gamification – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La società della ricompensa. I tanti volti (sorridenti) della gamification coercitiva https://www.carmillaonline.com/2024/10/20/la-societa-della-ricompensa-i-tanti-volti-sorridenti-della-gamification-coercitiva/ Sun, 20 Oct 2024 20:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84915 di Gioacchino Toni

Adrian Hon, La società della ricompensa. Perché la gamification ci fa giocare di più ma divertire di meno, traduzione di Paolo Bassotti, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 320, € 23,00 edizione cartacea, € 12,99 ebook

Uscito con il titolo You’ve Been Played: How Corporations, Governments, and Schools Use Games to Control Us All (‎Basic Books, 2022), il volume, dal taglio divulgativo, è stato scritto da un autore che conosce bene l’universo dei videogame e delle loro applicazioni extra-ludiche. Adrian Hon è programmatore di videogiochi, co-creatore di Zombies Run! – uno dei più popolari mobile fitness game – [...]]]> di Gioacchino Toni

Adrian Hon, La società della ricompensa. Perché la gamification ci fa giocare di più ma divertire di meno, traduzione di Paolo Bassotti, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 320, € 23,00 edizione cartacea, € 12,99 ebook

Uscito con il titolo You’ve Been Played: How Corporations, Governments, and Schools Use Games to Control Us All (‎Basic Books, 2022), il volume, dal taglio divulgativo, è stato scritto da un autore che conosce bene l’universo dei videogame e delle loro applicazioni extra-ludiche. Adrian Hon è programmatore di videogiochi, co-creatore di Zombies Run! – uno dei più popolari mobile fitness game – e co-fondatore della celebre casa di produzione indipendente di videogame Six to Start.

Nonostante il termine gamification si sia diffuso soltanto in avvio del nuovo millennio, del ricorso a logiche di gioco per scopi non ludici si può parlare anche a proposito di pratiche in uso ben da prima dell’avvento del digitale e di internet. Indubbiamente le nuove tecnologie hanno incrementato il grado di pervasività e di incidenza della gamification1 ed è passando in rassegna i fattori tecnologici e sociali che hanno portato a tutto ciò che si apre il libro di Hon.

Lo sguardo utopico con cui si guardava ai giochi come se questi potessero “salvare il mondo” proprio dei decenni a cavallo tra il cambio di millennio – onda lunga di quel tecno-ottimismo che aveva contraddistinto la nascita di internet e l’arrivo del digitale –, può dirsi scemato a metà degli anni Dieci quando, invece, si è diffusa una sorta di disillusione circa il mondo della rete. In realtà scrive Hon, «l’aura carismatica che avvolgeva i vecchi ideali utopistici non è morta, ma si è spostata su quel tipo di gamification della vita e del lavoro oggi tanto in voga, conferendole una legittimità morale che cela i suoi aspetti più manipolatori» (p. 33).

Nonostante ad avere la meglio sia stata una gamification conservatrice, utilizzata per aumentare la produttività e lo sfruttamento, Hon si guarda bene dal demonizzazione il ricorso a logiche di gioco per scopi extra-ludici, non mancando di sottolineare come la gamification sia effettivamente dotata di un grande potenziale educativo e scientifico.

L’autore si sofferma dunque sull’aura che brilla sulla gamification del consumatore e della sua vita: come un mantra viene ripetuto che tutto ciò che ci appare noioso o difficile può diventare divertente e facile; se una cosa è in qualche modo misurabile, allora può essere gamificata e migliorata. In questo storytelling si evita di specificare in cosa consista il miglioramento (produttività?) e chi , comunque, ne tragga “reale beneficio”. Detto che è bene mantenere un certo scetticismo circa i risultati sbandierati dalle app di gamification, Hon sottolinea come molte di quelle dedicate al fitness facciano proprie le derive competitive dell’attuale società.

Lo storico Jürgen Martschukat2 ha messo in luce come la nascita del fitness negli Stati Uniti coincida con l’ascesa del neoliberismo, quando l’esaltazione del mercato e della responsabilità individuale si sono fuse con l’individualismo e l’autorealizzazione delle controculture: da allora la propensione degli individui ad ottimizzarsi è stata assorbita e sfruttata dalle aziende in termini di incentivazione al consumo e all’autosfruttamento. Se di per sé la gamification dell’automiglioramento non per forza di cose è negativa, in un contesto come l’attuale non è difficile immaginare come si sia trasformata in dipendenza consumista.

È sul lavoro che la gamification porta la logica del miglioramento alle estreme conseguenze; esempi eclatanti di ciò si possono individuare non solo nei settori del trasporto di merci e persone (autotrasportatori e tassisti), ma anche degli addetti ai magazzini, dei call center e dei programmatori. In realtà, sostiene Hon, le promesse della gamification di rendere il lavoro più divertente e produttivo risultano spesso tradite: se inizialmente l’attività gamificata può sembrare meno alienante, ciò è dovuto soprattutto ad un “effetto novità” di breve durata, mentre del fatto che renda davvero più produttivi, sempre sul lungo periodo, spesso mancano prove scientifiche. Piuttosto che rendere il lavoro più divertente e produttivo, la gamification «fa in modo che i lavoratori che non riescono a centrare obiettivi sempre più difficili se ne assumano tutte le colpe, a vantaggio del datore di lavoro» (p. 11).

Ai lavoratori vengono assegnati punteggi in base alle loro condotte ed alle loro performance. Molte delle cose richieste non sono obbligatorie, certo, ma se non le si compiono scattano punteggi di penalità che portano a stipendi sempre più magri. Emblematico il caso Uber; se non si conseguono i risultati auspicati la “colpa” ricadrà sul lavoratore che non ha saputo sfruttare le opportunità che pure gli erano state offerte mentre altri colleghi hanno saputo approfittarne. La gamification si palesa dunque come «un modo accattivante e amichevole per pagare meno chi lavora» (pp. 64-65).

Come detto, la gamification si basa sulla misurabilità, dunque sui dati. Se all’inizio del Novecento, con il taylorismo, si ricorreva al cronometro per le misurazioni al fine di ridurre il costo del lavoro, la variante digitale contemporanea vanta molti più strumenti di misurazione e, soprattutto, la sua estetica amichevole tenta di trasformare «le punizioni del taylorismo in un’avventura virtuale anche quando mette i lavoratori l’uno contro l’altro» (p. 76).

Non è infrequente che le misurazioni, siano esse applicate al lavoro o, ad esempio, ad un’attività di cura della persona, effettuate anche attraverso dispositivi molto sofisticati, tradiscano le finalità dichiarate. Hon riporta l’esempio degli autotrasportatori statunitensi tenuti, per ridurre i rischi di incidenti stradali, a sostituire i vecchi registri cartacei (facilmente falsificabili) attestanti il rispetto delle norme governative circa le ore di servizio, con dispositivi ELD (Electronic Logging Devices). Introdotti con l’obiettivo di “rendere le strade più sicure”, i sistemi di monitoraggio ELD da questo punto di vista non sembrano aver ottenuto grandi risultati. L’idea di focalizzarsi sul conteggio delle ore di guida anziché guardare alle tante cause che determinano l’elevato numero di incidenti, somiglia molto, sostiene Hon, all’ossessione degli individui per il rispetto del numero di passi quotidiani suggeriti dalle app di fitness anziché guardare alla salute o al focalizzarsi sui dati che quantificano la performance nei giochi di allenamento per il cervello anziché ambire ad una vita intellettuale più ricca.

L’ossessione per per le cifre (ore di guida, numero di passi giornaliero, performance di brain training…) tende a far passere in secondo piano quelli che dovrebbero essere i veri obiettivi (scongiurare gli incidenti, la salute, la crescita intellettuale…) e rende più vulnerabili alla gamification. Insomma, secondo l’autore, la logica del game applicata ad attività extra-ludiche, con la sua ossessione per la misurabilità e la quantificazione, in diversi casi è destinata a “perdere per strada” le buone intenzioni di partenza.

L’idea che un’attività lavorativa debba essere divertente, come sostengono le imprese che introducono sistemi di gamification, è messa in discussione dall’autore del volume che, a tal proposito, riprende le efficaci parole di David Graeber: «È crudele costringere i lavoratori alla grottesca messa in scena di un gioco. Un lavoro sensato e pagato il giusto si ricompensa da solo. Se ciò viene a mancare, gamificare il lavoro equivale a gettare acido su una ferita infetta»3.

Non condannando aprioristicamente il ricorso a pratiche proprie del gioco ad attività extra-ludiche, Hon riporta anche alcuni esempi di gamification non affidata ai consueti sistemi di punteggio e badge. Nel volume viene dato spazio anche a come la gamification tocchi l’universo dei videogiochi con lo scopo di massimizzare l’engagement ed il profitto. Venendo invece ad aspetti che hanno a che fare più direttamente con la sfera politica, l’autore evidenzia come, nonostante i media si siano più volte occupati dei sistemi di credito sociale gamificato cinesi, quasi mai hanno trattato casi occidentali non meno inquietanti. «Negli USA e in Gran Bretagna la gamification è endemica nelle campagne elettorali, nei wargame, nella propaganda, nelle scuole e nelle università» (p. 12).

