Gaetano Salvemini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una vita molteplice, quindi compiuta. Parola di Matteotti https://www.carmillaonline.com/2024/07/13/una-vita-molteplice-quindi-compiuta-parola-di-matteotti/ Fri, 12 Jul 2024 22:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83304 di Luca Baiada

Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti. Un italiano diverso, Bompiani, Firenze-Milano 2024, pp. 336, euro 17,10

 

Tra i punti di forza, l’apparato di fonti. Sul contesto, buona conoscenza del Polesine e ampi riferimenti ad autori e personaggi. Attenzione allo sviluppo delle leghe e delle casse rurali, agli effetti della malaria, della pellagra, delle alluvioni e delle bonifiche. Sul protagonista, padronanza dei fatti. Eppure, tutto lo studio risente di qualcosa; probabilmente di un orientamento cattolico troppo rigido che condiziona la lettura dei dati.

La difficoltà di capire il passato è ricondotta bene al presente: «Matteotti divenne un’icona da rispolverare nelle [...]]]> di Luca Baiada

Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti. Un italiano diverso, Bompiani, Firenze-Milano 2024, pp. 336, euro 17,10

 

Tra i punti di forza, l’apparato di fonti. Sul contesto, buona conoscenza del Polesine e ampi riferimenti ad autori e personaggi. Attenzione allo sviluppo delle leghe e delle casse rurali, agli effetti della malaria, della pellagra, delle alluvioni e delle bonifiche. Sul protagonista, padronanza dei fatti. Eppure, tutto lo studio risente di qualcosa; probabilmente di un orientamento cattolico troppo rigido che condiziona la lettura dei dati.

La difficoltà di capire il passato è ricondotta bene al presente: «Matteotti divenne un’icona da rispolverare nelle occasioni ufficiali». Ma per altri aspetti non ci siamo:

Con la dissoluzione della prima repubblica e dei partiti che l’avevano costruita, Giacomo Matteotti è uscito definitivamente dagli appiattimenti di parte, dalle contrapposizioni ideologiche, da gelosie e rivalità che erano sopravvissute alle divisioni del passato, ed è entrato definitivamente nella dimensione che gli è propria, quella della storia.

Le gelosie hanno solo perso il tratto da segreteria e da grisaglia, per diventare tic nervosi nei discorsi d’occasione. Le ideologie si sono spente ma Matteotti non ha ancora il posto che merita. Cosa significa?

Qualcosa di imbarazzante: non c’erano i fronteggiamenti ideologici, all’origine della messa tra parentesi. Il male è più profondo e si può capirlo solo sorbendo – ma fino all’ultima goccia amara – in politica Salvemini e Gobetti, in letteratura Sciascia. Il paese del papato e dell’inquisizione romana, delle corti e delle accademie respinse come un insetto molesto l’uomo dell’antiretorica, della prassi determinata, della certezza senza fanatismo. Gobetti, appunto, poco dopo il delitto, con la sincerità del morituro lo chiamò protestante. Romanato è realistico qui:

È uomo del postrisorgimento, estraneo alle mitologie dell’unificazione, ma estraneo anche alle rigidezze delle ideologie allora prevalenti: il positivismo, il marxismo, l’idealismo. Scontento, ribelle, inquieto, guardava al futuro, senza lasciarsi condizionare dal passato.

Sui rapporti fra Matteotti e marxismo, però, ci vorrebbero spiegazioni, anche tenendo conto del periodo: nasce poco dopo la morte di Garibaldi e poco prima della fondazione del Partito socialista. Di certo, fatta l’unità emergono problemi, insieme alla questione romana irrisolta – i fascisti la peggioreranno restituendo al papa uno Stato – e a molto altro.

Il commenti di un secolo fa riaprono ferite. Il giudizio dei comunisti fu e rimase duro, sino alla mancanza di umanità, vedendo nell’assassinio il suggello dell’errore. Riflesso automatico di fiducia nell’ineluttabilità della storia: chi cade, non può che aver torto. Gli alfieri della memoria del grande socialista si risparmiarono l’acredine, ma neanche loro furono mai all’altezza del caduto. Atroce, nel 1924, la partecipazione di una minoranza dei deputati del Psu al funerale del loro segretario; e assurde, nel dopoguerra, le commemorazioni alternate fra Psi e Psdi, per non mischiarsi mai.

Anche la confusione al monumento romano, oggi, con lapidi diverse che si contendono lo spazio, dice più disordine che insegnamento. Quell’aiuola assediata dal flusso di auto, sul lungotevere – un tempo ariosa passeggiata, adesso convulsa arteria di scorrimento – , parla da sé. Forse è un caso, ma è in un sottopassaggio, simile a uno di quelli scavati nei lungotevere per le Olimpiadi del 1960, che Fellini gira l’inizio di Otto e ½, col sogno del protagonista: nell’ingorgo, chiuso in una macchina, batte sui vetri e si divincola come Matteotti nella Lancia dei sicari, sino a che riesce a volare via.

La percezione dell’importanza del diritto nella sua posizione politica – «singolare impasto di legalitarismo e di spirito rivoluzionario» – è lucida:

[Per Matteotti] era il diritto, non il determinismo sociale, a creare la strada che conduce alla giustizia e all’uguaglianza. È qui che si deve vedere la modernità di Matteotti nella galassia dei socialisti italiani, modernità che giustificherà tanto la sua proposta di insurrezione per fermare l’entrata in guerra (lo Stato aveva violato le regole e quindi andava fermato con la forza) quanto, in seguito, la sua lotta solitaria contro il fascismo, fondata sulla difesa della legalità e della rappresentanza parlamentare. Chi infrangeva le regole del gioco legittimava chi le violava, a sua volta, per legittima difesa.

I giuristi, però, non valorizzarono le sue ricerche e proposte. Più in generale, anche molti intellettuali furono inadeguati; il testo li ricorda ma vanno ridimensionati meglio. Per esempio:

Ivo Andrić, futuro premio Nobel per la letteratura, che allora era in servizio a Roma presso la legazione diplomatica del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, la futura Jugoslavia: «La crisi del fascismo è iniziata. A causa del delitto Matteotti. Un caso che è allo stesso tempo incredibile e terribile, semplice e banale. Incredibile e terribile è che in Europa, nel Paese che rivendica la paternità del diritto, nel centro di Roma a mezzogiorno sei mercenari possano rapire un deputato popolare inerme, segretario di un partito, portarlo fuori città e ucciderlo».

Andrić non ha capito. Proprio perché siamo nella culla del diritto, lo stragismo portato dalla guerra, con una massa di reduci storditi e incarogniti, e col padronato che non vuole mantenere le promesse – pace perpetua, giustizia, lavoro – , apre al fascismo. Esso è anche il passaggio dal massacro indiscriminato, in guerra, al massacro selettivo, in pace. L’assassinio di Matteotti, giurista e per questo più scomodo, è il segno di un’epoca. La civile Europa, nel paese della paternità del diritto, ha covato un patrigno in camicia nera: presto avrà molti figliastri. La Roma mussoliniana – in questo terribilmente moderna – con le borgate di deportati dal centro per gli sventramenti, con le scenografie di cartapesta per le parate, con le burocrazie labirintiche, diventa insieme culla e bara. Già nel 1934 il groviglio umano dell’Urbe è colto in un romanzo di Marguerite Yourcenar, con un cenno al delitto di dieci anni prima[1].

