differenti impostazioni militari, le azioni di guerriglia e l’articolazione territoriale sulle otto zone nelle quali era stata divisa la città, senza tralasciare di menzionare le dotazioni militari, i nomi dei capizona, dei militanti e degli infiltrati.
Il braccio armato del Pd’A erano le Sac (Squadre d’azione cittadina) che traevano ispirazione dalla tattica mazziniana della “guerra irregolare per bande”. Nonostante le norme cospirative l’impostazione azionista prevedeva una buona dose d’integrazione tra la sfera politica e quella militare, a differenza della rigida compartimentazione vigente nel Pci. Anche il partito socialista creando i propri gruppi d’azione patriottica (Gap) consentì un tasso di maggiore interscambiabilità dei combattenti nelle varie squadre, accrescendone l’efficacia politica, ma anche il pericolo di esposizione alla delazione.
Il Pci si ispirò al movimento francese dei Francs-tireurs et partisans creando nella seconda metà dell’ottobre 1943 quattro Gap centrali (poi unificati nel gennaio nel 1944) separati dall’organizzazione militare di massa: “Dopo averli distaccati completamente da tutto il resto della rete del partito disposta sul territorio, la dirigenza del Pci cercò di organizzare i GAP centrali conformando il più possibile la loro struttura a quello delle cellule compartimentate. Gli obiettivi della segretezza dell’identità, della rottura dei ponti con gli ambienti familiari e della collocazione dei gappisti nella dimensione della più stretta clandestinità si rilevarono in realtà piuttosto complessi da realizzare visto che diversi partigiani si conoscevano già prima dell’inizio della Resistenza e molti continuarono a frequentare ambienti familiari o a mantenere contatti diretti con amici stretti, dirigenti di partito e tra loro stessi”. In seguito, secondo la testimonianza di Rosario Bentivegna, furono organizzati otto Gap di zona.
Pur nell’ottica unitaria della “svolta di Salerno” la ragione della formazione dei GAP è nel contrasto dell’attesismo delle forze moderate antifasciste: “I compiti conferiti alle squadre GAP furono: a) indebolire il potenziale bellico tedesco attraverso attacchi militari diretti; b) impedire l’utilizzo di Roma come transito delle colonne naziste e dei rifornimenti verso il nord-Italia; c) minare il morale delle truppe d’occupazione attraverso attacchi militari; d) organizzare piccoli nuclei gappisti in grado di mettere fuori combattimento importanti reparti militari nazisti; e) attaccare militi e ufficiali fascisti; f) creare le condizioni potenziali per una possibile insurrezione della città in appoggio alle truppe Alleate.”

Con la fine della guerra i gappisti tornarono alla vita civile, si dedicarono alle rispettive professioni, alcuni si impegnarono in politica, altri subirono l’onta di esser chiamati in giudizio per aver combattuto contro il nazifascismo. Di fronte ai tentativi golpisti del dopoguerra mantennero una “tacita intesa”, come disse il comandante gappista Mario Fiorentini, pronti a intervenire di nuovo qualora ve ne fosse stato bisogno. Purtroppo, a più di 70 anni dalla Liberazione, molti di questi combattenti non sono più tra noi, altri sono molto anziani e la restaurazione, senza far sfoggio di gagliardetti e camice nere, è sostanzialmente avvenuta. Conoscere la storia dei partigiani e delle partigiane della Capitale potrà esser d’aiuto a chi vorrà riprendere la loro lotta che – al di là delle differenze politiche  tra una formazione e l’altra – è stata una battaglia rivoluzionaria per una società più giusta e più equa.


  1. Cfr. qui e qui

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Le emozioni del cuore, la freddezza della ragione, la realtà dei fatti. https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/ Tue, 25 Apr 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37787 di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, della lotta nelle carceri e le stragi compiute all’interno di alcune di esse: Le Murate ed Alessandria; nonché per i nuovi dettagli evidenziati, la segnalazione (ricordi, memorie) di particolari rimossi. La smentita di una recente dietrologia complottista con presenze ‘multiple, diverse ed eterogenee durante le fasi dell’azione in via Fani. Le deposizioni di testimoni oculari che smentiscono se stessi, motociclette con a bordo ignoti sparatori fantasma ed altro ancora.
Inoltre la loro ricostruzione favorisce il recupero e il riordino della memoria.
Quella colletiva e quella individuale: la nostra, di ognuno di noi.

