G8 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A proposito del fascismo di ieri, di oggi e di altro ancora https://www.carmillaonline.com/2024/03/13/a-proposito-di-fascismo-di-ieri-e-di-oggi-e-di-altro-ancora/ Wed, 13 Mar 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81425 di Sandro Moiso

Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 1190, 45 euro

Scrive l’autrice del testo pubblicato da UTET/DeAgostini nell’Introduzione: «Prima di scrivere un libro che riguarda un periodo così controverso, il cui ricordo è ancora vivo nella mente di alcuni, è necessario fare qualche premessa». E, in effetti, varie premesse andrebbero fatte anche prima di recensirlo, a partire dal fatto che il periodo del ventennio fascista non è soltanto un «ricordo ancora vivo nella mente di alcuni», ma un ben preciso periodo di tempo e pratica politica, statale e non, sul quale abbondano sia la [...]]]> di Sandro Moiso

Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 1190, 45 euro

Scrive l’autrice del testo pubblicato da UTET/DeAgostini nell’Introduzione: «Prima di scrivere un libro che riguarda un periodo così controverso, il cui ricordo è ancora vivo nella mente di alcuni, è necessario fare qualche premessa». E, in effetti, varie premesse andrebbero fatte anche prima di recensirlo, a partire dal fatto che il periodo del ventennio fascista non è soltanto un «ricordo ancora vivo nella mente di alcuni», ma un ben preciso periodo di tempo e pratica politica, statale e non, sul quale abbondano sia la ricerca storica che la memorialistica. Quest’ultima, più della prima, spesso di parte e attenta, come sostiene sempre nell’Introduzione Enrica Garzilli, a salvaguardare l’integrità morale e politica dei testimoni più che la realtà dei fatti narrati. Sottolineando che si preferisce qui usare il termine “realtà” piuttosto che “verità”, nel tentativo di limitare almeno in parte l’alto tasso di discutibile interpretazione soggettiva cui spesso si accompagna la seconda.

Per comprendere appieno le ragioni di questo pistolotto iniziale e di questa recensione, occorrerebbe sfogliare con attenzione i Paralipomeni della batracomiomachia di Giacomo Leopardi e, in tale testo ottocentesco, trovare la giusta epigrafe per commentare qualsiasi discorso che si occupi delle imprese degli attuali “fascisti” e “antifascisti” istituzionali che ammorbano con le loro velleità politiche e culturali l’aere mediatico, rendendolo, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, sempre più simile a un pantano. Allo stesso tempo immobile e mobile come le sabbie destinate a trascinare nella melma, fino a seppellirlo, qualsiasi ragionamento o tentativo di inquadramento dei problemi connessi ai primi due senza per forza cadere nella banalità e nell’irrazionalità delle ideologie immutabili e pregresse.

Pretesa veramente assurda, quest’ultima, all’interno di una società (“dello spettacolo”, sia sempre benedetta l’intuizione di Guy Debord) in cui il palco di Sanremo vale quanto il parlamento e un’affermazione fatta da uno dei presentatori o dei cantanti in gara quanto un decreto legge o una ponderata riflessione filosofico-politica. Avvicinando molto la situazione italiana attuale a quella già derisa dal poeta di Recanati, nei versi composti tra il 1831 e il 1837, anno della sua morte.

Anni in cui il poeta e filosofo italiano avrebbe portato alle estreme e più mature conclusioni la sua lunga e materialistica riflessione sulla condizione umana e le illusioni, spesso men che infantili, religiose e “ideali” che ne giustificavano ogni suo aspetto più meschino, prolungandone non solo le sofferenze, ma anche la condizione di sottomissione della società italiana dell’epoca sia alle risibili monarchie nazionali, senza mai discuterne l’intrinseca religiosità e inettitudine, che a quelle, ben più potenti, austro- borboniche che si erano spartite l’Italia da secoli.

La battaglia dei topi e delle rane, appoggiate queste ultime dai ben più temibili e “corazzati” granchi, si ispirava a un poema greco in 303 versi attribuito, senza prove concrete, a Omero e la cui altrettanto controversa datazione copre un periodo compreso tra il V e il I secolo a. C. Il poemetto classico serviva però a Leopardi per mettere alla berlina sia i presunti progressisti della causa nazionale, in Italia come in Francia, che i loro fieri e ultra-conservatori avversari insieme alle potenze straniere di cui difendevano gli interessi.

Topi, rane e granchi presi tutti insieme non fanno certo una gran figura, ma ad uscire con le ossa rotte sono proprio i primi, ovvero i progressisti, che sventolando propositi liberali e organizzando inconcludenti cospirazioni non fanno altro che rendere i loro avversari ancora più forti e “cattivi” e pagando per questo prezzi esagerati, in termini di vite e carcerazioni, considerati i risultati (non) raggiunti.

Urlano sempre al lupo oppure alla vittoria certa i topi, per poi, però, fuggire a gambe levate di fronte all’avversario o tremare di paura al solo pensiero di ciò che questo potrebbe fare una volta assiso al trono. Sono gli anni compresi tra il 1820 e il 1830, grosso modo, quelli di cui parla il grande e sarcastico materialista ottocentesco, eppure non si può fare a meno di pensare all’autentica “beata ignoranza” che anima e dà fiato ai dibattiti attuali sul pericolo fascista rappresentato dalle attuali forze di governo e alle richieste dell’antifascismo istituzionale per fargli fronte.

In realtà, però, dietro alle richieste fatte a nostalgici del fascismo di antica data di fare professione di antifascismo oppure, da parte avversa, quella di fare pubblica ammenda sulle foibe o di schierarsi, senza se e senza ma, con il sionismo di Netanyahu in nome del rigetto dell’antisemitismo o, ancora, con Zelensky e l’Ucraina contro il putinismo che i due avversari si rimpallano senza alcuna vergogna o senso del limite e del ridicolo, sta il fatto che i due contendenti costituiscono le due facce di una stessa medaglia di governo e/o politica in cui forze prive di identità alcuna, dopo un adeguamento pluridecennale al comando del capitale finanziario e alle necessità del capitale sovranazionale di salvaguardare i propri profitti e interessi, cercano di spartirsi poltrone e potere fingendo e rivendicando meriti e radici politiche e ideologiche di cui non costituiscono più nemmeno un lontano fantasma. Come dire che, da queste parti e lungo le sponde della sempiterna italietta non si aggirano più né il fantasma del comunismo né, tanto meno, quello del fascismo. Perlomeno, attualmente, nelle forme in cui si erano storicamente prospettati.

Aleggia invece, ovunque e su tutte le forze in campo, l’olezzo di un liberalismo, fasullo anch’esso in un paese in cui il peso della Chiesa non è mai diminuito in maniera significativa, che, identificatosi totalmente con i valori dell’Occidente e della Nato, non fa altro che spingere l’intera nazione nel baratro di un conflitto armato di cui gli stessi governanti e i loro avversari non intendono i fini e le ragioni, ma a cui si adeguano per mancanza di idee e prospettive. Una guerra ideologica dei topi e delle rane, per tacer dei granchi, dunque. E tutto questo costituisce il motivo per cui varrebbe la pena di leggere, o almeno sfogliare, l’opera di Enrica Garzilli pubblicata sul finire del 2023 .

Enrica Garzilli è specialista di indologia e studi asiatici, collaboratrice di ricerca e docente di sanscrito, buddhismo, induismo e diritto indiano all’Università di Delhi e a Harvard (1992-2016) oltre che di Religioni e culture dell’Asia e Storia del Pakistan e dell’Afghanistan alle Università di Perugia e Torino. Ha fondato ed è stata direttore della Harvard Oriental Series – OM. Collabora con numerose riviste e quotidiani nazionali e con la Rai in ambito politico, storico e geopolitico. Nel 1997 ha fondato l’Asiatica Association, un’organizzazione no profit che diffonde la conoscenza e lo studio delle culture asiatiche. Ha fondato e diretto le riviste accademiche online IJTS (Tantrism) e JSAWS (Gender Studies) (1995-2019).

Mussolini e Oriente segue con attenzione un tema che, come afferma l’autrice, è stato tutto sommato poco sviluppato nell’ambito della ricerca storiografica italiana, una volta escluso uno studio di Renzo De Felice pubblicato nel 19881 cui l’autrice paga tributo non soltanto nel titolo. Tema costituito dal tentativo mussoliniano di ampliare la presenza e l’influenza italiana in quelle che, allora, erano ritenute aree di pertinenza o appartenenza dell’impero britannico.

Se tale tentativo, senza mai nascondere le pose teatrali e gigionesche del Duce e confermandone le velleità imperiali richiamantisi a un sempre (ancor oggi) troppo poco sbiadito mito di Roma, finì da un lato nel ridicolo e dall’altro nella tragedia del secondo conflitto mondiale a fianco dell’alleato hitleriano, allo stesso tempo segnava una grande distanza di intenti, rispetto al presunto “fascismo” odierno. Soprattutto nel volersi confrontare con le potenze coloniali e imperiali che all’epoca ancora potevano spartirsi il mondo (Francia e soprattutto Regno Unito), senza accettarne supinamente (come invece accade oggi per la politica estera italiana, qualsiasi sia il colore del governo in carica dalle guerre balcaniche in poi, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti) le mire espansive e gli obiettivi politico-militari. Considerato che l’ultimo atto di autonomia, in contrasto con la politica americana nel Mediterraneo, in decenni recenti, è stato forse quello dell’incidente di Sigonella, nell’ottobre del 1985, che costituì un caso diplomatica tra Italia e Stati Uniti, ai tempi del primo governo Craxi con Giulio Andreotti agli Affari Esteri.

Su questo aspetto della politica estera italiana torneremo ancora più avanti, mentre ora, per ragioni di brevità si riassumeranno, molto sinteticamente, le vicende storiche, politiche e, talvolta, degne di una commedia che l’autrice descrive e inquadra grazie ad un’enorme mole di materiali storiografici e d’archivio, dando vita a una ricostruzione basata su documenti originali come, ad esempio, gli appunti inediti di Tagore, Mussolini e Andreotti.

Nel 1924 Mussolini accettò la proposta del «camerata samurai» Harukichi Shimoi di fare da testimonial per una bevanda analcolica giapponese. Due anni dopo la fotografia del Duce planava dai cieli nipponici su una folla entusiasta, che riconosceva nel Fascismo gli stessi valori fondanti del Bushido: “coraggio, lealtà, senso del dovere e dell’onore e la visione eroica dell’agire in nome di un ideale fino al sacrificio estremo”.

Se il legame tra l’Italia e l’Impero di Hirohito dopo il 1936 è noto, poco si sa in merito ad altre potenze dell’Asia che nutrivano verso il Duce una fascinazione altrettanto forte come l’India di Gandhi che, sebbene non approvasse «il pugno di ferro» con cui Mussolini governava, ne elogiava l’impegno in campo sociale, specialmente quello a favore delle classi rurali e delle categorie deboli come orfani, vedove, ragazze madri, riconoscendogli servizio e amore verso il popolo. Mussolini – che segretamente definiva l’India «il forziere del mondo» e mirava a controllarla – rappresentava per Gandhi, anche un importante alleato in funzione antibritannica.

Ancora meno noto è il legame con l’Afghanistan, punto nevralgico dell’Asia centrale, scacchiere su cui si erano scontrate nel “Grande Gioco” le maggiori potenze del tempo, Gran Bretagna e Russia, e di cui, nel 1921, l’Italia fu il primo Paese al mondo a riconoscere l’indipendenza, stipulando accordi di collaborazione. Le mire internazionali di Mussolini erano affiancate da una vivace propaganda culturale. Fondamentale, in tale senso, è da considerare l’operato di personaggi come l’esploratore Giuseppe Tucci, portavoce del Fascismo in India e in Nepal, Gian Galeazzo Ciano, console d’Italia in Cina, Pietro Quaroni, ambasciatore a Kabul e abile tessitore di alleanze con i ribelli waziri.

Con alle spalle anni di ricerca, Enrica Garzilli ricostruisce così un grande affresco sulle operazioni di Mussolini nelle terre di quell’Oriente «fratello non di sangue», consegnandoci un’opera che inquadra gli anni del Ventennio secondo parametri scarsamente considerati prima. Una ricerca storiografica in cui il razzismo fascista si accompagna all’attenzione per le culture locali, soprattutto quando queste potevano essere fatte derivare dall’arianesimo e altre manfrine ottocentesche2 oppure ad un superiore spiritualismo che sempre aveva costituito un forte richiamo, come lo rimane ancora tutt’ora, per la Destra ispirantesi sia a Julius Evola che al tradizionalismo più arcaico. E di cui, tanto per attualizzare e chiarire il senso di quanto appena affermato, le controverse interpretazioni dell’opera di Tolkien e di Lovecraft costituiscono ancora la manifestazione epifenomenica nella critica letteraria.

In tale contesto di attenzione parziale alle culture e religioni ”altre” e, in particolare, ad una certa mistica visionaria di origine tibetana si manifesta una certa continuità ideologico-spirituale tra certi protagonisti delle battaglie delle “armate bianche” contro la vittoria dei soviet e delle armate rosse nella “Madre Russia”3 e lo “spiritualismo” di certa destra italiana fino a Gianfranco de Turris.

Personaggio centrale, per le vicende narrata dalla Garzilli e per la diffusione di una certa immagine dell’Italia fascista in Asia, è sicuramente quella di Giuseppe Vincenzo Tucci (1894 –1984) al quale l’autrice ha dedicato in passato una voluminosa e dettagliata opera di carattere biografico tutt’altro che priva di interesse4, soprattutto per chi voglia approfondire la storia dell’archeologia italiana in Asia e delle mire politiche che spesso hanno accompagnato le missioni archeologiche occidentale, ma anche russe, nei continenti extra-europei.

Lo studioso italiano più attivo nella propaganda e più coinvolto nelle attività del regime, quello che portò i nazionalisti bengalesi in Italia – con l’eccezione di Tagore5 invitato da Formichi – , fu Tucci, che della politica culturale fascista non fu solo un esecutore ma anche un instancabile ideatore. Da anni era determinato a dare corpo a un progetto: creare un’istituzione per diffondere lo studio della cultura asiatica in Italia, ovviamente diretta da lui, e promuovere gli scambi con l’Asia. […]
Tucci riconosceva a se stesso […], quando propose la creazione dell’IsMEO6, un duplice compito: «come orientalista e come diffonditore della cultura italiana». Con il sostegno di Gentile e in linea con la visione della poltica estera di Mussolini e la sua malcelata rivalità cion la Germania e la Francia scriveva che il suo scopo era quello «di creare in Italia una scuola orientalistica che potrebbe battere quelle straniere». Il 9 marzo 1931, infatti, inviò da Roma una relazione a Sua Eccellenza il Capo del Governo in cui si proponeva la creazione di un istituto con questi scopi, simile «all’Istituto Buddhista di Leningrado, alla Società degli amici dell’Oriente di Parigi o alla Società indiana di Berlino»7.

Orientalista, esploratore, storico delle religioni e buddhologo italiano, Giuseppe Tucci è stato autore di numerose pubblicazioni, articoli scientifici, libri ed opere divulgative. Ha condotto diverse spedizioni archeologiche in Tibet (sette tra la fine degli anni Venti e il 1939), India, Afghanistan ed Iran. Durante la vita, è stato unanimemente considerato il più grande tibetologo del mondo.

Aveva aderito al fascismo senza grande interesse politico ma, un po’ pirandellianamente, nella speranza che il regime finanziasse i suoi studi, le sue ricerche e spedizioni, in una visione della vita di carattere dannunziano in cui, come lui stesso affermava, «l’uomo è nato con un duro destino dal quale può trovar scampo soltanto l’asceta o il poeta». A differenza di Pirandello, le cui opere furono ritenute sempre troppo provocatorie per il regime, Mussolini decise di finanziarlo a fini politici, per diffondere l’immagine dell’Italia in Asia e prendere contatti con l’India in vista di un possibile disgregamento dell’Impero Britannico.

Tralasciando ora le esperienze di ricerca, la carriera, le convinzioni e le conoscenze, tra le quali occorre segnalare ancora quella di Mircea Eliade8, dell’alfiere dell’archeologia italiana in Asia centrale, occorre qui, con un salto temporale di due decenni, ricordare, che, nel dopoguerra il “santo patrono” della riapertura dell’IsMeo nel 1947, sotto la guida di Tucci, fu un ancor ventottenne Giulio Andreotti, allora già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Così, come afferma ancora l’autrice:

Vennero allestite mostre d’arte orientale a dir poco fastose che non avevano precedenti per la rilevanza dei pezzi esposti e per l’afflusso di pubblico: da campo di studi ristretto e sofisticato, riservato ai pochissimi che se lo potevano permettere, l’Oriente stava diventando un fenomeno di massa. E se l’attività dell’istituto dopo Mussolini si svincolò dall’azione politica e divenne più chiaramente culturale, ciononostante non smise mai di svolgere un lavoro di intelligence e di essere strumento di soft power9.

Il recensore deve qui scusarsi per aver saltato la narrazione delle imprese dell’imperialismo “straccione” italiano in Asia ed essere volato alle conclusioni che seguono, che si riallacciano, però, con quanto affermato all’inizio.
L’interesse di tutto il testo, che a volte simpatizza un po’ troppo per le imprese e gli ardori mussoliniani e in altre soffre di una certa pedanteria accademica, è proprio racchiuso nel tracciare la via che dalle politiche del Fascismo originario ha portato fino alle scelte dei governi italiani successive alla fine del Ventennio. Una continuità che se è spesso stata segnalata a livello di leggi, pratiche poliziesche e cariche amministrative, politiche e istituzionali, non è mai stata colta nella continuità di una certa politica estera nei confronti del Medio Oriente e dell’area mediterranea.