Un italiano diverso presenta il socialista senza encomi prevedibili:

Un personaggio duro, intransigente, mai disponibile al compromesso, talora anche sgradevole. […] Un uomo di parte, spesso settario, che non dava confidenza e non faceva sconti a nessuno. […] Ante mortem Matteotti fu un uomo profondamente divisivo. Il ritratto che ne scrisse Piero Gobetti a ridosso dell’assassinio, centrato sul tema della solitudine, a mio parere, rimane pur con qualche forzatura, l’interpretazione più penetrante che ne sia stata proposta.

Il punto di vista gobettiano è stato criticato da chi vuole interpretazioni concilianti; ma se forzatura c’è, in Gobetti, è perché quel testo era costretto a una densità alchemica[2].

Un elemento critico. Si insiste sul fatto che il padre di Matteotti avesse prestato denaro a usura:

Le fonti che ne parlano sono numerose e circostanziate. […] Non è fuori luogo ipotizzare che i rancori accumulati per questo motivo contro di lui possano essere arrivati a lambire anche le motivazioni del delitto, considerando il ruolo che in esso ebbero […] due fascisti polesani che conoscevano Matteotti fin dagli anni di scuola: Giovanni Marinelli e (ma in questo caso il coinvolgimento è molto meno sicuro) Aldo Finzi.

La questione è contraddittoria: gli immobili della famiglia erano sparpagliati perché erano frutto di acquisti occasionati dalla fretta dei venditori, all’epoca dell’emigrazione postunitaria; ma questo – felix culpa – permise a due figli, Matteo e Giacomo, di candidarsi in più comuni (all’epoca ogni proprietà dava diritto al voto nel suo comune). Che i rancori locali abbiano contribuito al delitto non è dimostrato, ma di certo l’assassinio fu anche una vendetta castale: come altri – i fratelli Rosselli, per esempio, poi Giangiacomo Feltrinelli e Pier Paolo Pasolini – Matteotti è un traditore della sua classe. Mentre Romanato offre pagine e pagine sullo strozzinaggio del padre, proviamo a chiederci: e se proprio quella provenienza della ricchezza fosse stata determinante nella scelta di far del bene, di schierarsi con gli sfruttati e contro gli sfruttatori?

Dell’epistolario fra Giacomo e Velia si dimostra frequentazione ma non altrettanta comprensione:

C’è più ragionamento che attrazione, sia prima sia dopo il matrimonio, anche quando la lontananza fisica […] rende forte ed esplicito il desiderio reciproco, il bisogno di rivedersi, di toccarsi, di baciarsi. […] Chi leggesse queste lettere pensando di trovarvi riferimenti erotici rimarrebbe deluso. E non soltanto perché il linguaggio del tempo era molto più riservato del nostro, ma perché nel rapporto fra questi due giovani la fisicità è sopraffatta dal ragionamento.

Nella commemorazione alla Camera, il 30 maggio – brutta nel suo lato spettacolare e ingannevole in quello politico – , anche Bruno Vespa ha escluso l’erotismo di quello che invece è un palpitante documento amoroso; questo libro ha un’altra statura, eppure si sente una mentalità che non si accorge dell’eros se non sobbalzano carni. Così sono fraintese in senso negativo le schermaglie, le sofferenze e le ammissioni reciproche di scoramento, che fanno parte di quell’unione. Il fatto che i due si scrivessero anche mentre erano nella stessa città è una «bizzarria»; e pensare che Victor Hugo e Juliette Drouet si scrivevano anche mentre vivevano insieme.

Altri malintesi. Si legge che in Matteotti c’era «l’ansia di fare, e anche di strafare», perché scrisse: «Il desiderio di una vita molteplice, e quindi allora soltanto compiuta, sta diventando una mia ossessione». Questa è l’eco di una profonda inquietudine, di stampo ottocentesco, come quella che fremeva in Arthur Rimbaud. In Une saison en enfer il poeta aveva scritto: «A chaque être, plusieurs autres vies me semblaient dues»; e infatti Matteotti: «Vorrei avere dieci vite». La competenza giuridica, amministrativa e contabile del polesano ha oscurato la creatività; ma a modo suo, anch’egli fu ladro di fuoco e veggente.

Quando si ricorda che per Matteotti l’amore per la propria patria non deve portare a sopraffare le altre – lo scrive a proposito di suo figlio e di un bambino abbandonato di cui si prende cura – non si deve tacere che quel principio e quel senso di umanità vengono da Giuseppe Mazzini. Il Polesine è terra di lotta di classe, sì, ma prima di Risorgimento. E poi. Romanato vede nell’attenzione di Matteotti per l’educazione un’anticipazione di Lorenzo Milani, ma è più immediato pensare a un seguito di Alberto Mario, polesano di Lendinara, piccolo centro che gli ha dedicato un monumento gagliardo. L’autore, che conosce il patriota perché accenna agli studi sull’Italia postunitaria della moglie, Jessie White, non ricorda l’impegno di Mario per i ragazzi da garibaldino.

Nel libro si sentono le insistenze sugli errori dei socialisti e la benevolenza verso il Partito popolare. Quanto agli effetti tremendi della violenza squadrista, vanno posti nel giusto rilievo; per esempio, bisogna sempre precisare che, negli enti locali, le dimissioni dei socialisti erano imposte dai fascisti e le autorità non proteggevano i rappresentanti eletti. L’autore cita come attendibile questa analisi, presa dal giornale dei popolari:

Tacerà il vento di follia quando gli onesti di ogni partito si adopereranno seriamente e fermamente a richiamare i propri aderenti alla legge. È giunto il momento di proclamare che tutti ebbero torto, che esiste per tutti, socialisti e fascisti, il dovere di rientrare per sempre nella legalità. La provincia domanda a tutti i partiti e a tutte le fedi di liberarsi dalle forme degenerative della loro attività.

Sembra l’«Osservatore romano» del marzo 1944, dopo le Fosse Ardeatine, quando chiede a tutti, nella Roma occupata dai nazisti, «serenità» e «calma», «al di fuori, al di sopra delle contese»[3].

Da queste premesse viene l’accusa che il socialismo abbia determinato l’avvento del fascismo; così Matteotti diventa un colpevole. Nel discorso ha un ruolo anche l’avversione alla guerra, ed ecco che il pacifismo diventa colpevole di guerra civile. Sono tesi superate, eppure l’autore, malgrado un bagaglio culturale raffinato, ne sente la fascinazione:

Anni decisivi, quelli del trionfo massimalista, dopo il congresso di Reggio Emilia del 1912 e l’affermazione di Mussolini. Questi poi prenderà tutt’altre strade, tuttavia dal virus dell’estremismo il socialismo italiano non guarirà più. La sconfitta storica di Turati, e della linea riformista, maturarono allora. Quando Mussolini, nel suo primo discorso parlamentare, disse cinicamente che la sinistra la conosceva bene – «io per primo ho infettato codesta gente» – diceva una incontestabile verità.

Invece no. Altro che incontestabile. L’estremismo non fu una prerogativa del socialismo, e comunque il fanatismo determinante fu quello della borghesia nel difendere privilegi di classe.

Affiorano cedimenti al complottismo. Quasi si avalla l’ipotesi che il socialista fosse austriacante, e quindi neutralista, per legami familiari. Si sottolinea che il vero motivo dell’assassinio non è ancora sicuro e si cita la pista petrolifera senza una riflessione di accompagnamento. Si fanno congetture sul movente con punti interrogativi, supposizioni, cenni: il petrolio, le case da gioco dei fascisti, la massoneria, i documenti nella borsa, un cenno nel diario di Ciano. Su Aldo Finzi, squadrista e fascista che morirà alle Ardeatine, scivola un dubbio:

Si volle chiudere in questo modo la bocca del maggior testimone del delitto Matteotti? È un’ipotesi che non ha mai avuto conferme, anche se è quasi certo che Mussolini, pure sollecitato, non intervenne per salvargli la vita.