Gli autori hanno dei significativi ‘precedenti’ relativamente agli argomenti trattati nel libro di recente pubblicazione.
Clementi, dieci anni fa, ha realizzato una “Storia delle Brigate Rosse”;1 anni prima aveva dato alle stampe uno studio che potremmo definire correlato al piano ‘Victor’, ossia come neutralizzare umanamente, politicamente, personalmente e mentalmente il presidente del Consiglio Nazionale DC qualora fosse stato liberato.2
Il piano da attuare in caso di morte dell’ostaggio, era stato denominato ‘Mike’.
Più semplice, prevedeva di informare tutta una serie di figure istituzionali, giudiziarie e politiche, isolamento immediato del luogo di ritrovamento del corpo, interdizione dello stesso ai famigliari, l’istituzione di un efficiente servizio d’ordine davanti lo studio e l’abitazione di Moro, fornire in forma dubitativa le informazioni a stampa e tv.

Persichetti, con Oreste Scalzone, ha scritto “Il nemico inconfessabile”3 e, quasi quotidianamente, su ‘Insorgenze.net’ conduce una sistematica azione di puntigliosa smentita e rettifica di notizie…false e tendenziose. Relativamente ad avvenimenti e fatti riconducibili alla lotta armata e suoi militanti, alla repressione, tortura, ‘omicidi’ di stato, alla politica e alla cultura.

Infine, Santalena, ha elaborato una tesi dottorato di ricerca all’Università di Grenoble su, “La gauche révolutionnaire et la question carcérale : une approche des années 70 italiennes” (8 dicembre 2014) con capitoli espliciti: “Dalle prigioni fasciste, alle prigioni in rivolta (1969-1973)”; “Dalla riforma alla controriforma: tra repressione, lotta armata ed evasione (1974-1977)”; “Le prigioni al centro del conflitto: tra lotta armata e gestione dell’emergenza antiterrorismo (1977-1987)”.

Dettagli e particolari
Addentrandosi nella lettura si incontrano alcuni dettagli, o particolari, che se non sconosciuti, sono sicuramente poco noti. Così, si apprende che, la mattina del 9 maggio 1978, lo spazio dove verrà ritrovata in via Caetani (a metà strada tra la sede nazionale della Dc e quella del Pci) la Renault 4 di colore amaranto con all’interno il corpo senza vita di Moro, era stato occupato la sera prima da Bruno Seghetti che vi aveva parcheggiato la sua vettura personale, una Renault 6 di colore verde. Questo per evitare intoppi o inconvenienti dell’ultimo minuto. Così facendo si era sicuri che il luogo prescelto per posizionare la macchina servita per l’ultimo trasferimento, e successivo ritrovamento del corpo senza vita del parlamentare democristiano non sarebbe stato ostacolato dalla presenza di altri veicoli inopportunamente parcheggiati al suo posto.

Un’altra questione poco considerata è l’azione svolta da Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, quando è nominato difensore d’ufficio dal presidente della Corte d’Assise di Torino che deve condurre il giudizio (maggio 1976) contro il cosiddetto ‘nucleo storico’ (definizione sempre rifiutata dagli imputati) dell’organizzazione comunista combattente, dopo che i militanti delle BR avevano ricusato i propri avvocati di fiducia, diffidato la corte di nominarne d’ufficio ed erano, momentaneamente, riusciti a far vacillare i meccanismi classici dell’ordinamento giudiziario, rivendicando il diritto all’autodifesa, per condurre il cosiddetto ‘processo guerriglia’4 e far ‘saltare’ il dibattimento.

br-processo Nonostante l’accettazione delle superiori ragioni di stato, delegando la difesa tecnica ad altri otto avvocati dell’ordine torinese, il presidente della corporazione forense, approfittando del rinvio al 16 settembre 1976 – in attesa di un pronunciamento della Cassazione per redimere un conflitto di competenza territoriale tra Torino e Milano – al riparo da clamori mediatici, si fece promotore della proposta di promulgazione di una ‘leggina’ (come la definì in una missiva indirizzata al presidente del Consiglio nazionale forense) ad hoc che permettesse agli imputati che lo desiderassero di difendersi da soli.

