Futuro – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Il nontempo. Quando il presente diventa egemonico https://www.carmillaonline.com/2020/12/14/nemico-e-immaginario-il-nontempo-quando-il-presente-diventa-egemonico/ Mon, 14 Dec 2020 22:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63749 di Gioacchino Toni

«Il problema è che oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. […] il presente è diventato egemonico». «Si delineano forme di resistenza allo stato di cose esistente, ma in nome di ideali particolari, incompleti e talora contrastanti [che] stentano a costruire progetti leggibili per il futuro, a proporre obiettivi che non siano in sostanza difensivi» Marc Augé

Poco dopo aver messo [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il problema è che oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. […] il presente è diventato egemonico». «Si delineano forme di resistenza allo stato di cose esistente, ma in nome di ideali particolari, incompleti e talora contrastanti [che] stentano a costruire progetti leggibili per il futuro, a proporre obiettivi che non siano in sostanza difensivi» Marc Augé

Poco dopo aver messo in guardia, sul finire degli anni Novanta, circa la sparizione della realtà – a causa di una sua “messa in finzione”, soprattutto da parte del mezzo televisivo –, Marc Augé ha iniziato a denunciare un’altra sparizione: quella del futuro. Il mondo sembra in effetti in balia di un eterno presente capace di annullare l’orizzonte storico. Futuro e passato si sono eclissati sotto l’ombra della globalizzazione con i suoi aspetti politici, scientifici e simbolici.

Dopo una decina di anni dalla sua prima pubblicazione, torna in libreria, in una nuova edizione, il volume in cui l’antropologo francese riflette sulla sparizione dell’avvenire: Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? (eleuthéra, 2020). In questo libro, che resta di estrema attualità, lo studioso, dopo essersi a lungo occupato della dimensione dello spazio, prende in considerazione quella del tempo, mostrando come il nostro mondo, oltre che essere disseminato di “nonluoghi”, possa davvero dirsi caratterizzato dal “nontempo”.

Augé elenca tre paradossi del tempo. Il primo ha a che fare con la consapevolezza dell’individuo di vivere nel corso di un tempo che precedeva la sua nascita e che proseguirà dopo la sua morte. Il secondo è inerente alla difficoltà per l’individuo mortale, dunque tributario del tempo e delle idee di inizio e fine, di «pensare il mondo senza immaginarsene una nascita e senza assegnargli un termine» (p. 8). Cosmogonie e apocalissi rappresentato soluzioni immaginarie a tale difficoltà umana. Il terzo è il paradosso dell’evento, del fatto al contempo atteso e temuto.

Se il controllo intellettuale e simbolico dell’evento è ricorrente nelle attenzioni dei gruppi umani, oggi tale paradosso dell’evento pare giunto al suo culmine: mentre la storia accelera, spinta da eventi di ogni tipo, gli individui contemporanei, sostiene Augé, pretendono di negarne l’esistenza, esattamente come accadeva nelle epoche arcaiche, ad esempio celebrandone la fine. Con questi tre paradossi hanno dovuto fare i conti, nei contesti storici più diversi, tutti i tentativi di simbolizzazione del mondo e delle società.

Dalla caduta muro di Berlino può dirsi iniziata una nuova storia che, a causa della velocità con cui procede e per il suo aspetto globale, risulta pressoché incomprensibile.

Dal punto di vista intellettuale, questo cambiamento di scala ci prende alla sprovvista. Siamo ancora nella fase di critica dei vecchi concetti e delle visioni del mondo che li sottendevano. A questi si sostituiscono da un lato una visione pessimista, nichilista e apocalittica, secondo la quale non c’è più niente da capire, e dall’altro una visione trionfalista ed evangelica per la quale tutto è compiuto o sta per esserlo (p. 13).

Tra queste due visioni estreme, accomunate dal non derivare alcune lezione dal passato e dal non attendersi nulla dall’avvenire, secondo Augé, trova posto un’ideologia del presente caratteristica di quella che è stata definita la società dei consumi. Sembra quasi che all’essere umano non resti che scegliere tra un consumismo conformista e passivo, anche quando può darsi in forma assai ridotta, e un rifiuto radicale al quale, al momento, sembrano in grado di provvedere soltanto le espressioni religiose più esasperate.

Sullo stesso piano ideologico, vediamo inoltre formarsi connubi sostanziali tra ideologia religiosa e ideologia consumista, più in particolare nel caso dell’evangelismo di origine nordamericana. Per il resto, le nuove forme di esclusione, delle quali la globalizzazione è nello stesso tempo il contesto generale e uno dei principali fattori, generano, attraverso diverse mediazioni come quella del fondamentalismo religioso, atteggiamenti di rigetto o di fuga che hanno senso solo in rapporto all’ordine dominante. Quest’ultimo provoca insieme odio e seduzione. La contestazione, la rivolta o la protesta sembrano così prigioniere di quegli stessi schemi di pensiero ai quali si oppongono, sia a livello della vita politica sia sul piano intellettuale e artistico (p. 14).

Di fronte ad uno scenario di tale tipo, secondo lo studioso, può essere utile far riferimento alla categoria di tempo per indagare le false evidenze dell’attuale ideologia del presente. Tali evidenze, continua Augé, assumono la forma di un triplice paradosso.

Primo paradosso: la storia, intesa come fonte di nuove idee per la gestione delle società umane, sembra terminare proprio nel momento in cui riguarda esplicitamente l’umanità nel suo insieme. Secondo paradosso: noi dubitiamo della nostra capacità di influire sul nostro comune destino proprio nel momento in cui la scienza progredisce a una velocità sempre più accelerata. Terzo paradosso: la sovrabbondanza senza precedenti dei nostri mezzi sembra vietarci di riflettere sui fini, come se la timidezza politica dovesse essere lo scotto da pagare per l’ambizione scientifica e l’arroganza tecnologica (p. 15).

A ben guardare tali paradossi non sono altro che l’odierna forma storica dei tre citati precedentemente. «In questo senso attengono tutti all’ideologia. Ogni sistema di organizzazione e di dominio del mondo […] ha prodotto teorie dell’individuo, del mondo e dell’evento. Il sistema della globalizzazione non si sottrae a questa regola» (p. 16).

Non possiamo interessarci al futuro senza incontrare la presenza massiccia e anomala dell’immaginazione. Se è infatti vero che non vivono ogni giorno con il pensiero dei propri fini ultimi, gli umani non possono tuttavia accontentarsi indefinitamente di un’eternità fiacca, di un tempo chiuso. Questo vale per i più deprivati, ma anche per gli altri. La corsa al senso si svolge dunque anche nelle peggiori condizioni. Il senso non è necessariamente il destino post mortem, l’immortalità o il paradiso. È l’esistenza del domani, un insieme di relazioni con gli altri sufficientemente consistente per scongiurare l’assurdità di una solitudine senza oggetto e senza fine, nel doppio senso del termine (p. 122).

L’illusione offerta dalle sette «parla il linguaggio dei fini, che è anche quello del desiderio, ma si limita a servirsene, lo sbriciola, lo distilla in dosi omeopatiche; i suoi espedienti sono il rovescio negativo del discorso sociale sempre incompiuto dei politici e degli economisti: essa non pretende di orientare la società, la rimpiazza» (p. 123).

Diversi movimenti evangelici, così come il fondamentalismo islamico, si fondano su parole d’ordine semplici e capaci di attrarre quanti, vivendo in solitudine, privi di riferimenti simbolici, in miseria materiale e morale, sono in cerca di certezze. «Tutti questi fondamentalismi hanno in comune un riferimento, un’ambizione e una modalità di azione. Il riferimento è l’origine: la disputa tra i tre monoteismi si basa essenzialmente sul punto di partenza, sull’origine della sola storia che conti ai loro occhi, quella del vero messaggio» (p. 124).

Se da un certo punto di vista, sostiene Augé, i monoteismi, con le loro aspirazioni all’universalizzazione del messaggio, nel basarsi sia sul passato che sul futuro, rimandano alle “grandi narrazioni” lyotardiane, allo stesso tempo se ne differenziano per la pretesa, in quanto cosmogonie, di parlare all’umanità intera e perché la loro visione dell’avvenire dell’umanità si risolve nel prospettare la fine del mondo come compimento. Per quanto riguarda la loro modalità di azione, questa si risolve in un proselitismo, tratto specifico dei monoteismi, che gli integralismi portano all’estremo e a maggior ragione in uno scenario globalizzato.

L’integralismo è una globalizzazione dell’immaginario che può avere conseguenze terribilmente reali. È anche la globalizzazione dei poveri (anche se, ovviamente, può essere usata, manipolata e sostenuta dai soldi dei ricchi); in questo senso è una globalizzazione mimetica. La globalizzazione e i suoi agenti sono mimetizzati, come lo erano la colonizzazione e i colonizzatori. Il mimetismo e la rappresentazione sono le armi simboliche cui si ricorre quando la relazione diventa impensabile, impossibile da negoziare (p. 125).

Se i movimenti locali di protesta per reggere lo scontro necessitano di collegamenti su scala più ampia, ancora più che nel passato sono oggi proprio le religioni a vocazione universale a procurare i mezzi intellettuali e materiali per tale estensione. «Il marxismo e le ideologie progressiste in generale, che avevano influenzato i movimenti politici di indipendenza e di liberazione, sono in declino […] L’immaginazione, in questo caso, va al traino della storia» (p. 127).