Per Romanato, di Finzi non è ben sicuro il coinvolgimento ma Finzi è il maggior testimone? Di certo, Finzi l’occasione per aprire bocca la ebbe e non la usò. Quanto a Mussolini, c’è da stupirsi? Non intervenne neanche per salvare il genero dalla fucilazione.

Altre accuse. Si dà spazio a critiche di doppiezza: Matteotti estremista nel Polesine e moderato a Roma. Anche il banditismo veneto, con la repressione austriaca, e poi la rivolta nota come «La boje» contribuiscono alla colpevolizzazione del socialismo. Citando di tutto, anche Sturzo e Galli della Loggia, si addebita ai socialisti di non aver risolto le incertezze interne, con gravi conseguenze.

Come può salvarsi, Matteotti, da tante colpe? E infatti, per l’autore sono involontariamente profetiche le parole rivoltegli da un periodico cattolico:

Buffone e istrione! Tu continui a solleticare nelle folle lo spirito della rivolta. Parola di galantuomo: sarai il primo a pagare il fio di questa improntitudine da istrione. I Danton e i Robespierre furono le prime vittime della loro nefasta propaganda.

Profezia falsa: Matteotti fu assassinato per le doti di denuncia, critica e organizzazione, concretizzate su basi amministrative, legali e contabili. Cadde proprio perché non era un tagliatore di teste ma un tessitore di contatti e sindacalismo, cooperative e relazioni internazionali, persino nessi profondi fra teorie giuridiche e interessi sociali.

Si affaccia una tematica che sa di tempi meno lontani. Riguarda il progetto di un fronte antifascista e qui si può solo segnalarla:

[Matteotti] pensava nel suo intimo anche ai cattolici di Sturzo, che non appartenevano alla sinistra ma rappresentavano […] una forza popolare, benché estranea ai partiti di classe, che non poteva essere confusa con la borghesia italiana ormai fascistizzata. La speranza nella possibilità di quest’incontro divenne concreta soltanto dopo la sua morte, […] ma venne fermata da un intervento esterno alla politica italiana: il veto pontificio.

In queste vicinanze intime c’è da capire. Per un verso, può confermare quest’attenzione all’incontro la citazione di un articolo di Ernesto Buonaiuti, sacerdote perseguitato dalle autorità ecclesiastiche: uscito su un quotidiano di orientamento laico, commenta il discorso di Turati per Matteotti e paragona la morte del socialista al sacrificio di Cristo. Per un altro, viene naturale il paragone con un altro incontro, molti anni dopo; quello fra comunisti e democristiani, con un perno: Aldo Moro. Allora, subito un altro raffronto viene spontaneo: quello con la posizione del Vaticano mentre Moro era nelle mani delle Brigate rosse. Questo paragone costringerebbe a rileggere la lettera di Paolo VI che non provò per davvero a salvare il democristiano, anzi. Un altro veto pontificio.

Romanato scrive: «Ogni ricostruzione del passato non è mai tutto il passato. C’è sempre una zona che sfugge, o per mancanza di fonti, o per insufficienza dello storico, o per il velo di silenzio con il quale, spesso, l’animo umano cela i propri riposti intendimenti, che determinano i fatti più di quanto immaginiamo». Qui il libro si fa perdonare i difetti con l’onestà dell’autore. E a questo punto, se lui non dice i suoi intendimenti, sia il recensore a diradare il suo velo.

Sono un giurista, lavoro con le regole anche quando non le condivido. Con Matteotti ho incontrato un modo coraggioso e concreto di vivere la condizione del giureconsulto: una tensione verso il bene che non cede né al formalismo né al fanatismo né al compromesso. Una cosa che il lavoro legale e giudiziario non insegna, anzi, fa di tutto per mortificare. Neanche di me, quindi, si fidi del tutto chi legge. La zona che sfugge riguarda anche il mio modo di vedere le cose. Matteotti, per tutti noi, in fondo è un monito severo.

 

[1] Marguerite Yourcenar, Denier du rêve, Grasset 1934; poi, in nuova versione, Plon 1959. La prima edizione italiana è Moneta del sogno, Bompiani 1984, traduzione di Oreste Del Buono.

[2] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924.

[3] «L’Osservatore romano», 26 marzo 1944, p. 1.

 

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La resurrezione dell’utopia https://www.carmillaonline.com/2024/06/09/la-resurrezione-dellutopia/ Sat, 08 Jun 2024 22:05:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82944 di Luca Baiada

Rino Genovese, L’inesistenza di Dio e l’utopia, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 128, € 12.

 

Diciamo subito. Chi con questo titolo si aspetta dimostrazioni o confutazioni su Dio, resta deluso, e chi cerca la mappa perduta dell’utopia, prima si metta gli occhiali giusti. Sulla religione:

Non è sostituibile – è la tesi di questo piccolo libro – se non con una prospettiva utopico-politica che si ponga in concorrenza, e al tempo stesso al fianco, delle religioni storiche, scontando però, rispetto a queste, una debolezza intrinseca, che consiste nel proporre una rottura con quel retroterra tradizionale propriamente culturale a [...]]]> di Luca Baiada

Rino Genovese, L’inesistenza di Dio e l’utopia, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 128, € 12.

 

Diciamo subito. Chi con questo titolo si aspetta dimostrazioni o confutazioni su Dio, resta deluso, e chi cerca la mappa perduta dell’utopia, prima si metta gli occhiali giusti. Sulla religione:

Non è sostituibile – è la tesi di questo piccolo libro – se non con una prospettiva utopico-politica che si ponga in concorrenza, e al tempo stesso al fianco, delle religioni storiche, scontando però, rispetto a queste, una debolezza intrinseca, che consiste nel proporre una rottura con quel retroterra tradizionale propriamente culturale a cui esse, invece, restano saldamente ancorate.

Piccolo libro? Forse nel numero delle pagine. Di certo il peso delle questioni comprime i temi alla densità di un buco nero, che inghiotte la luce e si rende imperscrutabile. Scelta abile, anche se, malgrado l’autore sia filosofo, tutto il discorso cede linearità in favore di un’irresistibile suggestione. Che lo faccia apposta? In fondo, a proposito del lavoro culturale, anni fa ha scritto: «Mai arrendersi completamente. Fuggire sempre – anche dal proprio fallimento»[1].

Qualche punto debole. «La credenza di tipo religioso, la fede, ha in sé l’altra fede come qualcosa da superare nel tempo o da abbattere nello spazio. Di qui un’autoconsistenza che la rende particolarmente adatta a qualsiasi pretesa identitaria, anche in senso aggressivo». Sì, ma siamo sicuri che l’utopia eviti l’aggressività? La conquista del West, per esempio, col mito della frontiera, dava ai pionieri un’aura di progresso intrisa di utopia, oltre che di messianismo protestante. Ma non era identitaria e aggressiva?