Hon ricorda come la gamification non solo preceda l’universo digitale, ma si sia estesa già in passato ben oltre il capitalismo, come testimonia la proposta di Lenin, nel lontano 1917, di una “Competizione socialista” per motivare le fattorie ad incrementare la produzione attraverso un sistema di punti, livelli e medaglie4. Se la gamification applicata all’ambito lavorativo viene utilizzata per ridurre gli stipendi e controllare i lavoratori, sul piano politico questa viene finalizzata dai governi a rendere maggiormente virtuose le condotte dei cittadini. Foucault le definirebbe “estensioni dello stato carcerario”5. A ben guardare si tratta soprattutto di virtù volte al mantenimento dello status quo. «La gamification attuata dai governi è una tecnica fondamentalmente conservatrice, usata per mantenere in vigore rapporti e sistemi già esistenti e non per trasformarli» (p. 134).

Tra gli esempi di gamification attuati dai governi occidentali, Hon si sofferma in particolare sulle più che discutibili modalità con cui viene assegnato il punteggio nella graduatoria per l’assegnazione delle abitazioni ai senza tetto di Okland in California6, sul sistema di crediti FICO introdotto nel 1989 per valutare l’affidabilità finanziaria degli individui a cui ricorrono banche e società di carte di credito e su altri sistemi di assegnazione di punteggi a cui guardano le assicurazioni sanitarie ecc.7.

Sebbene, al momento, i punteggi di credito sociale e finanziario si trovino al confine della gamification, sopratutto per lo scarto temporale ancora esistente tra l’analisi dei dati e la decisione, presto, grazie l’aumento dei dati raccolti online e offline ed alla loro elaborazione in tempo reale, vi potrebbero rientrare a tutti gli effetti trasformando la partecipazione (obbligatoria) al sistema dei crediti sociali in una grottesca parvenza di avventura fantasy.

Il ricorso alla gamification ha investito l’ambito militare e non solo nelle operazioni di training ma anche nella conduzione dei conflitti8, così come l’ambito dell’istruzione che, da tempi lontani, procede assegnando punti, ricompense, e diversi altri elementi tratti dall’universo ludico. All’indignazione occidentale suscitata dal diffondersi nel 2018 della notizia del ricorso al riconoscimento facciale adottato dalle scuole cinesi, non è certamente corrisposta analoga attenzione nei confronti di equivalenti statunitensi ed europei9.

Tra gli esempi occidentali, persino precedenti al monitoraggio cinese, l’autore riporta il caso di ClassDojo, una app di gamification che aiuta gli insegnanti a tracciare gli studenti per meglio gestirli. Si tratti di una app, lanciata nel 2011 ed utilizzata dal 95% delle scuole K-8 degli USA (primi otto anni di insegnamento) e sperimentata da 180 diversi Paesi, basata sull’assegnazione di punteggi da parte degli insegnanti alle condotte degli alunni (gentilezza, adattamento al lavoro di squadra, rispetto delle consegne, frequenza delle uscite per andare in bagno durante le lezioni ecc.). Sebbene sia pubblicizzato come strumento propedeutico ad una “mentalità orientata alla crescita”, diversi studi contestano la reale utilità del growth mindset. Insomma, quello proposto dalla app ha tutta l’aria di essere “semplicemente” un vero e proprio sistema di disciplinamento gamificato e se tra i docenti gode di una certa fortuna, ciò potrebbe derivare soprattutto dalle difficoltà che questi incontrano nel gestire le classi, difficoltà che di certo diminuirebbero anche semplicemente diminuendo drasticamente il numero di allievi per classe e ciò renderebbe possibile non solo una migliore gestione comportamentale degli alunni ma anche un rapporto didattico più personalizzato, dunque proficuo.

Un capitolo del volume è dedicato alle similitudini che Hon ravvisa tra le moderne teorie del complotto (QAnon su tutte) e gli ARG (Alternate reality game), complessi giochi di realtà alternativa che collegano l’universo online al mondo reale che propongono storie misteriose da risolvere con indizi da ricercare nel mondo reale. Le similitudini individuate dall’autore riguardano soprattutto il comune rendere labile il confine tra mondo online e mondo offline.

All’affievolirsi della distinzione tra online ed offline corrisponde una progressiva dissoluzione della distinzione tra essere umano ed avatar digitale con il rischio che si guardi agli esseri umani reali come se si trattasse di personaggi di un videogioco (si pensi ai tanti fenomeni di odio che infestano la rete estendendosi anche nel mondo fuori dagli schermi e alle guerre condotte alla consolle ove i nemici da eliminare sono sempre più vissuti come incorporee figure sui monitor10.

Lo sviluppo sempre più raffinato della Realtà aumentata permetterà la gamification di ogni momento della vita degli individui e la realtà virtuale, secondo l’autore, potrebbe allontanare dal mondo del lavoro in presenza un’intera generazione allenata sin da piccola ai dispositivi digitali, come prospetta il progetto Metaverso di Mark Zuckerberg11.

Di sicuro l’AR renderà il controllo dei lavoratori ancora più completo: il tracciamento dello sguardo e la “visione artificiale” (computer vision) di fatto assegneranno a ogni lavoratore un Frederick Taylor virtuale. Automotivazione e robotica salveranno i lavoratori da questo guinzaglio così stretto? Forse, ma l’esperienza ci dice che i robot nei magazzini in generale aumenteranno la pressione sugli esseri umani. Ci vorrà del tempo prima che i robot possano sostituire del tutto la velocità, l’intelligenza e la versatilità degli esseri umani nel lavoro in magazzino e, fino ad allora, i lavoratori controllati con l’AR diventeranno manichini viventi usati per sopperire ai limiti delle macchine (p. 220).

Hon sottolinea come il sistema comportamentista alla base della gamification coercitiva sia debitore del sistema carcerario studiato da Foucault12, ove si ricorre a ricompense e punizioni per ottenere i comportamenti desiderati. Lo studioso mette in evidenza come anche la pratica della vendita delle indulgenze, cioè di «un sistema di punteggio ineluttabile, unitario e spendibile, che governava le vite dell’intera comunità cattolica, determinandone il comportamento» (p. 223), rimandi alla gamification.

Nell’Europa Occidentale del Quattordicesimo secolo questo sistema a punti per misurare le buone e cattive azioni era una novità. Si ritiene che il passaggio a una quantificazione formale della penitenza rifletta il passaggio da una visione aristotelica, che riteneva le qualità impossibili da determinare con precisione, a un sistema di misurazione non dissimile al coevo processo di monetizzazione. In modo simile, la gamification deriva dalla iper-quantificazione del valore di una persona, dovuta a una concezione quantificata del sé e alla nostra ossessione per i dati (pp. 224-225).

Certo, evidenzia Hon, esistono differenze importanti tra indulgenze e gamification; se con quest’ultima tutto è registrato, con le prime si lasciava che Dio ne tenesse conto, dunque non era possibile “vincere”, «ma va detto che anche la gamification sembra spesso infinita, con i tabelloni e le sfide che ogni giorno si azzerano» (p. 228). Le indulgenze, inoltre, non possono essere dette comportamentiste visto che richiedevano preghiere sincere per contare e, inoltre, non potevano essere divertenti né erano granché interattive, a differenza della gamification. Ad assomigliare invece molto ad un gioco erano i “pellegrinaggi virtuali”.

In chiusura del libro Hon scrive che pur avendo sognato come game designer ed ex neuroscienziato il diffondersi di una gamification divertente e capace di aiutare i principianti a padroneggiare nuove abilità, si trova a constatare con amarezza che a diffondersi è stata piuttosto una gamification  coercitiva e manipolatrice, votata a far accettare di buon grado la sorveglianza e l’imposizione di un preciso sistema di valori ed obiettivi, sostanzialmente coincidente con quello delle aziende e dei governi autoritari. Se le tecniche comportamentiste di carattere conservatore a cui ricorre la gamification non nascono certo con la rivoluzione digitale, indubbiamente «la combinazione di tecnologia per la sorveglianza e intrattenimento ha reso la gamification seducente e inevitabile» (p. 232).

La gamification egemone, dichiara esplicitamente l’autore, serve esclusivamente al mantenimento dello status quo. «Fa in modo che i lavoratori restino al loro posto, arricchendo ulteriormente chi già dispone di grossi capitali. Ci spinge a studiare, allenarci o giocare per raggiungere scopi che non ci interessando davvero. E ribadisce l’idea che il mondo sia un gioco, le cui regole vanno eseguite e non cambiate. Perfino la gamification utopistica è significativamente conservatrice» (p. 244).

Se la gamification più deteriore non può che prosperare in un contesto in cui gli individui sono messi l’uno contro l’altro e tenuti a provare il loro valore tramite la produttività, come detto, Hon resta convinto che di per sé la gamification non sia destinata allo sfruttamento e alla coercizione, dunque prospetta alcuni esempi di come la si potrebbe progettare in modo etico, rispettoso degli utenti e di come sia comunque possibile per le istituzioni regolamentarla.