Non a caso la figura di Giulio Andreotti, dopo esser stata segnalata a proposito di Sigonella, è tornata nelle righe finali di questa fn troppo stringata recensione di un testo che meriterebbe ancora altre attenzioni e considerazioni. Questo per dire che se c’è stata continuità tra fascismo e governo italiano questa è stata anche in ambiti e pratiche di politica estera che tutti i governi italiani della cosiddetta Seconda Repubblica non hanno più perseguito, sia a Destra che a Sinistra. Dalla partecipazione alle guerre balcaniche, con i bombardamenti sulla Serbia, fino alla Prima guerra del Golfo e alle scelte odierne sia a riguardo dell’Europa Orientale che del Medio Oriente.

Da allora, non a caso l’IsMEO viene unito ad altro istituto nel 1995 e poi chiuso insieme a quello nel 2012 (come già è stato segnalato nella nota 6), tutti i governi hanno abbandonato le politiche, sicuramente neo-coloniali e subdolamente imperialistiche, che il regime aveva contribuito a definire, sulla base, però, di un più generale rinnovamento del capitalismo italiano, come sempre a spese della classe operaia, di cui, tanto per chiarire, l’azione di Enrico Mattei in Africa settentrionale fu ancora una conseguenza, ben lontana da quella prospettata sulla carta dall’attuale governo Meloni. Ampiamente in ritardo sull’azione russa e cinese nell’Africa Subsahariana, fino al farlocco voto parlamentare su Gaza o all’inutile e probabilmente controproducente missione Aspides nel Mar Rosso oppure alla comparsata della premier a Kiev in occasione della presidenza italiana del G7.

Razzismo e manganellate sono tranquillamente convissuti in Italia ben prima dell’avvento del governo di “destra”, e non soltanto per merito della Lega che, al massimo, per anni ha raccolto gli umori di una classe media e di una classe operaia indebolite e impoverite e, allo stesso tempo, ancora incapaci di rivoltarsi verso la mano che le tiene tuttora al guinzaglio. Mentre anche le manganellate a studenti ed operai sono state equamente distribuite, e talvolta in maniera molto più violenta delle attuali, dai governi di centro-sinistra. Dall’azione del governo Leone II nel 1968 contro i moti studenteschi a quello Rumor I successivo con gli scontri di Corso Traiano a Torino e, non potendo ricordare qui tutti gli eventi repressivi di cui furono protagonisti i governi di centro-sinistra, fino alle “quattro giornate di Napoli” del 2001 quando i maganellatori del governo di “sinistra” Amato II, il 17 marzo, servirono ai manifestanti del Global Forum l’antipasto di quello che sarebbe stato il G8 di Genova.

Non occorre procedere oltre, poiché sarebbe soltanto ridondante. Ma, per tirare le conclusioni, è necessario sottolineare come un paese privo di una classe dirigente degna di questo nome, in cui la presunta borghesia nazionale ha finanziarizzato l’economia senza dar vita ad un’autonoma strategia d’impresa economica o politica e che ha colto nella globalizzazione soltanto il momento in cui poter abbassare i salari e svendere le imprese al miglior offerente, oggi finge una battaglia politica inesistente al suo interno soltanto per poter continuare a svolgere il ruolo di lacchè nei confronti di altre economie più potenti.

Tutto questo non vuole costituire, però, il solito piagnisteo sulla patria tradito oggi diffuso dai nazionalisti di sinistra o da un’estrema destra ridotta al lumicino che contesta le privatizzazioni. Piuttosto un invito a guardare negli occhi il nemico di sempre, il capitale nazionale e internazionale, spogliandolo di ogni orpello ideologico per sfidarlo là dove è più debole e risibile.

Il libro di Enrica Garzilli, pur nelle sue imperfezioni, oltre che a una rilettura non convenzionale di quelli che furono gli interessi geo-politici italiani in Asia, può fornire, indirettamente, strumenti per contestare e abbattere un gigante dai piedi di argilla, sia quando questo si appoggia sul piede destro oppure su quello di sinistra. Rivelando, allo stesso tempo e ancora una volta indirettamente, come la fascinazione per le dottrine filosofico-religiose asiatiche, basate sostanzialmente sulla liberazione, spiritualità e affermazione del soggetto e dell’individuo, appartengano pienamente all’immaginario di destra. Così come Tucci, Eliade ed altri, con la loro opera, hanno sempre finito col dimostrare.


  1. R. De Felice, Il Fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Il Mulino, Bologna 1988.  

  2. In proposito si veda: M. Bernal, Atena nera. Le radici afro-asiatiche della civiltà classica, Il Saggiatore, Milano 2011 e G. Semerano, La favola dell’indoeuropeo, Bruno Mondadori Editore, Milano 2005.  

  3. Si vedano in proposito: V. Pozner, Il barone sanguinario, Adelphi Edizioni, Milano 2012 e F. Ossendowski, Bestie, uomini e dei (prima edizione italiana 1925), Fratelli Melita Editori, Genova 1987. Si noti bene che nel titolo del secondo testo qui citato le “bestie” sono i comunisti, gli “uomini” i combattenti delle armate bianche e gli “dei” sostanzialmente coloro che stanno ai vertici del monachesimo tibetano, in particolare il Dalai Lama con i suoi insegnamenti “segreti”.  

  4. E. Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti, vol. I pp. LII + 685 – vol. II pp. XIV + 725, Asiatica Association, Milano 2012.  

  5. Rabindranath Tagore, nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur (1861 – 1941) è stato un poeta, drammaturgo, scrittore e filosofo bengalese, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Sostenitore dell’indipendenza dell’India almeno fin dal 1919, ha visto i testi di alcune sue poesie inseriti, prima, nell’inno nazionale dell’India nel 1950 e, successivamente, in quello del Bangladesh a partire dalla sua secessione dal Pakistan nel 1972. Dopo le aspre critiche rivolte al regime fascista, Tagore aveva perso il sostegno dato dal governo italiano all’Università Visva Bharati in cui insegnava. – NdR.  

  6. Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, nato nel 1933 e fusosi nel 1995 con l’Istituto italo-africano di Roma, dando vita all’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO) posto in liquidazione coata amministrativa ne 2012. A dirigere l’IsMeo erano stati chiamati Giovanni Gentile (1933-1944), Giuseppe Tucci (1947-1978), Sabatino Moscati (1978-1979) e Gherardo Gnoli (1979-1995) – NdR.  

  7. E. Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 542-543.  

  8. Mircea Eliade (Bucarest 1907 – Chicago 1986) è stato uno storico delle religioni, antropologo, scrittore, filosofo, mitografo e saggista romeno.
    Nel 1927 si impegnò attivamente nella “Nuova Generazione Romena” e i suoi articoli di questo periodo contribuirono a formare l’assetto teorico della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, movimento ultranazionalista di ispirazione fascista e antisemita. Dopo la laurea in filosofia (1928) vinse una borsa di studio per studiare a Calcutta, tra il 1928 e il 1931, la filosofia indiana con Surendranath Dasgupta, in casa del quale incontrò Giuseppe Tucci.
    L’esperienza e gli studi di questo periodo e lo stretto contatto con le religioni dell’India influenzarono profondamente il suo pensiero. La sua tesi di dottorato, discussa a Bucarest nel 1933, fu pubblicata a Parigi nel 1936 con il titolo Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne (che sarebbe poi diventato, dopo successive rielaborazioni, il saggio Lo yoga, immortalità e libertà). NdR.  

  9. E. Garzilli, Mussolini e Oriente, op. cit., pp. 873-874.  

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Valerio Monteventi: No Global Bo. Quattro anni vissuti pericolosamente https://www.carmillaonline.com/2021/12/26/valerio-monteventi-no-global-bo-quattro-anni-vissuti-pericolosamente/ Sun, 26 Dec 2021 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69817 di Giovanni Iozzoli

Valerio Monteventi, No Global Bo. Quattro anni vissuti pericolosamente, Edizioni Pendragon, Bologna, pp. 306, € 18,00

Tra i diversi libri pubblicati quest’anno, in occasione del ventennale dei fatti di Genova, quello di Valerio Monteventi si distingue per l’accuratezza delle ricostruzioni storiche e una certa profondità di analisi, che sottrae questo lavoro alla memorialistica e lo rende strumento d’uso attuale. L’efficacia del testo dipende in larga misura, dalla grana politica e umana dell’autore che – recitano le note bio nella terza di copertina: “ha vissuto e partecipato a diverse stagioni dei [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Valerio Monteventi, No Global Bo. Quattro anni vissuti pericolosamente, Edizioni Pendragon, Bologna, pp. 306, € 18,00

Tra i diversi libri pubblicati quest’anno, in occasione del ventennale dei fatti di Genova, quello di Valerio Monteventi si distingue per l’accuratezza delle ricostruzioni storiche e una certa profondità di analisi, che sottrae questo lavoro alla memorialistica e lo rende strumento d’uso attuale. L’efficacia del testo dipende in larga misura, dalla grana politica e umana dell’autore che – recitano le note bio nella terza di copertina: “ha vissuto e partecipato a diverse stagioni dei movimenti sociali: da adolescente ha fatto il ’68, da ragazzo il ’77, da uomo “poco maturo” era con i No Global a Genova nel 2001”. Questa presenza militante e intellettuale, che ha attraversato stagioni così diverse, rende la testimonianza di Monteventi particolarmente acuta, soprattutto nel soppesare e comparare contesti storici diversi, individuando fratture e continuità della militanza anticapitalista.

La scelta di focalizzarsi su Bologna, non è localistica: Bologna ha rappresentato uno degli snodi fondamentali del movimento No Global e, da sempre, la piazza felsinea produce elementi di innovazione e anticipazione che contaminano le dinamiche nazionali. In ogni pagina, il racconto “bolognese” riflette la vicenda generale – da Seattle ai movimenti contro la guerra – ripercorrendo nessi, valorizzando eventi, citando sedi, spezzoni organizzati e spazi, alcuni dei quali ancora esistenti e r-esistenti. Nella narrazione dello scenario di movimento bolognese, più che le dinamiche di frazione, cordata, gruppo o sigle, prevale l’attenzione ai soggetti sociali e collettivi – come l’incontro, inedito, tra quelle piazze e i metalmeccanici di Claudio Sabatini.

L’innesco della mobilitazione antiglobalista a Bologna, fu la contestazione alla Conferenza promossa dall’Ocse nel giugno del 2000, che aveva al centro il tema della piccola e media Impresa. Si arriva a quell’evento con un decennio di globalizzazione già alle spalle, che ha liberato le sue dinamiche selvagge su tutti continenti. E i vertici internazionali vanno assumendo un carattere più simbolico e politico, che funzionale: sono l’esibizione di un nuovo potere transnazionale e di una nuova era, tronfia della sua egemonia apparentemente priva di sfidanti. In realtà questo strapotere solitario, sta evocando un antagonista anonimo, diffuso, trasversale, che comincia a mettere in discussione la tessitura del mercato unico sovranazionale e delle sue istituzioni. In ogni angolo d’Occidente – a partire dall’esordio di Seattle – i movimenti e i settori più avanzati di opinione pubblica, cominciano a chiedere il conto delle devastazioni sociali e ambientali che la modernizzazione capitalistica post-89 ha prodotto ovunque. Ogni evento riconducibile alla governance neoliberista e alle sue istituzioni, diventerà l’occasione per manifestare questo malessere e prefigurare nelle piazze del mondo, l’opposizione e le alternative possibili.

Il meccanismo si innesca anche a Bologna: l’organizzazione della giornata No Ocse del 14 giugno 2000 segna l’avvio di un fitto intreccio di organismi, reti, strutture, intelligenze collettive che, dopo le contestazioni “in casa”, si allungherà al G8 e proseguirà senza soluzione di continuità fino alla stagione No War.

Negli incontri del mercoledi all’ex Ambasciatori, settimana dopo settimana, con la rete Contropiani/No Ocse, prendeva corpo un nuovo movimento che non guardava indietro, che non era regressivo o nostalgico, ma era critico e radicale contro i processi di globalizzazione in atto. Un movimento libertario che, semmai, voleva allargare e globalizzare i diritti, denunciando le crepe di un sistema totalizzante, che riproponeva la guerra come soluzione, che rapinava le risorse ambientali e impoveriva interi popoli, riducendo gli individui a merci, sempre più flessibili e precarie. Contropiani era un nome collettivo, un’identità e non un coordinamento di sigle. Ci lavoravano attivisti sociali e politici di tre generazioni e ogni voto valeva per uno. (pag. 24)

Monteventi segue lo snodarsi di questo sviluppo, con la conoscenza di chi ha svolto in ogni sua fase un ruolo attivo. La sua creatura “Zero in Condotta” – quindicinale venduto nelle edicole della città – accompagnerà il racconto “in presa diretta” di questi anni intensi e straordinari. Dopo le giornate di Bologna, Praga, Nizza, si arriva alla mattanza di Napoli, autentica prefigurazione di quello che succederà a Genova. Il movimento bolognese, magmatico, corposo e nomade, sarà sempre in prima fila lungo tutte queste tappe cruciali.

I giorni convulsi, esaltanti e tragici del G8 genovese vengono rievocati in tutta la loro cruda brutalità. E il racconto è efficace nel trasportare il lettore, vent’anni dopo, dentro la tensione emotiva di quello snodo terribile e drammatico:

Se qualcuno metaforicamente, per avere uno straccio di spazio mediatico, aveva fatto una “dichiarazione di guerra” virtuale, quelli che si erano protetti con le grate della zona rossa, quell’espediente lessicale l’avevano preso molto sul serio. Più che un confronto bellico, però, da loro fu interpretato come una vera e propria battuta di caccia. Poliziotti, carabinieri e finanzieri furono mandati a caricare e a picchiare con inaudita ferocia, con il proposito determinato di causare ai manifestanti il danno fisico più alto possibile. Gli ordini precisi, ricevuti dall’alto, furono quelli di stroncare il movimento nel sangue. A Genova, soprattutto nella giornata del 21 luglio, si sperimentò a livello europeo la gestione della piazza in un’ottica tutta offensiva per il potere (…). Anche l’informazione mainstream ebbe le sue responsabilità nel determinare quello che avvenne nelle piazze e nelle strade della città ligure (…). I ritagli dei giornali di quei giorni si potevano tranquillamente mescolare: il taglio editoriale del Messaggero, di Repubblica, de La Stampa e del Corriere della Sera, fu all’unisono da “allineati e coperti. (pag. 162)

La battaglia di Genova non piegò il movimento, a Bologna come nel resto d’Italia. Il sangue di Carlo, ragazzo normale, militante di niente, rimasto sul selciato senza un perché, non aveva avvilito e sbandato il movimento. Monteventi racconta delle trasformazioni che le reti sociali subiscono, delle tensioni con la politica, della resistenza ostinata che accompagnerà quel mondo al varco scioccante dell’11 settembre. Mentre ancora in Italia il dibattito sui fatti di Genova divide il paese, la tragedia di New York fa capire a tutti che si sta aprendo una nuova fosca stagione. E che non solo di repressione dei movimenti, si parla nei centri del potere: ma del ridisegno generale dello scacchiere geo-politico mondiale all’insegna del “nuovo secolo americano”, prefigurato da qualche think thank in pieno delirio di onnipotenza. I bombardamenti sono ormai diventati prassi unilaterale di risoluzione delle “controversie internazionali”: Khartoum, Belgrado, Kabul, Baghdad, la globalizzazione “a mano armata” comincia ad esportare bombe intelligenti e stragi, non solo movimenti di capitale e flussi finanziari. Nella società si apre un altro ciclo: quello del movimento contro la guerra, in cui ancora, la piazza bolognese reciterà un ruolo centrale nel paese.

Il movimento No Global diventa No War, gonfiando le sue fila ed estendendo la sua influenza su aree e settori sociali ai loro primi schieramenti di piazza e mobilitazione. La quantità delle iniziative e i numeri della partecipazione popolare, fanno impressione ancora oggi, a rileggerli. Sono anni in cui basta un giro di telefonate per convocare centinaia di persone alle due di notte alla stazione di Bologna, in attesa del transito notturno di un convoglio militare da bloccare.

Il 20 marzo 2003, senza alcuna dichiarazione di guerra, iniziò l’attacco della coalizione militare guidata dagli Usa contro l’Iraq (…). Il giorno successivo ai bombardamenti, nel nostro paese ci furono 50 manifestazioni che proseguirono, poi in maniera molto ramificata, nei giorni successivi, raggiungendo il numero di 160, con una media di quasi 20 al giorno. (pag. 250)

Il libro segue un itinerario e un metodo, che rende la lettura scorrevole, nonostante la certosina riepilogazione degli eventi. Un modo di raccontare la storia, che a sua volta raccoglie eredità nobili.

