G8 di Genova – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Genova 2001. Una storia del presente / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/03/06/genova-2001-una-storia-del-presente-2/ Mon, 06 Mar 2023 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76104 di Emilio Quadrelli

Stato d’eccezione

Veniamo così alla prima vera e propria giornata del Contro Vertice, il 20 luglio. La dinamica reale dei fatti, nonostante la morte di Carlo Giuliani, non sembra raccontare l’esistenza, da parte delle forze dell’ordine, di una strategia pianificata anche perché in virtù della dislocazione logistica delle manifestazioni non si mostrava realistica una pianificazione dell’attacco a tutto tondo. Troppe le manifestazioni e gli appuntamenti in giro per la città per poter pensare di trattarli come poi è avvenuto il 21. Diciamo che il 20 può essere considerato [...]]]> di Emilio Quadrelli

Stato d’eccezione

Veniamo così alla prima vera e propria giornata del Contro Vertice, il 20 luglio. La dinamica reale dei fatti, nonostante la morte di Carlo Giuliani, non sembra raccontare l’esistenza, da parte delle forze dell’ordine, di una strategia pianificata anche perché in virtù della dislocazione logistica delle manifestazioni non si mostrava realistica una pianificazione dell’attacco a tutto tondo. Troppe le manifestazioni e gli appuntamenti in giro per la città per poter pensare di trattarli come poi è avvenuto il 21. Diciamo che il 20 può essere considerato un prologo di quanto accaduto il giorno dopo ma un prologo che sicuramente ha avuto esiti contraddittori. Va rilevato infatti che, contrariamente a quanto per lo più raccontato dalla pubblicistica inerente ai fatti genovesi tutta incentrata sulla vittimizzazione del movimento, nel corso del 20 in non pochi casi non secondari spezzoni del movimento sono stati in grado di ribaltare i pronostici ovvero respingere gli attacchi delle forze dell’ordine, contrattaccare e colpire gli obiettivi che si erano prefissati. Il bilancio del 20, pertanto, non è così lineare e mostra come, a conti fatti, lo spazio metropolitano più che delle forze dell’ordine sia amico degli insorti. Ciò che sembra importante rilevare è come la giornata del 20, parafrasando Engels, abbia posto all’ordine del giorno una “nuova scienza delle barricate”1 in grado di scompaginare gli assetti militari delle forze dell’ordine. Volendo studiare, sul piano del “pensiero strategico”, quanto andato in scena il 20 luglio si potrebbe asserire che la tattica messa in campo da una parte neppure minimale dei manifestanti è stata una sorta di rivisitazione in chiave metropolitana della teoria militare di Mao e Sun Tsu2.

Quattro aspetti, in particolare, sembrano legarsi a ciò. Il primo, che assume una valenza strategica, consiste nel rovesciare completamente il frame in cui il nemico vorrebbe ascriverti ovvero prendere l’iniziativa anziché subirla quindi attaccare invece che difendersi. In questo modo, da un lato si assesta un colpo mortale di tipo cognitivo ancora prima che militare al nemico, il quale scende in campo per aggredire e non prende minimamente in considerazione l’ipotesi di essere esso stesso quello attaccato, dall’altro lo si obbliga a rincorrere in continuazione l’azione dell’avversario obbligandolo a improvvisare e impedendogli di ragionare strategicamente. Non è un caso che coloro i quali si sono mossi in una logica difensiva, anche provando a combattere, il 20 luglio siano stati massacrati. In seconda battuta l’utilizzo del territorio come risorsa. Palesemente gran parte dei gruppi che si sono battuti si sono “armati” utilizzando le cospicue risorse che la metropoli è per forza di cose costretta a fornire. Ciò ha finito con il ridicolizzare, più che le forze dell’ordine in quanto tali, l’organizzazione ipertecnologica della quale queste si fanno vanto poiché una strumentazione minima ha messo in crisi autentici Robocop e tutti i gadget a questi annessi. Il terzo elemento è stato dato dall’apparire dove le forze di polizia non se lo aspettavano, quindi agire velocemente evitando o limitando al massimo lo scontro diretto. Questa è una tattica classica del maoismo che si porta appresso un duplice effetto: colpire in piena sicurezza l’obiettivo ma, soprattutto, demoralizzare e frustare l’umore del nemico che si ritrova, di fatto, continuamente sotto scacco. Anche il quarto aspetto deve molto al maoismo. Chiunque presente nella giornata del 20 ha potuto facilmente constatare come i gruppi offensivi agissero più come plotoni che come armata ovvero marciavano divisi per colpire uniti. Il 20 il grosso dei feriti e dei prigionieri c’è stato proprio tra coloro che marciavano nei panni dell’armata la quale, in caso di attacco, avrebbe costituito la massa d’urto contro la quale le forze nemiche si sarebbero infrante. Gli esiti arcinoti degli eventi hanno dimostrato quanto irrealistica si mostrasse detta scelta strategica. A fronte dello strapotere tecnologico delle forze dell’ordine ogni anche coraggioso tentativo di difesa si è velocemente trasformato in una rotta senza capo né coda. Tutto ciò ha fatto sì che, nonostante la brutalità messa in campo e la pratica della tortura già in atto nei confronti dei prigionieri, la giornata del 20 possa essere archiviata come una giornata nella quale, per il comando internazionale del capitale molti conti sembravano non tornare. Significativo il fatto che di ciò praticamente non si parli, mentre centrale diventa il sottolineare il tratto repressivo della giornata e questo non tanto per colpevolizzare le forze dell’ordine bensì per cancellare dalla memoria l’idea stessa che lottare e vincere è possibile. Non per caso coloro i quali si sono battuti con successo sono stati bollati come provocatori, infiltrati, fascisti e via dicendo del resto è almeno da Piazza Statuto3 che questo ritornello, più ossessivo di un tormentone estivo, viene ripetuto.

Passiamo così alla fatidica data del 21 luglio. Questa è la giornata chiave del G8 genovese. Gli eventi sono di una linearità e semplicità sconcertante. Il calendario del Contro Vertice prevedeva un solo e unico appuntamento, un corteo che doveva partire dalla zona Foce4 e quindi attraversare un certo numero di vie cittadine. Nonostante quanto accaduto il giorno, non solo e soltanto in relazione alla morte di Carlo Giuliani, ma per il modo decisamente belligerante mostrato dalle forze dell’ordine, gli organizzatori ufficiali della manifestazione (ovvero il Genoa Social Forum) non adottarono nessun accorgimento di autodifesa anzi si adoperarono non poco per far sì che il corteo fosse del tutto “disarmato”. Se, per quanto in maniera grottesca, organizzarono una qualche forma di Servizio d’Ordine questo aveva il compito di isolare i “cattivi” e i “provocatori” dalla parte sana dei manifestanti. Un comportamento non così incomprensibile visto che la sera prima, di fronte al cadavere ancora caldo di Carlo Giuliani, i vertici del Genoa Social Forum si affrettarono a bollare Carlo come un “punkabbestia tossico” che nulla aveva a che vedere con la gran parte dei manifestanti. Palesemente per la dirigenza del Genoa Social Forum il problema non erano le forze dell’ordine, anche se sarebbe più sensato dire che il loro problema non era il comando internazionale del capitale poiché, in fondo, le forze dell’ordine non erano altro che il braccio militare di un cervello politico, bensì tutta quella componente dei manifestanti che il giorno prima aveva dimostrato di saper mettere i bastoni tra le ruote ai disegni del potere politico.

Il Genoa Social Forum si poneva dunque l’obiettivo di pacificare il corteo e, all’occorrenza, reprimere ogni pratica di attacco. Questo lo scenario nel quale precipitano circa 350.000 persone (questa la stima approssimativa dei partecipanti al corteo del 21) che intorno alle 15 iniziano a muoversi da Corso Italia verso Piazza Rossetti. Nelle prime 10/15 fila è concentrato il gotha del Genoa Social Forum distanziato di una ventina di metri dal resto dei manifestanti, metri che, col senno di poi, mostreranno di avere più che una ragione. Dal canto loro le forze dell’ordine, oltre a quelle tenute in riserva nelle immediate vicinanze del corteo, sono massicciamente dislocate di fronte al corteo formando un angolo retto tra Corso Italia e Piazza Rossetti dove, cioè, secondo il percorso concordato doveva svoltare e dirigersi il corteo. Altre forze visibili non sembrano essercene a parte alcuni elicotteri che svolazzano, però abbastanza alti, sul corteo. Repentinamente la testa del corteo, pressoché in solitudine, parte e, pochi metri dopo, svolta verso Piazza Rossetti mettendosi, apparentemente, in salvo. A quel punto, senza alcun motivo, tutte le forze dell’ordine schierate iniziano a sparare lacrimogeni, gli elicotteri si abbassano e anche da questi iniziano a essere sparati i candelotti mentre, come per magia, dai tetti delle case circostanti si materializzano non pochi tiratori che iniziano a fare il tiro al bersaglio contro il corteo. Questo, del tutto impreparato, sbanda paurosamente e fugge assumendo, per forza di cose, una forma goffa e scomposta. A quel punto il lancio di lacrimogeni si affievolisce e partono le cariche. Una quota di manifestanti cerca rifugio buttandosi sulle spiagge sottostanti e, a conti fatti, risulterà una delle peggiori soluzioni. Nessuno aveva fatto sicuramente caso ai gommoni che stazionavano sul mare o, se li avevano notati, pensavano che fossero i soliti gommoni che in estate pullulano nel mare cittadino. Su questi, però, non c’erano bagnanti ma forze dell’ordine le quali, appena iniziate le cariche, avevano fatto prua verso le spiagge pronte allo sbarco. Così, chi pensò di salvarsi sulle spiagge, si trovò chiuso a monte dalle cariche e a mare dalle truppe appena sbarcate. Questi saranno i primi a essere massacrati, catturati e torturati.
Il resto della giornata è un continuum di quanto appena raccontato. La Diaz5 sarà la classica ciliegina sulla torta che ben si coniuga con il prelievo e arresto dei feriti dentro gli ospedali, i lacrimogeni sparati contro le ambulanze e il sistematico pestaggio e arresto di chiunque non fosse in grado di correre abbastanza veloce. Anche se qualche forma di resistenza è stata tentata questa non ha avuto, e neppure poteva avere, alcuna incidenza sull’andamento della battaglia. Questa non poteva che essere persa in partenza poiché il modo stesso in cui la manifestazione era stata pensata e organizzata consegnava i manifestanti al nemico. Si potrebbe andare avanti ore a raccontare episodi della giornata il che, però, non modificherebbe di una virgola quanto sinteticamente descritto. La giornata del 21 vede il trionfo del Vertice nei confronti del Contro Vertice e questo è quanto.