In chiusura di volume, l’autore riprendendo il convincimento espresso dalla scrittrice di fantascienza Ursula K. Le Guin (Dispossessed: an ambiguos utopia, 1974): «non vogliamo che gli studenti si diano da fare per ottenere buoni voti e un buon lavoro, ma per l’amore intrinseco dell’apprendimento». Insomma, «Le persone non devono guidare con prudenza o fare volontariato solo per guadagnare punti da scambiare con un mutuo migliore: devono credere davvero che tali attività siano giuste ed etiche. La gamification coercitiva, che utilizza solo la forza e la sorveglianza, può portare solo all’obbedienza non a una vera comprensione» (p. 245). E se proprio la vita deve essere un gioco, conclude l’autore, «che non sia monotono o punitivo, ma pieno di gioia e cose da imparare» (p. 246).


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp”, 22 febbraio 2023. 

  2. Cfr. Jürgen Martschukat, The Age of Fitness: How the Body Came to Symbolize Success and Achievement, Polity, Cambridge 2021. 

  3. David Graeber, Bullshit Jobs, tr. it. di Albertine Cerruti, Garzanti, Milano 2018. 

  4. Cfr. Mark J. Nelson, Soviet and American precursors to the gamification of work, “MindTrek”, october 2012, pp. 23-26. 

  5. Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita delal prigione, tr. it. di Alcesti Tarchetti, Einaudi, Torino 1976. 

  6. Cfr il podcast di Katie Mingle, Accordin to Need, 2020. 

  7. Nonostante i sistemi di credito non siano direttamente gestiti dal governo statunitense, questi condizionano enormemente l’accesso all’affitto di un’abitazione o a diversi tipi di occupazione. 

  8. Cfr.: Gioacchino Toni, Guerra contemporanea, sviluppo tecnologico-comunicativo e immaginario visuale, in “Clionet”, 31 marzo 2023; più in generale si veda la Serie di scritti di Gioacchino Toni, Guerrevisioni, su “Carmilla online”. 

  9. Cfr., ad esempio, Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano, 2018. 

  10. Cfr. Gioacchino Toni, Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco, in “Carmilla online”, 22 Aprile 2021. 

  11. Cfr., ad esempio: Eugenio Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Milano-Udine 2022; Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023. 

  12. Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire., cit. 

]]>
Estetiche del potere. La (tele)dittatura del divertimento https://www.carmillaonline.com/2023/10/12/estetiche-del-potere-la-teledittatura-del-divertimento/ Thu, 12 Oct 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79306 di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un [...]]]> di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un sospiro di sollievo potrebbero però essere stati soltanto coloro che non avevano letto, o avevano nel frattempo rimosso, il meno celebre Brave New World (1932) di Aldous Huxley in cui la tirannia anziché essere esercitata per via coercitiva aveva saputo rendersi desiderabile.

Insomma, negli anni Ottanta, in Occidente, anziché avverarsi la distopia orwelliana, a compiersi, in sordina, era quella huxleyana, rivelatasi più in linea con le esigenze di una società votata alla mercificazione e al consumismo più sfrenati.

Sebbene nella stretta contemporaneità, segnata da un insistito ricorso a stati emergenziali, i due scenari distopici sembrino non di rado intrecciarsi, si tende a individuare il modello orwelliano, contraddistinto da un tipo di oppressione imposta dall’alto deprivante il popolo della propria memoria e autonomia, nei sistemi esplicitamente dittatoriali, mentre invece quello huxleyano, in cui il potere riesce a far amare al popolo il proprio oppressore e a sostenere le tecnologie tese ad annullare la capacità di pensiero, nei sistemi più democratici.

Convinto dell’importanza delle tecnologie e dei media nella costruzione della realtà, nella definizione delle percezioni, nell’organizzazione delle esperienze e delle relazioni emotive e nell’azione sociale degli individui, in Amusing Ourselves to Death (1985), analizzando gli effetti socioculturali del medium televisivo, il sociologo statunitense Neil Postman ha colto proprio in esso lo strumento principale di attuazione della pratica di dominio prospettata da Huxley nei primi anni Trenta, agli albori di quella che si sarebbe rivelata l’era televisiva.

In occasione dell’uscita di una nuova edizione italiana del volume di Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, prefazione di Matteo Bittanti e traduzione di Leone Diena (Luiss University Press, 2023), vale la pena evidenziare come diverse riflessioni espresse dal sociologo statunitense, che sarebbero poi in parte da lui stesso riprese e sviluppate nel successivo Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (Bollati Bornighieri, 1993), nonostante facciano riferimento a un panorama mediatico ormai decisamente cambiato, restino assolutamente valide ai giorni nostri segnati dall’affiancamento di internet al mezzo televisivo.

Gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della superficialità, della frivolezza, del trash e dell’usa e getta, un periodo, come ha sostenuto Tommaso Ariemma (Dark Media. Cultura visuale e nuovi media, Meltemi 2022)1, caratterizzato non tanto dalla sensazione di “mancanza di futuro”, quanto piuttosto dal “futuro già presente” derivata in buona parte dall’estetica della simulazione diffusasi con le nuove tecnologie informatiche, grazie soprattutto al Mac, votata alla celebrazione della sola “superficie visuale”.

All’individualismo degli anni Ottanta si è affiancata, in parte anche in reazione ad esso, una spinta all’isolamento in un universo fittizio in cui si è cercato rifugio in seguito alla delusione indotta dal mondo reale rivelatosi incapace di soddisfare le aspirazioni dei più giovani. Un ripiegamento votato al primato della sensazione, dell’immediato, del mero “significato di superficie”, anticipando di fatto quella web culture che avrebbe finito per sostituire alle relazioni amicali il desiderio del sentire e, come efficacemente sostenuto da Mario Perniola (Del sentire, Einaudi 1991), all’ideologia, socializzazione dei pensieri, la “sensologia”, socializzazione dei sensi.

L’analisi del medium televisivo proposta da Postman in Divertirsi da morire, nel suo porsi, scrive Matteo Bittanti nella prefazione al volume, come sintesi nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan e La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord occupare rispettivamente il ruolo di tesi e di antitesi, ha il grande merito di mostraci oggi come le premesse della web culture siano ravvisabili nel medium televisivo degli anni Ottanta, nella sua «forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotaiment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare».

Un mezzo di comunicazione votato dunque a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, dunque progettati per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito. Come ha avuto modo di segnalare Carmine Castoro (Clinica della TV, 2015)2, l’inarrestabile flusso casuale di comunicati decontestualizzati supporta pratiche di seduzione consumistica e di istupidimento deprivanti l’essere umano di capacità critica, intrattenendolo attraverso un flusso soporifero di immagini.

Il divertimento/intrattenimento che plasma la televisione degli anni Ottanta, in tutti i suoi programmi, notiziari compresi, si pone per certi versi alla base di quei processi di ludicizzazione3 che si dispiegheranno nel web nei decenni successivi e, più in generale, di quella logica che ha saputo rendere costantemente produttivi gli utenti di internet facendo loro percepire il lavoro non pagato a cui si sottopongono come mera attività ludica.

Se è usuale individuare nella storia statunitense una città che, più di altre, può essere vista come incarnazione dello spirito americano del tempo, per gli anni Ottanta, sostiene Postman, questa è sicuramente Las Vegas e lo è perché in essa vive esclusivamente il divertimento, esattamente come nella televisione. Il problema, sottolinea il sociologo, non è certo dato dall’offerta di divertimento da parte della televisione, quanto piuttosto dal fatto che tutto in essa sia dia all’insegna del divertimento, che l’intrattenimento sia l’inderogabile “superideologia” di ogni discorso televisivo.

“Ed ecco a voi…” è probabilmente una delle frasi più ricorrenti in televisione, tanto da fungere quasi da punteggiatura volta a mettere un punto fermo dopo quanto visto fino a quel momento per aprire un discorso totalmente nuovo. «La frase è fatta apposta per mettere in luce il fatto che il mondo così com’è descritto dai frettolosi mezzi elettronici non ha nessun ordine e nessun senso e non deve essere preso troppo sul serio. Non c’è assassino così efferato, terremoto cosi disastroso, guaio politico così grave […] che non possa essere cancellato dalla nostra memoria con un: “Ed ecco a voi…”».

Con tali parole viene suggerito ai telespettatori che quanto visto fino a quel momento non merita ulteriore spazio, approfondimento o riflessione e che è giunto il momento di proiettarsi su un nuovo frammento di notizia o di pubblicità, che poi così diverse non sono. Certo, il modello “Ed ecco a voi…” non è stato inventato dalla televisione, che lo ha derivato dal connubio tra telegrafo e fotografia, ma sicuramente, sostiene Postman, è stata la tv a condurlo alla sua «attuale perversa maturità» ed è proprio nel telegiornale che tale modello «si mostra nella sua forma più sfrontata e imbarazzante» finalizzata unicamente all’intrattenimento.

Nel suo susseguirsi di frammenti non solo slegati uno dall’altro ma anche neganti importanza al precedente di turno, di cui si palesa la necessità di abbandono frettoloso, la televisione minimizza ogni notizia; per quanto grave possa sembrare, questa sarà presto seguita da una di minor gravità, o da una pubblicità, che provvederà a banalizzarla.

Si è «ormai talmente assuefatti all’universo di “Ed ecco a voi…” – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce».

Sebbene non sia possibile incolpare esclusivamente la televisione di tutto ciò, afferma Postman a metà degli anni Ottanta, di certo tale medium rappresenta «il paradigma della nostra concezione di informazione» e visto che la pubblicità televisiva si presenta come «la forma più vistosa di comunicazione pubblica nella nostra società», continua il sociologo, «era inevitabile che gli americani dovessero […] accettarla come forma normale e plausibile di discorso».