Come stile narrativo mi sono rifatto agli almanacchi, che avevano come scopo la diffusione di una cultura di base a livello popolare. Quegli almanacchi a carattere divulgativo che, nell’immediato dopoguerra, rappresentarono il principale, e a volte unico, mezzo di diffusione storica, culturale e politica tra le classi più disagiate. Almanacchi che un secolo prima in Francia, dal ministro della polizia vennero colpiti perchè producevano “una influenza disastrosa per la loro carica trasgressiva”, riconoscendone l’alterità rispetto alla cultura ufficiale. (pag. 15)

Quello che resta probabilmente inevaso, in questo e in altri lavori, è la domanda sul perché tutta quella ricchezza si sia sfilacciata, negli anni in cui “l’onda diventa schiuma”. Un bilancio sul lascito di quella stagione, confrontata con il presente, è impietoso: ma è solo la durezza dei tempi – cupi e stanchi, contrapposti a quelli che furono percepiti come anni di speranze collettive, magari ingenue, ma assai vive e partecipate – o c’è dell’altro che non si riesce a cogliere e che merita di essere indagato? Nelle pagine finali Monteventi, rende conto senza reticenze del dibattito – bolognese e nazionale – che accompagnò la crisi del movimento. Posizioni articolate, ognuna con qualche buona ragione, ma tutte insufficienti a spiegare il tracollo astioso di questo grande fronte politico-sociale che aveva evocato aspettative e domande collettive, troppo al di sopra delle sue capacità di realizzarle nella storia. Una lettura importante per continuare a riflettere.

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ZONA ROSSA: la memoria è un ingranaggio collettivo https://www.carmillaonline.com/2021/05/15/zona-rossa-la-memoria-e-un-ingranaggio-collettivo/ Sat, 15 May 2021 07:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66304 di Alexik

Ricordare Genova è un esercizio complicato. Personalmente non sono mai riuscita a farlo con serenità, senza sentir crescere una stretta allo stomaco, né a derivarne degli elementi costruttivi. E’ un bene, quindi,  potermi ritrovare fra le mani un testo che mi consente di andare al di là della mia visione parziale. Nessuna ricostruzione individuale può infatti riuscire da sola a cogliere le complessità e le implicazioni dei giorni del G8, l’insieme delle soggettività  che si sono espresse o che si sono formate sulla base di quella esperienza.

Del [...]]]> di Alexik

Ricordare Genova è un esercizio complicato.
Personalmente non sono mai riuscita a farlo con serenità, senza sentir crescere una stretta allo stomaco, né a derivarne degli elementi costruttivi.
E’ un bene, quindi,  potermi ritrovare fra le mani un testo che mi consente di andare al di là della mia visione parziale.
Nessuna ricostruzione individuale può infatti riuscire da sola a cogliere le complessità e le implicazioni dei giorni del G8, l’insieme delle soggettività  che si sono espresse o che si sono formate sulla base di quella esperienza.

Del resto, “la memoria è un ingranaggio collettivo”.
Un ingranaggio che Zona rossa, ultimo numero di  Zapruder, prova a rimettere in moto.
Frutto del confronto fra la redazione di Zapruder e SupportoLegale, la stesura di Zona Rossa  ha nella dimensione collettiva la sua stessa origine. Si rivolge a Genova attraverso uno sguardo plurale, riunendo le visuali di generazioni diverse e diversi metodi di linguaggio.
Comprende le voci di chi a Genova non c’era, per motivi generazionali, e che ne ha elaborato la storia dai racconti.
Comprende la voce di chi, pur avendo la massima autorevolezza per parlarne, in tutti questi anni ha usato la parola con parsimonia, responsabilità e coscienza, in mezzo ad ondate di retoriche e di ricostruzioni fasulle o infamanti.
La voce di chi si è rimboccat* le maniche per sostenere compagn* incriminat* per devastazione e saccheggio, mentre altri si esercitavano nei distinguo fra buoni e cattivi, offrendo la sponda alla criminalizzazione mediatica e giudiziaria di una parte del movimento.
Comprende, finalmente, la voce di quell* che hanno pagato per tutti, con più di 10 anni di galera a testa1, e che con serenità ripetono: “in ogni caso, nessun rimorso“.

Uno di loro, Luca, dopo che per anni sono stati spesi da chiunque sul G8 di Genova fiumi di parole, pensa di “non poter aggiungere qualcosa che non sia già stato detto, visto e rivisto“.
E suggerisce una traccia: “più interessante può essere sapere cosa è successo dopo“.
Proprio su questo si concentra  Zona Rossa: sul prima, sul dopo e sull’altrove, e soprattutto sugli elementi da cui trarre utilità per il presente.

Il ricordo di Genova può essere un futuro anteriore, una memoria che ci aiuta a guardare avanti invece che indietro, utile a capire meglio la transizione verso quel qualcosa di indefinito che stiamo vivendo“.

E così impariamo come, nel dopo Genova, un gruppo di compagn* proveniente da Indymedia ha forgiato strumenti metodologici e di contenuto (oltre che competenze tecniche assolutamente non comuni) utili ad affrontare anche il tempo presente.

SupportoLegale nasce dal presupposto di non chiedere mai agli altri cosa avessero fatto nel 2001, né a che area appartenessero. Si è creato un gruppo di persone che aveva come unica finalità riuscire a supportare e dare man forte a chi stava seguendo i processi…
Noi ci siamo battuti su delle parole d’ordine abbastanza brevi, ma su cui siamo stati irremovibili: sul No alla divisione fra buoni e cattivi, sulla legittimità di tutte le forme di dissenso che erano state espresse a Genova, sulla legittimità di tutti i pensieri che sono stati espressi a Genova…
A noi piacerebbe che uscisse questa parte della storia. Proprio perché tanti, ancor oggi, non hanno imparato la lezione, non la vogliono imparare. Vogliono togliere legittimità a dei pezzi di storia, a dei pezzi di senso, a dei pezzi di conflitto
.
Noi la pensiamo tutti in modo completamente diverso … tutte le modalità di rappresentazione del conflitto, almeno rispetto a questo pezzo di storia che abbiamo fatto tutti quanti  insieme sono legittimi. Vanno rispettati e vanno difesi. E sentiamo di essere tutti dalla stessa parte della barricata“.

Una coesione nata dalla capacità di attribuire priorità politica all’obiettivo comune, e che non verrà fatta propria dal movimento No Global, uscito dall’esperienza di Genova più diviso che mai, ma diverrà invece punto di forza in Val di Susa, probabilmente proprio a partire dalla riflessione su Genova.
È questo un ulteriore elemento di pregio di Zona Rossa: la ricostruzione di come abbia influito l’esperienza di Genova sulla formazione delle soggettività dei movimenti di oggi, che ci mostra che questa storia non si è conclusa solo nel sangue, nella galera, nella sconfitta, nelle posizioni dissociatorie, e nella lenta agonia dei social forum.

Per esempio la presenza a Genova 2001 di un nutrito spezzone del giovane movimento No TAV ha favorito “l’identificazione fra quello che la Valle stava iniziando a vivere e le ragioni della protesta contro il G8“.
Emergono dalle interviste ai No TAV da un lato il rafforzamento della coscienza  della portata globale dei contenuti della propria lotta, dall’altro le conseguenze sul territorio, con nuovi comitati locali che nascono in Valle a partire dalla determinazione maturata proprio nei giorni del G8.
Il 23 luglio 2011 il corteo per il decennale di Genova è aperto dallo spezzone della Val di Susa, che ha guadagnato sul campo il diritto alla “testa del corteo” nei giorni dello sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e dell’assedio al cantiere di Chiomonte2.
Lo slogan dei valsusini “siamo tutti Black Bloc” sancisce il rifiuto della divisione fra buoni e cattivi, nel luogo esatto in cui tale divisione aveva creato al movimento di 10 anni prima effetti  disgreganti.
E non si tratta solo di uno slogan, perché proprio nell’assedio di Chiomonte il movimento ha  accolto e riconosciuto  metodi di lotta e soggettività differenti, e su questa base si è creata coesione e rispetto.
Genova diviene  dunque generatrice di coscienza anche in negativo, una lezione sugli aspetti da non emulare se non si vuol ripercorrere lo stesso declino del “movimento dei movimenti”.
Uno di questi aspetti è la desolidarizzazione successiva alle incriminazioni per devastazione e saccheggio.
Dice SupportoLegale: “Molte delle persone finite sotto processo sono state completamente abbandonate dai loro gruppi, dalle loro organizzazioni, dai loro collettivi. Sono state lasciate completamente sole e sono sole oggi. Ci siamo stati solamente noi“.
L’esatto opposto di un principio cardine della lotta in Val di Susa, dove “si parte e si torna insieme“.

Zona Rossa identifica in Genova un crinale di crisi che va al di là del declino del movimento No Global, investendo le stesse sorti e pratiche della sinistra radicale maturate nel corso del ‘900.
E’ una cesura nelle modalità delle mobilitazioni, perché “improvvisamente la piazza esonda qualsiasi volontà di controllo, spinta tanto da pratiche di conflitto che rifiutano la mediazione dei portavoce del movimento, quanto dalla repressione degli apparati dello Stato… Segno di una liberazione dalle volontà di controllo (e di mediazione) delle strutture organizzate ? Oppure traccia di una crisi di una idea di organizzazione a cui fa fatica a sostituirsene un’altra ?”

Genova segna anche la crisi delle pratiche di simulazione del conflitto:

“Chi pensava che aver evocato troppo il conflitto avesse portato alla catastrofe organizzativa e chi, invece, condannava la rinuncia a organizzarsi in conseguenza di quella “dichiarazione di guerra” giocata su un piano simbolico, a cui però lo Stato prevedibilemnte credette davvero. Comunque ci si ponga, a Genova si è capito  che la rappresentazione simbolica del conflitto è gestibile fino a un secondo prima dell’esplosione del conflitto vero e proprio, poi è solo pericolosa”.

Va in pezzi, infine, la bizzarra idea di una democratizzazione delle forze dell’ordine, conseguente ai processi di smilitarizzazione e sindacalizzazione iniziati una ventina di anni prima. Idea fallace, visti i risultati, e che non teneva conto di come i poteri di polizia fossero stati particolarmente sviluppati secondo logiche di guerra proprio nei due decenni precedenti. (Continua)


  1. Su 25 compagn* imputat* per i fatti di piazza, 10 vennero condannat* per devastazione e saccheggio a pene variabili da 6 anni e 6 mesi a 15 anni di reclusione. 

  2. Vedi su Carmilla: “Si parte e si torna insieme“. 

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Non lavorare, non aspettare, non invecchiare: Cometa di Gregorio Magini https://www.carmillaonline.com/2018/05/17/cometa-di-gregorio-magini/ Thu, 17 May 2018 20:42:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45548 di Filippo Casaccia

Gregorio Magini, Cometa. Neo Edizioni, 2018, 243 pp., € 15,00

Cometa di Gregorio Magini è banalmente un romanzo di formazione ma per linguaggio e racconto ambisce a qualcosa di più. Cosa lo rende unico? La scrittura sfrontata e l’angolazione spiazzante con cui si guarda alle cose, che siano passate (il G8, per esempio, come non l’avete mai sentito raccontare) che attuali, rendendolo un romanzo travolgente che si apre a momenti di calore, di ricordo, di emozione, e che racconta il senso di rassegnazione odierna della generazione a cavallo del [...]]]> di Filippo Casaccia

Gregorio Magini, Cometa. Neo Edizioni, 2018, 243 pp., € 15,00

Cometa di Gregorio Magini è banalmente un romanzo di formazione ma per linguaggio e racconto ambisce a qualcosa di più. Cosa lo rende unico? La scrittura sfrontata e l’angolazione spiazzante con cui si guarda alle cose, che siano passate (il G8, per esempio, come non l’avete mai sentito raccontare) che attuali, rendendolo un romanzo travolgente che si apre a momenti di calore, di ricordo, di emozione, e che racconta il senso di rassegnazione odierna della generazione a cavallo del millennio, non necessariamente una rassegnazione negativa come l’inaspettato finale dimostrerà. Forse.
Romanzo di formazione, si diceva, di due personaggi. Il primo, Raffaele, è un antieroe affamato di vita, che obbedisce a tre comandamenti fondamentali: non lavorare, non aspettare, non invecchiare. Persegue i suoi obiettivi dedicandosi alle droghe e alle donne: in giro per il mondo (anche con un Grand Tour della Fica: “Su un divano mi pulsò davanti alla faccia una fica bruna con l’imene tagliato male. O ero in un vagone della U-Bahn?”) o in una casa ridotta a un macello da degli studenti fuori sede oppure ancora provando un’improbabile carriera artistica. Tutto pur di sfuggire alla noia, senza remore morali: “Saranno sane le cazzate con cui ti trastulli tu per nasconderti il vuoto siderale della tua vita”.
In qualche maniera ci riuscirà, con diverse amarezze e un disincanto adulto.
La scrittura in prima persona del personaggio risulta com’è lui: sicura, veloce, nichilista, arrogante, sfrontata ed efficace.
Più meditata, leggera e intrisa di dolce malinconia è quella di Fabio, il secondo protagonista, un programmatore che attraversa la sua esistenza quasi con fatalismo, tra dubbi ed ingenuità e con la generosità che manca a Raffaele: a suo agio nella virtualità quanto impacciato nella vita vera, programma e si guadagna da vivere dignitosamente lavorando coi numeri, che non hanno carattere, non deludono, non tradiscono.
Inaspettatamente le due esistenze si incrociano e si saldano in un’amicizia profonda che condivide la refrattarietà a un mondo in cui né Fabio né Raffaele si ritrovano: il loro incontro sortirà effetti imprevedibili fino a un epilogo spiazzante e poetico.
Cometa è proprio come un corpo celeste in caduta libera e pronto a deflagrare: la lingua è ritmata, coraggiosa, per nulla compiacente e compiaciuta ma allo stesso tempo intimamente elegante, dell’eleganza che sa di verità, scomoda ma autentica. Non racconta l’attualità in modo realistico né metaforico, non ha queste pretese, e non è un romanzo sulla fine del lavoro e del No Future presagito già dagli anni Settanta. Piuttosto trasmette un disagio esistenziale, calato nel presente ma universale, e lo fa con onesta schiettezza e – va detto – anche grande piacere per il lettore, cosa non scontata in anni di romanzi che si vogliono seriosi per guadagnare in credibilità. Gregorio Magini non ne ha alcun bisogno, per fortuna. E se le cronache quotidiane ci portano a tifare asteroide, vi assicuro che da oggi ha ancora più senso tifare Cometa.

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore vi proponiamo un estratto della parte dedicata a Raffaele, quando il lettore intravede una parvenza di impegno politico. E…