Ancora. «Il riconoscimento della pluralità delle religioni, e della loro crescente importanza culturale, ha messo in stato d’impasse la tendenza liberale a far convivere ragione e religione, che meglio poteva esprimersi quando la società mondiale pareva avviata al trionfo dell’Aufklärung e all’affermazione del solo cristianesimo»[2]. C’è del vero. Ma se fosse una coincidenza? Il nesso causale fra riconoscimento e crisi è da dimostrare. Ci sono di mezzo la decolonizzazione e il suo fallimento, cioè la sostituzione del colonialismo con nuove forme di dominio. L’oppressione prosegue con altri mezzi; perché, allora, non può esserci un’intolleranza travestita da pluralismo, persino da terzomondismo? Sui confini di campi minati, le intuizioni sono lancinanti ma non risolutive:

Sebbene rivali, la scienza e la religione hanno sottoscritto un tacito patto che potrebbe essere detto obiettivamente antilluministico per la insipienza intellettuale che ha finito con lo spargere intorno a sé. Da un certo momento in poi, infatti, ciascuna di esse è restata padrona a casa propria, evitando di pestare i piedi all’altra: e ciò proprio nel segno della differenziazione funzionale.

Soprattutto c’è da chiedersi se, e in che modo, l’utopia possa portare a un ribaltamento drastico dei rapporti di forza nella società. È un esito che il testo non sposa apertamente. Da un lato promette altro:

È in un gioco reciproco di politica e diritto, considerando il secondo come qualcosa di modificabile attraverso la prima, che va visto il dispiegarsi di un’utopia pragmatica esprimentesi in una strategia di riforme.

Dall’altro lato, in un affondo con l’eco di Guy Debord, arriva la doccia fredda, dotta e implacabile:

È il soggetto come homo faber che non tiene più: soprattutto per via di una mutata consapevolezza del rapporto tra la natura e la cultura, in cui quest’ultima non è più l’alfa e l’omega di una vicenda storica della quale la natura sarebbe il semplice fondale. […] L’utopia ritorna così a coincidere con la «liberazione dal lavoro» (secondo un’accezione postmarxiana), nel senso di una progressiva riduzione della giornata lavorativa, di una dissoluzione degli oneri e dei vincoli imposti dal carattere costrittivo della banausia (come la chiamava Aristotele) nell’ambito di un’automazione crescente, governata da una comunicazione sociale consapevole, sottratta ai centri di potere e alle agenzie della estetizzazione diffusa, che ne limitano o tradiscono il contenuto di emancipazione.

Qui sta il punto. Tecniche, lavori e abitudini, adesso, rendono difficili le lotte sociali strutturate:

Il conflitto sociale diventa aleatorio. Proprio per questo è indispensabile rilanciare l’utopia, la sua intenzione di rottura con il presente, nella consapevolezza che perfino le lotte sociali «ordinarie», come quelle rivendicative economiche, hanno bisogno di un di più di orizzonte – non soltanto per raggiungere dei risultati, ma anche per attivarsi.

È, in fondo, un altro modo di dire ciò che denunciava Pier Paolo Pasolini, quando notava di aver incontrato persone con problemi ben più gravi della povertà. Per questo non ci sono sconti – e qui si vede lontano – neanche su temi che la sinistra considerava terreno facile:

Si è aggiunto il problema di un tempo libero consumisticamente distorto in senso ripetitivo o drammaticamente vuoto: cosicché uno dei provvedimenti più avanzati della Comune di Parigi – vietare il lavoro notturno dei fornai, in modo che essi potessero prendere parte alle lotte sociali e alle discussioni politiche – magari si presenta oggi in termini paradossalmente rovesciati: come lavorare di notte, facendo risparmiare il padrone sul costo dell’elettricità, e avere poi più tempo libero per il fitness?

Davvero, non manca un’ironia macabra, un ragionare col limone in bocca, a questo peripatetico di lunga distanza.

Sotto altri aspetti, però, il messianismo che finisce per ripresentarsi, unito a una lettura impietosa del socialismo reale novecentesco, riconosce all’utopia una credibilità simile alle promesse delle religioni. Si tingono le cose di aurora, sì, ma complicandole:

La mancanza di prove certe circa la possibilità di una vita sociale sottratta al principio di prestazione e allo spirito del capitalismo, garantisce all’utopia la sua immaginabilità, indipendentemente dal fatto che tutti gli esperimenti di socialismo fin qui realizzati, presi nel loro insieme, siano da considerare dei fallimenti. La circostanza che, partendo da guerre e da rivoluzioni (in Russia, in Cina o altrove), e in un quadro per lo più rigidamente statale, non si sia riusciti a tenere insieme solidarismo e libertà, non dice ancora nulla, infatti, sulla impossibile possibilità di un socialismo democratico.

Su questo il libro, citando Gilles Martinet e Riccardo Lombardi, prosegue: «Il contenuto dell’utopia è quello di un “riformismo rivoluzionario” che prova a modificare in profondo le strutture della società all’interno di una cornice democratica». Poi indica l’obiettivo: «Uscita graduale dal principio di prestazione e da una forma di vita competitiva verso un’altra basata sull’associazione e sulla cooperazione».

Il pensatore gira intorno ai due oggetti misteriosi del suo cercare. Proviamo a seguirlo:

Come le religioni non scompaiono mai del tutto, così l’utopia. Qualcosa resta: non tanto ciò che si deposita nella «tradizione degli oppressi», come avrebbe detto Walter Benjamin, quanto piuttosto il senso di un orizzonte che per un momento si era aperto e poi rapidamente richiuso. È quindi dalla delusione di una aspettativa che prende le mosse, reagendo alla rassegnazione, il desiderio di provarci ancora. Si può allora stabilire un parallelismo tra il credo quia absurdum, o il paradosso della fede secondo Kierkegaard, e il pensiero di un’utopia che rinasce dalle proprie ceneri.

La resurrezione dell’utopia ha qualcosa di magico, di iniziatico. Ma forse qui una maschera nasconde la sostanza del discorso: il vero protagonista di questo ripresentarsi non sarebbe la casta utopia, ma la sua sorella sensuale, golosa, generatrice: la traviata innominabile, la seducente dama dalle camelie: la rivoluzione.

Il moto rivoluzionario, che spezza la storia e la porta a compimento, nega la morte del passato perché genera il futuro. Chi pratica quel moto – i filosofi siano avvertiti – non percepisce un’assurdità e non fa un atto di fede. Ci sono eccezioni, certo, ma attenzione: chi fa della rivoluzione una fede può pagar caro – fu il caso di Maiakovskij – l’audace volo di Icaro. Come la dama dalle camelie, la rivoluzione è la sola a conoscere i suoi cicli, e vi accenna appena – è il gesto di Alfonsina Duplessis in La storia vera della signora dalle camelie di Bolognini – , a seconda del fiore che ha sul petto, candido o vermiglio, per concedersi o negarsi. Leggere i segni dei tempi non è per tutti.

E allora. La rivoluzione abita questo libro, senza il nome sulla porta? Non è detto. Di certo, il discorso è stimolante quando si mostra dubbioso sui confini:

In tutte le forme religiose, anche quelle «primitive» come l’animismo o il totemismo, è rintracciabile un nucleo di socialità solidale, cooperativa e non competitiva, pur nell’ambito della funzione fondamentale di ogni religione, che consiste nel controllo dell’alterità in generale, come può essere il far fronte al destino mortale degli umani. Da questo nucleo va estratto il succo utopico. Se ne trova più qua dentro di quanto mai se ne sia visto in quella istituzionalizzazione di una politica dell’utopia che ne determinò la rapida caduta in una vuota routine dispotico-burocratica e in un potere totalitario.