Nella società contemporanea non deve essere sottovalutato il ruolo giocato delle immagini, soprattutto televisive, che finiscono per certi versi per svolgere il ruolo delle cosmologie tradizionali che ponevano coordinate spazio/temporali dando un ordine simbolico al mondo. L’Occidente è modellato dalla mentalità consumista in cui ognuno si costruisce la propria cosmologia ricorrendo non di rado alle nuove tecnologie.

Il mondo della televisione è esemplare per questo postmodernismo dei poveri: se ci sono tante persone che desiderano esprimere in quell’ambito le proprie convinzioni, le proprie preferenze, la propria vita, quando è evidente che non hanno niente di originale, è perché così possono crederci anche loro, grazie al prestigio dell’immagine che consolida all’occorrenza l’assicurazione fornita dal prendere la parola. Nonostante l’egocentrismo forsennato, questi comportamenti indotti dalla società dell’immagine non sono poi tanto diversi da quelli che governano la fede dell’uomo semplice (che peraltro non gli competono in modo esclusivo): in entrambi i casi si tratta di una questione di sopravvivenza. Ci troviamo così, d’ora in avanti, in una situazione in cui siamo in grado di percepire, davanti a un campo di rovine metafisiche nel quale i fondamentalisti illuminati e gli individualisti alienati continuano a rovistare per assemblare un senso a partire da qualche rottame, che colonizzati e colonizzatori hanno vissuto la stessa storia e che la colonizzazione altro non è stata che la prima tappa della globalizzazione. Siamo tutti quanti ai piedi dello stesso muro. Dopo le tristi esperienze del secolo scorso, è questa la sfida che ci aspetta: come possiamo reintrodurre nella nostra storia finalità che ci affranchino dalla tirannia del presente ma che non siano all’origine di un nuovo dispotismo intellettuale e politico? Come possiamo, più che prefigurare il futuro (essendo il cambiamento tanto inimmaginabile quanto ineluttabile), attrezzarci nella misura del possibile perché sia l’avvenire di tutti? (pp. 127-128).

Pur non mancando forme di resistenza allo stato di cose esistente, queste sembrano muoversi in nome di ideali particolari e incompleti che, nonostante i tentativi di esprimersi su scala globale, non riescono a costruire progetti di futuro, limitandosi a proporre obiettivi meramente difensivi.

Secondo Augé è necessario evitare di confondere il tema della “fine delle grandi narrazioni” con quello della “fine della storia”: se Lyotard rifletteva sulle nuove modalità di relazione con lo spazio e con il tempo che definiscono la condizione postmoderna, Fukuyama finiva invece per proporre una nuova “grande narrazione”. «La fine della storia non è, evidentemente, il blocco degli eventi, ma la fine di un dibattito intellettuale: tutti quanti, ci dice in sostanza Fukuyama, sarebbero oggi d’accordo nel ritenere che la formula che coniuga il mercato liberista e la democrazia rappresentativa sia insuperabile» (p. 133).

Il concetto di “fine della storia” in Fukuyama, si chiedeva Jacques Derrida (Spectres de Marx, 1993), è da interpretare come un dato di fatto o come un’ipotesi speculativa? L’avvenimento sembrerebbe essere tanto la realizzazione quanto l’annuncio della realizzazione. Tale incertezza, sostiene Augé, è tipica di un’atmosfera intellettuale in cui non si è più in grado di “immaginare del futuro”.

Nelle società dell’immanenza si tende a negare l’evento, «lo si rimanda alla serie di determinazioni concepite al contempo come sociali e antropologiche che lo riversano sulla struttura. Quando questo riversamento, questa “eziologia sociale”, non è più possibile, perché l’evento è enorme e sproporzionato rispetto agli abituali strumenti di misura e di interpretazione […] allora lo si mima, lo si recita, lo si mette in scena […], nella speranza che quella sorta di sfida simbolica basti a scongiurarlo» (p. 134).

Soprattutto nelle società occidentali si assiste a una crescita della paura dell’evento ma se ciò classicamente comportava una ricerca delle cause e dei responsabili, quando l’evento ha una portata inaspettata (come nel caso dell’attentato dell’11 settembre 2001), esso si trasforma da «punto di arrivo che bisogna spiegare» in «punto di partenza che tutto spiegherà». È questo, secondo lo studioso, il senso della guerra dichiarata al terrorismo.

La parola chiave, qui, è “dichiarazione”. Forse la formula “dichiarazione di guerra” non era più stata utilizzata dal 1939. La dichiarazione di guerra ha precisamente l’effetto di un annuncio che cancella con un tratto il passato per convertire gli animi all’attesa e al seguito. È il passaggio alla violenza legittima, o comunque legale; è un ribaltamento delle coordinate temporali, una rifondazione, il canto di chi parte. Il problema è che nella complessità delle società moderne non è così facile riuscire in questa operazione simbolica, passare dall’ordine delle cause a quello degli effetti, dalla diagnosi al progetto. Così il discorso ufficiale sul terrorismo si sdoppia: gli si dichiara guerra, certo, ma questo non cambia niente, si vive come prima (sia pure con un po’ più di vigilanza poliziesca). Cambia tutto, non cambia niente (pp. 135-136).

La contemporaneità globalizzata manifesta, dunque, la prevalenza del linguaggio spaziale su quello temporale. La coppia globale/locale ha sostituito l’opposizione particolare/universale che, invece, associata a una concezione dialettica della storia, si inscriveva nel tempo. «L’assimilazione dell’opposizione globale/ locale a quella interno/esterno assume tutto il suo significato in relazione al tema della fine della storia inteso come avvento della democrazia liberale, cioè, in definitiva, in rapporto all’opposizione sistema/storia» (p. 137).

L’epoca della globalizzazione, oltre ad aver incrementato enormemente la disparità delle ricchezze, ha ampliato lo scarto tra chi dispone di conoscenze e chi non ne dispone generando una massa di esclusi dalla conoscenza , una massa di individui a cui è permesso di essere semplici consumatori, quando non sono esclusi sia dal sapere che dai consumi. A ciò, sostiene il francese, occorre contrapporre un’utopia del “sapere per tutti”, «una visione del futuro finalmente sgombra dalle illusioni del presente veicolate dall’ideologia della globalizzazione consumista» (p. 140).

«Di fronte all’ideologia del presente e dell’evidenza diffusa dal sistema globale, di fronte alle illusioni micidiali e liberticide dei totalitarismi integralisti, abbiamo più che mai bisogno di un ritorno allo sguardo critico capace di rivelare i giochi del potere dietro alle formule che si appellano a una quiete illusoria o una mobilitazione fanatica» (p. 131). È all’antropologia che Augé attribuisce quello sguardo critico che, sebbene insufficiente di per sé per cambiare il mondo, può almeno contribuire a dare la misura delle vere poste in gioco.


Nemico (e) immaginario serie completa

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Per chi suona la campana: rivolte di ieri e di oggi https://www.carmillaonline.com/2020/09/30/per-chi-suona-la-campana-rivolte-di-ieri-e-di-oggi/ Wed, 30 Sep 2020 20:10:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62864 di Sandro Moiso

Renzo Sabbatini, La sollevazione degli straccioni. Lucca 1531. Politica e mercato, Salerno Editrice, Roma 2020, pp. 190, 16 euro

«La Storia è per definizione un processo di scoperta e non un dogma da dare per scontato» ( L. Hunt – History. Why it matters, 2018)

E’ proprio questa frase posta in esergo a rendere pienamente il senso della ricerca che Renzo Sabbatini ha dedicato alle rivolte popolari che scossero la Repubblica di Lucca e la sua società tra il maggio del 1531 e l’aprile del 1532. Una ricerca che [...]]]> di Sandro Moiso

Renzo Sabbatini, La sollevazione degli straccioni. Lucca 1531. Politica e mercato, Salerno Editrice, Roma 2020, pp. 190, 16 euro

«La Storia è per definizione un processo di scoperta e non un dogma da dare per scontato» ( L. Hunt – History. Why it matters, 2018)

E’ proprio questa frase posta in esergo a rendere pienamente il senso della ricerca che Renzo Sabbatini ha dedicato alle rivolte popolari che scossero la Repubblica di Lucca e la sua società tra il maggio del 1531 e l’aprile del 1532. Una ricerca che approfondisce non soltanto la conoscenza che si può oggi avere degli albori dell’Età moderna, ma anche quella delle contraddizioni che accompagnarono le trasformazioni economico-sociali e politiche che precedettero la formazione dello Stato moderno e l’affermazione totale dell’economia monetaria e del capitalismo mercantile destinati a porre le basi dell’attuale modo di produzione.

Se un tempo, dalla fine dell’Ottocento a quasi tutto il Novecento, tutto ciò era stato visto come un progressivo e (quasi) cosciente percorso di realizzazione della società contraddistinta dai valori della borghesia imprenditoriale, oggi questo assioma è entrato pesantemente in crisi a partire proprio dalla minor fiducia riposta, sia a livello scientifico che sociale, nelle possibilità di sviluppo infinito dell’economia e del ciclo produttivo basato sull’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta.