La politica dal basso, a cavallo del millennio, era divertente. La vita quotidiana, dopo la noia irriferibile del liceo, diventò improvvisamente festosa e significativa. L’università era facile, le famiglie in genere ci tenevano che non si lavorasse, avevamo più tempo libero di quanto ne sapevamo riempire. Ci venne naturale, dato il contesto, occuparne molto tra centri sociali e collettivi. Credevamo di far parte della marea montante di un movimento intergenerazionale e non avremmo mai immaginato che ne stavamo vivendo gli ultimi riflussi prima del lungo inverno. Nemmeno l’arrivo della repressione, sulle prime, ci aprì gli occhi. Ci dicemmo, tanto meglio: senza scosse, non ci sarebbe il movimento. Per noi del FAP – Frenocomio Autogestione Perenne, (un frizzante mischio di allievi del postoperaismo, marxisti sentimentali e altri nostalgici dell’estetica del Sessantotto, anarcosituazionisti, hacker e raver alle prime armi), la prima, morbida scossa di repressione arrivò nel marzo del 2001 a Napoli.
Io e Antonia, scesi dal treno, invece di ammassarci con gli altri in Corso Umberto, svicolammo su per Forcella e andammo a perderci nei vicoli, affascinati dagli energumeni obesi in ciabatte, dai ruderi e dai pantaloni appesi ad altezze inconcepibili. Era una giornata già primaverile e ci stavamo simpatici: ci autoassolvemmo facilmente per aver disertato la manifestazione, ed eravamo del resto sempre in tempo a raggiungere il corteo quando questo si sarebbe accampato in Piazza del Plebiscito.
Antonia era una ragazza dal sorriso difficile e dal brutto rapporto con qualcosa la cui origine non riuscivo ad afferrare, ma il cui risultato era chiarissimo ed era che non me la dava.
Come molte femmine nel movimento, era intimamente impegnata nella lotta per l’affermazione della parità di genere, che trovava la sua espressione più appariscente nel rifiuto della cosmesi (per tacere di innovazioni linguistiche quali l’abolizione della flessione a favore di marcatori neutri, p.es.: car* compagn*). Antonia, come altre compagne, non si depilava, non si truccava, non si pettinava i lunghi capelli neri, non usava il deodorante, indossava magliette troppo grandi (forse di un fratello maggiore? Non mi parlò mai della sua famiglia), maglioni stazzonati e bucati, pantaloni di lana grezza, sandali di sughero. Unica decorazione uno spago annodato al polso che le avevo regalato io. Tale trascuratezza aveva l’effetto collaterale di desessualizzare i rapporti tra i membri del movimento, non certo fino al punto da impedire gli accoppiamenti, ma sicuramente abbastanza da degradare l’erotismo a una posizione secondaria. L’emancipazione non passava più attraverso la liberazione del corpo, come era stato per le nostre mamme (almeno idealmente, o almeno secondo la nostra idea di figl*), ma attraverso il suo abbandono. Il rifiuto dell’uomo-consumatore comportava per molte donne un difficile passaggio attraverso le secche del desiderio che non ha più un suo oggetto. Antonia viveva tutto questo con particolare sofferenza, perché era chiusa per natura, spigolosa non solo nei modi ma anche nel fisico (gli zigomi piatti, i gomiti e il bacino puntuti), probabilmente assillata da cattivi pensieri fin dall’infanzia, sulla propria bellezza, sulla propria intelligenza, sulla propria natura. Il suo senso di inadeguatezza si era trasformato repentinamente in rabbia quando sulla soglia dei vent’anni si era resa conto che persone ben più brutte, stupide e cattive di lei si facevano meno problemi e studiavano o lavoravano o si divertivano o s’innamoravano alla faccia di tutti i loro limiti, mentre lei stava lì a macerare.
La consolazione della sua vita erano gli amici. In quei ragazzoni tutti chitarra e maglioni della nonna coi forasacchi, trovava un mesto equilibrio tra confidenza e distacco, il massimo che potesse sopportare in un rapporto. Anche con me stava provando a stabilire un’amicizia, ma non funzionava perché a fronte della sua limpidezza d’intenti io non nascondevo di voler più che altro scopare. Era accaduto in una notte di primavera, eravamo seduti sull’argine di un fiume e cercavamo i salti dei pesci siluro come si cercano le stelle cadenti. Le massaggiai una spalla, dissi: ti va se ti do un bacio?
Sei innamorato di me? No.
 Allora no.
Eravamo appena usciti da una cappella piena di ossi glassati d’oro, quando vedemmo degli sbuffi bianchi sollevarsi da giù di dov’era il mare. Ci vergognammo che diversi amici nostri venissero picchiati dalla polizia mentre noi ci godevamo la giovinezza e ci sentimmo in dovere di scendere. Non era chiaro quale situazione ci saremmo trovati davanti. Non avevamo mai confrontato seriamente la polizia. In città, quando eravamo ancora al liceo, ci lasciavano fare quello che volevamo: bloccare il traffico, imbrattare un bancomat, distruggere una vetrina, erano azioni che non portavano mai all’arresto, di solito neppure a una multa.
Alla protesta di Praga, sei mesi prima, il nonno non mi ci aveva mandato. Mi ero mangiato le mani ai racconti dei reduci. I plotoni neri dei poliziotti allineati lungo il treno nell’alba nebbiosa del confine ceco-austriaco; lo stadio dove i manifestanti si erano accampati e avevano costruito le loro armature di gommapiuma; il blocco sul ponte Nuselský; le fughe nella notte… Erano poi tornati tutti a casa sani e salvi, nessun italiano si era fatto troppo male, perché “la Repubblica Ceca non poteva fare una figura di merda”, questa era la voce che girava (infatti qualche giorno dopo, iniziò a girare voce che stavano “massacrando e stuprando i/le compagn* cechi nelle celle”).
Pensavamo di tenerli per le palle perché le videocamere riprendevano tutto – tutte quelle armi che avevano non potevano usarle! Perché l’opinione pubblica… Credevamo nella democrazia, nella smaterializzazione, nel regno del simbolico: avevamo dimenticato che così come noi eravamo in grado di mettere in gioco i nostri corpi, allo stesso modo lo erano i nostri avversari – era inevitabile che qualcuno di loro a una certa ora si sarebbe rotto i coglioni e si sarebbe preso la briga di rammentare ai popoli confusi i risvolti niente affatto immateriali del potere statale.
Antonia e io, dopo molte incertezze di direzione e domande a massaie allegre che parevano approvare il caos incipiente come la milionesima dimostrazione della secolare, indomabile, simpaticissima vitalità della Capitale del Mediterraneo, sbucammo trafelati all’ingresso di un piccolo parco pubblico. In seguito, diverse volte lo cercai, sia sul terreno che sulle mappe, ma senza successo. C’era una vasca circolare nel centro; intorno aiuole a prato, il tutto era circondato da alberi carichi e frondosi.
Dal lato opposto del parco accorsero una decina di poliziotti con gli scudi levati, i manganelli in pugno e le visiere abbassate.
Ci fermammo agghiacciati. Antonia mi cercò la mano. Aveva le dita nodose dalle punte stranamente piatte e le unghie mangiate come me.
Baciami, le dissi.
Che?
Baciami. Non si accorgeranno di noi se ci baciamo. Penseranno che siamo una stupida coppietta.
Raffa cazzo dici? Non siamo in un telefilm, quelli ci aprono il culo.
Se ci buttiamo sul pratino ci scambiano per studenti che hanno fatto forca. Dai, vieni. Tu sei completamente cretino. Dobbiamo levarci dal cazzo e di fretta. E comunque preferisco farmi arrestare che pomiciare con te.
Ci piombarono sulle spalle degli uomini e ci teletrasportarono in un angolo riparato.
Qualcuno! Ehi, qualcuno! gridai.
Mi risposero degli schiaffi sulla faccia. Ci fecero stendere sul pratino. Si misero due su di me, uno su Antonia e uno in piedi. Avevano tutti la camicia di jeans sopra i jeans, più una confusa miscela di baffi a scopettone, occhiali a goccia, marsupi a tracolla, nasi rotti e guance cadenti.
Chi chiamavi? chiese quello in piedi.
Non capisco che cosa abbiamo fatto. Che modi sono? Chiamavi i tuoi amici? Lo sai dove stanno i tuoi amici adesso? Ma di cosa sta parlando?
Stanno tale e quale a te.
Eh?
Non fare finta di non capire, zecca di merda.
Tutta una pantomima su questo tenore, poi a quello che mi stava sopra dovette saltare un nervo, mi strinse la bocca e disse: hai fumato l’hashish, puzzi fino a qua. Fetente, fammi sentire quanto hai fumato, alitami in faccia.
Che?
Alitami in faccia pezzo di merda, gridò sputando. Chiusi gli occhi, convinto che mi avrebbe fatto molto male, ed espirai. Quando li riaprii, i passerotti avevano ripreso a cinguettare, Antonia era in piedi sopra di me e mi guardava come una che pensa: è andata così. Mi sentivo meglio adesso nell’erba. L’umiliazione che avevo subito era stata così grande che impiegai diverse settimane, poi, per capire che ero stato umiliato.
Tornammo direttamente alla stazione, dove presto iniziarono ad affluire i nostri compagni con gli occhi gonfi. Qua e là una mano o una testa fasciata. Il giorno seguente, primo pomeriggio, forte di una dormita di quattordici ore, andai al Frenocomio sperando d’incontrare Antonia. Ve la trovai col suo collettivo teatrale (gente con cui non ero in confidenza). Facevano il gioco della fiducia, che consisteva nel lasciarsi cadere all’indietro nella speranza che un compagno ti acchiappasse prima di colpire il suolo. Gli riusciva discretamente bene. Alla fine della sessione, Antonia mi si avvicinò tutta allegra.
Almeno, dissi, a te non hanno fatto niente.
Dici niente? Quello che mi teneva, mi ha infilato un dito nelle mutande e lo muoveva così – e mi mostrò il pollice sproporzionato e piatto, piegandolo a più riprese come quando si usa l’accendino. Lo chiami niente?

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Riportando tutto a casa https://www.carmillaonline.com/2017/11/30/riportando-tutto-a-casa/ Thu, 30 Nov 2017 22:02:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41928 di Filippo Casaccia 

Simone Pieranni, Genova macaia, Laterza 2017, pp. 148, € 14

Noi genovesi siamo diversi. Ci sentiamo diversi e viviamo questa diversità esibendola con un orgoglio che spesso è solo il modo per nascondere la dolce tristezza che ci contraddistingue. Abbiamo spesso un carattere ispido, burbero, mugugnone, con cui poi si raggiungerà un’intesa, ma che al primo approccio vi tiene a distanza, con diffidenza, prendendo le misure. E di come siamo, di come ci comportiamo, ce ne rendiamo conto solo quando a Genova, finalmente, facciamo ritorno e guardiamo la nostra città con [...]]]> di Filippo Casaccia 

Simone Pieranni, Genova macaia, Laterza 2017, pp. 148, € 14

Noi genovesi siamo diversi.
Ci sentiamo diversi e viviamo questa diversità esibendola con un orgoglio che spesso è solo il modo per nascondere la dolce tristezza che ci contraddistingue. Abbiamo spesso un carattere ispido, burbero, mugugnone, con cui poi si raggiungerà un’intesa, ma che al primo approccio vi tiene a distanza, con diffidenza, prendendo le misure.
E di come siamo, di come ci comportiamo, ce ne rendiamo conto solo quando a Genova, finalmente, facciamo ritorno e guardiamo la nostra città con uno sguardo un po’ da foresto, come si dice da noi, apprezzando di nuovo quella dolcezza di vivere per cui l’inverno è sempre un po’ più clemente di quello che vivi a Milano e l’estate sempre un po’ più fresca.
Bene: se non avete avuto la fortuna di nascere anche voi in questa Superba da sempre coacervo di contraddizioni e di armonia tra anime diverse e che vive di passato e poco di futuro, a farvi capire quella malinconia sottile, quella somma di risentimenti e alterigia che è Genova e l’essere genovese e di come la città e la natura di chi la abita siano inseparabili, contribuisce questo nuovo libro di Simone Pieranni, ancora una volta – come nel precedente 72 – con un racconto in forma di autofiction, senza che importi quanto narrato della vita dell’autore sia vero o verosimile o forse solo immaginato.
Vi chiedo di perdonarmi se mi scapperà dell’autobiografismo non richiesto ma nel magnifico libro di Pieranni mi sono ritrovato perfettamente. E mi è successo pur partendo da presupposti sociali e geografici diversi. Io cresciuto nella Albaro borghese e distaccata di Levante, lui – di poco più giovane –, nella periferica Bolzaneto più laboriosa, già lontana dal mare, a Ponente.
Nel percorso che abbiamo fatto tutte e due da punti eccentrici ed opposti della città verso il suo cuore, alla sua scoperta – durante l’adolescenza e ai tempi dell’università –, c’è lo stesso stupore. E c’è un identico sentimento provato nella lontananza da quel nome che è luoghi familiari, affetti, amicizie, profumi, sapori e anche sofferenza, tanta. Perché – e questo spettro aleggia su di noi come su tutta la nostra generazione – Genova è la città del G8, di un mondo diverso solo sognato, di una repressione violenta mai sanzionata. Genova è diventata un simbolo, un modo di dire, “quelli che erano a Genova”, i fatti di Genova, i processi di Genova.
Una ferita che non si richiude e il cui dolore nasconde tutto il resto.
Quello che avvenne in qui giorni del 2001 ha anche scippato l’autore del nome del suo preciso luogo di nascita. Bolzaneto non è più una delle tante realtà periferiche inglobate dalla città, no: ormai è solo la caserma di Bolzaneto, quella di fianco alla quale lui giocava da bambino.
Ed è per risarcire la città, per dare dignità ai nomi che hanno una storia per fortuna diversa, Pieranni – che di quei giorni infami è stato testimone e poi ne ha seguito come cronista la storia giudiziaria – intraprende una serie di percorsi attraverso una realtà fisica che è una sfida podistica: discese e salite ripidissime tra acqua e monti, raccontando la natura verticale oltre che orizzontale di una città che è srotolata sul mare e chiusa alle spalle dall’Appennino, ma che vive nelle vallate anguste che in questi rilievi si fanno strada, passando da un sole caldo a un’ombra gelida. Genova è una città di funicolari, ascensori, ponti su altri palazzi, portoni di casa all’ultimo piano in alto e giardini bui al piano terra, stretti tra muri di contenimento altissimi. È affacci, sbocchi, strettoie, vicoli ciechi, svincoli micidiali – come cantava De Gregori – e uscite autostradali che sono le porte d’ingresso a questi tragitti di conoscenza. E ognuna di queste bocche che ti ingoiano nel corpo della metropoli ha una sua peculiarità.
Genova Ovest ti catapulta già nel centro, salutandoti con la Lanterna, e subito ti immette in quel serpentone di asfalto che è la Sopraelevata, così cara a noi e così invisa ai turisti che non capiscono quale tuffo al cuore sia tornare a casa e avere a disposizione una camera-car fenomenale, con tutta la città ai tuoi piedi, con la modernità accanto ai palazzi del 1000, il cemento a fianco della pietra, dei mattoni, del marmo.
Genova Est invece sfiora, per aria, un acquedotto storico e ti fa costeggiare il cimitero di Staglieno, il carcere e lo stadio di Marassi, il torrente Bisagno che tutti conoscono per le troppe esondazioni, la stazione Brignole e infine la Foce e il mare. E di nuovo le memorie del G8 in corso Italia.
Ma c’è anche Genova Nervi, un’uscita autostradale che significa evasione, mare, spiagge – spiagge come lo sono quelle di Genova e dintorni: scogli lepegosi e sassi, ma lì, a due passi da casa, evocate da quelle facce marroni, sempre abbronzate che hanno i genovesi che mettono il naso al sole appena possono (e possono molto spesso).
La città, il centro, sono poi attraversati da un reticolo di tragitti individuali, di incroci, di sorprese, perdendosi e ritrovandosi: ed ecco allora il Cantinone, i centri sociali, le facoltà, le panetterie, la comunità di San Benedetto al Porto, la poesia di Caproni fatta realtà e quella in musica e parole di Ivano Fossati e tanti altri ancora.
Io, futuro architetto, scoprii veramente il cuore della mia città nel 1994, facendo una ricerca sociologica per la facoltà di Economia.
Vengo da Albaro – uno dei quartieri alti, come li chiama Pieranni – e ho vissuto in una condizione astorica, protetta, vicino a Boccadasse, col lungomare davanti, le domeniche delle vasche dei genovesi con la radiolina attaccata all’orecchio per seguire i risultati del Genoa e di quegli altri.
Quel lavoro mi permise di capire che, quelli che erano fondali per noi studenti privilegiati, erano in realtà voragini profonde: entravo negli appartamenti che si affacciavano sui caruggi, vedevo come si viveva tra quei muri antichi, spesso fatiscenti, e constatavo la dignitosa vitalità imprenditoriale di quella immigrazione che ancora non era comodo dipingere come pericolosa. E al contempo testimoniavo la sparizione, spesso per semplice consunzione, della Genova antica, non più al passo coi tempi.
Ovviamente per Pieranni è interessante la commistione delle vite di questa città e come si sono consolidate nella pietra, nei luoghi. E per condurci per mano in questo viaggio racconta anche le vicissitudini dei suoi familiari.
La Genova di Ponente del dopoguerra rivive attraverso la figura della nonna paterna: la città dell’acciaio, dell’Italsider – una presenza ingombrante, venefica, che significava fatica, sacrificio, la polvere di ferro nei vestiti, sui davanzali, nell’aria; e anche riscatto sociale e orgoglio operaio. E la nonna è anche testimone della Resistenza, della Liberazione e della Genova migliore: quella dei fatti del 1960 e delle magliette a strisce, quando la città si oppose al ritorno in città dell’ex prefetto Basile e al congresso del Movimento Sociale Italiano al teatro Margherita (teatro che ritorna nella narrazione, quasi per essere riabilitato, per un concerto di De André che vidi anch’io). E da quel rifiuto si misero in moto una serie di avvenimenti che poi portarono alla caduta del governo Tambroni. Quella volta la piazza aveva vinto.
Grazie alla voce di uno zio un po’ legera, che scappa più volte e più volte ritorna e stringe amicizie che ben esemplificano la trama sentimentale di questo autentico porto di mare, c’è anche la storia millenaria della città, ripresa attraverso la sua passione per quel 1200 che la vide diventare una potenza mai militare ma commerciale e finanziaria, una ricchezza che diventerà una maledizione quando qualcuno non rimetterà i suoi debiti, condannandola la Repubblica al declino.
E poi il Ghedda, amico dello zio, curioso animale metropolitano dalla vita romanzesca che vive la giungla del centro storico trovandosi in mezzo ad affari e malaffari, forte di un’ascendenza nobile e poi calato in quell’intrico che era la città vecchia prima degli anni più recenti, più insipidi, incattiviti dall’eroina e dalla gentrificazione.
Ma in tutto questo andirivieni della memoria non c’è mai il compiacimento per la Genova balorda e delinquente o per il passato glorioso, secondo certa facile retorica. No, Pieranni osserva e riflette, con la sua curiosità, volendo svelare gli aspetti che al visitatore casuale sfuggono, specialmente oggi, con la città apparentemente ripulita, pacificata.
L’ultima testimonianza è quella più intima: la figura del padre a cui l’autore si rivolge sempre. È il racconto della ricerca di un contatto, di una comprensione, di un abbraccio ostacolato da due nature troppo diverse, tra un genitore distaccato e un figlio irrequieto ma riservato, arrabbiato col mondo e pronto a scappare nel posto più lontano dal mare che esista, nel cuore dell’Asia centrale, sul limite del deserto del Takla Makan, in Cina, a Urumchi.
Manca il versante materno, citato solo una volta quasi di sfuggita, con pudore, in occasione del ritorno poco distante dalla metropoli, a Recco. Forse è una mia interpretazione ma questo ricongiungimento è una sorta di riconciliazione con la natura materna (e matrigna) della città, come se la separazione avesse portato a una conoscenza possibile solo grazie alla distanza.
Genova macaia è una prova dalla scrittura fine e ricchissima, con un equilibrio prezioso tra saggio e narrativa: una guida per l’anima e anche per il turista che ragiona col cuore e coi piedi.