Sempre durante il tentativo di costituire la corte per poter svolgere il processo, oltre alla nomina di ‘difensori tecnici’, si incontrarono notevoli difficoltà nell’individuare i giudici popolari, per la rinuncia ad accettare di molti di essi.
Per superare questo ostacolo scesero in campo i massimi dirigenti del Pci torinese, Giuliano Ferrara in testa, coadiuvato ufficiosamente da due magistrati della procura, Luciano Violante e Gian Carlo Caselli che, secondo il parlamentare ed esponente del Pci torinese Saverio Vertone, “Partecipava alle riunioni del comitato federale. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria…” Mentre l’elefantino (pseudonimo di G. Ferrara) partecipò ad “alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico” (M. Caprara).

Sempre Ferrara, rivendicava il merito al Pci di aver realizzato, e diffuso, il famigerato questionario contro il terrorismo che, alla domanda n. 5, invitava alla delazione.
…poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra. (…) Per esempio case. Chiedevamo: ‘Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”.
Tramite un suo ‘autorevole’ dirigente, G. Ferrara, il Pci si faceva Stato.

Prima delle Brigate Rosse e le militanze nel Pci
Già subito dopo la Liberazione si sono strutturati gruppi od organizzazioni Comuniste che praticavano la lotta armata. In diverse forme e modi. Dal Movimento Resistenza Partigiana-Movimento di Unità Proletaria di Carlo Andreoni, di cui, però, vanno chiarite alcune ambigue striature; alla “IX Divisione Stella Rossa Brigata clandestina ‘808’ “ di Armando Valpreda,5 presidente dell’Anpi di Asti, tra i promotori dell’ insurrezione di Santa Libera,6 fino a quel gruppo di bravi ragazzi che si ritrovavano presso la Casa del Popolo di Lambrate (Mi) per costituire la ‘Volante Rossa’.7 Per giungere a quei militanti emiliani (clandestini ed apparentemente senza organizzazione unificante) che hanno costellato le province reggiana, modenese, ferrarese e bolognese di numerosi fatti d’armi, principalmente eliminazione di fascisti e loro complici.

In anni più vicini al secondo biennio rosso italiano (1968-1969) ci sono esperienze di resistenza ed attacco armato che potremmo definire propedeutiche alla più significativa (per durata, numero di militanti ed azioni) organizzazione che ha ‘imbracciato il fucile’ e che viene ‘raccontata’ nel libro.
Il gruppo torinese costituito da Piero Cavallero, Danilo Crepaldi, Sante Notarnicola,8 Adriano Rovoletto, tutti militanti del Pci operaista delle ‘Barriere’ proletarie di Torino. “Già nel 1959 abbiamo compiuto la prima azione e siamo andati avanti fino al 1967, momento del nostro arresto. Piero era il coordinatore delle sezioni Pci della ‘Barriera di Milano’ , una circoscrizione popolare con circa 70.000 abitanti. Io, ero stato segretario dell’organizzazione giovanile del partito (Fgci) a Biella e contavamo circa 3.000 iscritti. Agli inizi degli anni sessanta avevamo capito che non eravamo più sintonizzati con il ‘partito’. Troppo ingessato, conformista e non più ‘rivoluzionario’9 .

Un’altra compagine di militanti iscritti al Pci, sezione “Rino Mandoli” di Ponte Carrega a Genova, che ha intravisto ‘l’ora del fucile’, è quella che volgarmente e mediaticamente è stata battezzata XXII Ottobre, attiva a Genova dal 22 ottobre 1969 (data di costituzione) al 26 marzo 1971, giorno della rapina al fattorino dello Iacp. In realtà, colui che è indicato come uno dei fondatori della pattuglia di nuovi partigiani, Mario Rossi, anche se con reticenze, distinguo e cautele, afferma: “Condividendo la posizione dei Gap, diventammo in pratica il gruppo Gap di Genova come c’erano già a Milano e Trento. Però, l’ho detto e lo ripeto ancora, siamo sempre stati autonomi rispetto alle altre formazioni che si stavano formando o che erano già attive altrove”.10
.
L’esperienza di Rossi, e la lettura del libro di Clementi-Persichetti-Santalena, ci offrono l’occasione di approfondire anche un altro aspetto, relativo a militanti delle prime formazioni armate, ma anche delle Brigate Rosse: la loro provenienza, l’appartenenza e l’agire politico.
Nella testimonianza raccolta da Donatella Alfonso (giornalista de “La Repubblica”) Rossi ribadisce,
Io, di fatto, mi sento ancora un militante del Pci degli anni Sessanta…In quegli anni lì ti capitava di frequentare il Partito soprattutto sul posto di lavoro, nelle sezioni di fabbrica, perché sentivi il polso dell’operaio che era quello che ti insegnava a lavorare e poi pensare…(Noi) ci eravamo tutti forgiati anche con il 30 giugno del ’60, quando Genova ha respinto il congresso del Msi. Lì c’eravamo tutti e l’ultima volta che ho visto davvero il Partito comunista in piazza è stato quel giorno, con i partigiani e i portuali con il gancio in mano”.