Occorre aggiungere che se, come sostiene Postman, negli anni Ottanta l’intrattenimento televisivo era indubbiamente fondato sul divertimento, nei decenni successivi l’intrattenimento si sarebbe avvalso anche della “tv del dolore” contraddistinta, come argomenta Carmine Castoro (Il sangue e lo schermo, Mimesis 2017)4, da un’iconografia della paura costruita su pandemie, calamità naturali e attentati spalmati sul nulla di ore e ore di dirette attraversate da narrazioni ripetitive, opinionisti improvvisati, inviati e video amatoriali trasmessi in un estenuante e ansiogeno ripetesi di immagini di soccorritori e di disperazione in un loop di etichette ripetute come un mantra: “crimine efferato”, “tragedia immane”, “apocalisse”, “disastro epocale” e via dicendo.

In chiusura di libro, riprendendo la distopia prospettata da Brave New World5,  Postman sottolinea come ciò che Huxley aveva cercato di dirci è che ciò che affliggeva gli abitanti del mondo nuovo tratteggiato dal suo romanzo «non era ridere anziché pensare, ma non sapere per che cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare». Verrebbe da dire che se si pensava di seppellire lor signori con una risata, è finita che oggi si ride davanti agli schermi – televisivi o degli smartphone – senza sapere di cosa e perché e, soprattutto, avendo mandato (da tempo) in vacanza il cervello.

In una contemporaneità tecnocratico-liberista in cui, come denuncia Bittanti nella prefazione al volume, in ambito accademico l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato, all’ottimizzazione dei motori di ricerca e alle strategie di gamification volte a generare profitto, «Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa». Quello di Postman è un libro che non ha bisogno di like, ma di essere letto e preso sul serio.


Estetiche del potere – serie completa


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Dark Media, in “Carmilla online”, 26 giugno 2023. 

  2. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo, in “Carmilla online”, 4 maggio 2016. 

  3. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp Magazine”, 22 febbraio, 2023; Matteo Bittanti, A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff), Università Iulm, 18 novembre 2022. 

  4. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze, in “Carmilla online”, 29 dicembre 2017. 

  5. Cfr. Gian Paolo Serino, Aldous Huxley e la distopia, in “Carmilla online”, 8 settembre 2003. 

]]>
Videogame e conflitto sull’immaginario https://www.carmillaonline.com/2023/05/24/videogame-e-conflitto-sullimmaginario/ Wed, 24 May 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76920 di Gioacchino Toni

Scrive Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation (Tlon, 2023), che l’universo dei videogame dovrebbe interessare quanti «hanno a cuore il destino politico del nostro tempo» e in particolare «coloro che si dichiarano marxisti» in quanto anche attorno a tale ambito «si raccolgono le grandi contraddizioni del presente» e perché anche «attraverso il gaming può essere portata avanti la lotta politica e la resistenza all’ideologia dominante». All’universo del videogame, insomma, occorre guardare come a un territorio di conflitto sull’immaginario in cui si confrontano un dispositivo di gestione del potere da un lato e un’azione di resistenza [...]]]> di Gioacchino Toni

Scrive Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation (Tlon, 2023), che l’universo dei videogame dovrebbe interessare quanti «hanno a cuore il destino politico del nostro tempo» e in particolare «coloro che si dichiarano marxisti» in quanto anche attorno a tale ambito «si raccolgono le grandi contraddizioni del presente» e perché anche «attraverso il gaming può essere portata avanti la lotta politica e la resistenza all’ideologia dominante». All’universo del videogame, insomma, occorre guardare come a un territorio di conflitto sull’immaginario in cui si confrontano un dispositivo di gestione del potere da un lato e un’azione di resistenza e antagonismo dall’altro.

Ariemma invita a guardare ai videogame più maturi – nel loro essere puro divertimento, narrazione complessa, esperienza estetica, laboratorio per dilemmi morali, o tutto ciò al contempo – non solo come a un oggetto di analisi filosofica, ma anche come a uno strumento attraverso e con cui ragionare a proposito di quei temi di cui la filosofia ha sempre discusso: vita e morte, realtà e illusione, umano e non umano, scelta e libertà, giustizia e società ideale ecc.

Nel videogioco Assassin’s Creed: Syndacate (2015)1, che  consente di immergersi nella Londra vittoriana del 1868 attraversata da una rivolta popolare contro i ricchi industriali e da una serie di omicidi efferati, con salti temporali nel 1916, ci si imbatte in Marx. In quel Marx, sottolinea Ariemma, capace di individuare il lavoro anche ove non lo si vede distintamente, ossia nelle merci che qualcuno produce faticando magari alle prese con qualche macchinario. Ad attivarsi per nascondere il lavoro necessario alla produzione delle merci è proprio quell’immaginario dispensato ed aggiornato costantemente dal potere al fine di presentare l’esistente come naturale, immutabile e, persino, giusto. Per svelare la presenza del lavoro celato dall’economia capitalista, ricorda Ariemma, Marx ricorre frequentemente nelle sue opere alla metafora del vampiro/capitale, metafora che, come argomentato da Luca Cangianti, si rivela costitutiva della teoria del plusvalore e dello sfruttamento2.

Occorre ricordare che se l’industria militare statunitense si è interessata ai videogame sin dalla loro origine3, dal momento in cui questi sono stati in grado di simulare la possibilità di sparare sono divenuti terreno fertile per l’ideologia più reazionaria strutturandosi attorno al modello maschio, bianco ed eterosessuale, con tutto ciò che ne consegue nei confronti di chi è estraneo a tale modello4.

Il videogame, sottolinea inoltre Ariemma, «è sempre stato una merce. Una merce particolarmente efficace dal punto di vista ideologico, proprio secondo la definizione che Marx ha dato implicitamente dell’ideologia nella sua opera Il capitale: “Non sanno di far ciò, ma lo fanno”. Il gamer si diverte, ma non sta vedendo un film o leggendo un libro: percepisce come propri, perché li attua attraverso un controller, desideri e azioni progettati da altri»5.

Il rischio che il diffondersi dei videogame potesse impattare sulla produttività distraendo e sottraendo tempo e attenzione durante l’attività lavorativa è stato per certi versi arginato grazie alla trasformazione che ha toccato molti ambiti lavorativi negli ultimi decenni del vecchio millennio, quando si è assistito a quel processo di gamification6 attraverso cui l’economia capitalista ha saputo appropriarsi anche del gioco rendendolo non solo compatibile all’attività lavorativa ma ristrutturando quest’ultima facendo leva sull’ambito motivazionale attraverso le logiche del gioco7.

«Nel mascherare a noi stessi e agli altri i meccanismi di sfruttamento del lavoro che esso alimenta, “fai ciò che ami” rappresenta il più efficace strumento ideologico del capitalismo. Elide il lavoro degli altri e cela il nostro lavoro a noi stessi», scrive Miya Tokumitsu8. In effetti, come ha puntualizzato Ulysses Pascal, il neoliberismo ha saputo sfruttare il potenziale emotivo e motivazionale del gioco per agire a livello comportamentale anche in ambiti extraludici trasformando le meccaniche del gioco (punteggi, premi, classifiche…) in strumenti finalizzati a «rendere quantificabile (dunque misurabile, commensurabile ed esportabile) il comportamento di un utente all’interno di un videogioco»9.

Il videogioco, sostiene Ariemma, sembra dunque essersi «allontanato dalla sua esperienza gioiosa, diventando simile al gambling, al gioco d’azzardo, con i suoi meccanismi d rinforzo variabile: una continua scommessa, capace di creare una pericolosa dipendenza»10 in maniera non dissimile a ciò che avviene frequentemente con il ricorso ai social media.

Soprattutto nel gaming più maturo, scrive Ariemma, «si è attratti dalla possibilità di potenziare delle abilità, di fare esperienze etiche profonde, assumendo punti di vista insoliti, di esplorare nuovi spazi di condivisione, di sentirsi parte di una narrazione epica, di riflettere criticamente sulle condizioni materiali della nostra società»11.

Esiste però un «lato oscuro del gaming più maturo», mette in guardia lo studioso, «proprio nel momento in cui favorisce la nostra più libera espressione, nella misura in cui concorre ad alimentare ciò che Shoshana Zuboff ha chiamato “capitalismo della sorveglianza”: attraverso il gaming i dispositivi permettono sempre più a terze parti di collezione informazioni personali […] fornendo un “surplus comportamentale”, attraverso il quale molte aziende potenziano i propri profitti, facendo la fortuna dei cosiddetti “mercati dell’attenzione”»12.

I dati raccolti permettono dunque di accumulare informazioni comportamentali. GameAnalytics, per fare un esempio, è in grado di raccoglie ed elaborare i dati di oltre 850 milioni di gamer attivi mensili su più di 70 mila videogiochi ottenendo informazioni precise sui valori e sulle abitudini dei giocatori e, visto che, come dimostrano diversi studi accademici, queste hanno relazioni significative con le abitudini degli utenti nel mondo “fuori dagli schermi”, i videogiochi si dimostrano ottimi strumenti per ottenere una precisa profilazione della personalità di chi ne fa uso.

