G 20 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronaca di una sconfitta (nascosta sotto un cumulo di menzogne) https://www.carmillaonline.com/2021/11/24/cronaca-di-una-sconfitta-nascosta-sotto-un-cumulo-di-menzogne/ Wed, 24 Nov 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69228 di Sandro Moiso

“Nella inconcepibile finitezza dell’universo non vi è nulla di nuovo, nulla di differente. E’ una questione di statistica e ciò che può apparire eccezionale alla ristretta mente dell’uomo appare inevitabile all’infinito […]. Quel che sembra un fatto unico può essere un luogo comune. […] questo avvenimento inconsueto, queste impressionanti coincidenze di luogo, di possibilità, di corsi e ricorsi, tutto questo si può ripetere con straordinaria esattezza e precisione più e più volte sul pianeta di un sistema solare della Galassia che compie un solo movimento di rotazione ogni duecento [...]]]> di Sandro Moiso

“Nella inconcepibile finitezza dell’universo non vi è nulla di nuovo, nulla di differente. E’ una questione di statistica e ciò che può apparire eccezionale alla ristretta mente dell’uomo appare inevitabile all’infinito […]. Quel che sembra un fatto unico può essere un luogo comune. […] questo avvenimento inconsueto, queste impressionanti coincidenze di luogo, di possibilità, di corsi e ricorsi, tutto questo si può ripetere con straordinaria esattezza e precisione più e più volte sul pianeta di un sistema solare della Galassia che compie un solo movimento di rotazione ogni duecento milioni di anni e ne ha compiuti finora già nove. Vi sono stati mondi e culture, a non finire, ognuno forse sedotto dall’illusione orgogliosa di essere unico, insostituibile, irriproducibile. Ci sono stati uomini, a non finire, malati della stessa forma di megalomania da cui anche intere nazioni e mondi interi sono affetti. Ce ne saranno altri e altri ancora.” (Alfred Bester, L’uomo disintegrato, 1952)

Non vi può essere dubbio che la sconfitta, prima americana e subito dopo occidentale, in Afghanistan sia stata ancor più politica che militare. La precipitosa ritirata, che alcuni oggi vorrebbero descriverci come poco importante dal punto di vista degli interessi statunitensi, è avvenuta infatti principalmente a seguito di calcoli politici sbagliati e fiducia mal riposta nelle forze armate. Oltre che in una montagna di dollari spesi più per corrompere che per costruire una nazione.

La storia della guerra afghana, durata vent’anni, non è, però, soltanto la storia di una catastrofe militare, politica, sociale e culturale. E’ anche quella di un’enorme voragine, di un buco nero che non solo ha assorbito vite, soldati, mezzi e denaro, ma anche coscienze, illusioni, ideologie, concezioni e visioni del mondo e che ha contribuito a trasformare l’immaginario occidentale. Anche quello che si riteneva di “sinistra”, democratico o antagonista, se non marxista.

Una guerra sviluppatasi nel corso di un cambiamento tecnologico che si è fatto anche antropologico. Una svolta nella gestione dei dati e delle informazioni che, più che dar vita ad una quarta rivoluzione industriale, ha garantito al nostro avversario di sempre, l’imperialismo finanziario o il capitalismo dello sfruttamento integrale delle risorse del pianeta e della vita, una capacità di penetrazione nell’immaginario collettivo ed individuale prima inconcepibile. Arricchendo il già fin troppo condiviso ideale di progresso con le enormi bugie e falsità contenute nei vacui discorsi sui diritti umani e, da qualche tempo, sul green capitalism (come hanno ancora dimostrato il recente G20 tenutosi a Roma oppure la conferenza COP 26 di Glasgow).

Questo autentico lavaggio della coscienza collettiva, quasi si trattasse di riciclare denaro sporco, ha utilizzato strumenti nemmeno troppo complicati e neppure programmati in precedenza. Soltanto è avvenuto in un contesto in cui la soggettività è diventato un elemento assoluto e dirimente in qualsiasi contesto di discussione e dibattito. Mentre l’interesse collettivo si è pian piano trasferito a far da tappezzeria sbiadita nel salotto mediatico universale, che va dagli studi televisivi ai social presenti nei telefonini di ultima generazione, in cui siamo ormai immersi. Troppo spesso per semplice pigrizia e/o conformismo.

Così il lento movimento delle galassie sociali e delle differenti forme di produzione, destinate a scontrarsi inevitabilmente nel corso dei loro giganteschi movimenti, è stato sempre più nascosto da una miriade di individui “pensanti” che si comportano, nell’interpretare le proprie scelte e quelle altrui oppure le proprie irrinunciabili specificità, come coloro che rivendicarono fino a Galileo, e oltre, l’unicità dell’uomo e la centralità sua e del pianeta che gli è stato assegnato all’interno di un universo ridotto a pure funzione di contorno e sfondo.

D’altra parte, quando vent’anni or sono l’azione americana diede inizio al conflitto afghano, dopo aver preventivamente scacciato i sovietici da quegli stessi territori, con un’altra lunga e mai dichiarata guerra da cui sarebbero derivati sia la determinazione che la costituzione dei gruppi della galassia dell’islamismo radicale, da poco l’ultimo movimento occidentale antimperialista e internazionalista globale di un qualche peso era stato schiacciato e smembrato nelle strade di Genova, grazie non soltanto all’enorme apparato repressivo messo in atto in quei giorni, ma anche alle sue indubbie contraddizioni e agli errori di calcolo dei suoi leader.

I fatti del G8 di Genova, oltre tutto, avvennero poco prima che a Durban, in Sudafrica, dal 31 agosto all’8 settembre 2001, si svolgesse la Conferenza mondiale “contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza”. Iniziativa dell’ONU che, forse per la prima volta, vide i delegati degli Stati Uniti e di Israele ritirarsi dalla medesima in segno di rifiuto e opposizione alle risoluzioni prese dalla stessa.

Risoluzioni “morbide” che comunque individuavano nello stato di Israele il promotore dell’apartheid nei confronti dei palestinesi e, in secondo luogo e senza la richiesta di risarcimenti come invece era stato inizialmente previsto, nella schiavitù e nel razzismo un crimine perpetuato fin dal passato negli Stati Uniti (oltre che in altri contesti), ma che bastarono a suscitare lo scandalo tra i principali rappresentanti dell’imperialismo e del sionismo.