Stimolante, ma l’esito non va affatto. Nel crollo del blocco socialista è stato determinante l’assedio da parte del blocco avversario, quello capitalista, che ha potuto contare sull’appoggio delle religioni istituzionalizzate: soprattutto, a occidente sul cattolicesimo polacco e a oriente sull’islam fondamentalista. Il 1989 passa da Varsavia e da Kabul. C’è un nucleo utopico sociale nelle rivelazioni religiose; ma alla lunga quella socialità, identitaria e interclassista, ha favorito la dissoluzione di un modello e il successo dell’altro, con la conseguenza di aprire a uno squilibrio del terrore, alla guerra.

Un terreno di frizione evidente è stata la Jugoslavia. Non so se fosse utopia, unire gruppi nazionali e religiosi in un’economia socialista e cooperativa, che per decenni funzionò. Ma certamente il solidarismo riconoscibile nelle religioni – in Jugoslavia c’erano praticamente tutte quelle dell’Europa e del Mediterraneo – negli anni Novanta non ha impedito massacri che hanno richiesto una corte internazionale sul modello di Norimberga. Presentando la questione se la politica dell’utopia e le religioni siano imparentate, certo l’autore non intende far preferire alla luce fredda della politica il calore del sacro; sa bene che esso può diventare rogo e cenere, quando si fanatizza o si prostituisce al servizio del classismo e del capitalismo.

Sulle questioni memoriali c’è un colpo d’ala. Si prende atto dell’inevitabilità della memoria contesa, che poggia sul bisogno di dare un senso – basta coi trucchi della memoria condivisa o, come si è balbettato, comune o attiva – , e si va oltre: «Il discorso storiografico potrebbe così essere avvicinato a quello teologico, che ha conosciuto nei secoli più controversie che momenti di accordo». Giusto. Allo stesso tempo, ogni discorso storiografico porta con sé ipotesi alternative: come sarebbe andata se…? Qui leggiamo: «Una storia controfattuale è l’unica che regga a uno sguardo critico». Fermi tutti: proprio non ci siamo. Ma ai filosofi si perdonano i paradossi e l’argomento è accattivante. Genovese lo scruta e ci spiazza:

Da questa situazione, che sarebbe d’impasse, si esce con un passaggio di genere, balzando cioè dal discorso storiografico a quello utopico, che reca in sé un contenuto assiologico-normativo, con la conseguenza che la storiografia può inserirsi nella storia soltanto mediante un consapevole progetto di futuro – altrimenti essa non è nulla più che una raccolta di fatti e documenti, la cui interpretazione è comunque opinabile.

Personalmente sono convinto da tempo della necessità di rivolgere gli storici al futuro, a ciò che sarà. E questo, anche spingendoli a fare i conti con la giustizia per ciò che è stato. Anzi, a volte – certe parole micidiali di Gaetano Salvemini mi confortano[3] – sento la necessità di giudicarli, gli storici, perciò metto anche l’utopia, quella alla Genovese, sul piatto della bilancia, con gli storici come imputati. Del resto: il passato è già stato, mentre il futuro può seguire i nostri progetti, calpestarli o andare in qualche altro modo imprevedibile; sicché il progetto consapevole che si vagheggia, più è al di là dell’orizzonte e più il balzo riscatta l’impasse.

Amare la libertà, anche quella di cambiare, sino a contraddire la narrazione conformista sul socialismo, in voga dal 1989? Si può farlo percorrendo un filo sulla vertigine:

La servitù volontaria è diventata predominante per via di una diffusa ignoranza, ammantata da un presunto rifiuto dell’ideologia. Il fatto che in passato un’ideologia legata al «socialismo reale» abbia svolto una funzione di blocco dell’utopia (tuttavia in misura non molto maggiore di quella svolta dalla stessa socialdemocrazia occidentale) non toglie nulla alla circostanza che perfino un’infarinatura di materialismo dialettico sovietico sia meglio del non avere alcuna cognizione: «meglio» nel senso di predisporre il soggetto a quel cambio di paradigma in cui l’utopia consiste. Per procedere in direzione dell’utopia, infatti, bisogna realizzare uno spostamento del punto di vista.

Ciò di cui l’autore sta parlando, quello spostamento, è molto simile alla metanoia (μετάνοια), cioè a un oggetto teologico. L’utopia è più imparentata con la religione di quanto si immagini? Bella forza. Ma anche il socialismo reale bloccava l’utopia meno di quanto sembri, per chi non ci viveva dentro; eppure non c’entrava il materialismo dialettico sovietico, quello che chiamavano diamat. Piuttosto, via, siamo seri: erano determinanti le ingiustizie del padronato e degli sfruttatori, contrastate da gruppi sociali e organizzazioni capaci di comunicare, di superare l’isolamento e l’individualismo, di fare lotta di classe. Di qua dal Muro di Berlino erano quelle ingiustizie, non le infarinature parolaie, a chiarire anche alle menti più semplici l’urgenza del cambiamento.

Il tentativo di mettere il tema nella storia italiana porta più domande che risposte. Si denuncia la mancanza di lotte ragionate, volte a conquiste che spostano in là l’obiettivo mentre lo realizzano, e si analizzano le conseguenze della lacuna nel secondo Novecento:

Si può osservare come la mobilità della linea dell’orizzonte faccia parte del concetto stesso dell’utopia. Ma nel dopoguerra ciò avveniva senza la coscienza stessa del paradosso, inducendo cioè nelle masse lavoratrici, a scopi elettorali, la credenza in un fine ultimo a portata di mano sull’esempio della Russia sovietica: fraintendimento che, nei decenni successivi, doveva pesare sui partiti del movimento operaio italiano fino alla loro scomparsa. Un riformismo che non diceva il suo nome, o che, quando lo diceva (come nel caso del Psi dopo il 1956), si cacciava in una collaborazione al ribasso con le forze moderate – stanno in questo qui pro quo le radici della liquidazione di qualsiasi socialismo e l’approdo finale della maggior parte della sinistra italiana a posizioni puramente liberaldemocratiche. Una volta messa da parte la versione «massimalista» dell’utopia, ne sortiva, per un grave deficit di consapevolezza, la dissoluzione dello stesso spirito utopico.

Troppo facile obiettare che tutti i partiti furono ambigui. Meglio osservare che, ragionando come Genovese, l’opzione storica rivoluzionaria viene negata ma presupposta come indispensabile – simile in questo al Dio che, osserva l’autore, le religioni vogliono far restare invisibile.

Ma c’è qualcosa in più, e non è nelle contraddizioni che uno studio come questo porta con sé. A colpire è questa soteriologia dell’utopia, che parte dalla dannazione di un cattivo gradualismo, di un riformismo della vergogna; questa tesi, se proviamo a leggerla in direzione inversa, si mostra ancor più intrecciata al paradosso: un riformismo consapevole, e soprattutto vincente, avrebbe salvato anche i massimalisti? magari persino i comunisti? e gli stalinisti? Quantomeno li avrebbe assorbiti in un più ampio destino. L’altra storia possibile, allora. E un’altra versione controfattuale. Davvero, tutto questo somiglia a lontane eresie: la salvezza riscatta tutti, il Demonio è il punto più profondo di Dio, il Messia salva anche Satana.