Anche il meccanismo introdotto dai videogame negli anni Dieci del nuovo millennio, che prevede l’accesso gratuito alle modalità basilari del gioco salvo poi richiedere una serie di pagamenti per poter avere accesso a contenuti e funzionalità extra, si rivela, come spiega Daniel James Joseph13, estremamente redditizio per il business videoludico non solo dal punto di vista delle transizioni dirette in denaro ma anche per quelle indirette in termini di dati raccolti.

I giochi ludicizzati si rivelano importanti anche nell’ambito dello sviluppo dell’intelligenza artificiale applicata all’ambito militare14, come dimostrano, ad esempio, gli ingenti investimenti operati dall’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti nella sperimentazione di “agenti artificiali” operanti a fianco dei giocatori umani nel videogioco Minecraft15 al fine di sviluppare un’intelligenza artificiale in grado di monitorare e gestire i soldati sul campo di battaglia.

Contestualizzato nell’ambito di quello che Shoshana Zuboff16 ha definito surveillance capitalism (profilazione al servizio dell’indirizzo comportamentale), e facendo riferimento alle riflessioni di Tiziana Terranova17 sul lavoro culturale nell’economia digitale, Pascal sottolinea come

La valorizzazione delle opportunità rese possibili dal lavoro creativo digitale e dal videogioco nelle sfere dei media partecipativi spesso ignora, sottovaluta e trascura la complicità con le strutture di sfruttamento e di disuguaglianza tipicamente capitalistiche. Se l’aspirazione consiste nel guadagnarsi da vivere “facendo ciò che si ama” – in questo caso, videogiocando – un’attività che in origine aveva unicamente un valore d’uso (leggi, intrattenimento e socializzazione), ora possiede anche un valore di scambio. Da parte sua, la fruizione videoludica partecipa a entrambe le sfere del valore, dal momento che gli utenti sono letteralmente “pagati per giocare”. Così facendo, tuttavia, il gameplay digitale – pratica liminale in bilico tra due sfere di valore – è rimodellato in modo significativo poiché diversamente mobilitato, “giocato” e “riscattato” in tali sfere. Tale trasformazione, da un lato rende invisibile un lavoro aspirational estremamente precario e non adeguatamente ricompensato e, dall’altro, svaluta e impoverisce la nozione e la pratica ludica. I giocatori sono a loro volta giocati da modalità capitalistiche di produzione digitale che impoveriscono tanto il gioco quanto la giocosità, dato che il giocare è rimpiazzato da una performance pubblica e da una correlata ossessione per le metriche, il posizionamento, i guadagni. Detto altrimenti, la gratificazione intrinseca sottesa al giocare si riduce a un puro esercizio economico. Questo stravolgimento di valore condanna tanto il giocatore quanto lo spettatore, che finiscono entrambi per essere strumentalizzati dalla logica della transazione»18.

Sospesi tra l’essere strumenti di controllo e indirizzo comportamentale, oltre che culturale, e l’offrire inedite possibilità non soltanto ricreative ma anche di riflessione critica, i videogiochi, anche alla luce della loro enorme diffusione, non solo meritano di essere studiati con attenzione ma anche di essere utilizzati come strumento – tra gli altri – con cui portare avanti un’opposizione critica, consapevole e risoluta nei confronti di un sistema di dominio a cui occorre opporrsi dentro e fuori gli schermi. La battaglia sull’immaginario, insomma, deve essere condotta con ogni mezzo necessario, videogioco compreso.



  1. Assassin’s Creed: Syndacate (2015), nono capitolo della serie Assassin’s Creed, sviluppato da Ubisoft Quebec. 

  2. Cfr. Luca Cangianti, FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria, pp. 85-86, in: Luca Cangianti, Alessandra Daniele, Sandro Moiso, Franco Pezzini, Gioacchino Toni, Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018 

  3. Cfr. Jamie Woodcock, Marx at the Arcade: Consoles, Controllers, and Class Struggle, Haymarket Books, Chicago, 2019. 

  4. Cfr. Alfie Bown, Il sogno videoludico. Come i videogiochi trasformano la nostra realtà, Luiss University Press, Roma, 2022 [su Carmilla]; Matteo Bittanti, a cura di, Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020 [su Carmilla]; Matteo Bittanti, a cura di, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmilla]

  5. Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming, cit. pp. 71-72. 

  6. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportametnale, in “Pulp”, 22 febbraio 2023. 

  7. Cfr. Sarah Mason, Punteggio massimo, compenso minimo. Ludicizzazione: un gioco che i lavoratori non possono vincere, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over, cit. 

  8. Miya Tokumitsu, In the name of love, in “Jacobin”, 12 gennaio 2014. 

  9. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit, p. 463. 

  10. Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming, cit., p. 72. 

  11. Ivi. 73. 

  12. Ivi. 74. 

  13. Cfr. Daniel James Joseph, Capitalismo Battle Pass, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset, cit. 

  14. Cfr. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, cit. 

  15. Minecraft è un videogioco sandbox open world sviluppato da Mojang Studios e pubblicato come gioco completo nel 2011. Per una disamina di tale videogioco si veda Daniel Dooghan, I conquistatori digitali: Minecraft e gli apologeti del neoliberismo, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit. 

  16. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019 [su Carmilla]

  17. Cfr. Tiziana Terranova, Free labour: Producing culture for the digital economy, in “Social Text”, vol. 18, n. 2, 2000, pp. 33-58. 

  18. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit., pp. 368-369. 

]]>
L’era degli oggetti e dei desideri elettronici naturalizzati https://www.carmillaonline.com/2023/03/19/lera-degli-oggetti-e-dei-desideri-elettronici-naturalizzati/ Sun, 19 Mar 2023 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76378 di Gioacchino Toni

Nel volume di Alfie Bown, Il sogno videoludico. Come i videogiochi trasformano la nostra realtà (Luiss University Press, 2022), in cui si analizzano gli effetti dei videogame attraverso un approccio di stampo psicoanalitico lacaniano, si evidenzia come l’universo videoludico, con il suo immaginario conformista, quando non esplicitamente reazionario, incida sui sogni e sui desideri degli utenti. Secondo Bown i videogiochi non si limiterebbero, dunque, a influenzare i comportamenti, le scelte e le decisioni degli individui, ma condizionerebbero gli utenti generando in essi “nuovi desideri” senza che questi ne siano del tutto consapevoli. Se è pur vero che a [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel volume di Alfie Bown, Il sogno videoludico. Come i videogiochi trasformano la nostra realtà (Luiss University Press, 2022), in cui si analizzano gli effetti dei videogame attraverso un approccio di stampo psicoanalitico lacaniano, si evidenzia come l’universo videoludico, con il suo immaginario conformista, quando non esplicitamente reazionario, incida sui sogni e sui desideri degli utenti. Secondo Bown i videogiochi non si limiterebbero, dunque, a influenzare i comportamenti, le scelte e le decisioni degli individui, ma condizionerebbero gli utenti generando in essi “nuovi desideri” senza che questi ne siano del tutto consapevoli. Se è pur vero che a ciò concorre l’intero universo tecnologico-comunicativo contemporaneo, secondo l’autore è però nell’esperienza del gaming che questo diviene manifesto anche dal punto di vista delle implicazioni politiche.

Quando si affronta l’universo tecnologico-comunicativo più sofisticato viene spontaneo domandarsi se i computer potranno mai avere una coscienza simile a quella umana; ebbene, sostiene Bown, tale interrogativo presuppone che la coscienza umana sia qualcosa di dato una volta per tutte e immodificabile ma non è affatto così, visto che questa si sta sempre più computerizzando.  Ciò che occorre indagare, secondo lo studioso – ed è proprio di ciò che tratta il volume –, è piuttosto «quale forma di coscienza a venire si esprima nella realtà virtuale e nei videogiochi» (p. 29), alla luce del fatto che non sono tanto questi ultimi a divenire come la realtà, ma è questa che si sta trasformando in un videogioco. Anziché preoccuparsi di quanto il computer divenga umano, varrebbe la pena concentrarsi su quanto l’umano stia divendo computer anche a causa della dilagante gamification.

Colossi come Google, ad esempio, stanno sviluppando tecnologie che vorrebbero prevedere dove intendiamo dirigerci sulla base delle nostre abitudini spazio-temporali prospettandoci percorsi da seguire. Se un tempo era l’architettura a porsi come “inconscio della città”, dunque a dettare i percorsi da seguire, ora «questo lavoro prescrittivo, che consiste nello stabilire i “rilievi psicogeografici” della città, è svolto dai cellulari» (p. 34). Sono pertanto gli smartphone a controllare le azioni e gli spostamenti e lo fanno per ottimizzare gli interessi economici disseminati nelle diverse zone urbane.

Transport of London, ad esempio, sta studiando come gamificare gli spostamenti attraverso concessioni premiali a chi asseconda le proposte di tragitto alternativo suggerite. Se di per sé l’idea sembrerebbe rivolta soltanto a rendere più fluido il traffico evitando inutili ingorghi, non è difficile immaginare come ciò possa contribuire a porre le basi di un sistema ludico di “credito sociale” attraverso cui valutare l’affidabilità e l’obbedienza dei cittadini non dissimile da quello cinese tanto denigrato in Occidente. «La “città intelligente” del futuro non preverrà solo gli imbottigliamenti, ma anche tutti gli utilizzi improduttivi o le occupazioni improprie dello spazio urbano» (p. 36), sostiene lo studioso.