Nemmeno due settimane dopo le torri gemelle sarebbero crollate sotto l’effetto di un attacco terroristico che più che in Afghanistan avrebbe trovato supporto, come dimostrano i documenti appena, e solo parzialmente, desecretati dal Federal Bureau of Investigation (qui), nei servizi segreti e nei funzionari sauditi presenti sul territorio americano. Ancora ventisei giorni e, il 7 ottobre, sarebbe iniziato l’attacco americano contro l’Afghanistan e il governo degli studenti coranici (talebani).

A distanza di vent’anni si possono dunque fare considerazioni di varia natura e peso sull’ipocrisia che, allora come oggi, ha governato e governa ancora l’informazione politico-mediatica sull’argomento. La prima considerazione da fare, però, riguarda la scarsa mobilitazione contro la guerra che si ebbe fin da subito, di qua e di là dell’Atlantico; a differenza di quanto era avvenuto all’inizio degli anni Novanta in occasione della guerra del Golfo, che vide svilupparsi una forte opposizione alla stessa sia negli Stati Uniti, che in Europa e anche qui in Italia.

L’uso reiterato delle immagini del crollo delle Twin Towers aveva invece contribuito a creare un clima di sgomento e di paura che, soprattutto negli Stati Uniti e subito dopo nel resto dell’Occidente ricco, sicuro e perbenista, tagliò le gambe anche a chi in precedenza aveva manifestato contro la guerra.

La “guerra in casa” faceva paura, non c’è dubbio, e costringeva, tramite una politica della paura e della sbandierata minaccia ai “nostri” diritti, a far sì che una parte consistente della popolazione, senza alcuna differenziazione politica e/o sociale, finisse per parteggiare per gli interessi statunitensi e occidentali, ritenuti come propri.

Non era più l’anticomunismo degli anni Sessanta e Settanta a mobilitare una parte consistente dell’opinione pubblica a favore dell’intervento militare, ma la lesa maestà del diritto occidentale di dominare il mondo, anche attraverso la favola dei diritti e della libertà individuale. Narrazione trascinatasi fino ai nostri giorni, caratterizzati da una confusione ideologica e da un’ipocrisia che non ha quasi eguali nella Storia.

Un libro di Craig Whitlock, appena dato alle stampe da Newton Compton1, si occupa di far piazza pulita delle menzogne che giustificarono quell’entrata in guerra e che hanno continuato a giustificarne la continuazione nei successivi vent’anni. Con almeno tre presidenti direttamente coinvolti nella sua narrazione: George Bush Jr., Barack Obama e Donald Trump.

Craig Whitlock è un giornalista investigativo del «Washington Post», e se questo non dovesse ricordare nulla al lettore distratto sarà utile ricordargli che il «Washington Post» è proprio quel giornale che nel 1972 rivelò, nonostante le minacce presidenziali e degli uomini degli apparati a lui più vicini, lo scandalo Watergate, che portò alla richiesta di impeachment per lo stesso presidente Richard “Tricky” Nixon e alle sue dimissioni a seguito della scoperta, a partire dall’hotel Watergate di Washington, di intercettazioni condotte in segreto contro i rappresentanti del Partito Democratico ad opera di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente Nixon.

Scandalo che, in qualche modo, oscurò a livello mediatico e d’opinione quello aperto poco tempo prima dalla pubblicazione sul «New York Times» dei cosiddetti Pentagon Papers, uno studio sugli errori compiuti dal Pentagono e dal governo statunitense in Vietnam, che era stato commissionato dall’8° Segretario della Difesa statunitense Robert McNamara (in carica dal 21 gennaio 1961, sotto la presidenza di John Kennedy, al 29 febbraio 1968, sotto quella di Lyndon Johnson). Però, più che uno studio sugli errori, i Pentagon Papers, rivelati all’epoca oltre che dal «New York Times» anche dal «Washington Post», si erano trasformati in una denuncia delle menzogne messe in campo dal governo per giustificare una guerra destinata inevitabilmente alla sconfitta (oltre che a danneggiare gravemente la popolazione, l’ambiente e l’economia del Vietnam).

Non per nulla il testo di Whitlock si intitola, nell’edizione originale americana pubblicata quest’anno, Afghan Papers, proprio per richiamare alla memoria un’esperienza cui si ispira il lavoro del giornalista statunitense. Lavoro iniziato nel 2016, quando il presidente Obama, allo scadere del suo secondo mandato, non aveva ancora mantenuto le promesse di vittoria e di ritiro delle truppe precedentemente fatte. Cosa che ha permesso a Whitlock di affermare:

A quel punto io potevo vantare un’esperienza di quasi sette anni come reporter di punte del «Washington Post» nella copertura di notizie del Pentagono e dell’esercito degli Stati Uniti.
[…] Prima di ciò, ero stato per sei anni il corrispondente estero oltreoceano del «Washington Post»; avevo scritto di al-Qaeda e dei suoi affiliati terroristi in Afghanistan, Pakistan, Medio Oriente, Nord Africa e Europa.
Come molti giornalisti, sapevo che l’Afghanistan era un totale disastro. Disprezzavo le vuote dichiarazioni dell’esercito americano, in base alle quali sembrava che i progressi fossero costanti e che si fosse sulla strada giusta2.

Operazione, quella afghana, che nonostante il vasto consenso pubblico, dovuto alle motivazioni riassunte all’inizio di questo articolo, fin dall’inizio presentò qualche ombra per chi intendeva comprenderne a fondo ragioni, motivazioni, finalità e strategie reali, se è vero che, come afferma ancora Whitlock:

Due settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre, mentre gli Stati Uniti si preparavano alla guerra in Afghannistan, un giornalista pose una domanda ben precisa al segretario della Difesa Donald Rumsfeld: i funzionari americani mentono ai media sulle operazioni militari per fuorviare il nemico?
[…] Il segretario della Difesa parafrasò una citazione del primo ministro britannico Winston Churchill: «In tempo di guerra, la verità è così preziosa che dovrebbe sempre essere assistita da una guardia del corpo di bugie». […] Sembrò che Rumsfeld stesse giustificando la pratica di diffondere bugie in tempo di guerra, ma poi cambiò rotta e insistette che lui non sarebbe mai stato capace di fare una cosa del genere. «La risposta alla sua domanda è no, non credo che sia possibile», dichiarò «Non ricordo di aver mai mentito alla stampa. Non ho intenzione di farlo e direi di non aver alcun motivo di farlo. Esistono decine di modi di sottrarsi a una situazione in cui si sarebbe obbligati a mentire, e io non lo faccio»3.