Oggi, infatti, il modello lineare di sviluppo e progresso racchiuso nelle ricostruzioni storiche fatte nel periodo precedente, sia che provenissero dall’ambito istituzionale che da quello para-marxista, assomiglia troppo ad una visione teleologica della Storia, con un inizio e un fine delineati e delimitati una volta per tutte. Naturalmente la visione maggiormente contraddittoria degli avvenimenti passati non è frutto soltanto del pensiero di singoli ricercatori o di quello della collettività degli stessi, ma soprattutto degli avvenimenti presenti e delle lezioni che ci costringono a ricercare, ancora una volta e con chiavi interpretative diverse, nel passato. Nazionale o mondiale che esso sia.

Se le contraddizioni sociali del presente spingono gli studiosi, come Sabbatini, a reinterpretare, almeno parzialmente il passato, ciò è dovuto al fatto che, nel campo della Storia, Passato e Presente si influenzano a vicenda. Il primo ha sicuramente determinato il secondo, ma le necessità del secondo finiscono altrettanto col portare ad una ridefinizione delle vicende passate. Se poi si considera che il Presente costituisce in continuazione un attimo fuggevole, precipitando costantemente in ciò che ci ostiniamo a chiamare Futuro, diventa allora evidente che è proprio l’ultimo a determinare le scelte del Presente e le interpretazioni del Passato. Con buona pace di tutti coloro che si affannano a creare e ricreare modelli evolutivi, politici e interpretativi validi una volta per tutte.

Se invece interpretiamo il lavoro degli storici più onesti e attenti ai cambiamenti, attuali e passati, nel senso sopra suggerito potremmo accorgerci che la Storia stessa, come disciplina, non costituisce altro che un continuo work in progress, più vicino ai caratteri della ricerca scientifica moderna che non a quelli della funzione giustificazionista e stabilizzatrice delle età precedenti.

Ecco allora che i fatti riportati nel testo, riguardanti la “piccola” Repubblica di Lucca nel ‘500, nell’esposizione fattane da Sabbatini ci rimandano ad un periodo di autentica “guerra civile”, i cui risultati definitivi si sarebbero visti soltanto a decenni o secoli di distanza, che, però, allo stesso tempo ci rinvia ai tempi attuali e alle rivolte in ogni parte del pianeta che li caratterizzano. Un contesto più ristretto, quello della Lucca cinquecentesca, che però ricorda da vicino il più vasto rivolgimento sociale, politico, economico e religioso che percorse la Francia nei due secoli e mezzo che precedettero la Grande Rivoluzione (qui).

Quella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 1531, il cantar maggio invece di essere il consueto, gioioso inno all’inizio della bella stagione, magari con qualche carnevalesca licenza o satira impertinente, si trasformò, per il “pacifico e popolare” stato di Lucca, nel lugubre annuncio di una lunga e sanguinosa fase di lotta politica e sociale […] Protagonisti sono i giovani setaioli che
abitano nei borghi murati a ridosso delle mura medievali, presto inglobati all’interno della nuova cerchia urbana. Hanno respirato la tensione che dalla fine di gennaio correva tra gli artigiani contro i mercanti per le nuove leggi, severe e punitive, e prendono l’occasione del calendimaggio per « far qualche novità contro di loro » […] Cosí, in formazione militare duecento giovani marciarono per i borghi e per la città, senza timore e rispetto della giustizia. E quando incontravano qualche nobile cittadino, non solo non gli facevano la dovuta riverenza, ma lo guardavano con atteggiamento di sdegno e di disprezzo. Ripresi da un «cittadino qualificato e raro nelle sue azioni», che pacatamente li consigliava a non aggirarsi per la città armati, con il rischio di commettere qualche grave reato, ma di andare invece a cantare e a divertirsi nelle campagne, i giovani gli risposero a muso duro che erano fuori di sé e di levarsi dai piedi urlandogli frasi sdegnose e minacciose. « Scorretti et audaci, in modo che ciascuno se ne meravigliava », i giovani setaioli scorrazzarono tutta la notte per la città e le ville vicine.
Ma questo è solo il prologo. La sollevazione prende avvio il giorno seguente, il primo maggio, con un grande assembramento di tessitori e altri artigiani della seta, non nella sede della loro Scuola, ma nella chiesa di San Francesco, « dove hanno l’altare per loro devotione », e poi anche nel chiostro del convento, vista l’enorme partecipazione. Come si è giunti a questa « raunata seditiosa »? Sediziosa e certamente illegale, ancor più perché non si tratta di una rivendicazione che oggi chiameremmo sindacale, ma esplicitamente politica dato che la folla tumultuante chiede il ritiro di una legge approvata dal Consiglio generale1.

Qual era dunque il provvedimento approvato dal Consiglio generale della Repubblica che era stato all’origine del rivolgimento giovanile di una notte e poi, per quasi un anno, di quello, anche violento e armato, degli strati popolari e più poveri della stessa?
E’ proprio l’autore a spiegarcelo sulla base dei documenti dell’epoca e con lo sguardo rivolto ad una situazione economica e produttiva internazionale che, di fatto, avrebbe segnato la fine dei privilegi accordati alle consorterie artigianali e alle corporazioni dei piccoli produttori.

Il gruppo dei mercanti interessati alla lavorazione della seta (i consoli della Corte dei Mercanti e i sei indicati dal Consiglio generale per l’elaborazione delle nuove disposizioni), di fronte alla crisi del mercato internazionale e a quelli che sono definiti « abusi » degli artigiani, mette in campo (anche con una forzatura istituzionale) una riforma che mira a “proletarizzare” i maestri tessitori indipendenti togliendo loro la possibilità di tessere in proprio e riducendoli, da piccoli imprenditori
quali erano con alle dipendenze qualche lavorante, a quasi-salariati, peraltro con una forte riduzione del compenso. In sostanza – sensibili alle tendenze che percepiscono nei mercati di Lione, Londra, Anversa nei quali sono ben presenti e attivi – i grandi mercanti cercano di superare l’organizzazione corporativa cittadina: in nome del mercato, più una rivoluzione che una riforma.
Il primo maggio la sollevazione prende avvio, con il tumultuoso assembramento di testori in San Francesco e il giorno successivo il Consiglio cancella tutte le nuove, punitive disposizioni, anzi fissa il prezzo delle manifatture in misura ancor più favorevole ai maestri artigiani.2

Questo però, anche se risoltosi inizialmente in maniera favorevole per i piccoli artigiani, costituirà soltanto il primo atto dello scontro a venire; in uno scenario in cui gli attori saranno numerosi e destinati spesso a mutare ruolo, funzione e fini. Uno scontro tra classi ancora, per certi versi, spurie e soltanto parzialmente consapevoli delle forze politiche, economiche, morali, religiose e dei conseguenti interessi individuali e collettivi che si erano messi in moto.

Uno scontro, che l’autore finisce col definire, sulla base delle testimonianze dei contemporanei, come una vera e propria guerra civile, che si concluderà soltanto con la vittoria dei mercanti e dei nobili della città con l’aiuto dei contadini, soprattutto dei mezzadri o salani, del contado circostante. I cui interessi sul momento sarebbero stati più vicini a quelli dei proprietari terrieri delle “sei miglia” intorno alle mura di Lucca, in cui a partire dal Quattrocento si era diffusa una proprietà cittadina, che a quelli dei piccoli artigiani e dei lavoratori salariati della stessa. Una distanza di interessi cui i capi della rivolta non seppero dare risposte utili e che finirono col travolgerli.

La vicenda degli Straccioni si presenta come conseguenza della schizofrenia tipica dei primi secoli dell’Età moderna, in cui le vecchie logiche corporative si scontrano con il progressivo affermarsi delle regole del mercato. I drappi di seta vengono fabbricati dagli artigiani cittadini nel rispetto
(almeno formale) delle regole dell’arte che assicurano la protezione, quantomeno dei maestri artigiani (e assai meno dei loro lavoratori salariati). Ma poi, sul mercato lontano, francese, fiammingo, tedesco, i drappi sono venduti con la regola della concorrenza sul prezzo. Indipendentemente dal grado di consapevolezza che i contemporanei potevano avere del fenomeno, si è così di fronte alla dirompente alternativa tra la difesa del vecchio ordine corporativo, che assicura la pace sociale ma ormai non piú lo sviluppo economico, e l’azzardo del nuovo che comporta la libera competizione sul mercato globale con la perdita di ogni rete protettiva.3

Molti saranno gli episodi che segneranno quello che per i benpensanti del Palazzo fu un autentico annus horribilis e molte le conseguenze delle scelte operate dalle differenti fazioni che si incrociarono e si scontrarono in quegli undici mesi, ma quel che vale davvero la pena qui di sottolineare è costituito dall’attualità di uno scontro e di una protesta che, all’interno di un primo processo di globalizzazione dei mercati e della produzione, rinvia immediatamente, fatte le dovute differenze, ai malesseri che agitano le società attuali; in cui la perdita di sicurezza e di certezze economiche e sociali dei lavoratori e delle classi medie in via di proletarizzazione è causa di proteste e scontri che non trovano ancora un indirizzo reale verso cui dirigersi, anche perché le grandi ideologie novecentesche possono fornire loro soltanto risposte parziali, se non addirittura fuorvianti.

Proprio come le certezze della ricerca storica precedente non bastano più a dare risposte alle domande sul nostro passato oppure sul nostro divenire futuro. Per questo il libro pubblicato da Salerno, nella collana Aculei diretta da uno storico attento ai movimenti sociali del passato e del presente come Alessandro Barbero, si rivela oggi estremamente stimolante e utile per tutti coloro che non vogliano più accontentarsi di una Storia data per scontata e di una Politica fatta di slogan e frasi fatte.