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Genova 2001: Avevamo Ragione Noi / anche se non c’eravamo https://www.carmillaonline.com/2016/08/30/genova-2001-avevamo-ragione/ Mon, 29 Aug 2016 22:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32661 di Simone Scaffidi

indexDomenico Mungo, Avevamo ragione noi. Storie di ragazzi a Genova 2001, illustrato da Paolo Castaldi, Eris Edizioni, 2016, pp. 256, € 13.00

Scrivere di Genova 2001 senza esserci stati è un po’ come recensire un libro senza averlo mai letto. Un grande classico di cui hai sentito parlare tante volte, ne conosci la trama, i personaggi principali, le ambientazioni, Carlo Giuliani, Bolzaneto e la Diaz. Hai anche visto il film di Vicari. Puoi parlarne per ore fingendo di averlo letto, di [...]]]> di Simone Scaffidi

indexDomenico Mungo, Avevamo ragione noi. Storie di ragazzi a Genova 2001, illustrato da Paolo Castaldi, Eris Edizioni, 2016, pp. 256, € 13.00

Scrivere di Genova 2001 senza esserci stati è un po’ come recensire un libro senza averlo mai letto. Un grande classico di cui hai sentito parlare tante volte, ne conosci la trama, i personaggi principali, le ambientazioni, Carlo Giuliani, Bolzaneto e la Diaz. Hai anche visto il film di Vicari. Puoi parlarne per ore fingendo di averlo letto, di esserci stato. Ma la verità è che non avrai mai più occasione di leggerla Genova 2001. Quello che ti resta è fartela raccontare.

Sei il ricordo appannato di Genova 2001.
Un tredicenne che alle medie si vestiva di nero dalle scarpe al collo e che ben prima dell’estate rideva coi compagni dichiarandosi black block. Com’erano stati bravi a farti entrare nella mente i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, la polizia e i manifestanti. Chissà cos’è a tredici anni, con la coscienza politica compressa nei cristalli liquidi di un Nokia 5110, che ti spinge a scegliere tra il bianco e il nero. Vorresti darti una risposta consolatoria, che abbia il gusto della presenza, vorresti convincerti che quel ragazzino aveva già capito da che parte stare. Che il suo G8 era quotidiano, in classe, con le mani al cielo, le manifestazioni di dissenso, i banchi rovesciati. Ma la realtà è un’altra. Genova era a soli 40 minuti di treno da quella classe, ma nel 2001 era una gita scolastica all’acquario. E i pinguini, quelli sì, ti avevano colpito.

Cinque anni dopo. È il 2006.
Sei al liceo e Rifondazione Comunista suscita gran scalpore intitolando a Carlo Giuliani la sede del proprio ufficio di presidenza al Senato. Hai i capelli lunghi, condizione sufficiente per meritarsi l’appellativo di “comunista”. Ma Marx è solo una barba, devi ancora studiarlo e la tua coscienza politica ha lasciato perdere i cristalli per divenire totalmente liquida. Ricordi la prof di filosofia, il dibattito, l’incapacità di schierarsi con forza e intransigenza dalla parte di un ragazzo come te – sì proprio come te, non provare a storcere il naso – ammazzato brutalmente dalla polizia. E poi il silenzio e la vergogna.

Possibile che non avevi ancora letto niente su Genova 2001?
Che nessuno t’aveva mai raccontato nulla di cos’era successo per davvero. Che c’erano solo la televisione e una canzone dei Modena City Ramblers a raccontarti quel libro? Erano già passati cinque anni da quell’assolato pomeriggio di luglio e il nero liquido che si apriva dietro la nuca di Carlo era già diventato oblio. Possibile che il grande classico della letteratura del terzio millennio – AA.VV, Genova 2001 – era andato perduto per sempre. Ne avevano censurato le copie originali. Le avevano mandate al macero. E poi ne avevano occultato i capitoli, riscrivendo paragrafi, inserendo nuovi personaggi e nuovi artifizi letterari. L’avevano fatto prima di luglio: con le sacche nere, il sangue infetto; durante quei giorni: con le molotov alla Diaz e il tossico spagnolo ammazzato; e non si sono ancora fermati, continuano a farlo quando si presenta l’occasione. No. Non poteva essere.

avevamo-ragione-noi-domenico-mungo-4A 15 anni da Genova 2001 cosa è cambiato.
Un diciottenne deve guadagnarseli con le unghie quei racconti di contrabbando. Deve cercare, scavare. Avere la fortuna di trovare qualcuno che gli racconti cosa sia successo. Che gli ripeta allo spasmo come un mantra che “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale” è avvenuta proprio in Italia, pochi anni fa. Ma lo sai che hanno torturato? Che hanno ammazzato? Che hanno spaccato teste? E che i responsabili della mattanza, gli stessi che hanno esultato alla morte di un ragazzo di 23 anni, sono stati premiati, hanno fatto carriera e ora siedono in posti di responsabilità e potere. E chi ha preso le botte? Chi è stato massacrato quei giorni di luglio? Be’, ha subito condanne penali durissime. Sapevi che due di loro dopo quindici anni sono ancora in carcere?

Farselo raccontare.
Prendersi tempo, domandare, farsi bruciare gli occhi dai video gonfi di gas CS e ingiustizia, conoscere chi quel giorno ha scritto con l’entusiasmo e col sangue un racconto tanto vicino alla fantascienza da rappresentare la più cruda realtà umana. Impossibile capirla da soli Genova 2001, neanche se ci sei stato. Piano piano si strozzano in gola i silenzi, la bocca inizia ad aprirsi e chiudersi, boccheggi e ti ritrovi in un mare troppo denso da decifrare, troppo profondo da affrontare da solo. Le eliche degli elicotteri rimbombano sopra le teste e ti tengono sveglio. Empatia. Il racconto diventa cura e comprensione comunitaria. Potevo esserci io. Potevo essere Carlo. Il mio sacco a pelo blu alla Diaz. Empatia. Non c’ero, ma ho mal di pancia. Non c’ero, ma avevate ragione voi.

“Avevamo Ragione Noi. Storie di ragazzi a Genova 2001” di Domenico Mungo.
È appena uscito per Eris Edizioni ed è uno di quei tasselli che contribuiscono a raccontarci quel libro collettivo che è Genova 2001. Fuggendo le retoriche e le manipolazioni dell’informazione mainstream e del potere. È un libro fastidioso, a tratti insopportabile, scritto da chi c’era e ha voluto raccontare la guerra. Quella vera, non la sua rappresentazione. Un coro di voci in azione, mosse da una vitalità urlata, un flusso caotico e disordinato che chiama il lettore a confrontarsi con una narrazione satura di “come” e di similitudini senza sosta. Come a dirci, lo capite quanto è difficile raccontare Genova 2001? Senza i “come” non posso raccontarvela. L’esasperato utilizzo della metafora è un’arma di difesa di fronte alla semplificazione binaria della narrazione dominante su Genova 2001 e rappresenta allo stesso tempo il tentativo di rendere giustizia alla biodiversità che ha contraddistinto quell’esperienza.

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Accanto alla similitudine, ai “come”, la ripetizione.
La ripetizione: funzionale a fissare qualcosa di talmente esagerato, che non resta che trovare parole sempre diverse per descriverlo, in maniera tale da dare consistenza al dramma collettivo. L’evento che si ripete nel libro senza soluzione di continuità è la morte di Carlo. Non si può raccontarla in una maniera sola e non si può permettere che la si racconti in una sola maniera viziata dall’infamia. E allora ascoltami. Ti ripeto da angolazioni diverse come è morto Carlo, per farti capire che ciò è stato e sempre sarà. Non fu finzione, non fu esercizio di stile. Fu morte. E io ancora quasi non ci credo che l’hanno ammazzato come un cane e hanno infierito sul suo corpo. Ma le tue orecchie devono comprendere la ribellione di corpi sanguinanti, violati in vita, violati in morte. Quanti Carlo eravamo ad abbracciare le strade di Genova 2001. La nostra morte non è altro che l’affermazione più degna delle nostre vite. Come possiamo non raccontarla?

Nessun tossico dietro quei passamontagna.
Nessuno spagnolo, nessun italiano, ma ragazzi attaccati a un rotolo di scotch, strappati, appesi al muro, violentati dalle forze dell’ordine nelle strade, nelle caserme, nelle scuole, dai media di regime, da tutti quei benpensanti che continuano a credere che se eri a Genova 2001 potevi morire, dovevi metterlo in conto, è inutile che fai finta di non essertela cercata, ti è andata solo bene che non ti chiamavi Carlo.

Se cercate una testimonianza classica o un’analisi politica ragionata di ciò che è successo a Genova non la troverete in Avevamo Ragione Noi, quello che troverete è la rabbia, la vitalità ribelle che non cede alla potenza mortifera del potere autoritario, la giustificazione della violenza come atto di resistenza e dignità. Domenico Mungo è lapidario, attraverso le voci dei personaggi del suo romanzo, nei giudizi contro il Genoa Social Forum, le Tute Bianche e Luca Casarini, rei di aver messo un cappello di gommapiuma al movimento. Caricaturale nella descrizione del poliziotto romano fascista, ultrà, figlio di un comunista, che non accetterà di festeggiare la morte di Carlo. Prudente nell’assunzione di responsabilità collettiva, nel riconoscere gli errori, riflettere la sconfitta. Ma questo non è il punto. Il suo è un romanzo prezioso, forse soprattutto per chi non c’era, un buon trampolino per tuffarsi nel mare denso che fu Genova 2001 e riemergerne un po’ più consapevoli di prima.

Il libro è arricchito da sette splendide illustrazioni di Paolo Castaldi, compresa la copertina. Graffi chiaro-scuri che restituiscono la misura dell’ingiustizia. Chi aveva ragione non ha volto: non ce l’ha Carlo dietro il passamontagna, non ce l’ha il ragazzo con il casco del Toro al fianco di Carlo, non ce l’hanno i muscoli tesi e le braccia contro il muro nella Caserma di Bolzaneto, e nemmeno quelle in copertina alzate contro il cielo. Chi aveva torto invece non ha occhi, è l’ombra cieca di se stesso.

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Special Track – CCCP, Sono come tu mi vuoi, Live in Punkow, 1996.
come un sudario / come il bagliore intermittente che si riflette sulla facciata / come un fiume che tracima, come una lama / come il fango di un’alluvione, come ululati primordiali / come bestie da macero / come fiammiferi di peltro / come i coriandoli a natale / come le tracce lasciate dalla selvaggina braccata dai lupi / come una fonderia che può esplodere da un momento all’altro / come ombre a Hiroshima / come dettato da una batteria di tamburi che attraversano le strade / come fosse un racconto! / come animali / come un pallone da calcio / come al circo. come al Colosseo. come allo stadio / come i nostri figli / ̀come vivere in un mondo di spaghetti di soia / come essere protagonista di uno di quei film giapponesi sulla Yakuzaa / come se fosse colorata dal sangue, dal vomito e dal cerone dei Danidanzatori Kabuki / come samurai cibernetici e vecchi reduci dell’Impero del Sole / come i cani con l’occhio di vetro che ruscano nei sacchi neri d’immondizia / come un mostro incurante degli affanni e del terrore / come cartellini della spesa che ho appena espropriato dall’ipermercato globale / come robocop avveniristici / come la campana di bronzo che rintocca a morto ogni 6 agosto / come un fiore di loto / come grotteschi musici paramilitari / come se fossero state ideate e disegnate dal genio visionario di H.R. Giger / come le sculture di Boccioni / come i bellissimi emaciati ragazzi di Pasolini / come i vergini di Salò / come lanzichenecchi da Blade Runner / come mosche radunate attorno all’increspato dolciastro del miele / come fuscelli nodosi / come un pallone sgonfio / come le letterine dello Scarabeo quando inizi una mano nuova di gioco / come tarantolate / come scenari della Hanoi posticcia di Full Metal Jacket / come corvacci spelacchiati e puzzolenti / come se fossero stati eterei specchi mobili / come ingoiate da un portentoso sciacquone / come falangi macedoni / come rami rassegnati di salici piangenti / come lapilli di arsenico / come un simulacro svuotato di prepotente violenza / come dei robot / come un mortaretto afono / come formiche impazzite / come una fontanella di vino rosso / come se Brixton e le banlieu in ebollizione esplosiva si fossero trasferite fra Marassi e Nervi, corso Torino e piazza Ferraris. Blade Runner e Che Guevara, i Rage Against the Machine che tiravano un calcio nel culo a Manu Chao e sfondavano i timpani di Fede e Mentana / come alla Millemiglia / come Terminator / come due minatori italiani in Belgio nel 1962 / come pellegrini a San Giovanni Rotondo / come robocop di carne e imbottiture / come stuzzicadenti spezzati / come un corridore-gladiatore di rollerball / come un grottesco cuore estirpato dal suo corpo ormai defunto dopo la violenza subita / come un interminabile serpente di celluloide che nel veleno conteneva le immagini della verità / come una forma di pecorino di carne umana / come er grande Francesco. Er Pupo. / come diceva quer frocio, ’na vita violenta / come n’imbuto senza uscita / come tanti topi a cerca’ de scappa’ da ’na parte all’artra / come quanno pescano li tonni / come jene / come allo stadio con ’na cintura in mano e mi rifila ’na frustata in pieno volto / come una ferita che non si coagula / come il coperchio di una scatola di sardine / come i solchi di questi anni / come le stagioni, come le persone, nella ciclicità del rimosso / come limoni in una fabbrica di limoncello di Gela / come sepolcri / come la marmellata di ciliegia Santarosa sul parquet della palestra di via Battisti / come un bracciale di una vecchia zia indossato per scherno / come napalm / come la guerra / come il partigiano che scendeva a valle, a mani nude, in canottiera / come una trance che blocca tutti gli altri sensi / come carne da cannone / come grottesche statue di guerrieri, all’assalto del popolo esasperato / come una cappa di invisibile fuliggine che si adagia sul piccolo e magrissimo fantoccio che travolto per due volte dalla fuga dissennata e terrorizzata, giace, ora, sull’asfalto, fra i cocci di bottiglia, i bastoni, le pietre, un accendino, delle monete da 500 lire e l’estintore, che, maledetto, sembra pascersi, saziandosi orridamente ingordo, del sangue nero, rosso / come i Comunardi nel 1871, a Parigi, sparare agli orologi per fermare il tempo della Rivoluzione / come mosche imprigionate in un bicchiere, che urlano, si agitano impazzite, rimbalzano contro il vetro / come una marionetta dinoccolata / come Pinocchio / come una carcassa di tacchino / come onde del mare agitate dal vento di ponente / come epigrafe di qualche edizione economica di Einaudi o di Feltrinelli / come un tiro al volo, scagliato di prorompente gioventù, dal limite dell’area all’incrocio dei pali / come un atleta e rapido come uno stambecco in fuga / come un pallone da calcio che ti colpisce in pieno viso / come un fiume in piena / come Corbari / come lupi eccitati e assetati di sangue / come le braccia festanti e le teste urlanti dopo un gol sugli spalti di uno stadio /come spartani alla volta delle Termopili / come quando andavo ai rave illegali nei boschi prealpini e tornavo a Torino due giorni dopo strafatto e incosciente / come in un film / come le sirene d’Ulisse ci incatena / come un pettirosso curioso / come il petrolio / come api impazzite / come statue di sale / come manichini avvizziti dalla paura / come guidare in galleria, a 1000 all’ora a fari spenti / come il cane rabbioso che abbaia perché ha paura, emette l’ultimo esclamativo / come la pece / come lucertole al sole sul lungomare farcito di diossina e sangue nella nebbia di polvere / come neve accumulata in un angolo / come quella di una macelleria / come un’onda che si riavvolge su se stessa dopo aver schiumato rabbiosa fin dentro la risacca / come un mostro biomeccanico, un mutoide cablato di viscere in pvc e legamenti di alluminio e argento chirurgico / come i fiumi che si gettano nel mare a parapendio concludendo la loro vorticosa fuga verso l’infinito / come i sinti ubriachi di gioia e dolore, raccontano gli istanti racchiusi nel pianto come un pugno di miele / come la colonna sonora dei suoi fotogrammi d’appendice.