Attraverso l’analisi di migliaia di documenti, interviste, memoir e anni di lavoro, Whitlock ha invece portato in piena luce e dimostrato col suo lavoro (in parte già pubblicato in una serie di articoli del «Washington Post») l’enorme cumulo di menzogne con cui il governo e l’esercito degli Stati Uniti hanno coperto una disfatta politico-militare con pochi altri precedenti nella loro storia (e in quella dell’Occidente).

Dodici giorni dopo le dichiarazioni di Donal Rumsfeld, il 7 ottobre 2001: «quando l’esercito americano iniziò a bombardare l’Afghanistan, nessuno poteva immaginare che quella missione si sarebbe trasformata nella guerra più lunga della storia americana, più lunga della Prima e della Seconda guerra mondiale e di quella del Vietnam messe insieme»4.

Guerra in cui, secondo la ricostruzione di Whitlock e le interviste rilasciate da militari e funzionari di ogni livello e grado: «A sorpresa, i generali al comando hanno ammesso di essere scesi sul campo senza una vera e propria strategia o un piano», come ha dichiarato il generale dell’esercito Dan McNeill, due volte comandante delle forze armate statunitensi durante l’amministrazione Bush. «Semplicemente non esisteva»5.

Come ha ancora aggiunto il generale britannico David Richards, a capo delle forze USA e NATO dal 2006 al 2007: «Non c’era una strategia coerente a lungo termine. Abbiamo provato a tracciare un approccio coerente a lungo termine, una vera e propria strategia, ma ci siamo ritrovati con una serie di tattiche slegate.» Oppure, come ha ammesso Richard Boucher, il principale diplomatico per l’Asia meridionale e centrale dell’amministrazione Bush: «Non sapevamo cosa stessimo facendo.» Mentre il tenente generale dell’esercito Douglas Lute, lo zar della guerra della Casa Bianca sotto le amministrazioni Bush e Obama, gli faceva eco affermando: «Non avevamo la più pallida idea di quello che stavamo facendo»6.

La costruzione di una nazione “moderna”, i diritti delle donne, la formazione di un esercito regolare e di una polizia, oltre che di un’amministrazione non corrotta non sono state altro che vuote promesse e menzogne per giustificare una guerra che, oltre alle centinaia di migliaia di vittime tra la popolazione civile, ha causato 2300 morti e 21.000 feriti, senza contare il numero infinito di traumi psicologici, tra i 775.000 soldati statunitensi che hanno prestato servizio in Afghanistan. Un prezzo altissimo per ciò che, alla fin fine si è rivelato come il più costoso perseguimento di un chimerico nulla della Storia.

I leader politici contrari al ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan si richiamano spesso alla necessità di difendere i progressi fatti in questi anni. Vediamoli rapidamente.
A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane maggiori), attribuibili al lavoro delle organizzazioni internazionali e delle ONG, non alla NATO), l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (su mille nati, 113 decessi entro il primo anno di vita), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite). Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra dell’Alleanza del Nord espressione della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo ed è lontanissimo dallo standard minimo di una Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma7.

Basterebbe poi soltanto citare la tanto sbandierata guerra alla produzione di oppio, nei suoi dati reali, per verificare come il cumulo di menzogne sia stato enorme sia durante che ancora oggi, a guerra finita:

A questo si aggiunge il sistematico coinvolgimento di tutte le autorità governative, da quelle periferiche e a quelle centrali, nel business della droga (oppio ed eroina) rifiorito dal 2001 con effetti devastati non solo nello stesso Afganistan (in dieci anni la tossicodipendenza è aumentata del 650% e oggi riguarda un afgano adulto su 12, con conseguente esplosione dell’Aids) ma anche in Occidente, compresa l’Italia, dove l’eroina proveniente dall’Afganistan si sta diffondendo tra i giovanissimi provocando un numero di vittime che non si vedeva dagli anni ’808.

Come ha confermato anche, in un articolo recente, il quotidiano francese «Le Figaro»:

c’è un’area in cui i talebani avevano sorpreso positivamente: il mullah Omar, leader supremo dei talebani, aveva imposto un divieto totale alla coltivazione del papavero da oppio nei territori sotto il loro controllo, cioè oltre il 90% del paese e il 95% della superficie coltivata dalla coltivazione del papavero. Nel maggio 2001, i talebani avevano praticamente eliminato la produzione di oppio, facendola scendere a 185 tonnellate dalle 4600 tonnellate del 1998. Questo residuo era concentrato nei territori del nord-est del paese sotto il controllo dell’Alleanza del Nord, nemici dei talebani. Tuttavia, per una sinistra ironia, durante i 20 anni della presenza americana, la produzione e il traffico di oppio sono stati ricostituiti9.

Infine, visto che se ne è fatto un gran parlare ad agosto e settembre di quest’anno, non occorre dimenticare che: «La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale in Afghanistan è il crescente numero di afgani che cerca rifugio all’estero: in Europa negli ultimi anni, tra i richiedenti asilo gli afgani sono i più numerosi dopo i siriani»10. E questo non soltanto negli ultimi mesi, come i media embedded vorrebbero far credere, ma per tutto il corso della guerra. Senza contare che molti profughi fuggiti in Pakistan hanno iniziato, dopo la ritirata occidentale, a rientrare in Afghanistan.

Sceneggiata oltre più vergognosa se si considera che, dopo gli alti lai e guaiti espressi dai media politically correct a favore dei profughi nelle prime settimane post-ritirata, l’Europa e l’Occidente intero sono ritornati ad essere quelli dei muri anti-profughi e migranti. Le lacrime di coccodrillo durano poco, come già dimostrarono le disavventure dei profughi vietnamiti negli Stati Uniti dopo il 197511. Ben accolti in quanto “collaborazionisti” agli inizi, ma poi rifiutati come immigrati e stranieri subito dopo.

L’elenco delle menzogne politiche e mediatiche potrebbe continuare all’infinito. Basti qui soltanto sottolineare che anche Donald Trump, il presidente che in maniera del tutto opportunistica ha finito col patteggiare il ritiro, poi portato a termine dall’amministrazione Biden, di fronte alla resistenza pashtun e all’avanzata talebana che in un solo anno (dal 2015 al 2016) aveva finito col passare dal 28% al 43% del territorio controllato, nell’ambito della missione di combattimento Freedom’s Sentinel, aveva deciso l’invio di ulteriori 3.500 soldati in modo da far sì che il numero complessivo delle truppe americane in Afghanistan raggiungesse i 14.500 uomini.