  1. R. Sabbatini, La sollevazione degli straccioni, pp.19-20  

  2. R. Sabbatini, op.cit. pp. 16-17  

  3. R. Sabbatini, p. 8  

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Nemico (e) immaginario. Lo sguardo cieco dell’Occidente https://www.carmillaonline.com/2019/10/11/nemico-e-immaginario-lo-sguardo-cieco-delloccidente/ Fri, 11 Oct 2019 21:15:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55097 di Gioacchino Toni

La cultura occidentale, permeata com’è dal senso di impotenza, di incapacità di immaginare un mondo diverso, insieme alla morte sembra aver rimosso anche ogni idea finalistica, preferendo vivacchiare in un eterno presente privo di storia e di prospettiva. È a tali rimozioni che è dedicato il recente libro di Régis Debray(*), Fenomenologia del terrore. Lo sguardo cieco dell’Occidente (Mimesis, 2019). In tale testo la riflessione dello studioso prende il via dalla necessità di confrontarsi con le gesta suicide degli attentatori jihadisti al fine di  comprendere le motivazioni che conducono degli individui, nel Ventunesimo secolo, a farsi esplodere con l’intenzione di [...]]]> di Gioacchino Toni

La cultura occidentale, permeata com’è dal senso di impotenza, di incapacità di immaginare un mondo diverso, insieme alla morte sembra aver rimosso anche ogni idea finalistica, preferendo vivacchiare in un eterno presente privo di storia e di prospettiva. È a tali rimozioni che è dedicato il recente libro di Régis Debray(*), Fenomenologia del terrore. Lo sguardo cieco dell’Occidente (Mimesis, 2019). In tale testo la riflessione dello studioso prende il via dalla necessità di confrontarsi con le gesta suicide degli attentatori jihadisti al fine di  comprendere le motivazioni che conducono degli individui, nel Ventunesimo secolo, a farsi esplodere con l’intenzione di uccidere il maggior numero possibile di civili, pensando che ciò sia richiesto dall’Onnipotente, oltre che risultare salvifico per loro stessi. Tale comprensione consentirebbe di fare i conti con la scomparsa della morte e di ogni idea finalistica da parte occidentale. «L’atto spesso suicida del terrorista ci costringe a pensare a quello che non vogliamo più e addirittura, per forza dell’abitudine, a quello a cui non riusciamo più a pensare: il posto che ha la morte nella nostra vita. O, più precisamente, il fatto che non ne ha più uno» (p. 9).

Con il termine “terrorismo” l’autore intende riferirsi alla «esecuzione pubblicitaria di una violenza estrema contro civili disarmati, al di fuori di qualsiasi guerra dichiarata, e destinata prima di tutto a fare scandalo» (pp. 9-10). Nel volume lo studioso si concentra esclusivamente sui casi di terrorismo jihadista che, nel periodo compreso tra il 1990 e il 2015, hanno messo a segno quasi cinquemila attentati-suicidi in quaranta diversi paesi.

Sino ad ora, sostiene Debray, in Occidente se si è dato molto spazio alla ricostruzione delle modalità organizzative degli attentati suicidi, molto meno sono state indagate le motivazioni ultime dei soldati di Allah. Volerle comprendere «non nega né sminuisce in nulla i fattori sociopolitici che sono in gioco: segregazione urbana, risacca neocoloniale, tragedia palestinese, abbandono scolastico, desiderio di avventura, fascinazione mediatica, tasso di disoccupazione, reclutamento su Internet, esclusione economica» (p. 11).

Il fatto che nei testamenti lasciati da diversi attentatori jihadisti si faccia esplicitamente riferimento alla gioia con cui si lascia questo mondo in vista della ricompensa offerta dall’aldilà, induce ad interrogarsi circa il legame tra le stragi di civili scelti a caso e la conquista del Paradiso. «L’attentato-suicidio del credente non è, dal suo punto di vista, un capriccio o una follia sanguinaria, ma il mezzo più razionale (ed è questa la cosa inquietante) per accedere immediatamente a un lupanare divino più appagante e più piacevole di quanto non furono il ricongiungimento degli Ebrei con i padri in Abramo, i Campi Elisi o le Isole Fortunate dei Greci o il Walhalla delle popolazioni germaniche» (p. 18). Occorre probabilmente confrontarsi con tali convinzioni per comprendere i motivi per cui gli occidentali faticano a intendere le motivazioni profonde che spingono diversi individui ad immolarsi.

«Quanto alla Città Celeste, è sparita dal nostro stock di credenze disponibili, soprattutto dopo il crac dei paradisi in terra. Ci sono rimasti solo i paradisi fiscali e il Club Med, una modesta consolazione. Risultato: mai l’azione pubblica è stata meno focalizzata sull’eventuale di quanto lo sia oggi; né le “lotte finali”, in terra come in cielo, sono state meno all’ordine del giorno […] Quando il telescopio di Galileo ha liquidato il concetto di empireo, dimostrando che lassù era esattamente come qui, e le scienze della terra scacciarono la mela e il serpente dai titoli di testa, i nostri defunti non avevano più un posto dove ritrovarsi. Perché ci sia un paradiso promesso, ci vuole un paradiso perduto. Per questo il cristianesimo si è trasformato socialmente in un ultraumanesimo, un’etica per comportarsi meglio e migliorare la vita in comune, e non in una preparazione alla vita eterna. Ne consegue anche il fatto che da queste parti, tra gli stessi non credenti, con il futuro che non illumina più il presente, il borghese brancola nel buio. Così siamo diventati persone che non si fanno fregare, adulti e matter of fact, convinti che queste superstizioni ancestrali non occupino più alcun posto fra noi» (pp. 27-29).

Debray propone anche un curioso parallelismo: sottolineando come la “radicalizzazione dell’Islam” avvenga proprio nell’era digitale che permette, oltre a un agevole collegamento in rete tra fanatici, il contatto diretto con le fonti scritturali private da qualsiasi filtro interpretativo, lo studioso vi individua analogie con la diffusione della Bibbia attraverso la stampa a caratteri mobili nell’Europa del XVI che finì col promuovere quel letteralismo testuale che ha un ruolo non irrilevante nei fondamentalismi.

Nel volume ci si sofferma su come diversi giovani, privi di un’educazione religiosa preliminare, passino dalla microcriminalità e dalla prigione ad una conversione repentina incentrata su una visione apocalittica dell’Islam nella convinzione che sia possibile un’accelerazione della fine del mondo attraverso il ricorso alla violenza. Non ci sarebbe in loro, sostiene Debray, alcuna volontà di costituire una società islamista, essendo la fine dei tempi percepita come imminente: «un giovane delle banlieue, senza un lavoro o una famiglia, sarà più facilmente un bigotto che un borghese alla moda con un lavoro. L’escatologia è l’ultima risorsa degli umiliati, la rivincita egualitaria dei miserabili, lo spiraglio nel buio, tanto più che nell’Aldilà le gerarchie sociali svaniscono» (p. 37).

Nel cristianesimo la Chiesa ha saputo mantere viva la Promessa salvifica rimandando il suo compimento a un momento futuro. «La formazione dei chierici della Chiesa e dei capi di partito non può che riassumersi in una pedagogia dell’attesa. […] Nella sua versione “scientifica”, il comunismo si è appellato alla “fase di transizione”, brandendo il programma minimo come forche caudine obbligatorie, accusando gli esaltati di erigere la loro impazienza ad argomento teorico e di far abortire, eterno peccato della sinistra, una Vittoria promessa a lungo termine, perché tutto arriva al momento giusto per chi sa aspettare. È là dove non esiste clero – pensiamo per esempio ai sunniti e ai neo-protestanti – né una gerarchia autorevole a raffreddare il surriscaldamento dei nuovi convertiti che la spinta maniaco-apocalittica è al culmine. La linea diretta con l’Altissimo fa rinascere l’ebollizione iniziale, che diventa iniziatica in un contesto di avversità, carestia o oppressione. Il Millenarismo è un populismo metafisico. Manda a quel paese i beneficiari della Dottrina, in particolare la popolazione rurale sradicata, e non è un caso che la ricerca del Millennio (la rivincita finale dei perdenti) abbia accompagnato la prima espansione urbana dell’Occidente, così come ora accompagna il mostruoso ampliamento delle metropoli in Africa e in Medio Oriente. Rimane ferma la convinzione, altro punto condiviso da religiosi e politici, per cui il martire che offre il suo corpo in olocausto manderà avanti le lancette dell’orologio e farà progredire la Storia. È questo il leitmotiv dell’offerta carnale, del sangue-semenza, del sacrificio non solo redentore ma anche acceleratore della salvezza collettiva. L’elettroshock che risveglierà l’eroismo dormiente delle moltitudini è la fede che ha animato i grandi capi delle speranze del XX secolo. Al termine della sua vita, Victor Hugo ammise: “Riconosco la Rivoluzione come un immenso sacrificio necessario per il futuro”. Il martirio del marxista esemplare avrebbe dovuto accelerare l’insurrezione delle masse, e far entrare in gioco i grandi battaglioni del proletariato. La fabbrica cristiana degli schemi mentali ha lasciato i suoi strascichi, tra cui forse – anzi, soprattutto – nel corpo e nell’anima delle avanguardie di ieri che hanno commesso un unico errore: credersi miscredenti» (pp. 40-42).