Giunti a questo punto appare sensato provare a trarre qualche indicazione da quanto andato in scena. A molti, o almeno a quelli che per età anagrafica provenivano dagli anni Settanta, le prime cose che vennero in mente furono le immagini del golpe cileno. Una comparazione sulla quale si può ampiamente concordare poiché, nei nostri mondi, scenari simili non si erano mai visti e tanto meno dati neppure nel corso degli anni Settanta dove, per quanto di bassa intensità, l’Italia è stata attraversata dalla guerra civile. Il confronto con il Cile è quanto mai azzeccato ma non tanto per le forme di repressione riscontrate ma per ciò che queste ratificano nel rapporto tra classi dominanti e masse subalterne. A conti fatti, quanto osservato a Genova, in assoluto non è per nulla una novità, ma lo è se consideriamo il perimetro dell’Europa Occidentale e, più in generale, dell’Occidente nel suo insieme. Ciò che è andato in scena a Genova può essere considerato esattamente come la cifra della globalizzazione un’asserzione che, in prima battuta, può apparire come una boutade ma che, a uno sguardo minimamente attento, si mostra densa di non poco realismo. Ciò che è andato in scena nel corso delle giornate genovesi non testimonia niente altro che due cose: la fine della legittimità 6 storico–politica delle masse subalterne e, come diretta conseguenza di ciò, il venir meno di ogni forma di mediazione tra comando internazionale del capitale e quote sempre più alte di subalterni anche nei nostri mondi. In altre parole quel “patto socialdemocratico”7 che aveva caratterizzato il secondo dopo guerra dell’Europa Occidentale e, pur se con sfumature non secondarie, il mondo Occidentale è venuto meno. Nel momento in cui il mondo si è fatto uno a farsi egemone come modello di governo delle masse subalterne, attraverso un processo a cascata, non sono stati i diritti e le garanzie presenti in Occidente bensì le forme di dominio proprie di ciò che comunemente veniva definito Terzo mondo. A farsi egemone è stato un modello tipico del mondo coloniale dove, notoriamente, alle masse è riconosciuta voce ma non linguaggio8.
Con ciò viene meno il riconoscimento della dimensione politica dei subalterni la cui dimensione assume sempre più quella della “massa senza volto” e quindi deprivata di ogni spazio di mediazione politica e sociale9.

La topica colossale coltivata dalle organizzazioni del Genoa Social Forum è stata proprio quella di non aver letto l’oggettività di questo passaggio e aver tentato, su scala globale, la riattivazione di un “patto socialdemocratico” che il potere politico, però, non ha più nelle corde. Le giornate del G8 genovese hanno posto fine a un malinteso che il Genoa Social Forum ha coltivato, in maniera obiettivamente autistica, sino all’ultimo. Genova non ha significato la fine di tutto, la pietra tombale sul Movimento o il venir meno di ogni forma di resistenza e contrapposizione bensì l’inizio di una nuova fase del conflitto. Il G8 genovese ha sicuramente chiuso il capitolo del Novecento il che non vuol dire che abbia azzerato le contraddizioni del capitalismo e dell’imperialismo, semmai le ha amplificate. In questi venti anni abbiamo assistito a tutto tranne che a una qualche forma di pacificazione sia perché le tensioni interimperialiste hanno fatto precipitare il mondo in una guerra permanente dagli esiti incerti, sia perché movimenti di massa non secondari hanno e stanno scuotendo alla base gran parte delle certezze che l’era globale pensava di portarsi appresso. In tale ottica, allora, le ceneri del G8 sparse ai quattro venti non hanno nulla di funereo ma, con molto più realismo, appaiono come semi dell’Angelus Novus.

(Fine)


  1. Cfr. F. Engels, La questione militare e la classe operaia, Edizioni del Maquis, Milano 1977.  

  2. Mao Tse Tung, Problemi della guerra e della strategia, Casa editrice in lingue estere, Pechino 1968; Sun Tsu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano 2018.  

  3. D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Torino, Luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979; C. Bolognini, I giorni della rivolta. Quelli di piazza Statuto, Agenzia X, Milano 2018.  

  4. Zona immediatamente adiacente a Corso Italia situata in prossimità della zona Fiera e che può considerarsi come il luogo di balneazione del centro città.  

  5. Su questi eventi si possono, tra i molti, vedere: S. Mammano, Assalto alla Diaz. Stampa Alternativa, Roma 2009; A. Mantovani, Diaz. Processo alla polizia, Edizioni Fandango, Roma 2011; L. Guadagnucci, Noi della Diaz, Editrice Berti, Milano 2003.  

  6. Abbiamo provato a discutere e argomentate l’insieme di queste tematiche nei saggi raccolti in G. Bausano, E. Quadrelli, Classe, partito, guerra, Gwynplaine Edizioni, Camerano (AN) 2014.  

  7. Cfr. Thomas H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, a cura di S. Mezzadra, Editore Laterza, Roma – Bari 2002.  

  8. Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi 1995.  

  9. Ho provato a descrivere e argomentare questa condizione all’interno delle metropoli europei attraverso alcuni lavori di inchiesta in seguito alle “rivolte della banlieue” si veda, in particolare, Militanti politici di base. Banlieuesards e politica, in M. Callari Galli, (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi, Rimini 2007.  

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Genova 2001. Una storia del presente / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/03/03/genova-2001-una-storia-del-presente-1/ Fri, 03 Mar 2023 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76098 di Emilio Quadrelli

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Futuro anteriore

Uno, due, tre viva Pinochet Quattro, cinque, sei a morte gli ebrei Sette, otto, nove il negretto non commuove!

Questo il ritornello intonato a squarcia gola dalle forze dell’ordine mentre lasciavano Genova pochi giorni dopo aver “normalizzato” la città e aver garantito il buon esito e funzionamento del vertice dei grandi. [...]]]> di Emilio Quadrelli

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Futuro anteriore

Uno, due, tre viva Pinochet
Quattro, cinque, sei a morte gli ebrei
Sette, otto, nove il negretto non commuove!

Questo il ritornello intonato a squarcia gola dalle forze dell’ordine mentre lasciavano Genova pochi giorni dopo aver “normalizzato” la città e aver garantito il buon esito e funzionamento del vertice dei grandi. Su quanto accadute in quelle giornate esiste una pubblicistica corposa e sembra pertanto inutile tornarvi sopra per l’ennesima volta. Ciò su cui vale invece la pena di focalizzare l’attenzione sono alcuni aspetti rispetto ai quali, per lo più, le narrazioni costruite intorno agli eventi di “Genova 2001” si sono mostrate per lo meno lacunose e fortemente addomesticate. In primis l’attribuzione delle reali responsabilità di quanto accaduto. Come tutti ricorderanno il Governo in carica nel luglio 2001 era un Governo di centro – destra a guida Berlusconi che si era insediato da poco tempo avendo vinto le elezioni il 13 maggio entrando in carica l’11 giugno. Al momento dei fatti la destra governava da 38 giorni senza, nel frattempo, aver modificato di una sola virgola gli assetti burocratici e militari ereditati dal governo di centro – sinistra. In altre parole l’intera catena di comando politico – militare addetta alla gestione del Vertice era per intero legata al governo precedente. A conti fatti, nonostante il maccheronico decisionismo di cui Berlusconi ama ammantarsi, la decisione della quale il premier in carica e il suo Governo riuscirono a farsi interamente carico non andò oltre il posizionamento di un certo numero di fioriere al fine di rendere esteticamente più piacevoli alcune piazze della città destinate al passeggio dei “grandi della terra”, oltre all’imperativo decreto che vietava agli abitanti delle zone interessate agli eventi dei “grandi” di stendere i panni alle finestre. Infine, dato un breve sguardo ai palazzi della città, constatato che alcuni di questi si presentavano in maniera malconcia e poco decorosa Berlusconi ordinava, sicuramente con piglio ducesco, di recuperare in fretta e furia un certo numero di “teloni artistici” con i quali ricoprire le meste mura dei palazzi. Con ciò il centro storico di Genova non sarebbe diventata proprio il remake di Versailles ma per un paio di giorni il gioco, come in effetti accadde, avrebbe potuto funzionare. Questo, a conti fatti, ciò di cui si occupò concretamente il Governo di destra mentre l’intera macchina poliziesca e la pianificazione della gestione del Vertice è stata per intero farina del sacco fuoriuscito dal Governo della sinistra. Vale forse la pena di ricordare, al proposito, che il la al G8 genovese è stato dato dal Governo di D’Alema il quale, in non poche occasioni, tendeva a pavoneggiarsi mostrando il suo non secondario feeling con Condoleezza Rice feeling che, attraverso il gioco del detto e non detto, il nostro faceva intendere essere non solo di natura diplomatica e politica.