Va inoltre considerata la presenza di circa 23.500 contractors alle dipendenze del Pentagono (di cui 9.400 americani) impiegati a supporto delle operazioni e delle strutture militari statunitensi nel Paese, tra i quai 1.700 paramilitari (di cui 450 americani).
Tra le ipotesi allo studio dell’amministrazione Trump per il nuovo ‘surge’ c’è quella di ricorrere all’invio, invece che di truppe regolari, di un vero e proprio esercito di contractors dipendenti di compagnie militari private (PMC) da impiegare, per conto del Pentagono, in operazioni di combattimento, così da poter disporre di ‘boots on the ground’ in numero illimitato e di non dover sostenere il costo politico di ulteriori perdite di fronte a un’opinione pubblica americana stanca di questa guerra infinita12.

Menzogne sulla guerra, menzogne sul ritiro, menzogne sul e del dopoguerra.
Tornando così al testo di Withlock occorre sottolineare come, proprio all’inizio, l’autore ricordi come:

Soltanto una stampa libera e senza freni può rivalare in modo efficace i raggiri di un governo. E tra le responsabilità di una stampa libera c’è il dovere d’impedire a qualsiasi istituzione del governo di ingannare il popolo e mandarlo in terre lontane a morire di febbre, pallottole e granate straniere.
Il 30 giugno 1971, il giudice della Corte Suprema Hugo L. Black ha espresso un’opinione in tal senso nel caso New York Times Co. Contro gli Stati Uniti, noto anche come il caso Pentagon Papers. Con una votazione di sei a tre, la Corte ha stabilito che il governo degli Stati Uniti non poteva proibire al «New York Times» o al «Washington Post» i segreti del dipartimento della Difesa sulla guerra del Vietnam13.

Ancora una volta il richiamo è ai Pentagon Papers che, all’epoca della loro pubblicazione suscitarono anche l’attenzione di una delle menti più lucide del ‘900, Hannah Arendt, che sugli stessi scrisse, nel 1971, Lying in Politics. Reflections on the Pentagon Papers, una conferenza trasformata poi in un articolo pubblicato nel 1972 nella «New York Review of Books»14. Il cui tema centrale, più che la disastrosa campagna militare asiatica condotta dagli Stati Uniti, era costituito dall’uso della menzogna in politica. Era la stessa Arendt ad affermarlo:

I Pentagon Papers – ovvero il nome con cui la Storia del processo decisionale statunitense sulla politica in Vietnam in quarantasette volumi (commissionata dal segretario alla difesa Robert McNamara nel giugno del 1967 e completata un anno e mezzo dopo) è divenuta familiare fin dal giugno 1971, quando il «New York Times» pubblicò questo resoconto top secret e accuratamente dettagliato, sul ruolo che svolsero gli Stati Uniti in Indocina tra la seconda guerra mondiale e il maggio del 1968 – raccontano storie diverse e offrono differenti lezioni a lettori differenti. Alcuni sostengono di aver compreso solo ora come il Vietnam fosse il “logico” prodotto della Guerra fredda e dell’ideologia anticomunista, altri, invece, affermano che questa è un’opportunità unica per comprendere i processi decisionali del governo, ma la maggior parte dei lettori, tuttavia, concordano che la questione centrale sollevata dai Papers è l’inganno. Ad ogni modo, è abbastanza ovvio che questa fosse la questione di gran lunga più importante nella mente dei giornalisti che hanno collazionato i Pentagon Papers per il «New York Times» […] Il celebre vuoto di credibilità che ci ha accompagnato per sei lunghi anni si è improvvisamente trasformato in un abisso15.

Menzogna in politica che sempre dovrebbe suscitare scandalo e riprovazione, ma che, soprattutto nell’italietta bigotta e opportunista di ogni colore, sempre più sembra essere accettata come necessaria e inevitabile, soprattutto da quella che vorrebbe ancora definirsi come “sinistra democratica”. Al contrario, invece, nello scritto della Harendt, che dovrebbe ben essere tenuto a mente da chi questo sistema vorrebbe davvero e radicalmente cambiare, si sottolinea come la “politica della menzogna” sia stata destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale.

Ancor più interessante è il fatto che la stragrande maggioranza delle decisioni di questa disastrosa impresa sono stata prese con la piena consapevolezza che, verosimilmente, esse non avrebbero potuto venir attuate: perciò gli obiettivi dovevano mutare continuamente. Dapprima ci sono gli obiettivi annunciati pubblicamente – «vedere il popolo del Vietnam del Sud in grado di determinare il proprio futuro» o «assistere il paese nel suo tentativo di aver ragione della cospirazione comunista» oppure ancora il contenimento della Cina e il tentativo di evitare l’effetto domino, o lo sforzo di proteggere la reputazione dell’America in quanto «garante delle posizioni anti-sovversione».
[…] A partire dal 1965 la nozione di vittoria netta passò in secondo piano e l’obbiettivo divenne «convincere il nemico che non è in grado di vincere», Dal momento che il nemico non se ne convinceva, fece la comparsa il nuovo obbiettivo: «evitare una sconfitta umiliante» – come se la caratteristica principale della sconfitta in guerra fosse la semplice umiliazione. I Pentagon Papers riportano la paura ossessiva dell’impatto che avrebbe avuto una sconfitta, non sul benessere della nazione, ma «sulla reputazione degli Stati Uniti e del loro Presidente». Perciò, poco tempo dopo, nel corso di molti dibattiti riguardo l’impiego di truppe di terra contro il Vietnam del Nord, l’argomento principale non fu la paura della sconfitta e la preoccupazione circa la sorte dei soldati in caso di ritirata ma, «una volta che le truppe statunitensi sono sul territorio, sarà difficile farle ritirare senza dover ammettere la sconfitta»16.

Letti in tralice i commenti della Harendt ci rivelano tutta la debolezza e l’insicurezza dell’operare americano non solo in Vietnam, ma anche in Afghanistan. Più in profondità rivelano, però, anche tutta la prosopopea di un modo di produzione, e dei suoi governi, nel mantenere posizioni che non siano umilianti per il proprio operato (dalle guerre ai piani per il contrasto delle pandemie oppure per fermare il cambiamento climatico). Paura di un’umiliazione che in un sol colpo potrebbe rivelare non soltanto la fanfaronaggine capitalistica e occidentale, delle sue presunte capacità gestionali, militari, politiche, tecniche e scientifiche, ma anche dei poveri di spirito cospirazionisti che nel vedere in ogni azione governativa un “complotto” non contribuiscono ad altro che a ridare credibilità e forza ad un sistema intimamente anarchico e fallimentare.