«Senza il culto dei morti, che presupponeva un aldilà, né il culto degli antenati alla cinese che invece può farne benissimo a meno, visto che si limita a far circolare il soffio cosmico in questo mondo, cosa ci resta per ingannare il nulla che incombe su di noi? I passeggeri della nave cristiana, per uccidere la morte, potevano contare su verità di fede […] e da che mondo è mondo la distruzione spirituale della distruzione corporea è al centro di tutte le nostre architetture simboliche […] La nostra, in Occidente, non si chiama metempsicosi, reincarnazione, trasmigrazione, sciamanesimo, mantenimento del ciclo cosmico tramite sacrificio umano, ascesa al cielo di Indra popolato di danzatrici e musicisti, ecc., ma Resurrezione. È il fiore all’occhiello delle nostre religioni della Salvezza. Da cosa bisogna salvarsi? Dal peccato originale, che portò la morte nel cuore dell’Eden dove vivevano Adamo ed Eva, immortali creature di Dio, fatte a sua immagine» (pp. 53-54).

Al Paradiso, sostiene l’autore, l’Occidente ha finito col sostituire il Progresso in un continuo passaggio da un’illusione a un’altra e ciò che cambia, ogni volta, «per darci l’impressione di essere noi a cambiare, non di stagione ma di destino, è l’accento posto sul tempo più vitaminizzato e vivificante dell’eterna coniugazione – passato, presente o futuro. I premoderni guardavano indietro a un’età dell’oro inventata ma perduta. I moderni guardavano davanti a loro, verso l’alba di un sole sofferente. Noi, postmoderni, inseguiamo su tapis roulant, con gli occhi bendati, lo scoop del giorno. Oriente, Occidente; ieri, oggi. C’è troppo passato nelle epoche della fuga all’indietro; troppo futuro in quelle della fuga in avanti. E adesso che in Occidente tutto è adesso, è il presente a mordersi la coda. Un eccesso di passato remoto scoraggia dall’iniziare perché non possiamo far altro che ripetere, e allora a che pro? E così anche un eccesso di presente – cosa iniziare di preciso?, dal momento che non sappiamo dove andare» (pp. 56-57).

Difficile dire, sostiene lo studioso, se sia meglio vivere lasciandosi «divorare da miti fondanti oppure da clic di approvazione» (p. 61); aver saputo separare le leggi umane dai precetti divini è un bene, ma il prezzo che si paga, afferma Debray, è la perdita di quel Regno al termine delle pene della vita «che non era di questo mondo ma che domani sarebbe stato il mondo stesso» (p. 62). In Occidente, continua l’autore, la morte dovrebbe decidersi a cambiare nome. «Non è più un trapasso, ma una trappola. Niente più suspense. Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate: l’inferno, non sono gli altri, è l’assenza di una meta […] Se il futuro, con qualche sotterfugio, ha avuto le sue illusioni, il “tutto e subito” riesce comunque a ingannare la fame. Genera tra gli esclusi un sentimento crescente d’impazienza. […] Porta all’esasperazione i giovani dei paesi poveri perché non hanno più ragioni per sopportare il loro abbandono, visto che non vedono una luce in fondo al tunnel. Tra i ricchi del Nord, l’individualismo del piacere può trasformarsi in cinismo (in mancanza di una spada di Damocle che pende sopra le teste). Quanto all’uomo comune, voi e io, abbiamo scambiato un’insicurezza con un’altra. Alla preoccupazione di mancare il bersaglio, Rivoluzione o Redenzione, subentra quella di non avere più bersagli. Né scopi di guerra, né tabelle di marcia, né cartelli. E le nostre società assumono la consistenza di cocci di vetro. Se l’unità di un popolo non poggia solo su un’eredità di ricordi ma anche e soprattutto su una prospettiva comune, giorno per giorno la vita degenera in un’avventura incerta. Nel nostro ben sopportabile purgatorio, resta una spina nel fianco: la morte. […] L’ultimo “passaggio”, strada senza uscita, viene giustamente ribattezzato “fine della vita”. Socialmente si fa di tutto per riparare il danno e ritrovare al più presto il sorriso: cravatta nera ventiquattr’ore, foto del morto vietata, cadavere tolto dalla vista dei bambini, veglia funebre scomparsa, carro funebre banalizzato, corteo funebre scomparso, cimitero in periferia. Il tutto culmina o sprofonda in una rapida autocombustione chiamata cremazione, dietro una parete divisoria, e non a cielo aperto su un rogo che dura ore, come si fa ancora in India. Possiamo vedere in questa invisibilità un addomesticamento, o un trasferimento clandestino, non solo inevitabile […] ma quasi riuscito» (pp. 64-69).

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(*)  Régis Debray è un personaggio controverso conosciuto sia per aver preso parte al lotta rivoluzionaria in Bolivia al fianco di Che Guevara che per l’accusa di essere stato uno dei suoi traditori, tesi sostenuta, ad esempio, dal film-documentario Sacrificio. Chi ha tradito Che Guevara? (2001) di Erik Gandini, Tarik Saleh, Mårten Nilsson, Lukas Eisenhauer e Johan Söderberg. Al suo ritorno in Francia, oltre a ricoprire vari incarichi governativi, Debray ha realizzato una serie di saggi che sembrano essere stati progettati per suscitare clamore, a volte forse più per mantenere la scena che non per creare un utile dibattito. Tra le opere tradotte in italiano si ricordano: Rivoluzione nella rivoluzione? (1968); La guerriglia del Che (1974); La gringa (1978); Dio, un itinerario (2002); Lo Stato seduttore (2003); Fare a meno dei vecchi (2005); Processo al surrealismo (2007); Cosa ci vela il velo? (2007); Il nuovo potere. Macron, il neo-protestantesimo e la mediologia (2018)

 

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Tre secoli di guerra civile https://www.carmillaonline.com/2019/03/07/tre-secoli-di-guerra-civile/ Wed, 06 Mar 2019 23:01:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51175 di Sandro Moiso

Pierre Miquel, Le guerre di religione, Res Gestae, Milano, 2019, pp. 636, € 24,00.

L’autore di questo libro uscito in Francia nel 1980, al tempo docente presso la Sorbona, e per la prima volta in Italia nel 1981, certamente non si sarebbe trovato d’accordo con il titolo di questa recensione. Avrebbe, cioè, tenuto fermo il punto sullo scontro di carattere religioso avvenuto in Francia tra il 1523 e il 1771, il periodo di cui appunto l’ampia ricerca si occupa. Eppure, eppure…

Oggi, ancor più di ieri, è evidente agli occhi di chi scrive che spesso è più il [...]]]> di Sandro Moiso

Pierre Miquel, Le guerre di religione, Res Gestae, Milano, 2019, pp. 636, € 24,00.

L’autore di questo libro uscito in Francia nel 1980, al tempo docente presso la Sorbona, e per la prima volta in Italia nel 1981, certamente non si sarebbe trovato d’accordo con il titolo di questa recensione. Avrebbe, cioè, tenuto fermo il punto sullo scontro di carattere religioso avvenuto in Francia tra il 1523 e il 1771, il periodo di cui appunto l’ampia ricerca si occupa. Eppure, eppure…

Oggi, ancor più di ieri, è evidente agli occhi di chi scrive che spesso è più il presente o ancor meglio il futuro a determinare le coordinate della ricerca storica, più che il passato in sé. Si potrebbe forse addirittura affermare che il passato in sé non esiste, essendo rideterminato da ogni stagione di nuove riletture dello stesso, messe in opera sulla base delle esperienze e delle esigenze del presente oppure sulle ipotesi derivate da nuove prospettive future.
In questo senso, sia come ricercatori che come antagonisti del presente, occupandoci di Storia e di studi sociali, così come di qualsiasi altra scienza, possiamo essere tanto agenti del quanto agiti dal futuro.

Il semplice ricordo o la memoria del passato in sé spesso invece finiscono col coincidere con la nostalgia o la difesa conservatrice delle tradizioni e delle nozioni acquisite, mentre sono soltanto i cambiamenti in atto nel presente a costringere la ricerca storica a sfidare i suoi limiti, spesso semplicemente costituiti da verità ed affermazioni che si ritengono, soprattutto in ambito accademico, valide una volta per tutte. Ma i cambiamenti, presenti e futuri, di carattere sociale, culturale e politico, in ogni epoca, costringono ad una rilettura del passato poiché a nuovi immaginari, sempre derivanti dalla materialità del mondo circostante, servono nuovi elementi di conoscenza e nuove articolazioni interpretative per sviluppare le proprie iniziali intuizioni. Rendendo così possibile, infine, che spesso sia il futuro ad agire sul passato (e sul presente), più di quanto faccia il secondo sul primo.

Ecco allora che bene ha fatto Res Gestae, casa editrice da sempre impegnata nel recupero e nella ristampa di testi di storia da tempo scomparsi dal mercato editoriale italiano, a ripubblicare questo testo, denso di informazioni e allo stesso tempo di lettura piuttosto scorrevole, dedicato ai quasi tre secoli che precedettero sostanzialmente l’affermazione delle idee illuministiche e la rivoluzione francese. L’autore infatti ci teneva a sottolineare proprio questo: quei duecentocinquanta anni di violenze, rivolte, roghi, massacri e scontri militari erano serviti comunque a creare le basi per una nuova libertà di coscienza e della successiva Grande Rivoluzione.