Gossip a parte resta il fatto che la macchina del G8 ha preso le mosse sin dal 1999 e dal quel momento è stata puntigliosamente oliata e perfezionata. Del resto di quanto gli “eventi genovesi” avessero ben poco di sorprendente e inaspettato è facilmente constatabile con quanto andato in scena poco tempo prima nel corso delle giornate napoletane1, con ancora il governo di centro–sinistra in carica, le quali, col senno di poi, possono considerarsi come una sorta di prova generale di Genova 2001. Detto ciò, onde evitare equivoci di sorta, occorre fare una fondamentale precisazione. Qua non si tratta, infatti, di addossare le colpe della “macelleria messicana” andata in scena a Genova al governo di centro–sinistra piuttosto che a quello di centro – destra ma di evidenziare, piuttosto, il carattere unitario del comando internazionale del capitale. Focalizzare lo sguardo su D’Alema piuttosto che su Berlusconi, o viceversa, significherebbe perimetrare gli “eventi genovesi” in un’ottica localista dimenticando che, ormai dai tempo, i governi nazionali non sono altro che semplici propaggini e appendici, con poteri decisionali sempre più limitati, di poteri sovranazionali espressioni dirette delle varie componenti del comando internazionale del capitale2. Un comando che se, nelle diverse sue articolazioni, mostra di essere tutt’altro che prono a un unico disegno, tanto che il conflitto armato interimperialistico può essere tranquillamente assunto come la cifra del presente, nel rapporto con le masse subalterne conosce una “linea di condotta” sostanzialmente unitaria. Il G8 genovese, di ciò, ne è stato l’esatta fotografia. È all’interno di questo scenario obiettivo che, allora, diventa persino semplice comprendere il senso di quelle giornate e tutto ciò che si sono portate appresso, in primis la pratica della tortura.

Un aspetto sul quale appare importante soffermarsi poiché l’utilizzo della tortura è qualcosa che va ben oltre la brutalità ma è indice di un passaggio politico a tutto tondo. Anche su questa esiste una non secondaria documentazione alla quale non si può far altro che rimandare evitando, in tal modo, di ripetere cose arcinote3. Più importante invece soffermarsi sui significati politici centrali che il passaggio alla tortura comporta poiché, il non farlo, potrebbe portare a un insieme di malintesi che finirebbero per diluire la tortura in una delle tante forme di sopraffazione poliziesca delle quali il mondo è tanto ricco quanto rigoglioso o, come nel caso genovese è stato più volte ventilato, all’iniziativa autonoma di quote di forze dell’ordine particolarmente reazionarie e prone alla violenza tanto che, commentatori tanto ingenui quanto sprovveduti, nei “fatti di Genova” hanno voluto intravedere un tentativo di golpe ordito dalle componenti filo fasciste del governo di centro – destra. Ovviamente di detto golpe non vi è stato alcun sentore così come nessuna modifica di una qualche rilevanza è andata a intaccare il quadro istituzionale. Certo il G8 genovese ha sancito un radicale passaggio nella “costituzione materiale” degli assetti del comando ma questo è un altro discorso, discorso che ben poco ha a che vedere con gli eterei mondi della politica e delle costituzioni formali ma affonda le sue ben più solide radici negli inferi della produzione4. Chiarito ciò proseguiamo.

Quello che va evidenziato, a differenza di quanto comunemente fatto dai testi e dai resoconti coevi agli eventi genovesi, il cui sguardo si è focalizzato sulla violenza e la brutalità poliziesca5, è soffermarsi su cosa racchiude in sé il passaggio alla tortura, i suoi fini e i suoi obiettivi. Il passaggio alla tortura non rappresenta il tratto sadico e in fondo irrazionale del potere politico semmai un atto estremamente lucido e consapevole frutto del più cristallino decisionismo politico. Sicuramente non sono rari i casi in cui singoli gruppi polizieschi finiscono “fuori controllo” e vanno ben oltre il loro mandato ma questo non avviene mai nel caso della tortura. La tortura non è un eccesso dettato da un particolare contesto nel quale qualcuno “perde la testa” bensì un “programma politico” che soggiace per intero a una intenzionalità fredda, priva di emotività e del tutto razionale e che, a conti fatti e in maniera lucida e sintetica, racconta come il potere politico, senza distinzioni di sorta, si relaziona alle masse subalterne o, come accaduto in passato in Italia e Germania, un modo per neutralizzare le organizzazioni rivoluzionarie e i settori operai e proletari a queste affini6.

Per comprenderlo cominciamo, intanto, con il dire che la tortura è altra cosa da quel passage à tabac espressione con la quale il milieu7 è abituato a indicare l’interrogatorio di polizia. In questo caso tabac non ha nulla a che fare con il tabacco poiché, in argot, tabac significa battere o più precisamente picchiare. Con questa espressione il milieu indica ciò che pressoché abitualmente comporta l’interrogatorio di polizia. Nonostante, da tempo, una serie inesauribile di fiction come per esempio Il Commissario Montalbano o Il maresciallo Rocca abbiano propagandato un’immagine assolutamente prona alla correttezza formale e a un trattamento scevro da qualunque brutalità da parte delle forze dell’ordine, il prosaico realismo consegnatoci dall’espressione cara al milieu rimane il permanente sfondo dell’interrogatorio di polizia. Al proposito vale sicuramente la pena di ricordare che è abitudine, tra coloro i quali corrono il rischio di incappare in un fermo o un arresto di girare con una lametta a portata di mano, solitamente nella bocca, in modo da potersi procurare all’occorrenza una certa quantità di lesioni in modo tale da interrompere l’interrogatorio e accedere al ricovero ospedaliero. In altre circostanze, invece, chi non ha lamette a disposizione cerca di tagliarsi, o procurarsi vistose lesioni, buttandosi contro una finestra e, attraverso questa via estrema, porre fine all’interrogatorio e trovare rifugio in un Pronto soccorso8. Tutto ciò per dire che la violenza da parte delle forze dell’ordine non è certo una eccezione ma una costante se non proprio certa, assai probabile. Tuttavia siamo ben distanti dal poter considerare tutto questo alla stregua di tortura anche perché, notoriamente, per i torturati l’escamotage dell’autolesionismo e conseguente ricovero ospedaliero non è certo una carta giocabile. Il fatto stesso che la polizia, di fronte a lesioni e ferite, si fermi indica come, per quanto brutale e violento, al passage à tabac non è consentito varcare una certa soglia. Perché vi sia tortura, per prima cosa e anche indipendentemente dal livello di violenza esercitata, occorre che vi sia una decisione politica ovvero che la violenza non sia il frutto della libera iniziativa di questo o quel funzionario ma che la decisione della violenza e delle sue forme appartenga per intero allo Stato. Non si tratta di una sottigliezza ma di un passaggio nodale.

Nel caso della violenza, che in certi casi può assumere anche gli aspetti propri della tortura, frutto dell’abitudine costume poliziesco non vi è una regia centralizzata e un obiettivo politico da raggiungere mentre, quando la violenza è il frutto di una decisione politicamente centralizzata, il tutto ruota intorno al raggiungimento di precisi obiettivi politici. La tortura, e ne è un aspetto sicuramente non secondario, è finalizzata a far parlare il soggetto/oggetto inquisito ma non solo e anzi, come il G8 genovese ha ampiamente testimoniato, l’obiettivo perseguito non ha nulla a che vedere con il reperimento di informazioni. Scopo principale della tortura è spezzare e annullare l’identità politica e sociale del torturato, annichilirlo e terrorizzarlo e per questo il suo livello di violenza, a trecentosessanta gradi, è incommensurabile al più noto passage à tabac.