Una galassia giunta ormai al termine del suo ciclo che, per ora, soltanto l’inerzia continua a far ruotare in prossimità dell’autentico buco nero che ha contribuito a creare con il suo sovrapporre menzogne, violenza, falsità e irresponsabile volontà di dominio su una materia di per sé ribelle, indocile e irriducibile alla sua volontà.

In questo sistema, cui il maquillage esperto di rappresentanti dei media ed intellettuali da strapazzo tende a dare ogni volta un aspetto diverso e “più consapevole”, in realtà a dominare, oltre alla brama di profitto e appropriazione privata, sono infatti il caso e l’ignoranza, anche ai livelli più elevati di governo, sia al centro che alla periferia dell’impero.

Nel caso della guerra in Vietnam, ci troviamo di fronte, oltre che a falsità e confusione, ad una ignoranza dello sfondo storico di riferimento davvero stupefacente e assolutamente onesto: non solo i decision-makers sembravano ignorare tutti le ben note vicende della rivoluzione cinese e la decennale rottura tra Mosca e Pechino che l’aveva preceduta, ma «nessuno al vertice era al corrente o considerava importante che i vietnamiti avessero combattuto contro invasori stranieri per almeno duemila anni» o che parlare del Vietnam come di una «piccola nazione arretrata» priva di interesse per le nazioni «civilizzate», opinione sfortunatamente condivisa anche da coloro che criticano la guerra, è in aperta contraddizione con l’antica e altamente sviluppata cultura della regione. Ciò di cui il Vietnam è privo non è certo “la cultura”, ma l’importanza strategica […] di un terreno adatto a moderni eserciti meccanizzati e di obbiettivi significativi per l’aviazione. Ciò che ha provocato la sconfitta delle politiche statunitensi e del loro intervento armato non sono state solo le paludi […] ma il volontario e deliberato disprezzo per tutti i fattori storici, politici e geografici, per più di venticinque anni17.

Le stesse parole si potrebbero ripetere esattamente per i think tank che hanno pianificato e condotto così disastrosamente la guerra afghana, ma anche per qualsiasi altra fallimentare strategia capitalistica, presente e passata, compresa la pianificazione sovietica di età staliniana.
Ci si rende così conto, allora, che la politica della paura affonda le proprie radici nella paura del fallimento insito nel cuore del colosso capitalista, che vivo può rimanere soltanto se i suoi potenziali avversari sono convinti della sua forza e capacità di previsione e organizzazione.

Così, come affermava la Arendt in chiusura del suo saggio: «Da questa storia si può concludere che quanto più successo ottiene il bugiardo, quante più persone egli ha convinto, tanto più probabile è che egli stesso finisca per credere alle proprie bugie»18. Purtroppo la trasformazione antropotecnologica, di cui si parlava all’inizio, non ha fatto altro che rafforzare tali narrazioni, false e invasive, contribuendo a renderle ancora più pervasive sia a livello di immaginario individuale che politico (qui su Carmilla).

A chi resiste, in questo autentico deserto di macerie ideologiche, politiche, etiche, militari ed economiche rappresentato dal capitalismo attuale, non resta che continuare a denunciare non solo le intenzioni e le falsità dei suoi aperti sostenitori, ma anche quelle ancora troppo spesso riferibili al campo del socialismo irrazionale degli imbecilli, già destinati alla sconfitta poiché, anche involontariamente, continuano ad operare nello stesso campo semantico e con le stesse logiche “rovesciate” dell'”avversario”. Logiche che, invece, non potranno essere soltanto “rovesciate di segno”, ma che dovranno essere annullate una volta per tutte, per permettere a ben altre galassie sociali di formarsi e vivere per un altro ciclo di tempo all’interno dell’infinito moto dell’universo.


  1. Craig Whitlock, Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti Top Secret, Newton Compton Editori, Roma 2021, pp. 350, 12,00 euro  

  2. Craig Whitlock, Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti Top Secret, Newton Compton Editori, Roma 2021, p. 9  

  3. C. Whitlock, op. cit., p. 7  

  4. Ibidem, p. 8  

  5. Ibid., p. 11  

  6. Tutte le citazioni si trovano a p. 12 del testo di Whitlock  

  7. MILEX. Osservatorio sulle spese militari italiane (a cura di), AFGHANISTAN. Sedici anni dopo, 2017, p. 11  

  8. Ivi  

  9. Bernard Frahi, “Come gli occidentali hanno permesso all’Afghanistan di diventare di nuovo il paese della droga”, «Le Figaro», 24 agosto 2021  

  10. MILEX, Afghanistan. Sedici anni dopo, op. cit, p. 11  

  11. Ben rappresentate in un film del 1985: Alamo Bay di Louis Malle  

  12. MILEX, op. cit., p.7  

  13. C. Wuitlock, op. cit., p. 6  

  14. Tradotto in Italia come: Hannah Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui “Pentagon Papers”, Casa Editrice Marietti, Milano 2006  

  15. H. Arendt, La menzogna in politica, Casa Editrice Marietti, Milano 2006, p. 7  

  16. H. Arendt, op. cit., pp. 27-29  

  17. Ibidem, p. 59  

  18. Ibid, p. 63  

]]>
War! https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ Mon, 09 Sep 2013 23:00:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9243 di Sandro Moiso

Strangelove“War / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della [...]]]> di Sandro Moiso

StrangeloveWar / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della storia sono più vicini a quelli della tettonica a zolle piuttosto che a quelli (fasulli) di Italo e dell’alta velocità.

Accade così che l’opinione pubblica come si stupisce, immancabilmente e ogni volta, di fronte al fatto che città costruite lungo la faglia adriatica siano destinate, prima o poi, a soccombere sotto la furia di “imprevedibili” terremoti, altrettanto  si stupisca di fronte al fatto di trovarsi davanti al pericolo di un nuovo, imponente, devastante e altrettanto “imprevedibile” conflitto mondiale.

Ciò non sarebbe grave se lo stupore riguardasse soltanto la tanto denigrata pubblica opinione e l’arrendevolezza mentale al quieto vivere dettato dai media di ogni formato, ma lo diventa quando tale sorpresa riguarda anche chi di tale modello di pensiero quieto dovrebbe farsi critico o antagonista. Così, per decenni, una certa sinistra, da quella democratica e riformista fino a certe frange della cosiddetta estrema sinistra, ha potuto crogiolarsi nell’illusione che la guerra, come strumento di risoluzione delle contraddizioni dell’imperialismo, fosse ormai superata.