Nella ricostruzione delle sue scelte politiche, svela anche un particolare emblematico, “…un altro fatto che non ho mai raccontato per non mettere in imbarazzo nessuno, ma io ho continuato ad avere la tessera del Pci: finché non è morto, un vecchio compagno di Genova me l’ha rinnovata tutti gli anni, anche quando ero in carcere…Sembra assurdo, ma io non sono mai stato espulso dal Partito comunista”.

feltrinelli Queste due organizzazioni ‘minori’ e precedenti al dispiegarsi delle BR e di altre formazioni con struttura nazionale anche se con diffusione a macchia di leopardo (Nuclei Armati Proletari e Prima Linea) insieme ai Gruppi d’ Azione Partigiana costituiti da Giangiacomo Feltrinelli (operativi a Trento, Milano e Genova, i cui militanti in maggioranza, e sostanzialmente, sono confluiti nelle Brigate Rosse dopo la morte dell’editore,14 marzo 1972) sono stati un insieme di più ‘iscritti’ al Partito (Nelle inchieste sui Gap sono stati indagati G.B. Lazagna, Marisa e Vittorio Togliatti, nipoti del Migliore, ed altri ancora molto ‘vicini’ al Pci) che si sono mossi collettivamente, ma ci sono anche sintomatiche individualità o compagni semi-organizzati, con contatti personali. L’editore milanese presta la sua pistola (una Colt Cobra) a Monika Ertl, nome di battaglia ‘Imilla’, quando il primo aprile 1971, ad Amburgo, uccide Roberto Quintanilla Pereira, rappresentante del governo boliviana in Germania e boia di Ernesto Che Guevara.11

Clementi e coautori ricordano il caso di Maria Elena Angeloni, la zia di Carlo Giuliani, dilaniata – insieme al militante cipriota Georgios Christou Tsdikouris – dall’auto bomba che stava indirizzando verso l’ambasciata statunitense di Atene (2 settembre 1970) ed iscritta alla sezione 25 Aprile del Pci milanese. “Ai funerali di Elena, a Milano, per la Resistenza greca c’è Melina Mercouri. Ci sono i compagni, gli amici, i militanti del Pci. A titolo individuale. Il Partito non c’è. Anche se ufficialmente sostiene la Resistenza. Il segretario della sezione 25 aprile viene costretto dalla Federazione a strappare la matrice della tessera di Elena”.12

Un altro esempio evidenziato in “Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’” è quello di Angelo Basone, operaio alle presse di Mirafiori, delegato sindacale e dirigente della sezione di fabbrica del Pci, mai espulso dal partito, inserito nella lista dei 61 operai da licenziare e militante noto e riconosciuto dell’organizzazione con la stella a cinque punte. Condannato per partecipazione a banda armata, prigioniero politico nelle carceri speciali.

Quelle sopra ricordate sono le biografie politiche di alcuni militanti comunisti (militanti del Pci) che hanno intrapreso la lotta armata. Militanti politici a tutto tondo, che partecipavano all’attività di sezione, contribuivano al dibattito durante le riunioni, intervenivano ai congressi di partito, organizzavano manifestazioni e comizi, redigevano e distribuivano volantini, diffondevano la stampa: il quotidiano ‘L’Unità’, i settimanali ‘Vie Nuove’ e ‘Noi Donne’. Non giocavano a fare i soldatini.