Per i mondi illegali e per le stesse forze di polizia, a conti fatti, il passage à tabac rappresenta una prova e un rito di passaggio. Attraverso di questo si pesa il soggetto con il quale si ha a che fare, lo si classifica. Chi passa la prova dal milieu sarà considerato un “bravo ragazzo”, uno del quale ci si può fidare mentre, da parte poliziesca, sarà archiviato come uno che non parla e con il quale non è il caso di perdere troppo tempo. Certo tutto ciò non fornisce la certezza di non dover più passare attraverso quell’esperienza ma sicuramente un po’ l’allontana. In ogni caso il passage à tabac ha come sola e unica finalità la confessione e la delazione nei confronti dei possibili complici, la tortura va di gran lunga oltre. Per quanto il reperimento di informazioni rimanga un suo obiettivo si può arrivare a dire che, per certi versi, questo è ciò che sta in superficie ma il vero scopo della tortura è distruggere e piegare l’anima del prigioniero. L’uso del terrore mira esattamente a ciò. Quanto andato in scena a Genova ne rappresenta non solo una eccellente esemplificazione ma un vero e proprio paradigma. Banalmente ai prigionieri non doveva essere estorta alcuna informazione, nulla doveva essere scoperto, nessun ipotetico complice doveva essere identificato, alcun piano sventato tanto che i prigionieri non sono stati sottoposti a interrogatorio ma “semplicemente” brutalizzati e terrorizzati. Se, in qualche modo, erano entrati nelle caserme pensando che un altro mondo è possibile, dovevano uscirne non solo sapendo che nessun altro mondo era possibile ma talmente piegati e terrorizzati da non poter neppur pensare a qualcosa di diverso. Ogni forma di resistenza alla globalizzazione del capitale doveva essere tanto rimossa quanto annichilita. Questo, in estrema sintesi, l’obiettivo politico perseguito dal potere politico attraverso l’uso sistematico della tortura. Del resto il fatto che oggetti della tortura fossero gli stessi gruppi pacifisti e di ispirazione religiosa qualcosa ha ben voluto dire9. Ciò che doveva essere estirpato era qualunque forma di “pensiero critico” nei confronti della globalizzazione del capitale e del pensiero unico che questa si porta appresso.

L’abito fa il monaco

Ma questo scenario era così imprevedibile? Di quanto andato in scena, nelle giornate immediatamente a ridosso del Vertice, era così impossibile averne un qualche sentore oppure, al contrario, non pochi indizi potevano far presupporre che le giornate del Vertice sarebbero state tutto tranne che un pranzo di gala? Ciò che si stava verificando in città mentre le date del Vertice si avvicinavano non dava alcun segnale di ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto? Il clima che si respirava in città, e in particolare nella zona centrale che di lì a poco sarebbe diventata addirittura non transitabili e gli stessi residenti, se non muniti di uno speciale lasciapassare, costretti a rimanervi segregati, era cosi sereno? Perché, a conti fatti, come autentici dilettanti allo sbaraglio gli organizzatori ufficiali del Contro Vertice, ovvero tutte quelle organizzazioni confluite nel Genoa Social Forum 10, hanno obiettivamente mandato al macello centinaia di migliaia di persone? Di quale malinteso, a conti fatti, la tragicità delle giornate genovesi è stato l’effetto? Fatale, in tutto ciò, è la cornice teorico – politica che ha fatto da sfondo all’organizzazione del Contro Vertice la quale, proprio in quelle giornate, ha conosciuto, insieme alla sua più radicale smentita, il suo inevitabile declino11. Prima di affrontare i guasti di detta ipotesi politica caliamoci un attimo nel mondo empirico partendo con la descrizione del fenomeno, il quale notoriamente è più ricco della legge, per passare poi a una sintetica disamina delle fatidiche giornate. Un piccolo resoconto etnografico può già fornire l’idea di che cosa stesse bollendo in pentola. Si tratta di un episodio, persino divertente, che mi ha visto coinvolto in prima persona e del quale ho un ricordo più che nitido, episodio avvenuto quattro giorni prima che le giornate del Contro Vertice prendessero le mosse, parliamo quindi del quindici luglio.

A fine giugno avevo partecipato al Campionato europeo di powerlifting tenutosi a Londra. Campionato che, anche un po’ fortunosamente, avevo vinto. Avevo gareggiato nella categoria dei novanta chili rientrandovi con una qualche fatica per cui due settimane dopo ero sicuramente più pesante di almeno tre o quattro chili ma in buona forma. Diciamo che per strada non era proprio facile passare inosservati. A questa massa non proprio rientrante nella norma va aggiunto un abbigliamento altrettanto poco convenzionale, ovvero il tipico look da palestra insieme agli inevitabili capelli rasati. Così combinato,insieme a un cucciolo che a dieci mesi pesava già quaranta chili e sembrava avere il classico argento vivo addosso, entro nel labirinto dei vicoli del Centro storico cittadino per fare la spesa. Imboccata via san Luca12 incrocio un gruppo di ragazze e ragazzi con un cucciolo di labrador. I due cani iniziano a giocare dando vita alla classica situazione nella quale cuccioli particolarmente giocosi si incontrano e finiscono con l’attirare l’attenzione dei passanti. Il gruppo è formato da due ragazze e tre ragazzi con una età che, a occhio, poteva andare tra i diciotto e i venti anni. Dall’aspetto, ossia taglio dei capelli, vestiario e zainetti incarnano il modello idealtipico del no global radicale ma non troppo. Non hanno facce da strada e non sembrano neppure appartenere a quei settori giovanili di “classe operaia dura” abitualmente presente tra i vicoli dell’angiporto. I loro modi sono gentili ed educati e assai consoni a chi può vantare più una lunga militanza tra i boy scout e le associazioni di volontariato che tra le file di un qualche gruppo duro, radicale e pronto allo scontro di piazza. La loro aria ha ben poco di coatto o sgamato piuttosto quella dello sprovveduto che attraversa luoghi a lui sostanzialmente estranei come del resto, ancora nel 2001, il Centro storico poteva presentarsi. Se nel look, in qualche modo, possono vantare anche una vaga affinità con i punk-bestia questa è la medesima che poteva avvicinare i lettori di “Noi giovani”13 con la beat generation!. Finita questa sintetica descrizione riprendiamo il racconto.

Mentre i cani giocano con l’inevitabile intreccio dei guinzagli e via dicendo veniamo letteralmente circondati da una decina di poliziotti che in maniera decisamente brusca ci chiedono i documenti. I tipi sono decisamente esagitati e sopra le righe come se tra noi avessero individuato Matteo Messina Denaro o qualcuno di calibro affine. L’attenzione si concentra immediatamente sui ragazzini, mentre io vengo tenuto in disparte, i quali vengono attaccati al muro e perquisiti, ragazze comprese anche se, di norma, avrebbero dovute essere perquisite da un agente donna ma evidentemente i nostri, anche se a modo loro, erano già post gender. Ovviamente, nei confronti delle ragazze, non mancano una serie di apprezzamenti sessisti mentre i ragazzini vengono apostrofati, con battute come frocetti e via dicendo. La perquisizione corporale ovviamente non porta a nulla e quindi l’attenzione passa agli zainetti il cui contenuto viene rovesciato con sfregio in mezzo a via san Luca. Da un paio di questi fuoriescono dei libri alla vista dei quali delle 44 Magnum o delle P38 avrebbero suscitato una reazione decisamente più composta. Iniziano così una serie di tiritere sugli studenti e gli intellettuali sulle quali non è il caso di soffermarsi poiché sono l’esatta fotocopia delle tradizionali retoriche plebee rivolte al ceto intellettuale14.

La cosa dura una buona mezz’ora poi, tenendoli sempre attaccati al muro, passano al controllo dei documenti via centrale. In mezzo a tutto ciò vi sono una serie di dichiarazioni che, senza che la fantasia debba intervenire, fanno ben capire cosa si sta profilando all’orizzonte. Alla fine li mollano dicendogli: Tanto il culo ve lo spacchiamo tra qualche giorno. A quel punto rimango solo io e già sto immaginando che sarò fermato, portato in Questura e chi più ne ha più ne metta. Soprattutto sono preoccupato per il cane e sto pensando di lasciarlo alla mia parrucchiera di fiducia che fortunatamente è nelle immediate vicinanze . Faccio per mettere mano al portafoglio per mostrare i documenti e, con non poca sorpresa ma anche molto sollevato, incontro lo sguardo amicale del poliziotto che mi dice: Ma figurati, tu non sei come quelli là. Ringrazio e, con molta calma e ricambiando il sorriso, mi dirigo verso un negozio vicino per completare la spesa. Tutto ciò non deve stupire perché, come ha evidenziato la ricerca sociologica, l’aspetto di una persona influisce notevolmente sui comportamenti delle forze dell’ordine15. Nell’azione della polizia vi è sempre uno sfondo antropologico originato da un insieme di pregiudizi proprio delle retoriche di senso comune16 come, del resto, è ogni giorno facilmente constatabile osservando i comportamenti polizieschi nei confronti della popolazione immigrata17.