Sì, certo, poteva svilupparsi qua e là in giro per il mondo sotto forma di scontro tra stati e regimi sottomessi all’impero della finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi e i popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per dio, sempre a casa d’altri. Non ora, non qui.

Come se il Mediterraneo fosse lontano, come se i Balcani appartenessero a un altro continente, come se i paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente si trovassero su un altro pianeta. Già: non adesso, non qui a casa nostra. Eppure, eppure… il rischio di un conflitto allargato, destinato a coinvolgere anche e, soprattutto, tutte le grandi potenze è esploso letteralmente tra le mani di capi di stato, di uomini politici di piccola e media statura, di esperti (quanto?) di affari internazionali, di analisti politici e vassalli dell’informazione di regime, degli imprenditori e, anche, del clero e dei suoi massimi vertici.

Tutti a dire: ”sì, un po’ di guerra ci va bene…anzi è essenziale per i nostri affari, ma dislocata un po’ più in là e con motivazioni condivisibili”. Da lì l’eterna e mefitica barzelletta delle guerre umanitarie, delle operazioni di polizia internazionale, delle missioni di pace ONU e così via. Mentre chi da tempo indicava la guerra come fase ultima della risoluzione dei conflitti economici e sociali scatenati dalle brame capitalistico-finanziarie finiva con l’essere indicato, a seconda delle occasioni, come visionario, profeta di disgrazie o portavoce di una concezione politica ormai definitivamente morta e sepolta.

Così da un lato si è finiti spesso col cadere in una passiva accettazione dello status quo dettato dall’immagine che lo stesso ordine capitalistico voleva e vuole dare di sé e dall’altro nell’eleggere la volontà del capitale a forza capace di  dominare le proprie, inevitabili contraddizioni (Trilateral, G 8 – 10 – 20 oppure SIM – Stato Imperialista delle Multinazionali). Posizioni, a sinistra, che finiscono col riflettersi specularmente l’una nell’altra e destinate a far cadere quel potente baluardo di classe sempre rappresentato dall’antimilitarismo attivo e cosciente.

Non è un caso che in questi giorni agitati, mentre gli italiani continuano a trascorrere lieti week-end estasiati di fronte alle vetrine dei negozi che riaprono per la stagione autunno-inverno, l’unica forza che si è mobilitata davanti al pericolo di una nuova guerra sia stata quella della Chiesa e del pacifismo di stampo cattolico. Forza che oltre a perseguire propri scopi geo-strtategici e politici (presenza cristiana in Siria, problema dei rapporti con il mondo islamico, origine argentina del novello Papa), ha il difetto di restringere la critica alla guerra a una semplice occasione di accettazione del verbo cristiano e a scelta etica e morale individuale.

 Tanto è vero che al digiuno “vaticano” hanno potuto appellarsi non solo le decine di migliaia di credenti affollatisi in Piazza San Pietro il 7 settembre, non solo i rappresentanti di tutta la chiesa cattolica nelle funzioni domenicali dell’8 settembre, i rappresentanti del mondo islamico e ortodosso, ma anche personaggi che del gioco imperiale fanno parte come la Ministra degli Esteri o, addirittura, il Ministro della Difesa che, mentre da un lato digiuna per la pace, dall’altro insiste per l’acquisto degli F – 35, che strumenti di pace non sono. Non occorre qui ricordare che il buon Anton Čechov affermava che “se un fucile appare appoggiato al caminetto durante il primo atto (di un’opera teatrale), sicuramente avrà sparato prima della conclusione dell’ultimo”.

Occorrerà tornare ancora su questo argomento, ma, ora, è meglio tracciare per linee ampie e (forse) grossolane il quadro di instabilità politica, militare, sociale ed economica (ultima nell’elenco, ma non per importanza) che ha portato alla situazione attuale. Osservando però che, a differenza di quanto molti credono, l’imperialismo traccia il quadro generale della sua attività di dominio ed espansione, ma non può determinare con certezza tutte le conseguenze delle sue scelte. Come dire: l’imperialismo è la causa di ogni guerra moderna, ma non sempre la vuole.

Scriveva Lev Trotskij nel 1937: ”le contraddizioni internazionali sono così complesse e intricate che nessuno può prevedere con esattezza dove la guerra potrà scoppiare, né come si delineeranno gli schieramenti contrapposti. Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti […]. Tutti vogliono la pace, soprattutto coloro che non possono aspettarsi nulla di buona da una guerra […]. Nessuna delle piccole potenze potrà restare in disparte. Tutte verseranno il loro sangue […] Gli schieramenti dei campi belligeranti e il corso della guerra non saranno determinati da criteri politici, razziali o morali, ma da interessi imperialistici. Tutto il resto non è che polvere negli occhi. Le forze che operano sia per un’accelerazione sia per un rinvio della guerra, sono così numerose e così complesse da rendere rischioso ogni tentativo di azzardare previsioni sulle date. Tuttavia esistono punti di riferimento che consentono un pronostico**.

Qualche lettore potrà dire : ”Ma una guerra, anzi più guerre sono già in corso…”. E’ vero, d’altra parte anche quando il rivoluzionario russo in esilio scriveva già più guerre erano in corso, preludendo al secondo conflitto mondiale: guerra civile spagnola, guerre d’occupazione italiane in Africa orientale, occupazione giapponese della Cina, solo per citare le più evidenti. E infatti oggi affermare che la seconda guerra mondiale si è svolta tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945 non è più così corretto. Sono date di comodo, soprattutto per i manuali scolastici, ma è chiaro che il secondo conflitto mondiale andrebbe datato almeno dal 1936, se non addirittura dagli accordi di spartizione degli imperi firmati a Versailles.

Così la guerra futura, anche se  dovesse iniziare nei prossimi giorni oppure negli anni a venire,  affonderebbe chiaramente le sue radici almeno negli avvenimenti seguiti alla caduta dello Scià di Persia, alla fallita invasione sovietica dell’Afghanistan e in quelli successivi alla fine dell’URSS (1989) e alla riunificazione tedesca (1990) con la Guerra del Golfo e le guerre balcaniche (1991). Da allora, infatti, gli Stati Uniti hanno perseguito un obiettivo di destabilizzazione completa del Mediterraneo e del Vicino Oriente che, con la caduta di Assad, dovrebbe essere ora portata a termine.