Ciò che però dovrebbe inquietare maggiormente, suggerisce Bown, è che applicazioni di questo tipo anziché soddisfare i desideri dell’utente, finiscono per decidere al suo posto ciò che desidera. Lungi dal venirci in aiuto per soddisfare i nostri desideri, gli smartphone finiscono per generarli e organizzarli.

In altri termini, le App predittive dei dispositivi mobili potrebbero essere in grado di portare alla coscienza desideri e pulsioni che sarebbero altrimenti rimasti nel preconscio: questo significa che stiamo cedendo una importante porzione delle nostre capacità decisionali a dispositivi progettati per mappare le nostre azioni e influenzare i nostri movimenti (p. 37).

Come Shoshana Zuboff anche Alfie Bown si sofferma su Pokémon Go, un videogioco free-to-play commercializzato nel 2016, basato sulla realtà aumentata geolocalizzata tramite GPS – sviluppato da un’azienda legata ai sistemi di mappatura satellitare della CIA e di Google – che, nel prevedere la cattura di personaggi virtuali all’interno del mondo reale, indirizza i “cacciatori” verso determinate attività commerciali che ottengono così un maggior afflusso di potenziali clienti.

Dietro alla sua apparenza di innocente intrattenimento ludico, si cela in realtà un sofisticato esperimento di ingegneria sociale, capace di assorbire il “surplus comportamentale” degli utenti che lo utilizzano; il videogioco si rivela insomma una vera e propria “spugna” capace di assorbire una quantità impressionante di informazioni identitarie e comportamentali degli utenti.

Se Zuboff insiste soprattutto sulla capacità delle App di influenzare gli individui nei loro comportamenti, nelle scelte e nelle decisioni, Bown si dice convinto che queste possono generare nuovi desideri negli utenti. Le letture di Zuboff e Bown di Pokémon Go che individuano nel videogioco un efficace strumento di soggettivazione e condizionamento sono state ottimamente approfondite da Matteo Bittanti, autore della Prefazione al volume, nel video A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff).

In termini lacaniani Bown individua nell’universo Pokémon «un’animazione che non costituisce l’oggetto del desiderio, ma l’oggetto del prodotto dal desiderio e sul quale il desiderio può essere proiettato» (p. 38). Se a metà degli anni Novanta “l’oggetto elettronico” poteva ancora essere inteso come “sostitutivo” di un oggetto reale, ora, sostiene lo studioso, questo sembra in grado di agire al pari di qualsiasi altro oggetto “fisico” del desiderio. «Vivere nel mondo degli oggetti elettronici non significa […] dunque accettare copie e simulazioni di oggetti reali, come spesso si crede, ma qualcosa di ben diverso. Vuol dire desiderare seguendo le istruzioni dello schermo, sul quale l’oggetto, nello stesso momento, appare e detta il percorso del desiderio» (p. 39).

Lungi dal “darci ciò che vogliamo”, tali tecnologie sono state finalizzate a imporci perversamente desideri altrui. Attraverso cicli tecnologici di ripetizione sono stati letteralmente riscritti in termini economicisti, egemonici e centralizzati, il «desiderio dell’oggetto, l’esperienza del suo ottenimento e la possibilità di ricondividere il nostro stesso consumo dell’immagine» (p. 41).

L’esempio Pokémon consente a Bown non solo di evidenziare come dietro all’apparente soddisfazione di propri desideri tali sistemi di controllo e manipolazione agiscano per trasformare ciò che si desidera, ma anche come «l’oggetto fisico e il suo desiderio non preesist[a]no alla mediazione tecnologica del desiderio» (p. 43). Far parte della “generazione Pokémon”, afferma lo studioso, significa essere la “generazione degli oggetti elettronici” e prenderne atto potrebbe contribuire ad agire sul terreno del desiderio in maniera sovversiva.

Se l’universo videoludico contemporaneo è dominato da istanze conformiste votate al tradizionalismo più reazionario che alimentano la paura della “crisi” promuovendo l’American way on life, è però l’intera sua storia, sottolinea Bown, ad aver privilegiato tematiche quali l’espulsione degli alieni, il timore del contagio impuro, la difesa dei confini, la conquista colonialista e la costruzione di imperi inducendo il giocatore ad agire istintivamente aderendo acriticamente alle ideologie da essi veicolate.

«Un videogioco non è un testo che richiede di essere letto, ma un sogno che richiede di essere sognato» ma, sostiene Bown, occorre tenere presente che il gioco si presenta come esperienza in cui il gamer ha un ruolo attivo nel determinare gli eventi e, come nei sogni, «buona parte di questa apparente agentività è illusoria», essendo il giocatore costretto a un ambiente e ad una trama dati. «A differenza della realtà, ma ancora una volta come nei sogni, il giocatore può venire trasportato da una situazione all’altra senza preoccuparsi delle leggi del tempro e dello spazio. Come accade nei sogni, alla fine il giocatore torna nel mondo reale, ma le cose non sono sempre uguali a prima che il sogno iniziasse (p. 73).

Il videogioco non è pertanto il sogno di chi lo gioca, ma è il sogno di chi lo ha sviluppato e prodotto e, per certi versi, del contesto cultuale in cui nasce. Visto che gli esseri umani diventano sempre più “macchinici”, sostiene Bown, vale forse la pena di cominciare a chiedersi se i modelli psicanalitici della soggettività debbano continuare a essere utilizzati nelle stesse modalità con cui sono stati utilizziti fino ad ora.

Se Freud sostiene che «il sogno è l’appagamento mascherato di un desiderio infantile represso», nel caso dell’esperienza videoludica, sostiene Bown, si potrebbe dire che «il sogno è mascherato da appagamento di un desiderio infantile represso. Mentre il sogno si maschera d appagamento del desiderio interno o istintuale del soggetto, è in realtà il sogno dell’altro» (p. 84).

I videogiochi, dunque, nella misura in cui sono l’esperienza del sogno dell’altro, possono essere una particolare forma di godimento in cui i desideri dell’altro vengono vissuti – forse solo momentaneamente e inconsciamente – come se fossero i desideri del giocatore. È precisamente questa forma di godimento che può rivelarsi, allo stesso tempo, la più pericolosa da un punto di vista ideologico, e la più sovversiva (p. 85).

Visto che le modalità di godimento offerte dal mondo onirico videoludico mainstream tendono a supportare quell’universo valoriale tradizionalista e reazionario proprio del neoliberismo imperante, occorre domandarsi se i videogiochi, nel loro naturalizzare forme ideologiche di godimento, possano piuttosto perseguire finalità sovversive innanzitutto rendendo manifesta la struttura politica del godimento.

Alla luce del fatto che durante il gioco si viene a creare una temporanea situazione di disconoscimento psicoanalitico in cui il giocatore, pur essendo del tutto consapevole di essersi calato in un universo illusorio, vive l’esperienza giocata come fosse la realtà, Bown ha inteso con il suo libro indagare quali idee politiche plasmino tale «mondo semicosciente, straripante di beni in cui fuggiamo, ma da cui siamo anche formati e strutturati» giungendo a proporre una «teoria di come questa esperienza sia resa possibile e di come possa influenzarci in quanto soggetti» (p. 121).

A quell’universo onirico videoludico capace di dispensare piacere e godimento si accede attraverso sofisticati dispositivi tecnologici che rappresentano secondo Bown l’incarnazione contemporanea della fantasmagoria descritta da Walter Benjamin a proposito della gallerie parigine. Quella proposta dai videogame appare una «fantasmagoria in cui la storia collassa, e in cui si formano nuove relazioni e nuove affinità» (p. 121) che necessitano di essere indagate attentamente.

Il volume di Bown si domanda dunque come si possa diventare un “giocatore sovversivo”. Se nel copione steso nel 1987 da Félix Guattari per il film di fantascienza, mai realizzato, intitolato Un amour d’UIQ, si invocava una “soggettività macchinica” capace di fronteggiare la crisi delle identità prodotta dallo sviluppo tecnologico rendendo di fatto la psicanalisi inutile, André Nusselder (Interface Fantasy: a Lacanian Cyborg Ontology, MIT Press, 2009) sostiene invece l’utilità della psicanalisi, ammesso che questa riesca ad aggiornare la concezione lacaniana della fantasia in relazione al contesto digitale contemporaneo.

Qualche risposta al desiderio di farsi “giocatori sovversivi”, secondo Bown, può derivare proprio dal saper aggiornare la psicanalisi al nuovo contesto, di cui occorre urgentemente prendere atto consapevolmente.

In una società in cui la tecnologia e l’intrattenimento sono inseparabili e pervasivi, una psicanalisi della tecnologia può permettere […] di individuare le nuove politiche del desiderio, del godimento e del piacere. Capirlo è il primo passo per cambiare un mondo in cui – che lo vogliamo o meno – la soggettività viene trasformata dal progresso tecnologico (p. 130).

Evitando le trappole della tencofila e della tecnofobia, al sistema imperante, secondo Bown, non ci si oppone sottraendosi dal cyberspazio ma, piuttosto, portando in esso istanze sovversive. Solo così si può tentare di «influenzare le soggettività macchiniche» in modo da farle «insorgere contro le forze del capitale» (p. 132).