Questo episodio, è bene sottolinearlo, è stato tutto tranne che un caso isolato. La caccia al no global era palesemente dichiarata e che la caccia avrebbe preso le sembianze della guerra qualcosa di più di una semplice ipotesi di scuola. Di ciò se ne è avuta una corposa conferma nelle giornate successive, soprattutto in quella del 21. Sull’andamento differenziato delle giornate occorre soffermarsi poiché sono in grado di raccontare qualcosa di non convenzionale che la narrazione ufficiale intorno al G8 ha per lo più eluso. Come noto, in realtà, le giornate sono state tre e non due anche se, quella del 19 luglio incentrata principalmente sulla “questione immigrazione”, è stata una manifestazione più ufficiosa che ufficiale. Questa giornata, con tantissima partecipazione anche se una parte consistente dei manifestanti era ancora in viaggio verso Genova, si è svolta senza incidenti e, almeno, in merito al discorso che stiamo facendo non vi un granché da dire. Spiccava, certamente, il numero impressionante di forze dell’ordine disseminate lungo il percorso del corteo, il loro fare piuttosto aggressivo il che, solo con il senno del poi, poteva interpretarsi come una avvisaglia, ancora sul piano del simbolico, di ciò che i giorni successivi portavano in grembo. Il 19, in ogni caso, fila liscia e si conclude il Piazzale Kennedy18 con un comizio di alcuni esponenti del Genoa Social Forum e il concerto dell’icona no global del momento, Manu Chao. Nel corso della serata si svolge anche una riunione “informale” dei responsabili organizzativi delle varie componenti del Genoa Social Forum ed è una riunione interessante perché mostra la totale incomprensione di questi nei confronti della realtà e delle dinamiche che di lì a qualche ora i manifestanti si troveranno a affrontare. Per farla breve nessuno ipotizza la possibilità di un attacco di una qualche consistenza da parte delle forze dell’ordine e l’unico problema che viene posto è il controllo dei gruppi che stanno fuori dal perimetro del Genoa Social Forum. Nessuna organizzazione dispone di una struttura “militante” anche perché tra le tante perle teoriche elaborate comunemente dalle componenti del Genoa Social Forum vi è proprio la critica, il rifiuto e la condanna di tutte quelle pratiche “novecentesche” sulle quali il Movimento dei Movimenti è stato in grado di porre, senza rimpianti di sorta, la parola fine. Questo il frame analitico con il quale gli organizzatori si apprestano a affrontare le giornate successive.

(Fine prima parte – continua)


  1. Al proposito si veda: Rete no global, Zona rossa. Le “quattro giornate di Napoli” contro il global forum, Derive Approdi, Roma 2002  

  2. Per una discussione a trecentosessanta gradi su questo aspetto si possono vedere: Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Editore Laterza, Roma – Bari 2001; U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999; D. Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano 1993; A. Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, il Mulino, Bologna 2000; R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste 1999.  

  3. Ho provato a discutere la “questione tortura” in E. Quadrelli, Algeria 1962 – 2012: una storia del presente, La Casa Usher, Firenze 2012.  

  4. In fondo, come di sovente accade, occorre tornare a Marx per comprendere ciò che accade nel mondo reale e non farsi irretire dalle parvenze celestiali proprie delle retoriche politiche. Paradigmatico, al proposito, rimane il noto capitolo ventiquattresimo , “La cosiddetta accumulazione originaria” de Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1989.  

  5. Si veda, per esempio, M. Calandri, Bolzaneto. La mattanza della democrazia, Derive Approdi, Roma 2008.  

  6. Su questo aspetto si veda soprattutto Progetto memoria. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, Roma 1998.  

  7. Si tratta del termine gergale utilizzato in Francia per indicare gli appartenenti ai mondi illegali. Ancorché in chiave romanzata un buon testo in grado di rendere in maniera assai realistica il mondo del milieu rimane, G. Carlo Fusco, Duri a Marsiglia, Einaudi, Torino 2005.  

  8. Cfr., E. Quadrelli, Andare ai resti, Derive Approdi, Roma 2004.  

  9. Questo il trattamento riservato a tutte quelle realtà pacifiste e religiose che avevano dato vita alla Rete Lilliput, cfr. “Polizia carica manifestanti a mani alzate”, in web.peacelink.it  

  10. Cfr. P. Ceri, La democrazia dei movimenti, Rubettino Editore, Soveria Mannelli (Cz) 2003; A. Ginori (a cura di), Le parole di Genova, Fandango Editore, Roma 2002.  

  11. L’egemonia teorica e culturale all’interno del Genoa Social Forum è stata esercitata dal discorso post-operaista e da un testo, M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002, uscito in francese nel 2001 e ampiamente diffuso, almeno nelle sue linee essenziali, sia nei circuiti legati direttamente ai mondi del post-operaismo sia all’interno dell’area politica e sociale influenzata da Rifondazione comunista e i Giovani comunisti. Sotto il profilo organizzativo a Genova l’area post-operaista si caratterizzò attraverso l’esperienza delle “Tute bianche”, cfr., A. Fumagalli, M. Lazzarato, Tute bianche. Disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza, Derive Approdi, Roma 2002. Il G8 significò l’obiettivo declino di questa ipotesi la quale, da quel momento in poi, perse gran parte della sua dimensione di massa per farsi sempre più appannaggio di ristretti cenacoli accademici. 

  12. Una via situata proprio nel cuore del centro storico genovese e oggi molto frequentata dai turisti in quanto prossima alla zona Acquario, Casa di Mazzini e i vicoli del “Ghetto” che Fabrizio De Andrè ha reso noti al mondo.  

  13. Rivista patinata degli anni Sessanta che occhieggiava, in un ottica assolutamente perbenista, agli aspetti più frivoli e indolori della contro – cultura propria della beat generation. Non è casuale che il loro modello di riferimento fossero i Beatles mentre i Rolling Stones venissero praticamente ignorati.  

  14. Su questo aspetto rimane fondamentale, G.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Editore Laterza, Roma – Bari 1988.  

  15. Su questo aspetto rimane centrale il saggio di, H. Sacks, Come la polizia valuta la moralità delle persone basandosi sul loro aspetto, in P.P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, il Mulino 1983.  

  16. Cfr., C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1973.  

  17. Cfr. E. Quadrelli, Stranieri in carcere: una ricerca etnografica, in, adir.unifi.it L’altro diritto, Firenze 1999.  

  18. Piazzale antistante alla “zona fiera” nota soprattutto perché ospita annualmente il salone della nautica.  

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Cronaca di una sconfitta (nascosta sotto un cumulo di menzogne) https://www.carmillaonline.com/2021/11/24/cronaca-di-una-sconfitta-nascosta-sotto-un-cumulo-di-menzogne/ Wed, 24 Nov 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69228 di Sandro Moiso

“Nella inconcepibile finitezza dell’universo non vi è nulla di nuovo, nulla di differente. E’ una questione di statistica e ciò che può apparire eccezionale alla ristretta mente dell’uomo appare inevitabile all’infinito […]. Quel che sembra un fatto unico può essere un luogo comune. […] questo avvenimento inconsueto, queste impressionanti coincidenze di luogo, di possibilità, di corsi e ricorsi, tutto questo si può ripetere con straordinaria esattezza e precisione più e più volte sul pianeta di un sistema solare della Galassia che compie un solo movimento di rotazione ogni duecento [...]]]> di Sandro Moiso

“Nella inconcepibile finitezza dell’universo non vi è nulla di nuovo, nulla di differente. E’ una questione di statistica e ciò che può apparire eccezionale alla ristretta mente dell’uomo appare inevitabile all’infinito […]. Quel che sembra un fatto unico può essere un luogo comune. […] questo avvenimento inconsueto, queste impressionanti coincidenze di luogo, di possibilità, di corsi e ricorsi, tutto questo si può ripetere con straordinaria esattezza e precisione più e più volte sul pianeta di un sistema solare della Galassia che compie un solo movimento di rotazione ogni duecento milioni di anni e ne ha compiuti finora già nove. Vi sono stati mondi e culture, a non finire, ognuno forse sedotto dall’illusione orgogliosa di essere unico, insostituibile, irriproducibile. Ci sono stati uomini, a non finire, malati della stessa forma di megalomania da cui anche intere nazioni e mondi interi sono affetti. Ce ne saranno altri e altri ancora.” (Alfred Bester, L’uomo disintegrato, 1952)

Non vi può essere dubbio che la sconfitta, prima americana e subito dopo occidentale, in Afghanistan sia stata ancor più politica che militare. La precipitosa ritirata, che alcuni oggi vorrebbero descriverci come poco importante dal punto di vista degli interessi statunitensi, è avvenuta infatti principalmente a seguito di calcoli politici sbagliati e fiducia mal riposta nelle forze armate. Oltre che in una montagna di dollari spesi più per corrompere che per costruire una nazione.

La storia della guerra afghana, durata vent’anni, non è, però, soltanto la storia di una catastrofe militare, politica, sociale e culturale. E’ anche quella di un’enorme voragine, di un buco nero che non solo ha assorbito vite, soldati, mezzi e denaro, ma anche coscienze, illusioni, ideologie, concezioni e visioni del mondo e che ha contribuito a trasformare l’immaginario occidentale. Anche quello che si riteneva di “sinistra”, democratico o antagonista, se non marxista.

Una guerra sviluppatasi nel corso di un cambiamento tecnologico che si è fatto anche antropologico. Una svolta nella gestione dei dati e delle informazioni che, più che dar vita ad una quarta rivoluzione industriale, ha garantito al nostro avversario di sempre, l’imperialismo finanziario o il capitalismo dello sfruttamento integrale delle risorse del pianeta e della vita, una capacità di penetrazione nell’immaginario collettivo ed individuale prima inconcepibile. Arricchendo il già fin troppo condiviso ideale di progresso con le enormi bugie e falsità contenute nei vacui discorsi sui diritti umani e, da qualche tempo, sul green capitalism (come hanno ancora dimostrato il recente G20 tenutosi a Roma oppure la conferenza COP 26 di Glasgow).