Ma si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco. Nei trent’anni trascorsi dall’affermazione dell’ayatollah Khomeyni in Iran molte cose sono cambiate sotto il cielo e non tutte sono andate per il verso desiderato dalla potenza imperiale americana. Che dopo aver fatto scannare per dieci anni il regime di Saddam Hussein con la nascente Repubblica Islamica iraniana, si vide costretta a fare sempre più affidamento su Israele e Arabia Saudita per il mantenimento della propria supremazia petrolifera, militare e politica nell’area.

Sul ruolo di Israele all’interno delle strategie americane poco ci sarebbe da aggiungere se non che data proprio dal 1978 (anno dell’inizio della rivolta popolare contro Mohammad Reza Pahlavi che l’avrebbe costretto, un anno dopo, alla fuga e all’esilio) quella mini-serie televisiva (“Olocausto”) che avrebbe così potentemente rilanciato l’immagine di Israele nel mondo (attraverso la messa in scena  della Shoa come spettacolo) dopo la sconfitta militare del 1973 ( ad opera delle forze armate egiziane) con la perdita del Sinai. E che è andata crescendo ininterrottamente fino all’altra sconfitta militare israeliana avvenuta nel 2006, in Libano, ad opera di Hezbollah e del suo braccio armato.

Ed è proprio la comune opposizione all’islamismo sciita iraniano e libanese ad aver avvicinato negli anni, in un’alleanza a tempo e blasfema, i due poli dell’azione americana: il regno saudita e lo stato ebraico. Che dei misfatti attuali in Nord Africa, Medio Oriente e Siria sono tra i principali protagonisti e  non solo  strumenti.

L’Arabia Saudita, che detiene, insieme agli altri emirati, oltre che una delle più vaste riserve petrolifere del globo anche una discreta parte dell’imponente debito pubblico americano, sta presentando il conto dei suoi “fedeli” servizi. Il finanziamento e il sostegno dei mujāhidīn in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, nei Balcani negli anni novanta e successivi, il concorso al mantenimento di un prezzo (di volta in volta basso oppure alto) dell’oro nero conveniente alle multinazionali petrolifere. Conto forse già presentato in maniera poco elegante con l’attentato alle torri gemelle nel 2001 e col lasciar correre (ma solo fino al 2 maggio 2011) le “birichinate” terroristiche e indipendentistiche di Osama Bin Laden (con buona pace di chi voleva anche qui da noi suggellare un patto politico con i “fratelli” dell’integralismo sunnita armato).

E lo presenta in maniera pesante, tanto da determinare, ben più dell’Occidente nel suo insieme, le politiche interne del Nord Africa e dell’Egitto. Tanto per fare un esempio: mentre in tempi di crisi l’Unione Europea ha promesso 500 milioni di euro  e gli Stati Uniti un miliardo di dollari ai militari egiziani, l’Arabia Saudita ha letteralmente “sganciato” 12 miliardi di dollari (sostanzialmente a fondo perduto) al regime che ha rovesciato il governo dei Fratelli Mussulmani (che, non dimentichiamolo, ci piaccia o meno, era stato democraticamente eletto).

Lo fa armando e appoggiando le bande di “guerriglieri” islamici, spesso vicini ad Al Qaeda, che scorrazzano ormai dalla Libia al Mali, dalla Somalia alla Siria. In territori dove rendono difficile non solo la possibile penetrazione cinese, ma anche la presenza diplomatica russa e quella economica europea. Insomma “questa è casa mia” inizia a dire la monarchia saudita, ricca di dollari e petrolio e povera, fino a ieri, di peso politico e diplomatico. Ma questa strategia la spinge inevitabilmente a scontrarsi con quella della “Grande Israele” voluta dai sionisti.

Certo, in comune tra Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti, c’è di fondo l’interesse per il ridimensionamento politico, economico e militare dell’Iran e il fine ultimo dell’attuale crisi siriana dovrebbe, nel loro intento portare ad una guerra contro la repubblica islamica di Teheran, ma, oltre allo scontro tra sunniti e sciiti  e al di là della sempre centrale questione del controllo delle principali risorse petrolifere, nella crisi mondiale attuale altre forze sono destinate a entrare in campo.

Se si analizza attentamente chi, al G 20 di Pietroburgo, si è opposto all’intervento militare in Siria ci si può rendere facilmente conto che tutti i BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) lo hanno fatto compatti. Non è più tempo di paesi non allineati dipendenti da questo o quel blocco. Se si aggiunge l’Indonesia, il più grande stato islamico con circa 240 milioni di abitanti, che si è espressa contro l’intervento, si arriva a quasi 4 miliardi di abitanti sui 7  dell’intero pianeta. Ma è il peso economico dei BRICS a contare e giusto il 27 marzo 2013, a Durban in Sud Africa, questi si sono accordati per la creazione di una banca internazionale per lo sviluppo economico da contrapporre alla Banca Mondiale e al FMI, enti di controllo economico legati a doppio filo alla finanza americana e inglese.

La Russia di Putin, che non è più quella stremata di Michail Gorbačëv e neppure quella dell’etilico Boris Eltsin, è quindi capofila (a denti stretti se si considera la Cina) del gruppo più importante di quelli che un tempo erano definiti paesi emergenti. Lo spostamento di navi e truppe davanti alla Siria non riguarda quindi soltanto la difesa dell’unica base navale e militare che la Russia, sempre a caccia di porti fuori dal Mar Nero e dal Mar Glaciale Artico fin dai tempi di Pietro il Grande, ha sul Mediterraneo a Tartus, a circa 200 chilometri da Damasco. Ha anche a  che fare con la volontà dei suddetti paesi di manifestare la propria rappresentatività diplomatica, politica e militare e il proprio peso economico nell’economia mondiale.

L’azione dei BRICS, di Arabia Saudita e di Israele è legata significativamente alla crisi di rappresentatività e di potenza militare ed economica degli USA e dell’Occidente. Non vi è dubbio che le guerre imperiali americane nel Golfo e in Afghanistan, oltre che destabilizzanti, sono state oltremodo dannose per l’immagine degli USA come potenza militare. I pashtun afghani hanno segnato più di un punto a proprio favore contro le truppe statunitensi. Più di quanti, probabilmente, i comandi americani fossero intenzionati a concedere.