Eventi che di fatto significarono l’uscita da un’epoca in cui il pensiero religioso era ancora onnicomprensivo, utile a spiegare tanto i fatti spirituali e morali ricollegabili all’aldilà quanto le esigenze concrete e politiche espresse dalla vita materiale nel mondo secolare. Già nel Principe, d’altra parte, Niccolò Machiavelli aveva sottolineato l’importanza della religione come strumento politico di governo, rivelando così, già agli inizi del XVI secolo, come la religione assuma particolare importanza nella lotta politica là dove non esistono ancora altri strumenti interpretativi della realtà di carattere politico o sociologico.

Proprio ciò che successe tanto al tempo delle eresie medievali che, forse, una più attenta analisi storica rivelerebbe trattarsi di una diffusa resistenza all’affermazione delle nuove regole di una società mercantile in via di progressivo assestamento, quanto abbiamo ancora visto succedere in età a noi più vicine con movimenti sociali come quello di Davide Lazzaretti, il Cristo dell’Amiata, oppure i primi moti della rivoluzione russa del 1905 con la presenza del pope Gapon oppure, ancora, con gli attuali sussulti del radicalismo islamico in tutte le sue componenti.

Movimenti che si ammantano di religiosità proprio in assenza di una teoria laica e politica che serva a spiegare determinate contraddizioni sociali fornendo agli oppressi e ai rivoltosi una prospettiva di cambiamento e di vittoria oppure, e in questo caso soprattutto per quanto riguarda il radicalismo islamico odierno, a causa del fallimento delle teorie politiche messe in atto per raggiungere determinati risultati. Ad esempio il fallimento del nazionalismo arabo di stampo nasseriano e del socialismo di stampo baatista.

Non c’è dubbio che nei tre secoli di storia francese magistralmente analizzati, sul piano dello scontro religioso, sociale, politico e militare, dal testo di Miquel le contraddizioni fossero tante e distribuite su più livelli. Cattolici contro protestanti; signori locali contro la monarchia in difesa delle loro autonomie; borghesi contro vescovi e signori feudali, talvolta al riparo degli editti del re, ma talvolta contro lo stesso; interessi imperiali contro interessi papali; interessi dei contadini liberi contro gli interessi feudali; servi della gleba contro i signori, ma anche investiti in quanto contadini dalle mire espansive della borghesia cittadina sulle terre comuni; la presenza esigua ma significativa di una prima “classe operaia” istruita, ad esempio quella degli stampatori di Lione, che però riveste ancora le vesti di un apprendistato destinato domani a farsi imprenditore1 che si esprimeva con una rimessa in discussione dei principi della Chiesa di Roma a partire dalle critiche che le erano state mosse da Lutero e da tutti gli altri Riformatori.

L’elenco potrebbe ancora essere lungo e il gioco combinatorio delle rivalità e delle contraddizioni allungarsi all’infinito, ma ciò che conta a questo punto è sottolineare che, nel corso dei due secoli e mezzo presi in esame, lo scontro e il gioco delle alleanze tra le varie componenti sociali contribuì soprattutto a ridefinire le forme del nascente Stato moderno, con la sua volontà accentratrice che in seguito la Rivoluzione del 1789 avrebbe contribuito a completare soltanto cambiando il segno della classe al comando.

Ecco allora perché è giusto parlare di guerra civile: proprio perché l’obiettivo ultimo di quello scontro che vide al suo centro per lungo tempo quello con gli Ugonotti, ma anche la straordinaria ultima ribellione dei camisards della Linguadoca e le violente dragonnades messe in atto dal potere reale per reprimerla insieme a tutte le altre rivolte precedenti oppure la nascita della bandiera rossa sulle mura della ugonotta e indipendente città marinara di La Rochelle, fu quello di ridefinire i rapporti di forza politici e sociali che avrebbero dovuto sostanziare la nuova forma statale che ne derivò e che, ripeto, si completò soltanto con l’affermazione della borghesia durante la Grande Rivoluzione.

Rivoluzione che, in quanto dialettica e materiale sintesi delle lotte che l’avevano determinata nel corso dei secoli precedenti, rappresentò non tanto la vittoria di uno dei due attori principali (cattolici e protestanti, tanto per semplificare) ma, piuttosto, la negazione di entrambi attraverso la laicità e la centralizzazione politica giunte a piena maturazione con l’affermazione di classe della borghesia (che aveva in precedenza giocato le proprie carte, non sempre in maniera del tutto calcolata, su entrambi i fronti). Determinando così quella separazione tra Stato e Chiesa che, in Europa, soltanto in Italia sarebbero tornati a riunirsi sotto il Fascismo con i Patti Lateranensi del 1929.

Ma questa riflessione può essere oggi indotta, e questo giustifica completamente la riedizione e una rilettura attenta del testo in questione, dall’osservazione che ormai da più di un secolo, almeno centocinquant’anni se partiamo dalla Comune di Parigi, un’altra violenta e tutt’altro che sotterranea guerra civile si è aperta tra sfruttati e sfruttatori, sia della specie umana che dell’ambiente, che si risolverà soltanto con la ridefinizione delle forme sociali di governo e di produzione. Le forme non sono ancora del tutto date, ma ciò potrebbe essere dovuto al corso degli eventi oppure definirsi completamente soltanto al loro termine, ma certo è che dobbiamo, con intelligenza e lucidità di pensiero, renderci conto che la Comune, la rivoluzione russa, due guerre mondiali, le grandi dittature del ‘900, le lotte antimperialiste e operaie, il ’68, gli anni Settanta e le attuali lotte come quelle della Zad, dei NoTav o in difesa dell’ambiente e contro l’estrattivismo diffuso su scala planetaria oppure, ancora, la nascita di nuovi movimenti autonomi come quello dei gilets jaunes fanno tutti parte di una lunga, forse lunghissima, guerra civile destinata a ridefinire i confini del futuro della nostra specie. Uno scontro, quello che viviamo, che soltanto dal futuro, inteso come negazione dei rapporti sociali di produzione presenti e passati, può trarre l’ispirazione e le giuste motivazioni.

Lasciando agli attuali manutentori dell’ordine costituito il ruolo che toccò alle peggiori forze conservatrici, laiche o ecclesiastiche che fossero, dell’epoca studiata da Miquel. Ovvero quello di negare, con ogni mezzo, un futuro diverso e possibile affinché ciò potesse e possa ancora impedire qualsiasi azione di cambiamento del presente attuale e del passato.
Carcere, forca, tortura, costrizione all’abiura e violenza non sono stati strumenti repressivi tipici soltanto del passato, ma sempre più lo sono del presente. In ogni angolo d’Europa e del mondo e anche questo occorre chiamare col nome appropriato: guerra civile, aperta o strisciante che sia.


  1. L’attualità odierna di questo tema si può riscontrare dalla lettura di Silvio Lorusso, Entreprecariat, Krisis Publishing, Brescia 2018 (qui)  

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Ragazzi selvaggi affacciati alle finestre di un altro mondo https://www.carmillaonline.com/2018/08/01/ragazzi-selvaggi-affacciati-alle-finestre-di-un-altro-mondo/ Wed, 01 Aug 2018 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47670 di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce Il ventunesimo secolo inizia qui. Fuori dall’Occidente alla velocità della luce Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che [...]]]> di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra
Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce
Il ventunesimo secolo inizia qui.
Fuori dall’Occidente alla velocità della luce
Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio
Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che ho da dire
Questa è la fine di tutto ciò che è usuale
E questi saranno tempi in cui i mondi entreranno in collisione

Realizzate tutto ciò di fronte al Caos
In un universo indifferente e selvaggio».

Credo che siano davvero le parole più adatte per celebrare le decine di migliaia di persone che si sono raccolte, forse sarebbe meglio dire si sono polarizzate, intorno alla lotta No Tav della Val di Susa, ai suoi militanti, alle sue ragioni, al suo saper guardare al futuro.
Se il più ostile Tg regionale del Piemonte ha parlato di almeno 50.000 partecipanti, credo, senza timore di esagerare, che anche gli organizzatori possano confermare una simile cifra nell’enumerare tutti coloro che sono stati attratti magneticamente dall’area del Festival durante le quattro, meravigliose giornate.

Cinquantamila persone costituite al 90% da giovani compresi tra i sedici e i trent’anni. Ragazzi selvaggi non per i modi, ma per essersi lasciati trasportare dall’istinto, dall’amore per la libertà individuale e collettiva e dalla passione per un mondo diverso e altro. Per aver saputo costituire, massicciamente e senza alcun problema, una nuova comunità umana fatta di gentilezza, riso, felicità, lotta e rifiuto del modello esistenziale dominante.

Mentre i media e tutti i giornali mainstream, compreso il sempre più soporifero e inutile Manifesto, hanno dedicato all’evento poche righe, senza mai saperne cogliere la rilevanza oppure negandola per paura che di questa si accorgano altri milioni di giovani, italiani e stranieri esattamente come quelli che hanno popolato l’iniziativa e il suo disordinato, coloratissimo e vastissimo campeggio, i partecipanti, con la sola loro presenza, hanno saputo dire di NO al mondo dei grandi progetti, del capitale finanziario, delle mafie e camarille politiche, soprattutto di quelle che ancora si fingono di “sinistra”.