Magari è proprio questa, chissà, la suggestione profonda del piccolo libro. È tra quelli che valgono più per le contraddizioni che per la coerenza? Mentre cerchiamo il confine tra religione e utopia, mentre saliamo per il tortuoso sentiero, la questione ci sguscia dalle mani, vola via, e forse l’autore fa come il maestro nella Montagna sacra di Jodorowski, nella scena finale: sulla vetta ci invita alla mensa iniziatica, sfiliamo il cappuccio ai maghi, e oplà: sono manichini. Ha fatto la sua parte, adesso ci rende la libertà e sono fatti nostri.

 

 

[1] Rino Genovese, Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell’esilio mentale, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 176.

[2] In questa citazione e nelle altre da Rino Genovese, L’inesistenza di Dio e l’utopia, Quodlibet, Macerata 2023, i corsivi sono nell’originale.

[3] «Io penso qualche volta che se si vuole far rispettare la pace sulla terra la maggior parte dei professori di storia – per lo meno in Europa – dovrebbero essere impiccati», Gaetano Salvemini, Storia e scienza, La Nuova Italia, Firenze 1948, pp. 48-49.

 

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La pentola bolle, poi Amazon, prima i carbonari e in mezzo Matteotti https://www.carmillaonline.com/2024/05/21/la-pentola-bolle-poi-amazon-prima-i-carbonari-e-in-mezzo-matteotti/ Mon, 20 May 2024 22:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82629 di Luca Baiada

Diego Crivellari, Francesco Jori, Giacomo Matteotti, figlio del Polesine. Un grande italiano del Novecento, prefazione di Francesco Verducci, postfazione di Marco Almagisti, Apogeo Editore, Adria 2023, pp. 202, euro 18.

 

Attenzione precisa alla collocazione di Giacomo Matteotti nel tempo e nello spazio, convinzione e pluralità di registri: storico, culturale, economico e politico. Si sente – è una consapevolezza collaudata[1] – la conoscenza del territorio:

La campagna polesana offre ancora oggi al viaggiatore, al visitatore occasionale, al turista colto, curioso o meno distratto un’esperienza che, per certi versi, può perfino sembrare fuori dallo spazio e dal tempo [...]]]> di Luca Baiada

Diego Crivellari, Francesco Jori, Giacomo Matteotti, figlio del Polesine. Un grande italiano del Novecento, prefazione di Francesco Verducci, postfazione di Marco Almagisti, Apogeo Editore, Adria 2023, pp. 202, euro 18.

 

Attenzione precisa alla collocazione di Giacomo Matteotti nel tempo e nello spazio, convinzione e pluralità di registri: storico, culturale, economico e politico. Si sente – è una consapevolezza collaudata[1] – la conoscenza del territorio:

La campagna polesana offre ancora oggi al viaggiatore, al visitatore occasionale, al turista colto, curioso o meno distratto un’esperienza che, per certi versi, può perfino sembrare fuori dallo spazio e dal tempo ordinari, l’ambiente di un nord padano nella sua essenza eppure meno frenetico e battuto, l’assaggio di un territorio lento che, pensato e costruito e rammendato sulla base di successive opere di modernizzazione (le bonifiche, l’agricoltura, le infrastrutture) e di una lotta plurisecolare tra l’uomo e le acque, è forse riuscito a sfuggire, almeno in parte, agli effetti della modernizzazione più selvaggia.

Anche qui nel periodo postunitario economia e tecnologia fanno aumentare le sperequazioni sociali:

Elemento caratteristico della dura vita nelle campagne del Basso Polesine era ancora il diritto di vagantivo, che consentiva soprattutto ai più poveri di muoversi liberamente tra valli e paludi per praticare la pesca, la caccia, la raccolta di canne palustri. Le opere di bonifica contribuiscono a distruggere il vagantivo e a proletaritarizzare le masse contadine.

Ma il Polesine offre una novità: diventa un’enclave rossa nel Veneto, una terra di ibridazione, una Romagna di là dal Po dove ci si ribella:

Questo stesso territorio monotono e pianeggiante, apparentemente immutabile nel suo microcosmo politico e sociale, sarà entro pochi anni epicentro della prima grande ribellione contadina della storia italiana: «La boje!». Le plebi contadine che, per secoli, erano state ai margini della grande storia, irrompono sulla scena e preannunciano l’inizio, tra proteste, violenze e contraddizioni, di una nuova fase. […] Il movimento è spontaneo, i capi sono improvvisati, la parola d’ordine dell’esasperazione e della lotta è «la boje», cioè la «pentola bolle e di colpo va di sopra».

I limiti del tentativo ci sono e li noterà Piero Gobetti tracciando la storia di Matteotti prima di cadere come lui: «Una provincia tormentata con un’economia complessa ed incerta, terra storica di esperimenti di sovversivismo, spesso più servile che violento, sono toni sufficienti per determinare l’opera di un uomo»[2]. Eppure il seme è gettato: si è provato, si può.

Il conflitto sociale, insieme alla liberazione nazionale e alla riscossa politica, si ritroverà nella Resistenza:

Rappresenterà un ulteriore momento di riscatto, risveglio e partecipazione popolare, un fenomeno per certi versi sorprendente, perché sviluppato non tra le montagne, ma in un territorio pianeggiante, privo di ombra, in cui – se si escludono i campi di mais – non esistono luoghi in cui ripararsi, un territorio piatto che non si presterebbe tecnicamente alla tattica della guerriglia e che invece conosce la lotta partigiana, conosce i rastrellamenti, le torture, le stragi (come quella di Villamarzana del 15 ottobre 1944, la più grave, compiuta dai repubblichini), una lotta essenzialmente contadina che si rivolge […] contro i fascisti prima ancora che contro i tedeschi invasori e, per molti versi, assume la connotazione di una resa dei conti e di una guerra di classe.

Ancora prima dell’unità d’Italia, con caratteristiche diverse, queste terre covano contatti, progetti, scatti d’orgoglio. Proprio a Fratta Polesine, luogo di nascita di Matteotti, dove un tempo Lucrezia Gonzaga e intellettuali di vaglia si raccolsero in accademia, si tessono cospirazioni della Carboneria che non sfuggono all’occhio di Vienna e che portano i patrioti allo Spielberg. Se ne trarrà insegnamento: il fratello di Giacomo, Matteo Matteotti, studierà i carbonari.

Naturalmente la storia non può fermarsi ai progetti di un gruppo. La condizione dei lavoratori permette alla nobiltà, quando non è solo crapulona, l’opportunità di ozii culturali; però:

La maggior parte della popolazione abita nei tipici e poverissimi casoni, con tetto in paglia, pareti in vimini intrecciati, intonacati con terra argillosa a volte mescolata con sterco bovino, sostenuti da quattro pali agli angoli; all’interno una sola camera, dove gli uomini convivono con gli animali.

Bene, comunque, che si ricordi l’importanza del sapere per il socialista polesano. Il suo impegno in Parlamento e negli enti locali per le scuole, le biblioteche e le iniziative di formazione è forte e personale. Se mi fosse concesso un viaggio nel tempo per incontrare Matteotti, non sceglierei una seduta parlamentare ma la gita a Ferrara in cui fece la guida turistica per i lavoratori, si irritò perché erano pochi e poi capì: «Indolenza, ignoranza; delle quali in fondo la classe lavoratrice non ha colpa, perché da troppi secoli straniata a ogni cultura e ad ogni spettacolo di bellezza»[3]. Confondersi coi braccianti e seguirlo, passo passo.