La caduta del regime di Gheddafi e il crollo prima di Mubarak e poi di Morsi in Egitto hanno gravemente nuociuto agli interessi italiani nel Mediterraneo e provocato subdoli e inevitabili contrasti all’interno dello schieramento europeo, che si sta presentando all’appuntamento siriano estremamente diviso e accomunato formalmente soltanto da una mozione che dice tutto e il contrario di tutto. La Gran Bretagna indebolita dalla crisi economica tarda a riconoscersi nelle scelte di Cameron, la Francia vorrebbe trattare Libia e Siria come ai tempi degli splendori imperiali, ma oggi non è più quella di un tempo. La borghesia italiana paga pesantemente il mancato proseguimento delle autonome politiche mediterranee perseguite dalla DC, da Enrico Mattei fino a Giulio Andreotti, e l’essersi lasciata imbarcare in imprese contrarie ai propri interessi nei Balcani e nel Nord Africa. Così ancora una volta si trova costretta a presentarsi al mondo con le solite due facce: quella della Bonino, contraria all’intervento militare se non supportato dalle Nazioni Unite, e quella di Letta, fedele alleato degli USA sulla linea di D’Alema e dei ministri della difesa e degli esteri berlusconiani.

Mentre la Germania è tentata di coccolare di più le sue strategie a Est con la Russia e le sue joint-venture con la Cina, anche un’altra potenza è entrata in gioco, per quanto piccola territorialmente. L’attuale fibrillazione pacifista di Papa Francesco non rappresenta soltanto la pruderie del pacifismo di stampo cattolico, rappresenta anche la preoccupazione che il mondo cristiano (cattolico e ortodosso) sia completamente espulso dal Vicino Oriente e dal Nord Africa a vantaggio dell’islamico radicale sunnita che pesta anche i piedi degli interessi russi nel Caucaso e cinesi nell’Asia Centrale.

Ma rappresenta anche, e non da ultimo, gli interessi di quei paesi del Sud America che, a partire proprio dall’Argentina di papa Bergoglio e del Venezuela dello scomparso Chavez, intendono perseguire autonome politiche di sviluppo e di regolamentazione del mercato mondiale del petrolio. Sì, insieme all’Iran e senza dimenticare che l’Argentina non ha mai digerito l’appoggio dato dagli USA, non solo al golpe militare degli anni settanta, ma anche alla Gran Bretagna nella contesa sulle Isole Falkland. Utili e possibili basi per il controllo delle rotte verso le ricchezze (future) dell’Antartide, sulle quali l’Argentina vanta vasti diritti contrapposti (anche nel continente di ghiaccio) agli interessi britannici .

Ultimo, ma non secondario, protagonista dell’attuale contesa è il presidente turco Erdogan che sembra costretto e determinato, allo stesso tempo, a perseguire politiche di espansione di stampo ottomano, soprattutto dopo l’esclusione della Turchia dalla comunità europea. Gli incidenti di Istanbul, in cui è scesa in piazza una parte significativa della borghesia laica del suo paese e la sempiterna questione kurda lo costringono, poi, a cercare comunque un momento di unità nazionale attraverso la guerra, anche se i rapporti con Israele variano dall’alleanza alla ruggine formale di stampo sunnita.

Così, mentre appare sempre più chiara la bufala, grazie anche alle rivelazioni del giornalista belga Perre Piccinin appena liberato dai presunti “ribelli” siriani,  con cui Obama sta cercando di coinvolgere gli “alleati” e gli americani in un conflitto in cui si è trovato anche lui trascinato un po’ per forza, fondamentale e predominante appare  la crisi economica mondiale, che spinge tutti gli attori qui nominati e, probabilmente, molti altri ancora verso l’appuntamento fatale. Al di là delle volontà e delle scelte. Esattamente come la Grande Crisi fu la causa detrminante del secondo conflitto mondiale. Poiché “il grande Spinoza ci insegnava giustamente: non ridere, né piangere, ma comprendere***, è utile a questo punto cercare di trarre alcune conclusioni dai fatti e non dai desideri.

Per i lavoratori e i giovani di tutto il mondo non vi è scelta: il vero nemico è sempre quello che sta in casa, quello più vicino: i governi  e le camarille finanziarie e imprenditoriali nazionali. Per questo motivo occorre essere anti-militaristi sempre, contro le guerre di aggressione imperialistiche, ma anche contro le guerre di pretesa difesa degli interessi nazionali, sempre contrari agli interessi del 99% della popolazione. Così, anche se, in assenza di una rivoluzione sociale unica e vera alternativa alla guerra, dal futuro e inevitabile conflitto sarebbe meglio che uscissero sconfitti gli Stati Uniti e l’Occidente, l’Arabia Saudita e Israele, questo non deve imprigionare la lotta contro la guerra in una scelta di parte. Così come, purtroppo, avvenne al termine del disastroso secondo conflitto mondiale.

Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti**** appunto. Ma non vi è ragione nazionale o migliore per gli oppressi se si rimane in ambito capitalistico. I regimi più o meno dittatoriali che si scontreranno nella conflagrazione sono tutti egualmente nemici dei giovani che manderanno a morire accampando mille demagogiche scuse e dei lavoratori che dovranno sacrificarsi in nome dell’interesse nazionale e del profitto di impresa. L’opposizione non potrà essere solo morale ed etica, dovrà essere attiva e non potrà attendere il massacro di milioni di civili per manifestarsi pietosamente ed “è necessario che il proletariato mondiale non sia preso di nuovo alla sprovvista dai grandi avvenimenti*****  di cui tutti parlano celandone però le reali ragioni d’essere.

Ma, di certo, anche se sul momento le manovre diplomatiche messe in atto nei confronti della Siria, del suo regime e delle sue presunte o reali armi chimiche dovessero servire a rinviare il momento dell éclatement generalizzato, i primi e incerti passi verso l’inferno sono già stati fatti. Il piano delle contraddizioni politiche ed economiche si è fatto più inclinato e scivoloso e chiunque o qualunque presunto leader, partito o gruppo politico si allontani da una chiara e precisa scelta anti-imperialista e anti-militarista non potrà diventare altro che un avversario della lotta di classe e della lotta per la liberazione dell’umanità da quest’orrido presente storico.

 * Ne è consigliabile l’ascolto nelle versioni di Edwin Starr (1970), The Temptations (1970) e Bruce Spingsteen (live, 1985).

 **Lev Trotskij, Di fronte a una nuova guerra mondiale (9 agosto 1937), in Guerra e rivoluzione, Mondadori 1973, pp. 3 – 10.

 *** L. Trotskij, op. cit., p. 21

 **** L.Trotskij, op. cit., p. 3

 ***** L. Trotskij, La situazione mondiale e la guerra (18 marzo 1939), in op. cit., p. 48.

]]>