Ma il Re è nudo, e sarà inutile chiedersi ancora a “sinistra” dove sono i giovani: sono da un’altra parte, sulla frontiera delle lotte e dei cambiamenti magmatici che già si delineano all’orizzonte.
Sono ragazze e ragazzi bellissimi, detentori e portatori di un nuovo canone estetico e di nuovi desideri che, allo stesso tempo, sono coraggiosi, ingenui e maturi come tutti gli altri che li hanno preceduti nel tempo sullo stesso campo di battagli.

Sono giovani ragazzi selvaggi come quelli descritti decenni or sono da William Burroughs, il cui fantasma, in un ambiente off limits per le forze del disordine, vegliava sul tutto al bivio per Venaus sulla strada del Moncenisio, seduto come sempre con il suo fucile messo di traverso sulle ginocchia. Da lì la polizia e i carabinieri non potevano passare.

Nemmeno dopo la manifestazione, formata da migliaia di persone, che aveva raggiunto il cantiere fasullo e truffaldino come tutta l’opera, in Val Clarea, nonostante la pioggia e i soliti blocchi posti lungo il suo percorso.
Stop ai lavori! Si sente già nell’aria odore di vittoria mentre allo stesso tempo i fantasmi e gli schiavi del Capitale, come servitori traditi ed abbandonati, cercano di portare ancora le loro ragioni meschine e mefitiche sugli schermi delle tv e su pagine di giornali ormai destinate ad essere stracciate dal vento della rivolta e della gioia di vivere.

Non saranno infatti i tweet del ministro Toninelli a chiudere l’opera: lo hanno già fatto una lotta più che ventennale e una mobilitazione che cresce ogni anno di più, mentre in maniera inversamente proporzionale scendono le ragioni e le possibilità di realizzazione di una linea ad alta velocità nata morta. Come il congelamento da parte della società TELT di un bando internazionale per l’appalto di lavori per un valore di 2,3 miliardi di euro ha dimostrato proprio nei giorni seguenti la manifestazione.

Manifestazione in cui la parte musicale serale ha costituito soltanto uno degli aspetti, durante la quale, sia dal palco che nelle interviste rilasciate nel backstage, molti artisti si sono apertamente schierati sia a fianco della lotta NoTav che di quella NoTap. Mentre durante il giorno presentazioni di libri ed autori si affiancavano a dibattiti, con militanti italiani e stranieri, sulle trasformazioni del lavoro, sulla questione dei migranti, sulla fine del Novecento “politico” e sulla fine di un paradigma partitico di rappresentanza di cui soltanto da qualche tempo si è iniziata comprendere l’importanza e l’impatto sulle lotte reali e sulle loro forme organizzative.

Dibattiti in cui si è parlato di repressione, autodifesa e trasformazione del Diritto. Di continuità tra Fascismo e Repubblica, smantellando il paradigma istituzionale falsamente democratico e antifascista.
Della Palestina e dell’indipendentismo catalano e, ancora, della magnifica e vittoriosa esperienza della ZAD di Notre Dame des Landes così come delle lotte francesi contro la loi travail e dei cortei di testa a cui hanno dato vita migliaia di manifestanti di ogni età e appartenenza sociale.

Si è parlato del Rojava e dello straordinario esperimento comunitario delle sue genti e si è parlato di ambiente, di natura e dei costi di realizzazione di uno dei tanti mostri tecnologico-speculativi proposti da un modo di produzione fatiscente e giunto ormai al proprio promontorio tra i secoli. Dibattiti e presentazioni, gite e passeggiate in cui la presenza è sempre stata alta e motivata.

Anche se, per ora, ci si è solo affacciati alle finestre di un altro mondo, già si sente nell’aria l’annuncio:
Genti della Terra
Una nuova stagione è iniziata
La creatività e l’immaginazione trionferanno sul lavoro morto
e sul valore feticcio estorto con la forza dalla fatica di milioni di individui.
Così da dare vita ad un mondo senza barriere etniche, di classe, genere e senza confini tracciati da nazioni ed imperi ormai condannati alla polvere dei secoli, come tutti i loro predecessori.
In cui la Vita possa finalmente trionfare sulla Morte, i suoi servi e i loro miserabili feticci.

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Linee di fuga. Pratiche di rischio e ridefinizione dell’esistenza https://www.carmillaonline.com/2018/01/09/linee-di-fuga-pratiche-di-rischio-e-ridefinizione-dellesistenza/ Mon, 08 Jan 2018 23:02:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42340 di Gioacchino Toni

il rischio […] è il prezzo che ogni uomo paga ad ogni istante per riscattare la propria libertà […] Cercare di non correre rischi […] sgnifica condannarsi a non cambiare le cose, anche se non sono ideali (David Le Breton)

Uscito in Francia nel 2012, è da poco stato tradotto in italiano il volume Sociologia del rischio (Mimesis, 2017) di David Le Breton, opera in cui il docente di Sociologia e Antropologia presso la Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo, oltre ad analizzare le principali tipologie di insicurezza sociale che caratterizzano l’attualità, si sofferma sul ruolo giocato [...]]]> di Gioacchino Toni

il rischio […] è il prezzo che ogni uomo paga ad ogni istante per riscattare la propria libertà […] Cercare di non correre rischi […] sgnifica condannarsi a non cambiare le cose, anche se non sono ideali (David Le Breton)

Uscito in Francia nel 2012, è da poco stato tradotto in italiano il volume Sociologia del rischio (Mimesis, 2017) di David Le Breton, opera in cui il docente di Sociologia e Antropologia presso la Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo, oltre ad analizzare le principali tipologie di insicurezza sociale che caratterizzano l’attualità, si sofferma sul ruolo giocato dal rischio e dalla paura nella vita degli individui, soprattutto giovani, nella contemporaneità.

«Il rischio è una rappresentazione sociale, prende dunque forme mutevoli da una società e da un periodo storico all’altro, secondo le categorie sociali, e anche oltre, poiché le apprensioni delle donne differiscono da quelle degli uomini, quelle dei più giovani da quelle degli anziani, ecc.» (p. 37). Nella società contemporanea sembrano convivere una preoccupazione politica di riduzione dei rischi (incidenti, malattie e catastrofi di ogni tipo) e una ricerca individuale di sensazioni forti. Solitamente il rischio è vissuto come una minaccia all’equilibrio, un’alterità che sfugge al controllo ma, a volte, è proprio per infrangere quell’equilibrio percepito come routine, che gli individui si assumono deliberatamente dei rischi al fine di ridefinire l’esistenza.

L’ossessione per la sicurezza che permea la società contemporanea finisce spesso con il soffocare la possibilità per l’individuo di realizzazione e di esplorazione dell’ignoto. «La richiesta di sicurezza si traduce con la volontà di un controllo sempre maggiore delle tecnologie, dell’alimentazione, della salute, dell’ambiente, del trasporto, addirittura della civiltà, ecc. Il rischio ormai non è più una fatalità, ma un fatto di responsabilità e diviene una posta in gioco politica, etica, sociale, oggetto di numerose polemiche intorno alla sua identificazione e quindi ai mezzi per prevenirlo» (p. 16).

Oltre a un uso del rischio come strumento di controllo e di preservazione dell’esistente, nella società contemporanea è individuabile anche una ricerca del rischio da parte di individui che, secondo Le Breton, al contrario, intendono infrangere quello che percepiscono come mortifero stato delle cose. Il sociologo legge nei comportamenti a rischio delle giovani generazioni «un gioco simbolico o reale con la morte, una messa in gioco di se stessi, non per morire, tutt’altro, ma con la possibilità non indifferente di perdere la vita o di conoscere l’alterazione delle capacità simboliche dell’individuo […] Essi sono indice […] di una voglia di vivere insufficiente. Sono un ultimo sussulto per estirparsi da una sofferenza, mettersi al mondo, partorire se stessi nella sofferenza per accedere infine a un significato di sé e riprendere la propria vita in mano» (pp. 17-18).

A partire dalla fine degli anni Settanta si sono diffuse in Occidente pratiche sportive estreme votate a «una ricerca d’intensità d’essere» minacciata da una vita eccessivamente regolata da quel rappel à l’ordre seguito ad un decennio di diffusa pratica del desiderio. «Il gioco simbolico con la morte è quindi piuttosto motivato da un eccesso di integrazione, è una maniera radicale di fuggire la routine». Tanto tra i più giovani, quanto tra coloro che praticano sport estremi, «si tratta d’interrogare simbolicamente la morte per sapere se vivere vale la pena. Lo scontro con il mondo ha lo scopo di costruire del senso per avere finalmente al gusto di vivere o per mantenerlo» (p. 18). Siamo pertanto di fronte, sostiene Le Breton, alla volontà di abbandonare i punti di riferimento abituali per intraprendere un’esperienza sconosciuta rischiosa e, nei casi in cui il rischio venga deliberatamente cercato o accettato, questo si rivela una risorsa identitaria.

«La risposta alla relativa precarietà dell’esistenza consiste proprio in quest’attaccamento a un mondo il cui godimento è limitato. Ha valore solo quello che può andare perduto e la vita non è mai acquisita una volta per tutte come un’entità chiusa e garantita di per sé» (p. 30). Il vero pericolo nella vita, suggerisce lo studioso, deriverebbe piuttosto dal non mettersi in gioco, dall’accettare la routine senza mai tentare d’inventare né nel rapporto col mondo, né nella relazione con gli altri esseri umani. «L’individualismo contemporaneo riflette il fatto che il soggetto si definisce attraverso i propri riferimenti. Questi non è più sorretto da regole collettive esterne ma costretto a trovare in se stesso le risorse di senso per restare attore della propria esistenza […] L’individualizzazione del senso aumenta il margine di manovra dell’individuo all’interno del tessuto sociale, gli lascia la scelta delle proprie decisioni e dei propri valori […] slega in parte l’individuo dalle antiche forme di solidarietà, dai percorsi un tempo ben definiti che rafforzavano le appartenenze di classe, d’età, di genere» (pp. 32-33).