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 64 https://www.carmillaonline.com/2014/11/20/divine-divane-visioni-cinema-papa-0708-64/ Thu, 20 Nov 2014 21:42:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18491 di Dziga Cacace

dvd6401Non stupirti se ti dico che io parlo con le piante, il millepiedi e l’elefante

702 – Il necessario Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi, Italia 2008  Un documentario sull’evoluzione del ruolo della donna nella società italiana, tra diritti negati e conquistati e battaglie che non finiscono mai. La formula è intrigante e si sviluppa attraverso tre diari intimi, diversi per estrazione e cultura. Ed è una scommessa difficile: non c’è un personaggio principale cui affezionarsi e bisogna affidarsi a delle voci, senza una presenza fisica tangibile. In compenso l’apparato iconografico è ricco e curioso, utilizzando immagini di [...]]]> di Dziga Cacace

dvd6401Non stupirti se ti dico che io parlo con le piante, il millepiedi e l’elefante

702 – Il necessario Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi, Italia 2008 
Un documentario sull’evoluzione del ruolo della donna nella società italiana, tra diritti negati e conquistati e battaglie che non finiscono mai. La formula è intrigante e si sviluppa attraverso tre diari intimi, diversi per estrazione e cultura. Ed è una scommessa difficile: non c’è un personaggio principale cui affezionarsi e bisogna affidarsi a delle voci, senza una presenza fisica tangibile. In compenso l’apparato iconografico è ricco e curioso, utilizzando immagini di pubblicità, dibattiti tivù, fotoromanzi, super 8 privati, filmati militanti, cartoni animati e si perdonano anche alcuni didascalismi per “macchiare” il narrato. Il film è venuto fuori in un momento particolare, durante il consueto e ricorrente attacco ai diritti acquisiti, stavolta guidato dal debordante Giuliano Ferrara, scopertosi feroce antiabortista televisivo quotidiano, ed è sicuramente interessante, necessario e piacevole ma non so quanto riuscito in toto. Nel senso che ha acquisito meriti dovuti anche alla crociata del panzone “però molto intelligente” (viene sempre specificato, mi adeguo anche per evidenziare la manica di coglioni che gli vanno dietro) ma questo non può e non deve diventare uno dei pregi di Vogliamo anche le rose (titolo bellissimo). A me manca una regia un po’ più forte e mi rimane l’impressione di un collage stimolante, dove però viene fuori la consueta distanza dal pubblico: nessuna didascalia, nessuna contestualizzazione esplicita, tutto affidato alla tua capacità di leggere le immagini e fare le giuste connessioni. Okay, non ti obbliga nessuno a coccolare così lo spettatore, però… ecco, io vorrei che un film così fosse popolare, visto da tanti, non solo dagli ultimi cittadini di sinistra rimasti, magari donne (sui “democratici” non conto più da mo’, sono scomparsi), se no fa solo venire la lacrimuccia alla femminista nostalgica e un ghigno feroce allo stronzo maschilista (che mai il film lo guarderà) e finisce lì, come tante buone intenzioni. La regista ha scelto una cifra sommessa, ammirevole in epoca di urlate mediatizzate e provocazioni continue, ma il risultato alla fine mi sembra più consolatorio che efficace, insomma. La parte più incisiva è paradossalmente l’ultima, slegata dal destino individuale delle tre voci ascoltate fino a quel momento, ma in realtà patrimonio di tutte e tutti: una carrellata delle battaglie sostenute e vinte e oggi messe in discussione, che nella sua semplicità è quasi emozionante. Film molto dibattuto sui media (anche perché la Marazzi è in gamba, parla bene e l’intento era doveroso) e spinto dalle tristi vicende politiche nostrane: purtroppo lo hanno visto in troppo pochi. Peccato. (Dvd; 3/6/08)

ddv64 24 Bauer703 – L’annata di pregio 24 – Season Five di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2006
L’ennesima giornata infernale di Jack Bauer. Dopo due serie discrete (meglio la quarta della terza, comunque), una serie di nuovo clamorosa, zeppa di complotti, tradimenti e sorprese, sicuramente la migliore del lotto dopo la sorpresa del primo anno. Tanta azione ma stavolta con fosforo e plot e sub plot di altissima qualità a cascata. I cattivi sono inizialmente dei simil ceceni ai quali, ancora una volta va la mia simpatia di spettatore politicamente consapevole. Però poi la serie prende una piega clamorosa: si va dritti al cuore dell’impero del Male. Il presidente degli USA è un fifone isterico e complessato e gli balla il mento come Nixon quando caccia qualche balla; sua moglie, mezza matta con passioncella alcolica, è in realtà consapevole del consueto complotto interno alla Casa Bianca e nessuno le crede; la congiura è orchestrata alla grande e urla “11 settembre” a più non posso. Certo, uno vede 24 e poi pensa che le teorie della cospirazione siano sempre tutte fandonie. E invece no! Ancora una volta la fiction racconta la realtà meglio di ogni inchiesta e reportage. Solo che gli americani (produttori inconsapevoli e fruitori ipnotizzati) non l’hanno capito e pensano che sia tutto solo entertainment e basta. Cast clamoroso che si arricchisce anche di Peter Weller, Julian Sands, Paul McCrane (il dottor Romano di E.R. ma con le braccia) e – in una parte di 6 secondi non accreditata – pure del futuro candidato repubblicano alla Casa Bianca vera, John McCain, presenza oltremodo inquietante. Ad ogni modo, datemi retta: diamo a Jack Bauer Ustica, Bologna, G8, Italicus, piazza della Loggia, caso Pinelli, 12 dicembre e pure Moggi e vi assicuro che questo risolve tutto in due giorni a dir tanto. Senza neanche farsi una scappata in bagno. (Dvd; giugno e luglio ‘08)

ddv6403704 – L’emozione interrotta di Ortone e il mondo dei Chi di Jimmy Hayward e Steve Martino, USA 2008
In casa siam tutti dietro ad Elena – due settimane -, aspettando che cominci a darci tregua la notte, e allora decido di portare la sorella maggiore, emozionatissima, a vedere il suo primo film nel buio della sala. Ma a metà proiezione Sofia, disillusa, si confessa: “Torniamo a casa, che qui non si riesce a dormire, il volume è troppo forte”. Missione fallita. Del resto avrei dormito anch’io volentieri, ma è vero che c’era un dolby esasperato reso inoltre irritante dall’immotivato doppiaggio di Christian De Sica che butta lì un po’ di romanesco alla maniera sua, troncando le parole da pelandrone, tutto senza motivo se non per appagare chissà quale fan vanziniano, boh. La trama – del mitico dr. Seuss – è lineare: l’elefante Ortone scopre che in un granello di nettare che fluttua nell’aria si nasconde un mondo, quello minuscolo dei Chi (e non so quanto questo fosse chiaro a Sofia): l’allegro mammiferone zannuto s’incarica di salvarlo superando diverse peripezie. Animato freneticamente mi sembra più rivolto ai grandi che ai bimbi, o forse lo penso perché la mia è veramente piccola e io ho preteso troppo. Insomma: sono influenzato dal parere di una treenne e trovo il film piacevole ma non clamoroso, anche se so che meriterà un’altra visione più rilassata. Un giorno. (Cinema Ducale, Milano; 22/6/08)

ddv6402705 – Lo scintillante Eastern Promises di David Cronenberg, USA/Canada/Gran Bretagna 2007
Dovrei parlarvi del film, perché lo meriterebbe: questo La promessa dell’assassino è dritto al punto, con trama perfettamente articolata, dialoghi secchi ed essenziali, una fotografia che è spettacolare e degli attori in parte (Naomi Watts morbida e intrigante, Viggo Mortensen maschissimo). Dovrei parlarvene perché capita raramente un film così riuscito e che, dopo più di una delusione, ha fatto risalire Cronenberg nel mio personale ranking. Dovrei, lo so, ma son stravolto da troppo poco sonno e troppo tanto Springsteen ieri sera. Sono andato a San Siro già scosso dalle ultime notti in bianco (la neonata Elena ha un curioso modo di vivere l’oscurità), con una congiuntivite appena esplosa e con cosce del turista irritate. E cosa ti imbandiscono Bruce e la sua E Street Band? Una performance oceanica, incurante di multe promesse in caso di sforo sull’orario, con una Twist and Shout finale da maratoneti del rock. Io – temo – non ho veramente più l’età per tutto ciò. (Dvd; 26/6/08)

ddv6405706 – Balliamo? Con Happy Feet di George Miller, Australia/USA 2006
Quando la giornata volge al termine, prima che calino le ombre della sera, ci sta un Dvd con Sofia. Magari a pezzetti, ma tivù niente. Ci pensano già quei fedifraghi dei nonni, noi no: lavoro nell’Inquisizione e so quali danni faccia. E poi non abbiamo Sky, coi canali tematici lardellati di pubblicità pericolosissime (“Papà, io devo avere Baby Amore”, il pupazzo che caga e piscia, non bastasse l’Elena vera che già abbiamo). Per cui vediamo un film che solo a posteriori scopro da chi è stato fatto: il regista di Mad Max che è tornato dietro la cinepresa per dedicarsi ai bambini con una sorta di musical in computer grafica. E ci ha vinto un bell’Oscar. Un carpiato pazzesco, come se Berlusconi si arruolasse nell’EZLN in Chapas e poi trionfasse al Nobel per la pace. Però, devo dire: film divertente e pieno di idee, animato in maniera perfetta con una regia che predilige movimenti (virtuali) di macchina al montaggio, senza frenesie fuori luogo. Protagonista è Mambo, un pinguino imperatore che a differenza dei suoi simili non canta ma preferisce ballare (e le coreografie sono eccezionali!). Cacciato dalla comunità conservatrice, intraprende il classico percorso iniziatico che lo porta a conoscere il mondo (gabbiani stercorari mafiosi, foche assassine, leoni marini puzzolenti, altri pinguini danzerecci, fino agli uomini, i temibili alieni che minacciano l’Antartide) sinché non torna a casa: e secondo voi come va a finire? L’epilogo è pacifico e surreale e si può sopportare di fronte al messaggio ecologista. Film a più livelli, molto denso, che dà piacere a tutte le età e a tutti i gradi di competenza musicale, con belle cover adattate. Sofia s’è divertita abbastanza, senza grandi spaventi (“Tanto finisce bene, no?”), anche se abbiamo dovuto spiegarle che l’uomo è cattivo etc. etc. e frega il cibo ai poveri pinguini. “Ma io non sono cattiva!”. Eeeh… tipico rifiuto delle responsabilità collettive. Ma a tre anni non si può pretendere troppo, o no? Bel filmetto, ‘anvedi. (Dvd; 1/7/08)

ddv6406707 – L’illusorio Red e Toby nemiciamici di tre tizi, USA 1981
Film disneyano del periodo di crisi, all’alba degli Ottanta: c’è incertezza registica (Art Stevens, Ted Berman e Richard Rich, due ultra sessantenni vecchia scuola e un trentenne) e grafica e una vicenda “antica” e sempliciotta a fronte di tutta un’evoluzione del genere. Dunque, per farla breve: nel profondo paese interno yankee con cretinismo campagnolo annesso, volpe e cane sono amici da piccini ma nemici da grandi, secondo l’istinto naturale. Finisce bene in spregio di ogni considerazione etologica, turlupinando il pubblico infantile. Musica country and western e melense song, animazione classica, trama lineare, montaggio disteso, morale rassicurante. Esattamente per bambini. A Sofia piace e la rilassa dopo le convulsioni tersicoree di Happy Feet. Io lo sopporto, ma non l’han fatto per me, è chiaro. (Dvd; 8/7/08)

Cronache del pre-Bomba
dvd6407Se non lo scrive, non esiste.
Sarà che non dormo da due mesi, ma ormai devo scrivere ogni cosa. Ma non solo per raccontare la mia vita in scala 1 a 1, proprio per ricordarmi ogni cosa che devo fare. Ci manca che mi segni sul taccuino “vai in ufficio”, “mangia”, “caga”. E devo appuntarmi anche tutti i bagliori di memoria: se queste cose non le segno ora, adesso, subito, non le recupererò più.
Per cui eccovi una veloce Cronaca di prima che diventassi una palla di lardo, per nervoso e golosità compulsiva incurabile. Siamo negli anni Settanta più profondi e io sono in piazza Ragazzi del ’99, a Genova, in un cinema che oggi è diventato un supermercato. Non so come, ma son finito lì per una proiezione gratuita del pessimo Tarzan in India con protagonista un biondone col torace enorme (scopro ora il suo nome: tale Jock Mahoney). Tra i due tempi di un film la cui evidenza come vaccata era chiara anche ai miei 7/8 anni, una cinevendita infinita – giuro – di pentolame assortito. Come ci ero capitato a ‘sta cosa? Ricordo che in quegli anni ti arrivavano cartoline o telefonate a casa in cui ti proponevano di andare a ritirare un regalo per il tuo compleanno e allo stesso tempo provavano a venderti un’enciclopedia. Mia madre avrà letto che c’era una proiezione gratis e allora… sai, da genovesi…
Del resto erano tempi di ingenuo marketing e zero privacy.
Più o meno come adesso: mi chiamano a tutte le ore sul telefono di casa per propormi magiche offerte per ogni operatore telefonico. Siccome non sono sull’elenco da sempre, stanno utilizzando il numero del vecchio inquilino, ma non di rado sanno anche il mio nome. La prima volta sono cortese ma con una punta di fastidio, la seconda irritato, la terza sbotto e bestemmio come un camallo: chi cazzo vi ha detto chi sono?
E qui il colpo di genio. Loro, però: “Non glielo posso dire per rispetto della privacy”! Aaargh!
Chiamo ‘sto benedetto Garante della privacy, l’authority che dovrebbe difendermi dalla pubblicità invasiva, tra le altre cose (presieduta da tale Francesco Pizzetti che guadagna per il disturbo 289mila euro all’anno, misero), e il gentilissimo operatore telefonico mi invita a iscrivermi al Registro delle opposizioni. Siccome siamo in un paese medievale sono dunque io che devo specificare che nessuno mi rompa i coglioni a casa, non loro a non doverlo fare. Come se sul portone di casa ci dovesse essere una targhetta: “Non gradisco furti in casa”, se no è lecito entrare e rubare quel che si può. E perché non girare per strada con la t-shirt con scritto “Non inculatemi” sulla schiena, allora? Vabbeh. Ci metto venti minuti a far capire all’operatore che non posso iscrivermi al Registro, perché NON sono sull’elenco telefonico. Compreso – ma dopo un po’ – il Comma 22, subentra il silenzio. Poi la soluzione: compilare una protesta dove devo specificare tutti i dati sensibili possibili, pure con gli estremi della carta d’identità, ci mancano giusto il peso, il deodorante che uso (Neutro Roberts, banale, lo so) e il curriculum studi.
Insomma: il Garante garantisce quelli da cui dovrebbe difendermi. Rinuncio rodendomi il fegato. E poi non dormo. E devo segnarmi tutto.
dvd6408Giusto, dov’ero rimasto? Ah, sì: ritorno al passato, fine anni Settanta: La gang dei Dobermann in un cinema di corso Buenos Aires, sempre a Genova, con mia nonna Franca che chissà come aveva scelto quel titolo. Anche quella sala oggi è un supermarket e il thriller canino da straculto – lo ricordo nitidamente – faceva cagare a spruzzo anche uno di bocca buona come me.
E poi non so più il titolo di un film che ho visto al parrocchiale di Casella, nell’entroterra genovese vicino a Busalla (dove, in quegli anni, mi beccai anche il flaccido I due superpiedi quasi piatti con Bud e Terence e il colonialista La conquista del West, in bianco e nero). Quello di Casella era invece un western fossile – tipo anni Sessanta – che finiva con l’arrivo del Settimo cavalleggeri a salvare qualcuno catturato dagli apache cattivi. Ricordo ancora i colori vivissimi, la grotta dove stavano i prigionieri e l’eroico trombettiere (era forse di colore? Mi ha influenzato Hollywood Party?) che riusciva a dare l’allarme per non fare cascare i suoi commilitoni in un’imboscata…
Ecco, quel titolo, purtroppo, è perso per sempre: non posso più scrivermelo.