Nell’attenzione alla cultura c’è una convinzione che Giacomo Matteotti, figlio del Polesine riconduce alle sue posizioni al congresso dei comuni socialisti, a Milano, nell’ottobre del 1919, quando disse di volere un insegnamento «libero, poetico, astratto» e aggiunse:

Vogliamo noi veramente che la scuola sia una preparazione per l’officina, pel lavoro? No, assolutamente; la scuola deve essere qualche cosa per cui, almeno per quattro o cinque anni, la gente del popolo non pensi alla preparazione del lavoro manuale, impari qualche cosa che sia fuori del lavoro immediato, impari anche delle astrazioni. Non dobbiamo essere di quelli che vogliono la preparazione del ragazzo all’abilità.

Cultura e lotta dei lavoratori uniscono la storia locale e quella italiana a un uomo che prima è tappa di un antico cammino, poi diventa mito fondativo:

Matteotti, nome in grado di suscitare accenti quasi religiosi, come ammantata di religiosità e di riferimenti nemmeno troppo velati al cristianesimo primitivo era stata la predicazione socialista nelle campagne padane tra i due secoli. Perfino negli anni più bui della dittatura, nella lunga traversata del deserto, il ricordo di Matteotti sarà all’origine di una ripresa attiva della coscienza antifascista, sarà memoria viva, non meramente sentimentale, radicata nella cultura popolare.

Le difficoltà delle terre basse, i controversi sviluppi, con caratteristiche particolari rispetto al Nord-Est, la collocazione geografica che favorisce i collegamenti e la disponibilità di mano d’opera sono elementi che si ripresentano. Non a caso proprio nel Polesine viene aperto un importante snodo logistico. Arriva Amazon:

Il lavoro sembra essere il filo rosso che lega il Polesine delle prime grandi lotte politiche e sociali e il Polesine di Matteotti al Polesine di oggi. L’approdo della potentissima multinazionale americana fondata da Jeff Bezos in una realtà in cui, negli anni Ottanta del XIX Secolo, si sviluppò la prima vasta ribellione contadina del nostro paese […] appare in ogni caso come un passaggio dal sapore altamente simbolico.

Di un Matteotti c’è bisogno ma un Matteotti non lo abbiamo; perciò questa osservazione degli autori va presa come un buon proposito:

Se […] è veramente possibile cercare di individuare, all’interno di una densa parabola storica, un punto di sintesi capace di collegare la vicenda dei braccianti polesani di Otto e Novecento ai nuovi, anonimi, precari operatori della logistica, questo può senz’altro coincidere con l’esperienza straordinaria – esemplare, interrotta, incompiuta – rappresentata da Giacomo Matteotti.

Fitto di dati, nomi e collegamenti – lo sconcertante Nicola Bombacci, prima rivoluzionario, poi fucilato a Dongo coi peggiori fascisti, Umberto Merlin del Partito popolare e molti altri – il volume ricostruisce l’affermazione di Matteotti in una terra che ama e in cui si muove bene grazie alla parola convincente e alla conoscenza di persone e problemi. La riprova dell’efficacia di quell’impegno sarà la determinazione con cui il fascismo si accanirà su un corpo sociale che ha i piedi nel torpore dei canali e la testa nella modernità della sindacalizzazione e della solidarietà di classe strutturata:

Lo squadrismo, nel terribile 1921, si abbatterà sul Polesine, smantellando con minacce e violenze sistematiche le leghe, le amministrazioni locali, i circoli, le tipografie, distruggendo le tracce di una presenza socialista che era stata pazientemente disseminata e organizzata nell’arco di una trentina d’anni, e su cui piomba ora la ferocia di una vera e propria guerra civile, […] una guerra civile a senso unico, una reazione agraria che troverà il movimento proletario scioccato, traumatizzato, largamente impreparato di fronte alla determinazione, all’efferatezza, ma anche alla «tecnica» di una violenza pianificata.

Il socialista non si scoraggia e porta la battaglia sino in Parlamento. Il suo stile è schietto, distante dal chiasso dell’arruffapopoli e dagli schematismi del quadro di partito:

Pareva incarnare una figura diversa di militante politico, perfino inedita, anche se riferita all’immagine del rappresentante socialista più tradizionale nelle istituzioni; nessuno sfoggio di oratoria preziosa, nessun artefatto intellettualismo, nessuna concessione alla demagogia o, per rimanere più vicini all’attualità, al populismo.

Non c’è da stupirsi, allora, che Matteotti si sia battuto contro qualsiasi compromesso col fascismo e abbia difeso tutti gli spazi di manovra concessi dalla società liberale, anche se quella società aveva col fascismo legami colpevoli e vistosi; quegli spazi legali, quegli istituti, quelle parole d’ordine borghesi, anche se erano espressione di un’egemonia di classe contigua a quella del nascente regime, andavano protetti: «Egli comincia a utilizzare il termine “dittatura” senza incertezze, perché gli è chiaro che l’avvitamento della crisi sta conducendo verso la liquidazione degli istituti liberali».

Uno studio così attento si fa perdonare anche i malintesi sull’età repubblicana, nel capitolo L’eredità di Giacomo Matteotti:

A frenare l’evoluzione del paese ha concorso in misura analoga un handicap di natura politica che rappresenta l’esatta antitesi dello stile e delle battaglie di Matteotti: la mancata evoluzione verso un moderno schema occidentale basato sulla competizione-alternanza tra un blocco riformista e uno moderato. […] Tangentopoli non è stata la causa del crollo del sistema, ma solo l’elemento della spinta finale, per giunta senza l’auspicato rinnovamento: la cosiddetta seconda Repubblica si è impaludata in una sfibrante transizione perenne che ha prodotto una sostanziale paralisi. […] Tra le conseguenze più pesanti, la profonda e radicale sfiducia dell’opinione pubblica, che si è tradotta e continua a tradursi in un allarmante astensionismo elettorale e nella compulsiva ricerca di un decisore credibile cui affidare le sorti del paese: compito in cui sono via via falliti i Berlusconi, i Prodi, i Bossi, i Renzi, ma anche tecnici di vaglia da Monti a Draghi, e che ora è stato raccolto da Meloni, peraltro senza che intorno si modifichi il clima di rissa continua.

Non ci siamo. L’alternanza fra due blocchi politici non era nelle ambizioni di Matteotti e dei socialisti, e se c’è una cosa da invidiare a quei tempi duri è che in politica non si contava solo fino a due. Il rilievo sul ruolo di Tangentopoli è giusto, ma altro che paralisi: da allora, e sono passati trent’anni, economia, politica e diritto corrono energici verso la più spietata ingiustizia sociale. Apatia e confusione, con l’astensionismo alle elezioni, sono cose connesse alla gagliarda lotta di classe del padronato e alla debolezza di quella dei lavoratori, non alla mancanza di uno schema occidentale. La ricerca di un decisore si chiama voglia di padrone, e il volume fa bene a denunciarla; i personaggi elencati, però, hanno ben poco in comune e due di loro, Monti e Draghi, sono stati imposti un po’ dagli effetti della condotta di chi li precedeva, un po’ da manovre dell’imprenditoria e del palazzo.

I cenni di attualizzazione lasciati a chi legge sono porte aperte – è il titolo del romanzo di Leonardo Sciascia – che siamo liberi di attraversare a nostro rischio. È una di queste il collegamento fra i due mesi di incertezza sulla sorte del socialista, con le congetture (anche sull’occultamento del corpo in un lago), e un periodo simile nel caso Moro. È un’altra porta il «mondo di mezzo», cioè la presenza di un ambiente criminale al servizio della politica e dell’affarismo, capace di tessere col potere legami fatti di connivenza e ricatto servizievole. Vengono in mente cose sempre più gravi, di tempi in tempi, come i contatti tra Francis Turatello e Craxi, poi il mafioso assunto a casa di Berlusconi, e ancora le frequentazioni altolocate dei personaggi intramontabili della malavita romana, in un sottobosco di affarismo e illegalità che non fa differenze tra uno schieramento politico e un altro, né tra Guerra fredda, berlusconismo e modello successivo.