La più significativa, probabilmente, è la coerente traiettoria disegnata da Prospero Gallinari. Già militante, a Reggio Emilia, dell’ organizzazione giovanile del Pci, dal 1968 con doppia tessera, anche quella del Partito13 quando ne viene espulso (1969) per indisciplina, partecipa alle riunioni del ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’, detto ‘Gruppo dell’appartamento’ (poi CPM-Sinistra Proletaria di Re). Dopo un’infelice (così la definisce nella sua autobiografia) esperienza (1971-1972) nel Superclan di Corrado Simioni, aderisce ufficialmente alle Brigate Rosse, divenendone uno dei militanti più rappresentativi.

Mario Moretti, quando Gallinari muore, lo ricorda così: “Il nome di battaglia di Prospero era Giuseppe e non è certo per caso. Se l’era scelto con molta ironia ma per un vecchio comunista quel nome vuol dire qualcosa. Prospero è uno dei compagni di fiducia e di linea, è lui che guida la battaglia politica con Morucci nella colonna romana. Prospero è il marxismo-leninismo, tutto quel che ci succede, ascese e cadute, lui lo legge alla luce del rapporto tra partito e masse, avanguardia e masse. Pensa che è là che manchiamo. Viene dall’esperienza emiliana, per lui il partito è tutto, la coerenza politica è tutto, e ha un senso morale fortissimo. Ognuno vive la sconfitta in maniera diversa… per lui, se le cose tornano sui paradigmi marxisti-leninisti va bene, e di lì non si muove neanche se gli spari. Quando le Br si esauriscono, spera in una continuità in qualcosa che non siano le Br. Il che a mio parere non ha senso, e gliel’ho detto, pur con il grande rispetto che ho per lui. Prospero è uno di quelli con cui mi intendevo, è d’acciaio, proprio d’acciaio, è fatto così, è un vecchio contadino del Pci. Prospero è importantissimo. Ciao, Prospero”.14

Anche Andrea Colombo,15 in altra prospettiva ed ottica, gli rende gli onori della Politica: “Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice ‘col cuore grande’…Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo. Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. ‘Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata’ “.

La costituzione delle BR
Gli artefici di questo primo volume, a cui altri ne seguiranno, hanno ricostruito dettagliatamente come, e quando, si è costituita la prima, e più importante, organizzazione armata italiana del dopoguerra con un’ ampia ramificazione su quasi tutto il territorio nazionale. Quali sono stati gli organismi, collettivi e comitati politici che hanno contribuito alla sua fondazione. Più sopra abbiamo sottolineato come questo lavoro sia di aiuto e stimolo al recupero della memoria, anche per questo motivo lo consideriamo un testo utile e fondamentale.

Da Trento, un apporto sostanziale lo hanno fornito Margherita Cagol e Renato Curcio che, poi, con Mauro Rostagno (Movimento per una Università Negativa) sono ‘migrati’ a Verona, per poter aver un respiro politico maggiore, dove hanno collaborato con il ‘Centro d’informazione’ che pubblicava la rivista ‘Lavoro Politico’ diretta da Walter Peruzzi. Successivamente, quasi tutta la redazione aderì al Partito Comunista d’Italia, che poi si scisse in ‘linea nera’ e ‘linea rossa’.

Curcio e ‘Mara’ aderirono a quest’ultima, fino a quando, agosto 1969, ne vennero espulsi insieme a Peruzzi ed al ‘trentino’ Duccio Berio. Da Verona si trasferiscono a Milano, ed incontrarono i Compagni del Collettivo Politico Metropolitano (poi Sinistra Proletaria), i Compagni dei Cub Pirelli, Alfa, Sit-Siemens, Marelli, nonche i componenti dei Gruppi di Studio della Sit e della Ibm. Quest’ultimo, qualche anno dopo, realizza un importante lavoro di ricerca sulla multinazionale statunitenese: “IBM, capitale imperialistico e proletariato moderno”.16 Ma anche nei quartieri della cintura periferica ci sono realtà ‘autonome’ che iniziano una certa critica politica: comizi volanti, diffusione di materiale di propaganda e militare, prevalentemente incendio di automobili di capetti e fascisti.