dvd6409709 – L’ennesimo classico: Gli Aristogatti di Wolfgang Reitherman, USA 1970
E anche qui, come in Ortone c’è un personaggio, il gatto Romeo, che – non si sa bene perché, o meglio sì: per qualche astuzia dei traduttori creativi – parla romanesco (con la voce di Renzo Montagnani). E poi il quadro è stato tagliato dagli originali 7:4, come se non fosse possibile vederselo (se siete dei deficienti) autonomamente in 16:9, zoomando sull’immagine, preservando però la ratio per chi vuole vederselo così come il film era stato fatto. Il concetto di composizione dell’immagine evidentemente sfugge alla Disney, anche in un’edizione deluxe come questa: che grossissime teste di. Vabbeh. Per fortuna Sofia non lo sa e gode di questa simpatica avventura e io non sporgerò denuncia al Telefono Azzurro. Mi attacco a ‘ste cose perché sono fuso come la colata di un altoforno e non mi faccio un sonno filato da cinque ore da almeno due mesi e mezzo e la famosa svolta del settantesimo giorno di cui blaterano i pediatri non esiste, credetemi. Comunque, dette queste cose assolutamente fondamentali, il film è caruccio. Semplice semplice, con un’architettura classista che faccio finta di non notare (ma se mi metto anche a pensare a Dorfman e Mattelart e al loro Come leggere Paperino allora è la fine), è ricchissimo cromaticamente e pittoricamente, con sfondi parigini Belle Epoque deliziosi. Tratto anni Sessanta, qualche zoom (era il periodo, del resto, in cui lo si utilizzava di più anche nel cinema non d’animazione), belle caratterizzazioni e scatenata musica dixieland (che non c’entra nulla a Parigi, ma non importa). (Dvd; 19/7/08)

dvd6410710 – Di corsa assieme a Balto di Simon Wells, USA 1995
Gradevole filmetto spielberghiano che Sofia molto apprezza. Si ispira alla corsa sulla neve di una squadra di cani che nel 1924 portò di gran carriera un medicinale a Nome, Alaska, salvando così molti bimbi da una morte per difterite. Quando una vicenda si ispira a un fatto reale è evidente che l’hanno stravolta per fini cinematografici, ma al Central Park di New York c’è effettivamente un monumento al cane Balto che guidò la spericolata corsa tra i ghiacci. Animazione tradizionale, cast “disneyano” (animali umanizzati, antagonista cattivo con coprotagonisti comici, storia d’amore, uomini di contorno), buon ritmo, narrazione semplice e diverse ideuzze rubate poi da L’era glaciale (ne conto almeno quattro). Prologo e finale con sorpresa filmati dal vero e non particolarmente riusciti. Buonino. (Dvd; 28/7/08)

dvd6411711 – Estate animata con Alla ricerca di Nemo di Andrew Stanton, USA 2003
Niente di nuovo da dichiarare rispetto a quanto già blaterato alla prima visione (vedi qui). Ora l’interesse è vedere la reazione della pupattola: è molto più affamata di cinema di me, ha l’hard disk vuoto e soprattutto è decisamente più sveglia. Coglie particolari e significati che ormai al mio occhio cinico e – vista anche l’ambientazione marina – giustamente da triglia, sfuggono. Me li passa e io puntualmente dimentico, tanto che adesso non ho nulla da scrivere. Comunque ha apprezzato, anche se rispetto agli altri film visti quest’estate è un po’ più difficoltoso (due vicende parallele abbastanza articolate, molti episodi, troppe ambientazioni) e non so se lei riesca a comprenderne il disegno generale: le piace ma non lo richiede – per fortuna – nei giorni successivi alla prima visione. Ci sarà un motivo, no? (Dvd; 1/8/08)

dvd6412712 – E ancora: Le avventure di Bianca e Bernie di tre vecchie volpi, USA 1977
L’aristocratica Bianca e il proletario Bernie volano a recuperare un’orfanella rapita, passando da una New York cosmopolita e moderna a un sud fangoso popolato da assortito white trash. Fiaba carina e ritmata e progetto che risente un po’ dell’indecisione Disney anni Settanta: le musiche, il montaggio e anche il tratto del disegno non rispondono mai – secondo me – a un progetto forte, unitario, ma sembrano sempre un po’ a cavallo tra classicismo e rinnovamento. La regia era di tre veterani di Burbank (Wolfgang Reitherman, Art Stevens e John Lounsbery, morto a lavorazione in corso) e il film sbancò il botteghino. A Sofia è piaciuto, ovviamente, nonostante sia molto dark e abbastanza tensivo. A me sembra un’occasione persa, anche perché l’ambientazione nelle paludi del sud degli States poteva essere veramente spunto per un sacco di cose che rimangono solo a livello embrionale: c’è giusto una gag sulla grappa bootleg esplosiva, ecco. Un po’ poco, ma anche qui le visioni ripetute e il sorriso stampato sulla faccia di mia figlia mitigano il giudizio. Tagliato arbitrariamente in widescreen ad usum yankeebus coglionibus. (Dvd; 14/8/08)

dvd6413713 – L’insostenibile fracassamento genitale di Anna dai capelli rossi, Giappone 1979
La nonna Claudia regala alla nipotina i primi due episodi di questo seriale giapponese di fine anni Settanta e la visione risulta devastante: un cagamento di cazzo mai visto. America di inizio secolo, direi: Anna è un’orfana macrocefala e rossocrinita, una stracciacoglioni di livello galattico che per errore viene mandata ad una coppia adottiva (fratello e sorella anziani) che però voleva un maschio che li aiutasse nei campi. Il primo episodio consta praticamente di tre scene. In una la signora Cuthbert racconta a un’altra comare perché vuole adottare un bambino ed è un realistico conciliabolo tra due vecchie zitelle rimbambite che ripetono le cose più volte. Ci mancava giusto la gag della sordità per allungare la broda e giuro che non avrebbe stupito. La seconda scena vede il signor Cuthbert che in stazione attende il ragazzo, con di fianco Anna che aspetta. Silenzio e attesa per qualche minuto fino al reciproco riconoscimento. Infine, nell’ultima scena, eterna ed esiziale, la strana coppia si dirige verso casa e praticamente il viaggio in calesse è in tempo reale: una dozzina di minuti di commenti estatici della cretina dai capelli rossi che vede la campagna, i fiori e i colori, e orgasma tutto il tempo. Col povero Cuthbert che dovrebbe affezionarsi a ‘sta rompiballe petulante, logorroica e perbenista. Sofia l’ha guardato distraendosi continuamente e io mi volevo sparare una rivoltellata: questo non è un cartone animato, è un Sinflex grosso come una boccia da bowling. Al confronto un film di Ozu sembra un action movie e consiglierei l’uso di questo Dvd in sala operatoria perché io non ho mai provato un anestetico così potente. Micidiale e firmato, secondo l’IMDB, da Hayao Miyazaki come scene design e layout: non so bene cosa significhi, se non che anche lui è coinvolto in questo disastro e la cosa mi inquieta molto. Sigla di Albertelli e Tempera scopiazzata impunemente da Boney M., musicalmente gradevole ma un po’ insensata a livello di testo. Non andiamo oltre le prime due puntate, comunque: come Lubitsch, vogliamo vivere! (Dvd; 16/8/08)

dvd6414716 – L’improbabile Sognando Beckham di Gurinder Chadha, USA/Gran Bretagna/Germania 2002
Concludo l’annata scolastica 07/08 con un film da grandi. Per modo di dire, visto che si tratta di una commedia giovanilistica, ma sembro un recluso di Guantanamo, esaurito dalla deprivazione del sonno e dai continui cartoni animati, e mi berrei qualunque sbobba. La Rai m’è venuta incontro con questo filmetto commerciale, politicamente corretto e completamente implausibile. Keira Knightley e Parminder Nagra, una ragazza di origine indiana, giocano a pallone: le due faranno strada nonostante opposizioni familiari e la rivalità in amore nei confronti dell’allenatore, il plasticoso Jonathan Rhys-Meyers. Che, e qui si tocca il sublime, preferisce l’immigrata alla Knightley, nello splendore dei suoi vent’anni, gnocca come non mai. E vabbeh, buoni sentimenti e cinema permettono queste fantasie folli (sono semplicemente innamorato di Keira e molto geloso). Commediola multirazziale ruffiana, ben congegnata e con aberrazioni calcistiche degne di Holly e Benji. Ma in una sera d’estate, distrutti dalla figliolanza e con troppissimo sono arretrato, si può vedere. Prima di crollare, fino al primo risveglio verso l’una circa, maledizione. (Diretta su RaiUno; 30/8/08)

(Continua – 64)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Bambi Fossati, chitarra cosmica https://www.carmillaonline.com/2014/09/04/bambi-fossati-chitarra-cosmica-2/ Thu, 04 Sep 2014 20:41:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15677 di Filippo Casaccia

[In omaggio a Bambi Fossati, mancato il 7 giugno scorso, ripubblichiamo un pezzo che gli avevamo dedicato anni fa]

Bambi Fossati 1È là che devi andare, laggiù Oltre il sole, e navigare…

Anche noi italiani abbiamo avuto i nostri piccoli Hendrix. E venivano tutti da Genova. Uno era Nico Di Palo, chitarra visionaria e acida dei New Trolls prima maniera; l’altro era Pier Niccolò “Bambi” Fossati, il sognatore dei Garybaldi, uno dei migliori gruppi rock italiani di sempre. Non so, nell’acqua della mia città, tra gli anni Sessanta e Settanta, doveva esserci qualcosa di particolare e alla generazione [...]]]> di Filippo Casaccia

[In omaggio a Bambi Fossati, mancato il 7 giugno scorso, ripubblichiamo un pezzo che gli avevamo dedicato anni fa]

Bambi Fossati 1È là che devi andare, laggiù
Oltre il sole, e navigare…

Anche noi italiani abbiamo avuto i nostri piccoli Hendrix.
E venivano tutti da Genova.
Uno era Nico Di Palo, chitarra visionaria e acida dei New Trolls prima maniera; l’altro era Pier Niccolò “Bambi” Fossati, il sognatore dei Garybaldi, uno dei migliori gruppi rock italiani di sempre.
Non so, nell’acqua della mia città, tra gli anni Sessanta e Settanta, doveva esserci qualcosa di particolare e alla generazione dei cantautori era succeduta quella dei rocker: in un laboratorio musicale vivacissimo nacquero band straordinarie come i Delirium (con un altro Fossati, Ivano), i Nuova Idea, gli Osage Tribe, il Duello Madre, i Latte e miele, i futuri Matia Bazar che allora si chiamavano Jet… c’erano fermento e idee e soprattutto grandissima libertà. E veramente il più libero, il più magicamente hippie di tutti loro, era Bambi, chiamato così per il suo amore per la natura e per la poetica abitudine di perdersi nei boschi sopra Tiglieto.

Quando l’ho conosciuto, è stato un incontro che mi ha riempito il cuore, perché Bambi, generoso e povero in canna, gentilissimo e politicamente incazzato, è una persona innocente e talentuosa, che suonava realmente in maniera disinteressata. La musica, per lui, non si faceva per denaro, carriera o affermazione personale, ma per inseguire un sogno di condivisione, pace e libertà.
E questa visione naif e sincera della vita, Bambi l’ha pagata, rimanendo uno splendido segreto per molti appassionati ma non per il grande pubblico.

Bambi Hard Rock CafoneMa andiamo con ordine; dunque: per nove anni ho curato sul mensile Rolling Stone una rubrica chiamata “Hard Rock Cafone”. Avevo licenza di sparare in un’ampia riserva di caccia: il rock degli anni Settanta e dintorni, partendo dall’hard rock e divagando allegramente. E tra i primi sfizi che mi son tolto uno è stato raccontare la storia di Fossati, appunto.

Nel 1992 suonavo in gruppo di rock blues e mi capitava di provare in un cubotto di cemento armato che si trovava proprio sopra il cimitero di Genova, Staglieno, una location più adatta al death metal sepolcrale che alle mie ignoranti svisate sulla Eko.
A differenza dei miei compagni io ero cane come pochi e lasciavo spesso l’immonda sala prove per fumarmi una sigaretta. Il cubotto era una specie di silo a più piani; ci andavamo la sera tardi, per cui non ho mai appurato cosa fosse stato realmente, in origine, però da un piano inferiore per nulla insonorizzato arrivavano note celestiali: con una certa riverenza mi avevano detto che era Bambi che provava, “una gloria underground degli anni Settanta”, e io non avevo mai trovato il coraggio di presentarmi per conoscerlo e magari, attraverso l’imposizione delle mani, ricevere un po’ della sua perizia strumentale.

Dopo quindici anni ho recuperato il suo numero di telefono e l’ho chiamato. Mi ha risposto, incredulo che qualcuno volesse intervistarlo (“Ma Rolling Stone, quello? Ma sei proprio sicuro?”), e sono riuscito a organizzare un incontro. Abitava sopra la stazione ferroviaria di Brignole e per raggiungere casa sua bisognava farsi parecchie centinaia di gradini in salita, una fatica che sarebbe stata ben ripagata. Infatti Bambi, finito di impartire una lezione di chitarra, mi ha accolto e mi ha raccontato la sua storia, quella di un ragazzo innamorato della musica.

Bambi GleemenGenovese purosangue dall’accento marcato, capelli raccolti in una coda, la sigaretta sempre accesa, Bambi individua un preciso punto di svolta nella sua vita: il 23 maggio del 1968, quando Jimi Hendrix suona al Piper di Milano. Lui ha saputo del piccolo tour italiano (Milano, Bologna e Roma) leggendone su un Melody Maker comprato all’edicola della stazione Principe. Assieme al compagno di banco e di avventure Ronzani prende il maggiolone di suo fratello (“Come Thelma e Louise… e nessuno di noi due aveva la patente!”) e affronta notte e nebbia per vedere il concerto. Che è uno shock: “Sembrava fosse atterrata un’astronave… Jimi era un alieno!”; e con una piccola soddisfazione: “Finita l’esibizione, dietro le quinte mi son fatto dare una delle sue sigarette, una Philip Morris senza filtro che ho ancora, tutta sbrindellata…”. Nel frattempo il giovane Pier Niccolò suonava col suo primo gruppo, i Gleemen, che — dopo una frizzante cover di Lady Madonna — arriva all’esordio discografico con l’album omonimo, un disco che trascende il beat dipingendo affreschi psichedelici, sfiorando l’hard come all’epoca solo i Trip avevano osato, e regalandoci il primo compiuto blues elettrico italiano, Chi sei tu, uomo.

Poi si decide di dare una svolta: il gruppo cambia ragione sociale e col singolo Marta Helmuth i Gleemen diventano Garybaldi, le sonorità si induriscono (tra Hendrix e i Deep Purple di Mandrake Root) e arrivano anche le prime censure: la canzone narra di una strega bruciata dall’inquisizione e la Rai non gradisce. Poi l’album che consegna i Garybaldi alla storia, il folgorante Nuda (1972) che è impreziosito dalla più bella copertina del rock italiano, un triple gatefold con una Valentina come da titolo, disegnata da Guido Crepax: semplicemente spettacolare.

Bambi Nuda

Il disco è bello e fresco e tra suite, cascami hendrixiani, improvvisazioni ed esperimenti progressive (nel senso migliore del termine, quello autentico e dell’epoca) rimane uno dei documenti più validi di quella stagione. Bambi non è un chitarrista particolarmente tecnico (anche se leva la pelle a tanti giovinastri di oggi che polverizzano senza senso scale misolidie), ma ha un feeling impressionante e il suo sound in Italia non ha eguali. È la stagione dei grandi raduni pop e i Garybaldi ci sono sempre; aprono per i Van Der Graaf Generator, i Santana e anche i Bee Gees (!) e suonano ovunque, molte volte a fianco degli amici Area. L’imperativo di quegli anni viene abbracciato in pieno da Bambi: “Essere originali e unici, prima di tutto!”. E poi condividere, la musica e la visione del mondo: “Ero uno hipster, uno hippie con una tendenza politica, chiaramente di sinistra… parlarne oggi fa strano, ma comunicare — per noi — era la cosa fondamentale!”. Le foto ci restituiscono sul palco un Bambi baffuto, capellone e sempre con la bandana (“Quando suonavo, sudavo come una bestia. La mettevo per questo, mica per imitare Hendrix… ma vallo a spiegare ai critici musicali!”). Dopo il più sperimentale Astrolabio (1973, a Bambi è accreditata una Chitarra Cosmica) i Garybaldi si fermano. Lui non dà retta a De André: (“Ci siamo scolati qualche bottiglia di whisky, assieme. Mi diceva sempre: devi andare via da Genova!”) e compone il lirico, solare e sognante Bambibanda e melodie (1974), album dove è più forte l’influenza di Carlos Santana e la chitarra spazia libera su tappeti di percussioni, come nella clamorosa Pian della Tortilla.

7b2cc34a3ef4cc15828abcd4103c1d29_origIntanto il clima politico si è incattivito e Fossati mette da parte la chitarra elettrica, scomparendo un po’ dal giro: “Avevo un progetto che si chiamava Acustico Mediterraneo… ci facevamo i cazzi nostri!”. Quando torna ai watt sparati dal Marshall, la musica è cambiata ancora e il pubblico vuole ballare, figuriamoci ascoltare un improvvisatore. Sono gli anni in cui Genova conosce la crisi nera, con la ritirata del comparto siderurgico, la disoccupazione, la paralisi del porto, l’eroina che quando arriva viene venduta a troppo buon mercato per non destare qualche sospetto… Anche Bambi soffre, ed è pure genoano: “Non ci siamo ritirati: abbiamo continuato, ma in disparte… siamo così a Genova, ci nascondiamo nei caruggi”. Nelle classifiche dominano porcate sintetiche che cresceranno una generazione di zombie, ma il vero problema — pratico e quotidiano — è che non si trova più da suonare dal vivo. Bambi non ha grandi royalties da ricevere e si arrangia insegnando a suonare a tanti ragazzi, da ottimo cattivo maestro, tornando alla ribalta solo nel 1990 con il bel Bambi Fossati e Garybaldi, solido rock blues e un curioso rap in genovese. Come per tanti chitarristi di matrice hendrixiana, lo stile diventa croce e delizia. Bambi ha una sua via personale ma “se in concerto non faccio qualche cover di Jimi, mi mangiano vivo”. Seguono a distanze abbastanza regolari Bambi Comes Alive (1993) e poi, via via incattivendosi sonicamente, Blokko 45 (1996) e La ragione e il torto (2000), in uno stile che il musicista definisce “psycho metal blues”. Del resto, a differenza di tanti suoi coetanei, Bambi non si affida alla nostalgia ma ascolta cosa succede in giro ed è entusiasta dei Pantera e soprattutto dei Rage Against the Machine, micidiale miscela molotov di rap, metal e consapevolezza politica. A proposito, gli chiedo: dov’eri durante il G8? “Qui, a casa mia… in piazza a prendere le mazzate!”. Parecchie sigarette dopo, la chiacchierata finisce facendo il punto sul Sistema che lui già attaccava più di trent’anni fa: “T’incula da quando hanno inventato l’orologio. Capisci? L’universo in una sveglia!”. Lo lascio come se lo conoscessi da sempre.

Da allora, Bambi l’ho visto ancora due volte; mi sembrava stanco, alle prese con mille difficoltà, anche economiche: “Se avessi un euro per ogni sito che parla di me, sarei ricco sfondato!”. E invece…
Poi ho saputo che i Garybaldi si sono riuniti, senza di lui, purtroppo malato. Nessuno pensi a sciacallaggio, anzi: i riuniti Garybaldi — con la straordinaria chitarra di Marco Zoccheddu, un tempo Gleemen e poi con gli Osage Tribe e De André — sono un omaggio a uno dei nostri poeti, uno che ci ha fatto sognare senza usare le parole ma una chitarra.