In questo il delitto Matteotti, col coinvolgimento di sicari per mestiere, di intellettuali prostituiti, di politicanti e del capo del fascismo è un esempio di delitto del potere in cui convergono ruoli muscolari e torsioni linguistiche. Alcune forze trasmettono dall’alto verso il basso l’opzione della riduzione al silenzio, altre porgono dal basso all’alto l’esecuzione dello spargimento di sangue. In certi delitti successivi, anche molto diversi, si ritrovano le stesse caratteristiche di ubbidienza in cui un ordine preciso di vertice non c’è o non è verificabile: da alcuni fatti di mafia all’omicidio di Mino Pecorelli al caso Mauro De Mauro. Il rapporto fra il potere e i suoi bravi corre sul filo di cenni, perché appunto quello è il linguaggio del potere. È di segno opposto la lingua della giustizia, e per questo Giacomo Matteotti, figlio del Polesine riconosce nella Costituzione e nel suo nitore espressivo un paradigma indispensabile, lo stesso che Matteotti frequentava.

Si può intuire, allora, perché Sciascia ambienti il suo romanzo nel 1937 e lo pubblichi nel 1987. Gli «anni di fango» hanno qualcosa in comune con gli «anni del consenso»: nell’imminenza del crollo del blocco socialista, in quell’età di ricatti democristiani e craxiani, con un’opposizione inadeguata, si sviluppò qualcosa – un consenso al fango, si direbbe – che preparò il berlusconismo attraverso la scossa della stagione delle stragi. Parola e silenzio, chiasso e segreti favorirono l’arretramento del lavoro e l’attacco alla giustizia travestito da garantismo, da legalitarismo, da modernizzazione delle leggi.

Già, proprio il diritto; una cosa che vive di parole. Una cosa che con la parola pulita fiorisce, e in quella lurida imputridisce.

Quale rapporto […] esiste tra l’uomo politico e lo specialista del diritto? In linea generale possiamo affermare che è difficile comprendere l’itinerario intellettuale e politico di Matteotti, senza ritornare alla sua passione per il diritto. […] Questa passione non è venuta meno neppure negli anni più travagliati dell’impegno politico e parlamentare, contribuendo a fare del socialista polesano un tipo particolare di dirigente, di organizzatore, di rappresentante delle istituzioni, in cui alla veemenza delle posizioni, al febbrile attivismo, al coraggio personale si univano, nelle occasioni giuste, il rigore dell’uomo di scienza, lo sguardo oggettivo del tecnico, il piglio dell’esperto, l’approccio di chi padroneggia una materia cruciale e ne è ben consapevole.

Il tema coinvolge il nesso tra riformismo e rivoluzione, la questione del gradualismo e quella della lotta di classe. Gli autori, citando Carlo Carini e Paolo Passaniti[4], ribadiscono i punti di contatto di Matteotti con Antonio Labriola e Gaetano Salvemini e osservano:

[Matteotti], peraltro pagando con la vita, sarebbe stato il solo – o quasi – a intuire che la difesa del Parlamento come «organo depositario della sovranità nazionale e centro esclusivo di produzione democratica del diritto» non era una battaglia politica contingente, bensì una trincea decisiva per tutto il movimento operaio e per la libertà in Italia. La radice di questa consapevolezza, che lo porterà a sfidare il fascismo al potere e a percepirne la carica totalitaria, è da ricercarsi, molto probabilmente, proprio nella sua formazione giuridica e nella peculiare sensibilità sviluppata all’interno di questo percorso giovanile.

Se ci facciamo carico di questo, attrezziamoci per strade difficili. Il diritto è diventato o il pastone in cui beccano gli animali da cortile del palazzo, oppure il quadrato da cui chi vuole cambiamenti si tiene alla larga, temendo che sia ormai una gabbia irrimediabilmente cervellotica e chiusa.

Eppure, se Matteotti denuncia in modo inoppugnabile le mascalzonate del governo Mussolini, anche con il libro che pubblica nel 1924, Un anno di dominazione fascista, è perché frequenta il diritto con uno stile pratico, intriso di economia, contabilità e conoscenza della burocrazia. Gli autori afferrano una parte importante – che però non è affatto la sola – di quel volume battagliero:

Matteotti contesta che il governo abbia davvero migliorato la situazione economica: se aumentano i profitti, infatti, diminuiscono i salari, si aggrava il debito pubblico, cresce la disoccupazione e peggiora nel complesso la condizione dei lavoratori (un’ondata di licenziamenti colpisce in particolare i lavoratori delle ferrovie). L’interventismo economico dell’esecutivo smentisce le promesse liberiste del suo programma, avviando una stagione all’insegna di sussidi e favori nei confronti della grande industria e di quelli che oggi chiameremmo «poteri forti».

Sul punto è citata l’economista Clara Mattei[5], a proposito della «convergenza tra la politica economica inaugurata dal governo fascista, in cui si incrociano austerità, autoritarismo e tecnocrazia, e le idee degli economisti liberali».

Viene il sospetto – il libro si affaccia sulla questione senza percorrerla – che in fondo proprio l’originalità della posizione di Matteotti abbia segnato non solo la sua fine, che ha per colpevoli i massimi livelli del fascismo, ma anche la fase successiva.

Il sospetto, insomma, è che l’eliminazione di Matteotti, negli angoli della coscienza borghese, sia stata presa, oltre che da alcuni come un sollievo, da altri come un lutto, sì, ma chiarificatore, e che anche per questo il regime si sia ricompattato. Intransigente senza retorica, colto e vicino al popolo, avverso al correntismo ma attento a ogni novità, poliglotta europeo radicato in una terra afflitta dall’analfabetismo, Matteotti aveva ben poco del politico tradizionale e molto di nuovo da insegnare. La sua lezione ancora adesso ha pochi discepoli.

Ma adesso sbrighiamoci. Abbiamo un appuntamento con una guida turistica d’eccezione, a Ferrara. Altrimenti scriverà: «Perché tanti assenti? Non per il tempo ch’era buono; non per la spesa, che in Ferrara si ridusse a lire dieci per persona (quanti se ne consumano nelle bettole?)»[6]. E lungo la strada godiamoci la campagna: nutriva di grazia il divisionista Gaetano Previati, che Matteotti commemorò alla Camera chiamandolo «meraviglioso pittore delle immagini, delle luci e dei colori»[7]. Forza, in cammino. Stavolta andiamo numerosi.

 

 

[1] Diego Crivellari è autore anche di Scrittori e mito nel delta del Po. Un dizionario letterario e sentimentale, Apogeo Editore, Adria 2019.

[2] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924, p. 11.

[3] Giacomo Matteotti, Sulla scuola, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1990, p. 162.

[4] Carlo Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Olschki, Firenze 1984. Paolo Passaniti, Giacomo Matteotti e la recidiva. Una nuova idea di giustizia criminale, Franco Angeli, Milano 2022.

[5] Clara Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo, Einaudi, Torino 2022.

[6] Matteotti, Sulla scuola, cit., p. 162.

[7] Ivi, p. 145.

 

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