Particolarmente radicato, nel quartiere Lorenteggio-Giambellino, il “Gruppo Proletario Luglio ’60” comunista autonomo. Animatori e aderenti a questo organismo sono tutti (un centinaio) ex militanti iscritti alla sezione Pci di quartiere, intitolata al partigiano ‘Giancarlo Battaglia’. Come partigiani sono il militante storico del rione: Gino Montemezzani, uno dei pochi maoisti ad avere incontrato personalmente Mao Tse Tung,17 e Giacomo ‘Lupo’ Cattaneo, successivamente combattente comunista nelle Brigate Rosse. Del comitato “Luglio ’60” fanno parte anche i nove fratelli Morlacchi,18 figli di una ‘famiglia comunista’. In sei saranno perseguitati per costituzione e partecipazione a banda armata: le BR. Pierino, oltre ad essere uno dei promotori dell’organizzazione è stato anche nel primo comitato esecutivo con Curcio, Cagol e Moretti.

A Reggio Emilia, la gran parte dei componenti il ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’ provenivano dal Pci e dalla Fgci, ed insieme agli organismi sopra ricordati, oltre ad un gruppo di compagni di Borgomanero (No) e uno del comprensorio Lodi-Casalpusterlengo (allora provincia di Milano) si ritrovarono a dibattere e discutere, a fine dicembre 1969 presso la locanda ‘Stella Maris’ di Chiavari (Ge) e, poi, al ‘congresso di fondazione’ in quel seminario-convegno di tre giorni che si svolse presso la trattoria ‘Da Gianni’, frazione Costaferrata, zona appenninica della provincia reggiana nell’agosto 1970. Così, sostanzialmente, si costituirono le Brigate Rosse.

Memoria ed oblio
Spesso si ripete che la memoria è un ingranaggio collettivo. Ma è anche uno strumento ‘sovversivo’. I tre ricercatori, autori di questa complessa ricostruzione umana, storico e politica ci forniscono l’occasione per coniugare le due azioni. Gli episodi, all’interno di questo primo volume, sono numerosi, alcuni ci hanno colpito particolarmente. Ricordiamo quelli che ci sembra abbiamo una maggior valenza politica.

Quello di maggior spessore e ‘peso’, in tutti i sensi, è relativo al famigerato (vale la pena ribadirlo) scandalo Lockheed. Gli autori lo ricordano19 con precisione. “Lo scandalo Lockheed era nato dalle rivelazioni della Commissione d’inchiesta statunitense guidata dal senatore Frank Church, secondo le quali la compagnia Lockheed aveva pagato tangenti in molti paesi per vendere la produzione bellica agli eserciti nazionali. Per quanto riguardava l’Italia, si trattava di tangenti per l’acquisto di 14 aerei C-130 comprati dal governo italiano tra il 1972 e il 1974, di aerei F-104S e di carri armati Leopard. Accanto a Gui (Ministro degli Interni e moroteo, nda) fu coinvolto anche il ministro della Difesa Mario Tanassi mentre, sempre secondo le rivelazioni statunitensi, dietro alcuni nomi in codice (Antelope Cobbler e Pun) si nascondeva un ex presidente del consiglio…Il nome in codice ‘Antelope’, secondo le rivelazioni americane, indicava un presidente del Consiglio negli anni dal 1965 al 1970, coinvolgendo dunque, oltre a Moro (1963-1968), il governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone (giugno-novembre 1968) e quello di Mariano Rumor (dicembre 1968-luglio 1970). I tre smentirono ogni coinvolgimento e il 29 aprile l’ambasciatore statunitense notò che, nel farlo, avevano dato l’impressione di ritenersi colpevoli a vicenda”.

Repubblica Moro Dal momento che non condividiamo, né abbracciamo, nessun tipo di teoria complottista e dietrologica, specifichiamo subito che non attribuiamo a nessuno dei citati colpe precise, però ricordiamo…E ricordiamo che giovedì 16 marzo 1978, il giorno del rapimento Moro, sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” c’era questo ‘box’: “Antelope Cobbler è Aldo Moro?” che rimandava ad un articolo interno: “Antelope Cobbler? Semplicissimo Aldo Moro, presidente della DC”.