]]>
Politica e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2023/01/12/politica-e-videogiochi/ Thu, 12 Jan 2023 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75375 di Gioacchino Toni

Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla],  si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.

Guardandosi dal suggerire «l’esistenza [...]]]> di Gioacchino Toni

Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla],  si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.

Guardandosi dal suggerire «l’esistenza di una relazione causale tra la fruizione di videogiochi e i comportamenti sociopatici nel mondo reale», scrive Bittanti, è «importante ricordare che il videogioco non è che un elemento di un complesso ecosistema formato da spazi di consumo, discussione e condivisione che spesso presentano un’elevata tossicità: misoginia, razzismo, omofobia e violenza verbale» (pp. 30-31). Dunque, qualsiasi discussione sui videogiochi non può prescindere dal contesto in cui si vanno ad inserire e da cui sono pensati, prodotti e fruiti.

Se Alex Hochuli, George Hoare e Philip Cunliffe (La fine della fine della storia, Tlon, 2022) sostengono che all’apatia che aveva contraddistinto i decenni precedenti si è ultimamente sostituito un sentimento di rabbia strutturatosi di pari passo alla crescente delegittimazione delle istituzioni tradizionali su cui hanno prosperato diverse forme di populismo, Martin Gurri (The Revolt of The Public and the Crisis of Authority in the New Millennium, Stripe Press, 2014) sostiene invece che, con riferimento a un’attualità che ritiene palesarsi come capolinea della democrazia liberale, complice anche la trasformazione mediale digitale, si debba piuttosto parlare di nichilismo.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto nichilista tratteggiato da Gurri è piuttosto un individuo disilluso e cinico, non di rado inserito socialmente, che non trova felicità nella sua quotidianità, nella way of life imperante, pur non mettendola realmente in discussione, e nel sistema politico che la governa. Un individuo che tende a trovare la propria dimensione all’interno di una comunità strutturatasi, spesso nell’universo online,  su una specifica questione che diventa frequentemente l’unica questione esistenziale. Insomma, nota Bittanti, il nichilista descritto da Gurri ricorda molto da vicino la figura del gamer tanto che diversi giovani gamer statunitensi potrebbero aver guardato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 come a un’occasione spettacolare per estendere il gioco fuori dagli schermi.

«Detto altrimenti, una generazione cresciuta di fronte allo schermo combattendo contro terroristi arabi e draghi sputafuoco, zombie e vampiri nonché social justice warrior sui social media ha temporaneamente lasciato la cameretta illuminata al LED per assediare il Congresso, vandalizzando i simboli della democrazia» (p. 18). Per quanto sbiaditi, si tratta pur sempre di simboli da colpire con lil medesimo odio promosso da tanti videogiochi mainstream che celebrano principi, valori e immaginari indubbiamente di destra.

Attraverso il videogioco, per quanto in forma illusoria, il giocatore – nella stragrande maggioranza dei casi orgogliosamente maschio e bianco – acquisisce “poteri straordinari” «con i quali ritiene legittimo imporre la propria visione di mondo alla realtà in quanto tale, anche (soprattutto) quando tale weltanschauung è barbarica. Il concetto mcluhaniano del medium come estensione delle facoltà umane trova in quella macchina dei desideri e delle gratificazioni dopaminiche altrimenti nota come videogioco la massima espressione. Ergo, per migliaia di gamer, l’arrembaggio al Campidoglio il 6 gennaio 2021 è paragonabile a una partita di Call of Duty IRL» (p. 21).

Risultano evidenti i punti di contatto tra la figura del nichilista tratteggiata da Gurri e quella del gamer di giochi mainstream delineata da Bittanti, tra immaginario videoludico – infarcito di supremazia bianca, patriarcato e violenza – e l’esperienza concreta fuori schermo. Le fondamenta razziste e schiaviste del capitalismo e del consumismo che strutturano tanto le opzioni fasciste quanto quelle neoliberiste, sostiene lo studioso, sono le stesse che informano e alimentano l’immaginario videoludico mainstream.

Bittanti si sofferma anche sulla ludicizzazione delle cosiddette “sparatorie di massa”, fenomeno cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi tempi. Tra gli elementi che accomunano molti degli artefici di questi massacri vi è la giovane età, l’essere maschi e bianchi, l’aver acquistato legalmente fucili semiautomatici non appena l’età lo ha consentito, la propensione a ostentare l’arsenale posseduto sui social media per fini identitari, «l’appropriazione di estetiche e logiche tipiche degli sparatutto in soggettiva durante l’attacco, spesso ripreso in streaming [e] la diffusione di manifesti programmatici sulle medesime piattaforme condivise dai gamer» (p. 28).

Analizzando il massacro del 2019 di Christchurch in Nuova Zelanda, che ha causato cinquantuno vittime, Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka1 hanno notato come l’attentatore, appassionato di giochi di ruolo multiplayer online di tipo “sparatutto in soggettiva” e frequentatore di imageboard infestati dall’estrema destra, abbia architettato l’attentato su una logica e un’estetica di tipo videoludico ricorrendo alla trasmissione in live-streaming dell’attacco nel formato di uno “sparatutto in prima persona” concretizzando uno stile di videogioco proprio, ad esempio, di Call of Duty e Doom, nonché abbia trovato gratificazione nell’esbire una macabra classifica che lo metteva a confronto, in termini di vittime, con precedenti attacchi di estrema destra. Gamification e linguaggio ludicizzato non solo sono stati alla base del piano dell’attentatore ma, segnalano Lakhani e Wiedlitzka, ricorrono anche nei commenti pubblicati da altri utenti degli imageboard su cui l’attentatore aveva annunciato l’intenzione di compiere un massacro.

Se, con riferimento agli Stati Uniti plasmati dalla logica televisiva, Neil Postman (Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, 2021) ritiene che il divertimento imposto dal medium è divenuto il parametro fondamentale di ogni esperienza sociale, dunque anche della politica, Bittanti invita a chiedersi come cambi quest’ultima nell’era videoludica.

Il rapporto tra la politica e l’universo videoludico non si risolve di certo nell’acquisizione di spazi pubblicitari all’interno dei videogiochi, come aveva fatto pionieristicamente Barack Obama nella campagna presidenziale del 2008; la stretta attualità, scrive Bittanti, palesa piuttosto un fenomeno di ludicizzazione del dibattito sulle piatteforme digitali in cui la discussione politica tende a ridursi a una “partita” «in cui “ottenere punti” e “vincere” la conversazione, sulla base di performance retoriche fondate sull’attrito e sull’effetto, sull’argumentum ad captandum e sull’attacco ad hominem. Questa dinamica puramente antagonistica nella quale un “pubblico” di seguaci “fa il tifo” sta diventando standard: la logica vigente è quella del “noi contro di loro”, del “ti ho fregato” e del “ti ho distrutto”» (p. 55). Si pensi al ricorso insistito dei media italiani più reazionari al termine “asfaltare” per certificare “l’annientamento della controparte” ottenuto dai loro politici di riferimento attraverso qualche espediente retorico, non di rado compiaciutamente politically incorrect.

La congruenza tra la politica e l’intrattenimento su piattaforme informate da una logica iper-capitalistica come Twitch e YouTube, dominate da streamer di destra e di estrema destra, ci spinge ancora una volta a interrogarci sullo specifico del medium. Come hanno spiegato in modo convincente Mark R. Johnson, Mark Carrigan e Tom Brock, l’ecosistema del live streaming è “l’espressione di un’economia morale emergente del capitalismo digitale” che privilegia l’incessante presentazione del sé, l’auto-promozione compulsiva e l’attività auto-imprenditoriale, fondati sulla narrazione del mito Americano e della meritocrazia, dove il trolling è una delle strategie dominanti di comunicazione […] e dove il disturbo di deficit di attenzione è una feature anziché un bug di sistema (pp. 57-58)

Pur evitando di scivolare nel determinismo tecnologico, occorre però, sostiene Bittanti, prendere atto di come e quanto i media abbiano inciso e incidano nel definire il ruolo, la funzione e l’identità del politico.

A partire dalla convinzione che, lungi dall’essere neutrale, “il ludico è politico”, in linea con quanto espresso dal precedente volume, i diversi contributi che strutturano questo nuovo, corposo e prezioso lavoro curato da Bittanti evidenziano come i videogiochi mainstream e l’immaginario gamer che ruota attorno a essi siano intrisi di neoliberismo, criptofascismo e di quella dottrina libertarista anarcocapitalista egemone nell’universo della Silicon Valley statunitense. Di seguito ci si limiterà a tratteggiare sommariamente le questioni dibattute dai diversi interventi con l’intenzione di tornare su alcuni di questi in scritti successivi.

È proprio sulla “non neutralità” dei videogiochi che, in apertura di volume, intervengono tanto Alexander LambrowPrendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica – che Lars Kristensen e Ulf WilhelmssonRoger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies – riperdendo rispettivamente le teorie espresse da pionieri dei game studies come Johan Huizinga (Homo ludens, orig. 1939), la cui incondivisibile enfasi sull’autonomia del gioco viene comunque riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui viene espressa, e Roger Caillois (Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, orig. 1958), la cui ferrea convinzione di come il gioco e i giochi debbano essere improduttivi per potersi distinguere dal lavoro viene messa in relazione con le tesi di Marx circa la funzione e le conseguenze del lavoro nellambito di una società capitalistica.