Questo autentico lavaggio della coscienza collettiva, quasi si trattasse di riciclare denaro sporco, ha utilizzato strumenti nemmeno troppo complicati e neppure programmati in precedenza. Soltanto è avvenuto in un contesto in cui la soggettività è diventato un elemento assoluto e dirimente in qualsiasi contesto di discussione e dibattito. Mentre l’interesse collettivo si è pian piano trasferito a far da tappezzeria sbiadita nel salotto mediatico universale, che va dagli studi televisivi ai social presenti nei telefonini di ultima generazione, in cui siamo ormai immersi. Troppo spesso per semplice pigrizia e/o conformismo.

Così il lento movimento delle galassie sociali e delle differenti forme di produzione, destinate a scontrarsi inevitabilmente nel corso dei loro giganteschi movimenti, è stato sempre più nascosto da una miriade di individui “pensanti” che si comportano, nell’interpretare le proprie scelte e quelle altrui oppure le proprie irrinunciabili specificità, come coloro che rivendicarono fino a Galileo, e oltre, l’unicità dell’uomo e la centralità sua e del pianeta che gli è stato assegnato all’interno di un universo ridotto a pure funzione di contorno e sfondo.

D’altra parte, quando vent’anni or sono l’azione americana diede inizio al conflitto afghano, dopo aver preventivamente scacciato i sovietici da quegli stessi territori, con un’altra lunga e mai dichiarata guerra da cui sarebbero derivati sia la determinazione che la costituzione dei gruppi della galassia dell’islamismo radicale, da poco l’ultimo movimento occidentale antimperialista e internazionalista globale di un qualche peso era stato schiacciato e smembrato nelle strade di Genova, grazie non soltanto all’enorme apparato repressivo messo in atto in quei giorni, ma anche alle sue indubbie contraddizioni e agli errori di calcolo dei suoi leader.

I fatti del G8 di Genova, oltre tutto, avvennero poco prima che a Durban, in Sudafrica, dal 31 agosto all’8 settembre 2001, si svolgesse la Conferenza mondiale “contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza”. Iniziativa dell’ONU che, forse per la prima volta, vide i delegati degli Stati Uniti e di Israele ritirarsi dalla medesima in segno di rifiuto e opposizione alle risoluzioni prese dalla stessa.

Risoluzioni “morbide” che comunque individuavano nello stato di Israele il promotore dell’apartheid nei confronti dei palestinesi e, in secondo luogo e senza la richiesta di risarcimenti come invece era stato inizialmente previsto, nella schiavitù e nel razzismo un crimine perpetuato fin dal passato negli Stati Uniti (oltre che in altri contesti), ma che bastarono a suscitare lo scandalo tra i principali rappresentanti dell’imperialismo e del sionismo.

Nemmeno due settimane dopo le torri gemelle sarebbero crollate sotto l’effetto di un attacco terroristico che più che in Afghanistan avrebbe trovato supporto, come dimostrano i documenti appena, e solo parzialmente, desecretati dal Federal Bureau of Investigation (qui), nei servizi segreti e nei funzionari sauditi presenti sul territorio americano. Ancora ventisei giorni e, il 7 ottobre, sarebbe iniziato l’attacco americano contro l’Afghanistan e il governo degli studenti coranici (talebani).

A distanza di vent’anni si possono dunque fare considerazioni di varia natura e peso sull’ipocrisia che, allora come oggi, ha governato e governa ancora l’informazione politico-mediatica sull’argomento. La prima considerazione da fare, però, riguarda la scarsa mobilitazione contro la guerra che si ebbe fin da subito, di qua e di là dell’Atlantico; a differenza di quanto era avvenuto all’inizio degli anni Novanta in occasione della guerra del Golfo, che vide svilupparsi una forte opposizione alla stessa sia negli Stati Uniti, che in Europa e anche qui in Italia.

L’uso reiterato delle immagini del crollo delle Twin Towers aveva invece contribuito a creare un clima di sgomento e di paura che, soprattutto negli Stati Uniti e subito dopo nel resto dell’Occidente ricco, sicuro e perbenista, tagliò le gambe anche a chi in precedenza aveva manifestato contro la guerra.

La “guerra in casa” faceva paura, non c’è dubbio, e costringeva, tramite una politica della paura e della sbandierata minaccia ai “nostri” diritti, a far sì che una parte consistente della popolazione, senza alcuna differenziazione politica e/o sociale, finisse per parteggiare per gli interessi statunitensi e occidentali, ritenuti come propri.

Non era più l’anticomunismo degli anni Sessanta e Settanta a mobilitare una parte consistente dell’opinione pubblica a favore dell’intervento militare, ma la lesa maestà del diritto occidentale di dominare il mondo, anche attraverso la favola dei diritti e della libertà individuale. Narrazione trascinatasi fino ai nostri giorni, caratterizzati da una confusione ideologica e da un’ipocrisia che non ha quasi eguali nella Storia.

Un libro di Craig Whitlock, appena dato alle stampe da Newton Compton1, si occupa di far piazza pulita delle menzogne che giustificarono quell’entrata in guerra e che hanno continuato a giustificarne la continuazione nei successivi vent’anni. Con almeno tre presidenti direttamente coinvolti nella sua narrazione: George Bush Jr., Barack Obama e Donald Trump.

Craig Whitlock è un giornalista investigativo del «Washington Post», e se questo non dovesse ricordare nulla al lettore distratto sarà utile ricordargli che il «Washington Post» è proprio quel giornale che nel 1972 rivelò, nonostante le minacce presidenziali e degli uomini degli apparati a lui più vicini, lo scandalo Watergate, che portò alla richiesta di impeachment per lo stesso presidente Richard “Tricky” Nixon e alle sue dimissioni a seguito della scoperta, a partire dall’hotel Watergate di Washington, di intercettazioni condotte in segreto contro i rappresentanti del Partito Democratico ad opera di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente Nixon.

Scandalo che, in qualche modo, oscurò a livello mediatico e d’opinione quello aperto poco tempo prima dalla pubblicazione sul «New York Times» dei cosiddetti Pentagon Papers, uno studio sugli errori compiuti dal Pentagono e dal governo statunitense in Vietnam, che era stato commissionato dall’8° Segretario della Difesa statunitense Robert McNamara (in carica dal 21 gennaio 1961, sotto la presidenza di John Kennedy, al 29 febbraio 1968, sotto quella di Lyndon Johnson). Però, più che uno studio sugli errori, i Pentagon Papers, rivelati all’epoca oltre che dal «New York Times» anche dal «Washington Post», si erano trasformati in una denuncia delle menzogne messe in campo dal governo per giustificare una guerra destinata inevitabilmente alla sconfitta (oltre che a danneggiare gravemente la popolazione, l’ambiente e l’economia del Vietnam).

Non per nulla il testo di Whitlock si intitola, nell’edizione originale americana pubblicata quest’anno, Afghan Papers, proprio per richiamare alla memoria un’esperienza cui si ispira il lavoro del giornalista statunitense. Lavoro iniziato nel 2016, quando il presidente Obama, allo scadere del suo secondo mandato, non aveva ancora mantenuto le promesse di vittoria e di ritiro delle truppe precedentemente fatte. Cosa che ha permesso a Whitlock di affermare:

A quel punto io potevo vantare un’esperienza di quasi sette anni come reporter di punte del «Washington Post» nella copertura di notizie del Pentagono e dell’esercito degli Stati Uniti.
[…] Prima di ciò, ero stato per sei anni il corrispondente estero oltreoceano del «Washington Post»; avevo scritto di al-Qaeda e dei suoi affiliati terroristi in Afghanistan, Pakistan, Medio Oriente, Nord Africa e Europa.
Come molti giornalisti, sapevo che l’Afghanistan era un totale disastro. Disprezzavo le vuote dichiarazioni dell’esercito americano, in base alle quali sembrava che i progressi fossero costanti e che si fosse sulla strada giusta2.

Operazione, quella afghana, che nonostante il vasto consenso pubblico, dovuto alle motivazioni riassunte all’inizio di questo articolo, fin dall’inizio presentò qualche ombra per chi intendeva comprenderne a fondo ragioni, motivazioni, finalità e strategie reali, se è vero che, come afferma ancora Whitlock:

Due settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre, mentre gli Stati Uniti si preparavano alla guerra in Afghannistan, un giornalista pose una domanda ben precisa al segretario della Difesa Donald Rumsfeld: i funzionari americani mentono ai media sulle operazioni militari per fuorviare il nemico?
[…] Il segretario della Difesa parafrasò una citazione del primo ministro britannico Winston Churchill: «In tempo di guerra, la verità è così preziosa che dovrebbe sempre essere assistita da una guardia del corpo di bugie». […] Sembrò che Rumsfeld stesse giustificando la pratica di diffondere bugie in tempo di guerra, ma poi cambiò rotta e insistette che lui non sarebbe mai stato capace di fare una cosa del genere. «La risposta alla sua domanda è no, non credo che sia possibile», dichiarò «Non ricordo di aver mai mentito alla stampa. Non ho intenzione di farlo e direi di non aver alcun motivo di farlo. Esistono decine di modi di sottrarsi a una situazione in cui si sarebbe obbligati a mentire, e io non lo faccio»3.