Non ci dilunghiamo oltre perché non è necessario. Rileviamo che la notizia poteva essere approfondita, verificata, confermata, smentita. Come tutta la vicenda delle cosiddette ‘bare volanti’, così erano anche chiamati i Lockheed F-104, che si concluse con le condanne dei ‘soli’ Tanassi (Psdi), del suo segretario personale, dei rappresentanti italiani della Lockheed e dell’allora presidente di Finmeccanica (a partecipazione statale). Non sappiamo come finì la falsa (?) accusa del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari contro Moro.

Con la loro ricostruzione, Clementi, Persichetti, Santalena, ci aiutano a rideterminare i tempi e modi con cui sono state istituite le carceri speciali, la ‘settimana rossa’ dell’Asinara, le battaglie di Pianosa e Saluzzo, lo sciopero della fame di Nuoro, proprio per superare e smantellare le fortezze disumane: Kampi. La costruzione ed inaugurazione del primo super-carcere femminile: quello di Voghera e la manifestazione-con cariche bestiali e tante botte ai partecipanti-del luglio 1983, per la sua neutralizzazione. La ‘mano libera’ concessa a Carlo Alberto Dalla Chiesa e al suo nucleo speciale antiterrorismo. L’introduzione dell’uso sistematico della tortura contro gli arrestati per farli parlare.
Già dal 1975, con Alberto Buonoconto, poi Enrico Triaca, Cesare Di Lenardo, Paola Maturi, Sandro Padula, Emanuela Frascella, purtroppo tanti altri.

E proprio all’istituzionalizzazione di questa pratica crudele e ai molti casi riscontrati, gli autori di ‘Brigate Rosse’ dedicheranno approfondimenti ed adeguato spazio nei prossimi volumi. Senza tralasciare il sequestro D’Urso, Dozier e dei quattro rapimenti della ‘campagna di primavera’: Cirillo, Taliercio, Sandrucci e Peci. Non trascurando la nascita del Partito Guerriglia, del distacco della Walter Alasia, dell’annuncio della ritirata strategica e della fine di un’esperienza.
Così come il massacro di via Fracchia a Genova e l’esecuzione di Roberto Serafini e Walter Pezzoli a Milano.
“La storia continua”.20

N. B. Questo è il primo di tre contributi relativi a lotta armata, carcere, proletariato extra legale, realizzati prendendo spunto da altrettante recenti pubblicazioni. Oltre a questa di Clementi-Persichetti-Santalena, le prossime saranno l’autobiografia di Pasquale Abatangelo “Correvo pensando ad Anna”, e “L’albero del peccato”, pubblicato, grazie a Giorgio Panizzari, aggiornato e notevolmente ampliato rispetto all’edizione del 1983, diffusa a firma ‘Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse’. (F.A.)


  1. Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek Edizioni, Roma, 2007  

  2. Marco Clementi, La ‘pazzia’ di Aldo Moro, Odradek Edizioni, Roma, 2001  

  3. Paolo Persichetti-Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni settanta ad oggi, Odradek Edizioni, Roma, 1999  

  4. Jacques M. Verges, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969  

  5. Nel saggio di Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946, il leader degli insorti, ‘Armando’, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato ‘808’ in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  6. Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010; Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984; Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995; Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “ L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995; Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009; Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013  

  7. Cesare Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di ‘un gruppo di bravi ragazzi’, Colibrì Edizioni, Milano, 2009; Carlo Guerriero-Fausto Rondelli, La Volante Rossa, Datanews, Roma, 1996; Massimo Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, DeriveApprodi, Roma, 2009; M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, DeriveApprodi, Roma, 2011; Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014  

  8. Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972  

  9. Da una conversazione con Sante Notarnicola, 14 aprile 2017  

  10. Donatella Alfonso, Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita. La storia inedita della banda XXII Ottobre, Castelvecchi Rx, Roma, 2012  

  11. Jurgen Schreiber, La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, casa editrice Nutrimenti, Roma, 2011  

  12. Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma, 2015  

  13. Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani Overlook, Milano, 2006  

  14. Mario Moretti, Per Prospero, 14 gennaio 2013  

  15. Gli Altri online, 14 gennaio 2013  

  16. Sapere Edizioni, Milano, 1973  

  17. Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Edizioni LiberEtà, Roma, 2006  

  18. Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X, Milano, 2007  

  19. nn.14 e 15, pag. 149  

  20. P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit.  

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