Della “non neutralità” della tecnologia si occupa invece Luke MunnIl processo di radicalizzazione dell’alt-right – chiarendo come la logica algoritmica di una piattaforma come YouTube, con la sua rete di collegamenti (Cfr. Rebecca Lewis, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, settembre 2018), favorisca la radicalizzazione ideologica. L’autore si sofferma in particolare sullascesa della alt-right (alternative-right) evidenziando come la sua diffusione online si fondi su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività» (p. 137). Nella retorica dellalt-right, sostiene Munn, “scegliere la pillola rossa” – riprendendo Matrix – indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo» (p. 138, nota 15).

L’ingresso nellalt-right, sostiene Munn, è graduale, è il punto di arrivo di un processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (che sfrutta la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dellalterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi» (p. 154). Non a caso vengono impiegati i videogiochi nelladdestramento dell’esercito statunitense (Cfr.: Matthew Thomas Payne, Playing War: Military Video Games After 9/11,‎ NYU Press, New York, 2016; Gioacchino Toni, Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco, in “Carmilla”, 22 aprile 2022).

Riprendendo le teorie di Mikhail Bachtin sul carnevalesco, Hans-Joachim BackeCrapa Redneck su torso nazi. Come Wolfenstein II: The New Colossus sovverte la ludonarrazione – indaga la logica con cui è strutturato l’ultimo capitolo, uscito nel 2017, della saga di successo Wolfenstein imperniata attorno alla guerra contro i soldati nazisti. Secondo lo studioso diverse critiche rivolte al videogioco derivano dall’incomprensione di come l’ostentato ricorso al filtro camp e grottesco sia stato delibertamente scelto dai progettisti per portare «in primo piano la natura idiosincratica e contraddittoria delle norme e dell’implicito sistema valoriale dell’FPS [First Person Shooter] in quanto genere, senza tuttavia scardinarle» (p. 210) per sfidare i gamer destabilizzando le loro aspettative.

Il contributo di Soraya MurrayL’America è morta, viva l’America. L’affettività politica in Days Gone – delinea le tensioni che attraversano l’America contemporanea a un passo dalla guerra civile a partire dall’analisi del videogame Days Gone, mentre, alla luce delle teorie formulate da Henri Lefebvre, Jack Denham e Matthew SpokesIl diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world – approfondiscono la percepita antinomia classista tra gli spazi urbani e rurali nei giocatori di Red Dead Redemption 2, mentre Óliver Pérez-Latorre e Mercè OlivaVideogiochi, distopia e neoliberismo: BioShock Infinite, uno studio di caso – evidenziano il messaggio neoliberista che si cela dietro la facciata progressista del videogioco esaminato.

L’apparente antinomia tra gioco e lavoro è invece al centro dell’intervento di Matthew KellyGiocare alla politica. Lavoro, gioco e soggettivazione in Papers, Pleas – focalizzato su uno specifico caso di studio, mentre Stephanie Betz Le vite degli elfi contano? Le dinamiche razziali della politica partecipativa nel fandom prevalentemente Bianco – si cimenta in un’analisi etnografica dei fan del fantasy game Dragon Age illustrando le modalità con cui questi guardano alle nozioni di razza ed etnia.

Riprendendo Stuart Hall e James Gibson, Kristian A. Bjørkelo“Gli elfi sono ebrei con le orecchie a punta e la magia gay”: Come i Nazionalisti Bianchi interpretano The Elder Scrolls V: Skyrim – ricostruisce l’interpretazione di uno specifico videogioco che aleggia nel sito nazista Stormfront, mentre Benjamin AbrahamCos’è un videogioco ecologico? Le politiche ambientali nel genere survival-crafting – critica l’ideologia sottesa a diversi videogame ecologici evidenziandone una matrice concettuale neoliberista.

La progressiva mercificazione dell’esperienza ludica è invece al centro della riflessione di Daniel James JosephCapitalismo Battle Pass – che si sofferma sui videogiochi che ricorrono al meccanismo delle microtransazioni e alla formula del battle pass/event pass introdotta a inizio degli anni Dieci del nuovo millennio in ambito multiplayer online sotto forma di “progressione a pagamento”. Il cosiddetto “capitalismo battle pass”, una variante della platformizzazione della produzione culturale contemporanea, attesta la trasformazione dei videogiochi in “centri commerciali” e, specularmente, la sempre più evidente ludicizzazione dei negozi e del commercio, tanto che non mancano casi in cui si accede alle promozioni soltanto cimentandosi in esperienze videoludiche competitive. Il sistema battle pass impatta pesantemente anche sulle condizioni di lavoro degli sviluppatori, costretti al forsennato aggiornamento dei contenuti. Il modello dei videogame free-to-play, o free-to-start, che permette ai giocatori di fruire gratuitamente dei prodotti base con la possibilità di accedere successivamente a pagamento a contenuti e funzionalità extra, soprattutto nella versione battle royale, si presenta, secondo Joseph, come «un mediatore che mostra come la cultura, i consumatori e i lavoratori siano bloccati in un ciclo “divertente” definito dal circuito digitale dell’accumulazione e del capitale» (p. 484).

A partire dal concetto di countergaming elaborato da Alexander Galloway (Gaming. Essays on Algorithmic Culture, University of Minnesota Press, 2006), Matteo Bittanti e Theo Triantafyllidis – Countergaming tra arte e politica – discutono sulla possibilità dell’arte videoludica di costruire contro-narrazioni efficaci, mentre, in chiusura di volume, Nadine SmithChiamata di servizio –, prendendo spunto da come negli Stati Uniti si possa essere etichettati come “potenziali terroristi” semplicemente per aver dato la caccia in un videogame a un personaggio con il nome di un’importante carica politica2, riflette su come certi tipi di videogiochi tendano a strutturare immaginari violenti sugli utilizzatori. Il fatto che si finisca per essere annoverati tra i “potenziali terroristi” per aver dato la caccia su un videogioco a un personaggio che prende il nome di un politico reale ha pertanto una sua, per quanto perversa, logica.

Diverse ricerche accademiche dimostrano come i videogame “sparatutto in soggettiva” svolgano tanto una funzione propedeutica quanto di supporto alle pratiche militari «legittimandole e inscrivendole in un discorso ideologico multimediale» (p. 519) [su Carmilla]. Call of Duty: Warzone, ad esempio, è strutturato per incoraggiare tanto la cooperazione quanto la competizione tra gruppi e se, al pari di altri multiplayer non per forza di cose di carattere bellico, si è rivelato un ottimo aggregatore sociale, soprattutto durante il distanziamento pandemico, resta il fatto che questo videogioco crea forme di dipendenza gratificando e facendo sentire potente il giocatore. Videogame come questi, sostiene Smith, tendono a manipolare in modo sottile ma efficace persino i giocatori più consapevoli dei meccanismi perversi su cui sono costruiti.

Il genere battle royale ha innestato le marche di riconoscimento dello sparatutto in prima persona sull’open world – un genere che ha trovato in The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Grand Theft Auto due esempi paradigmatici – esplicitandone la sottesa ideologia colonialista. […] Si tratta di aggiornare il mito della frontiera per l’era digitale. Gli ambienti di gioco – anche quelli non violenti e apparentemente benigni – impongono una modalità di socializzazione che si fonda sulla sistematica estrazione delle risorse e una competizione brutale per cui “la mia vittoria presuppone la tua sconfitta” (p. 525).

Smith fa poi riferimento a giochi come Animal Crossing strutturati su una logica di competizione e di accumulo tipicamente capitalista da cui il giocatore non può sottrarsi. «Nel caso dei giochi multiplayer free-to-play così come delle piattaforme di social media free-to-post, le regole di ingaggio sono stabilite ex ante da potenti corporation. Non si scappa» (p. 525).

Attraverso Reset. Politica e videogiochi e il precedente Game over. Critica della ragione videoludica, Matteo Bittanti ha indubbiamente fornito al dibattito italiano sull’universo videoludico un contributo di assoluto valore aggiornandolo e indirizzandolo verso alcune tra le questioni più rilevanti affrontate dai game studies magiormente critici nei confornti di ciò che avviene dentro e fuori gli schermi. Inosomma, la produzione di Bittanti merita assolutamente di essere presa in considerazione da parte di chi si occupa di immaginario e cultura d’opposizione.


  1. Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka, “Press F to Pay Respects”: An Empirical Exploration of the Mechanics of Gamification in Relation to the Christchurch Attack, in “Terrorism and Political Violence”, 31 maggio 2022. 

  2. Nadine Smith è finita tra le persone “attenzionate” dalla Polizia del Campidoglio degli Stati Uniti sul finire del 2020 per aver postato su Twitter uno screenshot contenente il messaggio “BOUNTY: NancyPelosi” “La tua missione, se l’accetti, consiste nell’uccidere Nancy Pelosi” derivato dalla partecipazione insieme ad alcuni amici al celebre videogioco Call of Duty: Warzone, uno spin off multiplayer di una saga di “sparatutto in soggettiva”.  “NancyPelosi” era semplicemente un giocatore-personaggio che doveva essere eliminato da altri concorrenti, ma la pubblicazione di uno screenshot del videogioco su Twitter è bastata a far catalogare chi l’ha inviato tra i potenziali terroristi. 

]]>