Attraverso l’analisi di migliaia di documenti, interviste, memoir e anni di lavoro, Whitlock ha invece portato in piena luce e dimostrato col suo lavoro (in parte già pubblicato in una serie di articoli del «Washington Post») l’enorme cumulo di menzogne con cui il governo e l’esercito degli Stati Uniti hanno coperto una disfatta politico-militare con pochi altri precedenti nella loro storia (e in quella dell’Occidente).

Dodici giorni dopo le dichiarazioni di Donal Rumsfeld, il 7 ottobre 2001: «quando l’esercito americano iniziò a bombardare l’Afghanistan, nessuno poteva immaginare che quella missione si sarebbe trasformata nella guerra più lunga della storia americana, più lunga della Prima e della Seconda guerra mondiale e di quella del Vietnam messe insieme»4.

Guerra in cui, secondo la ricostruzione di Whitlock e le interviste rilasciate da militari e funzionari di ogni livello e grado: «A sorpresa, i generali al comando hanno ammesso di essere scesi sul campo senza una vera e propria strategia o un piano», come ha dichiarato il generale dell’esercito Dan McNeill, due volte comandante delle forze armate statunitensi durante l’amministrazione Bush. «Semplicemente non esisteva»5.

Come ha ancora aggiunto il generale britannico David Richards, a capo delle forze USA e NATO dal 2006 al 2007: «Non c’era una strategia coerente a lungo termine. Abbiamo provato a tracciare un approccio coerente a lungo termine, una vera e propria strategia, ma ci siamo ritrovati con una serie di tattiche slegate.» Oppure, come ha ammesso Richard Boucher, il principale diplomatico per l’Asia meridionale e centrale dell’amministrazione Bush: «Non sapevamo cosa stessimo facendo.» Mentre il tenente generale dell’esercito Douglas Lute, lo zar della guerra della Casa Bianca sotto le amministrazioni Bush e Obama, gli faceva eco affermando: «Non avevamo la più pallida idea di quello che stavamo facendo»6.

La costruzione di una nazione “moderna”, i diritti delle donne, la formazione di un esercito regolare e di una polizia, oltre che di un’amministrazione non corrotta non sono state altro che vuote promesse e menzogne per giustificare una guerra che, oltre alle centinaia di migliaia di vittime tra la popolazione civile, ha causato 2300 morti e 21.000 feriti, senza contare il numero infinito di traumi psicologici, tra i 775.000 soldati statunitensi che hanno prestato servizio in Afghanistan. Un prezzo altissimo per ciò che, alla fin fine si è rivelato come il più costoso perseguimento di un chimerico nulla della Storia.

I leader politici contrari al ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan si richiamano spesso alla necessità di difendere i progressi fatti in questi anni. Vediamoli rapidamente.
A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane maggiori), attribuibili al lavoro delle organizzazioni internazionali e delle ONG, non alla NATO), l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (su mille nati, 113 decessi entro il primo anno di vita), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite). Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra dell’Alleanza del Nord espressione della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo ed è lontanissimo dallo standard minimo di una Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma7.

Basterebbe poi soltanto citare la tanto sbandierata guerra alla produzione di oppio, nei suoi dati reali, per verificare come il cumulo di menzogne sia stato enorme sia durante che ancora oggi, a guerra finita:

A questo si aggiunge il sistematico coinvolgimento di tutte le autorità governative, da quelle periferiche e a quelle centrali, nel business della droga (oppio ed eroina) rifiorito dal 2001 con effetti devastati non solo nello stesso Afganistan (in dieci anni la tossicodipendenza è aumentata del 650% e oggi riguarda un afgano adulto su 12, con conseguente esplosione dell’Aids) ma anche in Occidente, compresa l’Italia, dove l’eroina proveniente dall’Afganistan si sta diffondendo tra i giovanissimi provocando un numero di vittime che non si vedeva dagli anni ’808.

Come ha confermato anche, in un articolo recente, il quotidiano francese «Le Figaro»:

c’è un’area in cui i talebani avevano sorpreso positivamente: il mullah Omar, leader supremo dei talebani, aveva imposto un divieto totale alla coltivazione del papavero da oppio nei territori sotto il loro controllo, cioè oltre il 90% del paese e il 95% della superficie coltivata dalla coltivazione del papavero. Nel maggio 2001, i talebani avevano praticamente eliminato la produzione di oppio, facendola scendere a 185 tonnellate dalle 4600 tonnellate del 1998. Questo residuo era concentrato nei territori del nord-est del paese sotto il controllo dell’Alleanza del Nord, nemici dei talebani. Tuttavia, per una sinistra ironia, durante i 20 anni della presenza americana, la produzione e il traffico di oppio sono stati ricostituiti9.

Infine, visto che se ne è fatto un gran parlare ad agosto e settembre di quest’anno, non occorre dimenticare che: «La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale in Afghanistan è il crescente numero di afgani che cerca rifugio all’estero: in Europa negli ultimi anni, tra i richiedenti asilo gli afgani sono i più numerosi dopo i siriani»10. E questo non soltanto negli ultimi mesi, come i media embedded vorrebbero far credere, ma per tutto il corso della guerra. Senza contare che molti profughi fuggiti in Pakistan hanno iniziato, dopo la ritirata occidentale, a rientrare in Afghanistan.

Sceneggiata oltre più vergognosa se si considera che, dopo gli alti lai e guaiti espressi dai media politically correct a favore dei profughi nelle prime settimane post-ritirata, l’Europa e l’Occidente intero sono ritornati ad essere quelli dei muri anti-profughi e migranti. Le lacrime di coccodrillo durano poco, come già dimostrarono le disavventure dei profughi vietnamiti negli Stati Uniti dopo il 197511. Ben accolti in quanto “collaborazionisti” agli inizi, ma poi rifiutati come immigrati e stranieri subito dopo.

L’elenco delle menzogne politiche e mediatiche potrebbe continuare all’infinito. Basti qui soltanto sottolineare che anche Donald Trump, il presidente che in maniera del tutto opportunistica ha finito col patteggiare il ritiro, poi portato a termine dall’amministrazione Biden, di fronte alla resistenza pashtun e all’avanzata talebana che in un solo anno (dal 2015 al 2016) aveva finito col passare dal 28% al 43% del territorio controllato, nell’ambito della missione di combattimento Freedom’s Sentinel, aveva deciso l’invio di ulteriori 3.500 soldati in modo da far sì che il numero complessivo delle truppe americane in Afghanistan raggiungesse i 14.500 uomini.

Va inoltre considerata la presenza di circa 23.500 contractors alle dipendenze del Pentagono (di cui 9.400 americani) impiegati a supporto delle operazioni e delle strutture militari statunitensi nel Paese, tra i quai 1.700 paramilitari (di cui 450 americani).
Tra le ipotesi allo studio dell’amministrazione Trump per il nuovo ‘surge’ c’è quella di ricorrere all’invio, invece che di truppe regolari, di un vero e proprio esercito di contractors dipendenti di compagnie militari private (PMC) da impiegare, per conto del Pentagono, in operazioni di combattimento, così da poter disporre di ‘boots on the ground’ in numero illimitato e di non dover sostenere il costo politico di ulteriori perdite di fronte a un’opinione pubblica americana stanca di questa guerra infinita12.

Menzogne sulla guerra, menzogne sul ritiro, menzogne sul e del dopoguerra.
Tornando così al testo di Withlock occorre sottolineare come, proprio all’inizio, l’autore ricordi come:

Soltanto una stampa libera e senza freni può rivalare in modo efficace i raggiri di un governo. E tra le responsabilità di una stampa libera c’è il dovere d’impedire a qualsiasi istituzione del governo di ingannare il popolo e mandarlo in terre lontane a morire di febbre, pallottole e granate straniere.
Il 30 giugno 1971, il giudice della Corte Suprema Hugo L. Black ha espresso un’opinione in tal senso nel caso New York Times Co. Contro gli Stati Uniti, noto anche come il caso Pentagon Papers. Con una votazione di sei a tre, la Corte ha stabilito che il governo degli Stati Uniti non poteva proibire al «New York Times» o al «Washington Post» i segreti del dipartimento della Difesa sulla guerra del Vietnam13.