Da ascoltare:
Nuda (1972)
Bambibanda e melodie (1974)
Da vedere:
Vicino in un momento, Dvd documentario contenuto nel Cd Note perdute (2010)
Da leggere:
Codice Zena di Riccardo Storti (2005)
Jimi Hendrix, 5 giorni a maggio — Italia 1968 di Roberto Bonanzi e Maurizio Comandini (1998)
Anni 70 — Generazione rock di Giordano Casiraghi (2005)

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La carica dei 600 https://www.carmillaonline.com/2014/03/06/13250/ Wed, 05 Mar 2014 23:10:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13250 di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla” di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla”1. Per una volta Beppe Grillo non ha postato soltanto un’ennesima boutade, ma si è avvicinato ai fatti con una certa precisione. Diamogliene atto. Anche se, dal punto di vista dell’antagonismo di classe, la questione rimane un po’ più complessa.

D’altra parte ciò che scrive sul suo blog era già stato precedentemente affermato qui, su Carmilla, proprio a proposito della Siria2. E oggi, come allora, lo scontro politico in Ucraina potrebbe sia fermarsi, e rimanere tale, sia svilupparsi in un conflitto più allargato. Ciò che conta però è la tendenza e questa rimane sicuramente, e soprattutto da parte statunitense, indirizzata verso una situazione di guerra diffusa, destinata a minare gli equilibri e gli interessi europei nel Mediterraneo e nell’Europa Orientale. Come le code di giovani nazionalisti ucraini pronti ad arruolarsi a Kiev, dopo la visita di Kerry, fanno purtroppo presagire.

Anche se qui da noi si fa a gara, nei mezzi di informazione, nel far vedere chi è più ignorante di cose ucraine3 e di tutto ciò che riguarda la storia recente e passata , dovrebbe essere chiaro che l’Ucraina e, in particolare, la penisola della Crimea costituiscono nei rapporti con la Russia un nodo sicuramente delicato, spinoso e pericoloso. Un autentico terreno minato per la politica, la diplomazia, la geopolitica e l’economia.

Qualsiasi studente che abbia terminato la quarta classe degli istituti superiori dovrebbe, infatti, sapere che uno dei conflitti più sanguinosi della metà dell’ottocento fu proprio quello che vide coinvolte Gran Bretagna, Francia e Impero Ottomano da un lato e Impero Zarista dall’altro per il controllo della penisola della Crimea e di Sebastopoli. Peccato che, troppo spesso, non si spieghi il perché di quella guerra che vide schierate su fronti opposti due potenze che dal congresso di Vienna in avanti avevano costituito il cuore politico e militare della Santa Alleanza ovvero Russia e Gran Bretagna.

Unite nella reazione e nella controrivoluzione, ma nemiche negli scopi di espansione imperiale. Unite nel reprimere qualsiasi sollevazione rivoluzionaria in Europa, ma nemiche giurate dal Caucaso all’Hindu Kush e dal Mare Mediterraneo agli oceani e ai mari del nord. Ma una domanda ancora più difficile sarebbe, per gran parte del giornalismo italiano e per gli insegnanti di storia, chiedere quali fossero, e ancora siano, i porti principali per le flotte russe e quale la loro dislocazione.

Sì, perché il rapporto della Russia, in ogni sua forma statuale (Impero, Sovietica o attuale), con il mare è stato da sempre problema di non poco conto. Impero o nazione dal territorio immenso, ma scarsamente dotato di sbocchi al mare o, per lo meno, di sbocchi al mare utili sia dal punto di vista commerciale che militare. Non per nulla fu proprio lo czar Pietro I detto il Grande a cercare di sviluppare una prima flotta russa a partire dalla fondazione di San Pietroburgo, che per quello czar avrebbe dovuto costituire lo sbocco verso il mare, e l’ammodernamento del paese, in chiave anti-svedese e di politica di potenza sul Baltico ed oltre.

Infatti uno dei motivi della cronica arretratezza dello sviluppo russo aveva, sicuramente, ed ha avuto, anche in epoca sovietica, origine nella scarsità di accessi al mare. Infatti da Atene a Roma, dal Portogallo alla Spagna e dall’Olanda alla Gran Bretagna fino agli Stati Uniti, la libertà di accesso al mare e agli oceani e il loro dominio ha sempre costituito non solo un motivo di potenza ma, anche, di sviluppo. Mentre la Russia, sicuramente imponente come potenza continentale, si è sempre vista invece relegata a pochi altri porti oltre a quelli sul Baltico, mare chiuso e talvolta gelato:

– Primi tra tutti i porti sul Mar Nero e, in particolare, oltre a quello di Odessa, in Crimea. Sostanzialmente chiusi in un mare il cui controllo sta però nelle mani della Turchia (da lì l’insanabile conflitto politico e militare tra le due nazioni di cui si è avvantaggiata da sempre la NATO), attraverso il Bosforo e poi attraverso i Dardanelli.

– Il porto di Vladivostock, in Siberia, nell’estremo oriente del paese, che costituisce il più importante (quasi unico) accesso diretto della Russia all’Oceano Pacifico, ma chiuso tra Cina, Corea del Nord e Mar del Giappone ed estremamente isolato dal resto del paese (come si dimostrò durante la guerra civile quando fu occupato da truppe canadesi, cecoslovacche, americane, giapponesi ed italiane), di cui costituisce la stazione finale della ferrovia transiberiana.

– Arcangelo, posto sul Mar Bianco e scelto nel 1693 dal solito Pietro il Grande come sede dei cantieri navali russi. Idea che fu poi superata dalla fondazione nel 1704 di San Pietroburgo poiché il porto di Arcangelo rimaneva bloccato dai ghiacci per almeno cinque mesi all’anno. Proprio questa impossibilità di navigare per lunghi periodi sul Mare di Barents e sui susseguenti Mar di Kara e sul Mar Glaciale Artico fino al Mare della Siberia Orientale e al Pacifico, spinse l’Unione Sovietica alla costruzione di navi rompighiaccio sempre più grandi e potenti, fino alle attuali a propulsione nucleare. Anche, se in anni recenti, il riscaldamento globale ha permesso alle navi russe di navigare lungo tutte le coste settentrionali fino all’Oceano per tutto l’inverno. E questo costituirà ben presto per gli americani un vero e proprio problema “ambientale”.

– A tutto ciò va poi aggiunto che se la più grande nazione del mondo è sostanzialmente sotto-popolata e la sua popolazione è principalmente concentrata nella Russia europea, ciò è dovuto alla scarsa abitabilità di un territorio, come quello siberiano, in cui la presenza del permafrost 4 impedisce la presenza di qualsiasi forma di agricoltura, con una densità media di popolazione di 2 abitanti per kmq.
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Tutto ciò dovrebbe rendere chiaro che l’accanimento politico-mediatico e militare occidentale attuale nei confronti di territori strategici per la Russia (in Siria, è già stato precedentemente detto, vi è l’unica base navale russa nel Mare Mediterraneo), non potrà essere tollerata né da Putin né da qualsiasi altro gerarca russo (compreso quel vecchio ubriacone di Boris Eltsin cui l’Occidente poté chiedere qualsiasi cosa, ma che non avrebbe mai ceduto la Crimea).
Senza contare, poi, che l’Ucraina, oltre che importante per la sua posizione geo-strategica, è anche fondamentale per la sua produzione agricola, che ne ha fatto per secoli l’autentico granaio d’Europa e della Russia.

Chi spinge, oggi, in direzione della secessione sta cercando la guerra economica e mediatica oppure, domani, guerreggiata oppure, ancora, la semplice sottomissione della Russia alle pretese americane di dominio. Non vi sono altre scuse. Dimenticando, però, che la Russia di Putin sembra poco propensa a piegarsi ai voleri della NATO e dell’Occidente, così come ha già dimostrato in Siria e col sorprendente recupero di posizionamento politico in Egitto.

Certo, la Russia può essere vista come un gigante militare dai piedi economici d’argilla, come è provato ancora in questi giorni dalle difficoltà del rublo e della borsa russa, ma il controllo dei rifornimenti di gas, dai suoi enormi giacimenti verso l’Europa, concede ai suoi governanti un significativo potere di contrattazione, anche se la crisi economica mondiale ha finito col pesare sul valore delle sue riserve di materie prime. Ma la crisi pesa anche sugli Stati Uniti che, nonostante la fasulla retorica obamiana, hanno ben poco da proporre (un miliardo di dollari di aiuti all’Ucraina quando questa ha bisogno di decine di miliardi) se non lo spettro delle sanzioni economiche e militari. Di fatto le stesse modalità operative rimaste nelle mani del leader del Cremlino.

Chi scrive sicuramente non parteggia per la Russia di Putin e, tanto meno, ha mai parteggiato per la retorica “socialista” della Russia staliniana o brezneviana, ma le scuse addotte oggi per un possibile intervento ricordano troppo il pianto sui luoghi santi non rispettati dai russi che gli inglesi usarono in preparazione della guerra di Crimea. Oggi sostituito dal solito cordoglio per la solita generica libertà offesa, dalla lotta all’omofobia o dal sabotaggio delle Olimpiadi di Sochi e del G8 ivi convocato e dal pianto di Papa Francesco per i poveri ucraini.

Come nei riti feciali dell’antica Roma, la colpevolizzazione del nemico diventa allo stesso tempo rituale e fondamentale nella preparazione della guerra. “Attraverso una vera e propria «litis contestatio», alla quale veniva chiamato, come testimone tutto il creato (dei, piante, animali, uomini, magari passanti ignari) […] e segna un momento essenziale nella vicenda di rottura tra tempo di pace e tempo di guerra5 .

Oltre a tutto ciò va ricordato che l’Ucraina ha una lunga, drammatica e contraddittoria storia: sede della prima Rus’ nel medio Evo vichingo; parte della presenza svedese in Russia in età moderna; residuo parziale (proprio in Crimea) del khanato dell’Orda d’oro; protagonista della resistenza anarchica alle truppe bianche e rosse durante la guerra civile; testimone della più grande carestia europea del ‘900 durante gli anni trenta, di grandi massacri di popolazione ebraica durante l’avanzata nazista e dei trasferimenti forzati di molti suoi abitanti di origine tedesca e tatara verso la Siberia dopo il secondo conflitto mondiale.

Ma oggi tutto questo ha poco a che fare con le rivolte e gli interventi militari. Al massimo ne costituisce lo sfondo confuso da cui è possibile trarre ogni tipo di giustificazione. Per l’uno e l’altro fronte. Quello che conta davvero è che la Crimea per la Russia è irrinunciabile e qualsiasi tentativo di strapparla alla stessa (dalla guerra del 1853 e degli anni seguenti fino alla guerra civile, quando fu sede delle armate bianche di Denikin e Wrangel) è di fatto considerato da quella nazione come una minaccia alla propria sicurezza..

Certo, la rivolta di Kiev affonda le sue radici nella corruzione dell’esecutivo e nella crisi economica e Viktor Yanukovich non ha nessun carattere in grado di suscitare la minima simpatia o giustificazione per il suo operato, ma lì i gruppi di sinistra sono stati malmenati, minacciati e costantemente allontanati dalle piazze dagli appartenenti ai gruppi paramilitari di estrema destra. Proprio là dove, come tutti ricorderanno, la “Rivoluzione arancione” di Yulia Tymoshenko aveva già costituito il modello per tutte quelle che sarebbero state le rivoluzioni telecomandate via social network che sarebbero poi diversamente esplose sulle sponde del Mediterraneo, con i risultati che tutti, oggi, possono avere facilmente sotto gli occhi. Là dove i rivoltosi di Kiev, anche quando armati di fucili di precisione sono stati compianti come vittime quasi inermi, mentre qui, in Italia, chi incendia una betoniera è accusato di terrorismo. No, c’è qualcosa che non funziona…c’è del marcio in Danimarca6 .
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L’assenza di precisi riferimenti di classe e la presenza “importante” sulla piazza di un partito di estrema destra come l’Unione Pan-Ucraina “Libertà”, meglio conosciuto come Svoboda, e il fatto che questo abbia superato nelle elezioni del 2012 il 10% dei voti, non fa presagire niente di buono e fa intravedere risvolti e collegamenti politici internazionali certamente inquietanti. E non può bastare a giustificare ciò il fatto che per decenni l’ideologia del potere nell’URSS, prima del suo disfacimento, fosse stata quella del socialismo di stato.

Si tratta forse di dover parteggiare per la Russia? Ancora, dopo l’esperienza dello stalinismo e dell’espansionismo di stampo sovietico? Sicuramente no, ma non va accettata la retorica con cui si paragona la presenza militare russa in quella penisola con le invasioni dell’Ungheria, della Cecoslovacchia o delle altre nazioni europee definite all’epoca, da Stalin e dai suoi successori, come repubbliche sorelle.

Quelle invasioni rappresentavano la sostanziale continuità politica con la Santa Alleanza ottocentesca. Solo che, dopo Yalta, gli Stati Uniti avevano sostituito la Gran Bretagna nel gioco imperiale europeo e avevano comunque visto di buon occhio, e senza muovere un dito, la repressione violentissima delle rivolte operaie di Berlino Est del 1953, di Budapest del 1956 e dei successivi moti cecoslovacchi e polacchi. Là dove occorreva schiacciare l’iniziativa autonoma di classe erano le due super-potenze ad essere davvero sorelle.

Il conflitto rimaneva e rimane sui mari e sugli altri territori, esattamente come nell’ottocento. Ma la crisi, oggi, su uno sfondo in cui la Cina si va affermando come prima potenza economica, spinge i vecchi antagonisti della guerra fredda a bluffare in maniera sempre più pericolosa, creando una situazione di tensione, cui potrebbe bastare un nonnulla per trasformarsi in un autentico conflitto. Che per gli americani risolverebbe non pochi problemi economici, soprattutto se combattuto, ancora una volta, fuori dai propri confini e, magari, nelle vesti di una guerra civile appoggiata dall’esterno. Esattamente come successe nei Balcani a partire dal 1991.

Obama ha promesso pochi giorni or sono di voler ridurre la spesa militare a quella che era prima del secondo conflitto mondiale per destinare risorse allo sviluppo della società; peccato, però, che da più di un secolo per l’economia statunitense sviluppo e guerra coincidano perfettamente. Un conflitto alle porte dell’Europa e con la Russia, o anche solo la minaccia di una sua eventualità, avrebbe come risultato immediato quello di irrigidire e precarizzare i rapporti economici tra Russia ed Europa e tra Russia e Germania, in particolare, e finirebbe con l’indebolire ulteriormente la fragile economia europea e la sua inconsistente unione politica. Tutto a vantaggio del dollaro e delle imprese americane.

Non a caso, mentre la Francia , proprio come nell’ottocento, si è schierata da subito contro la Russia, Italia e Germania tentennano. Soprattutto l’Italia che, dalla rivolta anti- Mubarak in poi, ha perso terreno in Egitto (dove era il secondo partner economico), in Libia (dove era il primo beneficiario del petrolio e del gas libico) e ora in Ucraina ( dove, ancora una volta, è il secondo partner economico). Anche se, come sempre, la classe politica più vile del mondo occidentale alla fine si schiererà con chi saprà fare la voce più grossa.

Infine, una guerra, guerreggiata o anche solo pesantemente minacciata, servirebbe ancora una volta a dividere le società europee ed i lavoratori delle stesse attraverso il peggior sciovinismo nazionalista. Per questo occorre non cadere nella trappola dello schierarsi con le forze e le potenze in campo. Tutte egualmente ambigue.
Il capitale, di qualsiasi e colore e tendenza, è nemico non solo dei lavoratori ma di tutta la specie umana, come le recenti statistiche della rivista scientifica americana Lancet, sull’aumento del 43% della mortalità infantile in Grecia dovuto alle manovre e ai tagli dettati dall’austerità europea, ben dimostrano.

Nostra patria è il mondo intero, ma il capitale ci è nemico ovunque, comunque e soprattutto in casa nostra. Perché, nonostante le convinzioni dei pacifisti integrali, il capitale significa guerra e la società capitalistica è una società costantemente in guerra: tra le imprese, le nazioni, gli imperi e, last but not least, le classi. Per questo non possiamo far altro che augurargli la fine della brigata di cavalleria leggera inglese a Balaklava, la carica dei seicento7 appunto, durante la guerra di Crimea. Fu distrutta. Amen e così sia.


  1. 1914 Sarajevo – 2014 Sebastopoli, Il blog di Beppe Grillo, 01/03/2014  

  2. War! editoriale del 10 settembre 2013  

  3. Basti pensare che Maidan Nezhaleznosti ovvero Piazza Indipendenza è ripetutamente nominata dai nostri media come Piazza Maidan, là dove “maidan” in Ucraina già significa “piazza”  

  4. Un terreno gelato tutto l’anno anche fino a 1500 metri di profondità  

  5. Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli 1966, 1970 e 1988, pag.40  

  6. William Shakespeare, Amleto, atto I, scena IV  

  7. Celebrata in un bellissimo film antimilitarista di Tony Richardson del 1968, I seicento di Balaklava e in un album di folk rock antimilitarista dei Pearls Before Swine di Tom Rapp, sempre del 1968, intitolato Balaklava  

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