Ancora una volta il richiamo è ai Pentagon Papers che, all’epoca della loro pubblicazione suscitarono anche l’attenzione di una delle menti più lucide del ‘900, Hannah Arendt, che sugli stessi scrisse, nel 1971, Lying in Politics. Reflections on the Pentagon Papers, una conferenza trasformata poi in un articolo pubblicato nel 1972 nella «New York Review of Books»14. Il cui tema centrale, più che la disastrosa campagna militare asiatica condotta dagli Stati Uniti, era costituito dall’uso della menzogna in politica. Era la stessa Arendt ad affermarlo:

I Pentagon Papers – ovvero il nome con cui la Storia del processo decisionale statunitense sulla politica in Vietnam in quarantasette volumi (commissionata dal segretario alla difesa Robert McNamara nel giugno del 1967 e completata un anno e mezzo dopo) è divenuta familiare fin dal giugno 1971, quando il «New York Times» pubblicò questo resoconto top secret e accuratamente dettagliato, sul ruolo che svolsero gli Stati Uniti in Indocina tra la seconda guerra mondiale e il maggio del 1968 – raccontano storie diverse e offrono differenti lezioni a lettori differenti. Alcuni sostengono di aver compreso solo ora come il Vietnam fosse il “logico” prodotto della Guerra fredda e dell’ideologia anticomunista, altri, invece, affermano che questa è un’opportunità unica per comprendere i processi decisionali del governo, ma la maggior parte dei lettori, tuttavia, concordano che la questione centrale sollevata dai Papers è l’inganno. Ad ogni modo, è abbastanza ovvio che questa fosse la questione di gran lunga più importante nella mente dei giornalisti che hanno collazionato i Pentagon Papers per il «New York Times» […] Il celebre vuoto di credibilità che ci ha accompagnato per sei lunghi anni si è improvvisamente trasformato in un abisso15.

Menzogna in politica che sempre dovrebbe suscitare scandalo e riprovazione, ma che, soprattutto nell’italietta bigotta e opportunista di ogni colore, sempre più sembra essere accettata come necessaria e inevitabile, soprattutto da quella che vorrebbe ancora definirsi come “sinistra democratica”. Al contrario, invece, nello scritto della Harendt, che dovrebbe ben essere tenuto a mente da chi questo sistema vorrebbe davvero e radicalmente cambiare, si sottolinea come la “politica della menzogna” sia stata destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale.

Ancor più interessante è il fatto che la stragrande maggioranza delle decisioni di questa disastrosa impresa sono stata prese con la piena consapevolezza che, verosimilmente, esse non avrebbero potuto venir attuate: perciò gli obiettivi dovevano mutare continuamente. Dapprima ci sono gli obiettivi annunciati pubblicamente – «vedere il popolo del Vietnam del Sud in grado di determinare il proprio futuro» o «assistere il paese nel suo tentativo di aver ragione della cospirazione comunista» oppure ancora il contenimento della Cina e il tentativo di evitare l’effetto domino, o lo sforzo di proteggere la reputazione dell’America in quanto «garante delle posizioni anti-sovversione».
[…] A partire dal 1965 la nozione di vittoria netta passò in secondo piano e l’obbiettivo divenne «convincere il nemico che non è in grado di vincere», Dal momento che il nemico non se ne convinceva, fece la comparsa il nuovo obbiettivo: «evitare una sconfitta umiliante» – come se la caratteristica principale della sconfitta in guerra fosse la semplice umiliazione. I Pentagon Papers riportano la paura ossessiva dell’impatto che avrebbe avuto una sconfitta, non sul benessere della nazione, ma «sulla reputazione degli Stati Uniti e del loro Presidente». Perciò, poco tempo dopo, nel corso di molti dibattiti riguardo l’impiego di truppe di terra contro il Vietnam del Nord, l’argomento principale non fu la paura della sconfitta e la preoccupazione circa la sorte dei soldati in caso di ritirata ma, «una volta che le truppe statunitensi sono sul territorio, sarà difficile farle ritirare senza dover ammettere la sconfitta»16.

Letti in tralice i commenti della Harendt ci rivelano tutta la debolezza e l’insicurezza dell’operare americano non solo in Vietnam, ma anche in Afghanistan. Più in profondità rivelano, però, anche tutta la prosopopea di un modo di produzione, e dei suoi governi, nel mantenere posizioni che non siano umilianti per il proprio operato (dalle guerre ai piani per il contrasto delle pandemie oppure per fermare il cambiamento climatico). Paura di un’umiliazione che in un sol colpo potrebbe rivelare non soltanto la fanfaronaggine capitalistica e occidentale, delle sue presunte capacità gestionali, militari, politiche, tecniche e scientifiche, ma anche dei poveri di spirito cospirazionisti che nel vedere in ogni azione governativa un “complotto” non contribuiscono ad altro che a ridare credibilità e forza ad un sistema intimamente anarchico e fallimentare.

Una galassia giunta ormai al termine del suo ciclo che, per ora, soltanto l’inerzia continua a far ruotare in prossimità dell’autentico buco nero che ha contribuito a creare con il suo sovrapporre menzogne, violenza, falsità e irresponsabile volontà di dominio su una materia di per sé ribelle, indocile e irriducibile alla sua volontà.

In questo sistema, cui il maquillage esperto di rappresentanti dei media ed intellettuali da strapazzo tende a dare ogni volta un aspetto diverso e “più consapevole”, in realtà a dominare, oltre alla brama di profitto e appropriazione privata, sono infatti il caso e l’ignoranza, anche ai livelli più elevati di governo, sia al centro che alla periferia dell’impero.

Nel caso della guerra in Vietnam, ci troviamo di fronte, oltre che a falsità e confusione, ad una ignoranza dello sfondo storico di riferimento davvero stupefacente e assolutamente onesto: non solo i decision-makers sembravano ignorare tutti le ben note vicende della rivoluzione cinese e la decennale rottura tra Mosca e Pechino che l’aveva preceduta, ma «nessuno al vertice era al corrente o considerava importante che i vietnamiti avessero combattuto contro invasori stranieri per almeno duemila anni» o che parlare del Vietnam come di una «piccola nazione arretrata» priva di interesse per le nazioni «civilizzate», opinione sfortunatamente condivisa anche da coloro che criticano la guerra, è in aperta contraddizione con l’antica e altamente sviluppata cultura della regione. Ciò di cui il Vietnam è privo non è certo “la cultura”, ma l’importanza strategica […] di un terreno adatto a moderni eserciti meccanizzati e di obbiettivi significativi per l’aviazione. Ciò che ha provocato la sconfitta delle politiche statunitensi e del loro intervento armato non sono state solo le paludi […] ma il volontario e deliberato disprezzo per tutti i fattori storici, politici e geografici, per più di venticinque anni17.

Le stesse parole si potrebbero ripetere esattamente per i think tank che hanno pianificato e condotto così disastrosamente la guerra afghana, ma anche per qualsiasi altra fallimentare strategia capitalistica, presente e passata, compresa la pianificazione sovietica di età staliniana.
Ci si rende così conto, allora, che la politica della paura affonda le proprie radici nella paura del fallimento insito nel cuore del colosso capitalista, che vivo può rimanere soltanto se i suoi potenziali avversari sono convinti della sua forza e capacità di previsione e organizzazione.

Così, come affermava la Arendt in chiusura del suo saggio: «Da questa storia si può concludere che quanto più successo ottiene il bugiardo, quante più persone egli ha convinto, tanto più probabile è che egli stesso finisca per credere alle proprie bugie»18. Purtroppo la trasformazione antropotecnologica, di cui si parlava all’inizio, non ha fatto altro che rafforzare tali narrazioni, false e invasive, contribuendo a renderle ancora più pervasive sia a livello di immaginario individuale che politico (qui su Carmilla).

A chi resiste, in questo autentico deserto di macerie ideologiche, politiche, etiche, militari ed economiche rappresentato dal capitalismo attuale, non resta che continuare a denunciare non solo le intenzioni e le falsità dei suoi aperti sostenitori, ma anche quelle ancora troppo spesso riferibili al campo del socialismo irrazionale degli imbecilli, già destinati alla sconfitta poiché, anche involontariamente, continuano ad operare nello stesso campo semantico e con le stesse logiche “rovesciate” dell'”avversario”. Logiche che, invece, non potranno essere soltanto “rovesciate di segno”, ma che dovranno essere annullate una volta per tutte, per permettere a ben altre galassie sociali di formarsi e vivere per un altro ciclo di tempo all’interno dell’infinito moto dell’universo.


  1. Craig Whitlock, Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti Top Secret, Newton Compton Editori, Roma 2021, pp. 350, 12,00 euro  

  2. Craig Whitlock, Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti Top Secret, Newton Compton Editori, Roma 2021, p. 9  

  3. C. Whitlock, op. cit., p. 7  

  4. Ibidem, p. 8  

  5. Ibid., p. 11  

  6. Tutte le citazioni si trovano a p. 12 del testo di Whitlock  

  7. MILEX. Osservatorio sulle spese militari italiane (a cura di), AFGHANISTAN. Sedici anni dopo, 2017, p. 11  

  8. Ivi  

  9. Bernard Frahi, “Come gli occidentali hanno permesso all’Afghanistan di diventare di nuovo il paese della droga”, «Le Figaro», 24 agosto 2021  

  10. MILEX, Afghanistan. Sedici anni dopo, op. cit, p. 11  

  11. Ben rappresentate in un film del 1985: Alamo Bay di Louis Malle  

  12. MILEX, op. cit., p.7  

  13. C. Wuitlock, op. cit., p. 6  

  14. Tradotto in Italia come: Hannah Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui “Pentagon Papers”, Casa Editrice Marietti, Milano 2006  

  15. H. Arendt, La menzogna in politica, Casa Editrice Marietti, Milano 2006, p. 7  

  16. H. Arendt, op. cit., pp. 27-29  

  17. Ibidem, p. 59  

  18. Ibid, p. 63  

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