Nei contesti popolari caratterizzati da disoccupazione e precarietà economica, l’esistenza tende a tradursi in un senso di insicurezza che impedisce ai soggetti di proiettarsi positivamente nel futuro. La deregolamentazione dell’attività lavorativa «porta i dipendenti a una relazione individualizzata con il proprio lavoro, a una rivalità tra di loro, a un’incertezza sulla durata del contratto nell’impresa, a una flessibilità difficile da vivere… La scomparsa del lavoro e della società salariale quale centro di gravità dell’esistenza individuale e famigliare spezza ogni legame con uno spazio privilegiato e alimenta l’occupazione precaria. […] Il liberalismo economico frantuma le antiche forme di solidarietà e prevedibilità, instaurando una concorrenza generalizzata, porta a un contesto di divisione sociale, di dispersione del simbolico che tiene raramente in conto l’altro» (pp. 32-34).

Se liberamente scelto, il rischio può anche essere un modo per riprendere il controllo di un’esistenza in balia dell’incertezza o della monotonia; nella condotta rischiosa può essere intensificato o ritrovato il gusto di vivere. Spesso gli studi sulla società del rischio analizzano quest’ultimo solo collegandolo negativamente ai pericoli, come se si trattasse esclusivamente di una minaccia a cui si deve fuggire. Raramente viene preso in considerazione il fatto che il rischio può essere anche «un piacere che si trasforma in modo di vivere» (p. 96). Non a caso Le Breton dedica qualche passaggio al celebre romanzo di James G. Ballard, Crash (1973), tradotto cinematograficamente dall’omonimo film del 1996 di David Cronemberg, ricordando come «l’incidente, che sia spettacolare o diluito nella banalità dei giorni, come la morte sulle strade, [sia] una delle vie maestre dell’immaginario sociale contemporaneo» (p. 52).

Nel corso degli anni Ottanta si diffondono tra i rappresentanti delle classi medie e privilegiate occidentali attività fisiche e sportive votate al rischio; la sicurezza economica di cui dispongono costoro «induce, come contrappeso, alla ricerca di un’intensità dell’essere che manca loro nella vita quotidiana. Sono, inoltre, soprattutto gli uomini che si dedicano a queste pratiche volte a sviluppare la capacità di resistenza, di accettazione del dolore o della ferita, la volontà di essere all’altezza, il gusto del rischio, il controllo della paura, ecc., valori tradizionalmente associati alla “virilità” […] Giocare con il rischio è la strada maestra per rompere le routine e “ritrovare le proprie sensazioni”» (p. 97).

L’avventura rischiosa a cui ci si sottopone, sostiene Le Breton,

è una sospensione radicale dei vincoli dell’identità e delle routine della vita quotidiana e professionale […] dove l’individuo non deve più nulla agli altri nel suo avanzare […] La moltiplicazione delle attività fisiche e sportive ad alto rischio va di pari passo con una società dove, per un numero crescente dei nostri contemporanei, vivere non è più sufficiente. Bisogna provare il fatto di esistere e mettersi alla prova da soli per decidere che valore dare alla propria vita […] La nuova avventura è una forma contemporanea di spettacolo sportivo che valorizza l’individuo in un impegno fisico di lunga durata dove il rischio di morire non è trascurabile, se non addirittura al centro del progetto. Negli anni Ottanta, questa nuova avventura si è imposta come un giacimento fertile e significativo della mitologia occidentale […] Il gioco con il rischio moltiplica le sue sensazioni e il sentimento di scappare dalla sua vecchia condizione, di rimettersi pienamente al mondo. Questo mettersi in pericolo può arrivare fino all’ordalia, alla ricerca di sensazioni forti […] Il dolore che si prova è una sorta di sostegno dell’esistenza, una garanzia per vivere dopo aver sormontato un’avversità creata ex-novo (pp. 98-100).

Ed è proprio nello «scontro fisico col mondo» che l’individuo cercherebbe i propri riferimenti tentando di mantenere il controllo su un’esistenza che sembra altrimenti sfuggirgli. «I limiti prendono allora il posto dei limiti di senso che non riescono più a instaurarsi. Attraverso la frontalità della sua relazione col mondo, l’individuo moderno cerca deliberatamente degli ostacoli; mettendosi alla prova, si dà l’opportunità di trovare i riferimenti di cui ha bisogno per produrre la propria identità personale» (p. 101).

Numerose attività fisiche e sportive delle giovani generazioni sono altrettanti modi di sentirsi vivi attraverso l’impegno fisico, la stanchezza, il dolore, la sensazione del pericolo. La pelle, il sudore, le sensazioni fisiche, il dolore muscolare sono degli agganci al mondo reale che permettono di provare la propria consistenza. Anche se i punti di partenza sono di un altro ordine, le attività fisiche e sportive di certi adolescenti non sono molto distanti dai comportamenti a rischio per il gusto che li caratterizza di andare sempre più lontano, una passione dell’eccesso. Ma esse sono socialmente valorizzate, non soltanto dalle giovani generazioni che vi trovano un terreno di emulazione e di comunicazione, ma anche dall’insieme della società che vi vede un’affermazione ludica della gioventù. I valori come il coraggio, la resistenza, la vitalità, ecc., vengono celebrati e abbondantemente utilizzati nelle campagne pubblicitarie o di marketing. In una società della competizione, della performance, le giovani generazioni sono inclini a dedicarsi con foga alle attività fisiche e sportive dette “ad alto rischio” dove il gioco con il limite è un elemento fondamentale. Queste generazioni vi trovano una forma incontestabile di narcisismo, alimentando la convinzione di essere al di sopra della massa, virtuose, e di far parte degli eletti […] Il rischio è per le giovani generazioni anche una risorsa per costituirsi come soggetti. La negazione della morte, del pericolo, la preoccupazione costante per la sicurezza fanno della messa in pericolo di sé l’ultima possibilità di appropriarsi di una relazione personale con la propria esistenza in un mondo nel quale il giovane non si sente riconosciuto (pp. 101-102).

Insomma, l’espressione “comportamenti a rischio” finisce con il riunire una serie di pratiche che mettono, simbolicamente o realmente, in pericolo la vita e risultano  accomunate dall’esposizione deliberata dell’individuo al rischio di procurarsi dolore o morte, al fine di alterare il proprio futuro. «I comportamenti a rischio mettono in pericolo le potenzialità del giovane, minacciano le sue possibilità d’integrazione sociale, e spesso riescono, come nel vagabondaggio, nello “sballo” o nell’adesione a una setta, a spezzare i vincoli dell’identità in una volontà di scomparsa da se stessi […] L’agire è un tentativo psichicamente economico di sfuggire all’impotenza, alla difficoltà di pensarsi, anche se può essere carico di conseguenze» (p. 103).

Mentre nelle ragazze, solitamente, i comportamenti a rischio assumono forme discrete e silenziose (come i disturbi alimentari, le pratiche di autolesionismo e i tentativi di suicidio), nei ragazzi si traducono più facilmente in esposizioni di sé, e a volte di altri, magari sotto lo sguardo dei propri simili, in episodi di violenza, di delinquenza e di abuso di droghe. «I comportamenti a rischio riguardano giovani di tutte le fasce sociali, anche se ogni condizione sociale vi lascia il proprio segno. Un giovane di ceto popolare che non si sente bene con se stesso sarà più incline alla piccola delinquenza o alle dimostrazioni di virilità sulla strada o con le ragazze, mentre un giovane di un ceto più abbiente avrà, per esempio, più facile accesso alle droghe» (p. 104).

Secondo Le Breton è la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio giovanili che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. «I comportamenti a rischio sono riti intimi di contrabbando che mirano a fabbricare un senso per poter continuare a vivere […] Il sentimento di essere di fronte a un muro invalicabile, un presente che non finisce mai. La sofferenza traduce il sentimento di essere privi di qualunque avvenire, di non poter costruirsi come soggetto. Se non è nutrita di progetti, la temporalità dell’adolescente si schianta contro un presente eterno che rende insuperabile la situazione dolorosa. Si declina giorno per giorno. Non ha la fluidità che permette di passare ad altro» (p. 105). I comportamenti a rischio sarebbero, dunque, una ricerca, per quanto brancolante e dolorosa, di una via di fuga da un mondo ostile su cui non si riesce a intervenire.


Linee di fuga: serie completa

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Zona 41-B https://www.carmillaonline.com/2017/07/06/zona-41-b/ Wed, 05 Jul 2017 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39222 di Daniele Gambit

Una nuova giornata sta iniziando nella Zona 41-B. I raggi di sole, proiettati dallo schermo della cupola sovrastante, illuminano i palazzi e i giardini, mentre Marcus, padre dei Rodriguez, si mette sotto le coperte dopo una nottata di lavoro. «Anita sveglia, tra un’ora inizi tu…» La moglie, a fianco a lui, ancora stanca dal turno del giorno prima. «Ancora 5 minuti…» Come molti altri della zona, Marcus lavora come commesso. A un fast food. Non che debba uscire di casa per recarsi al lavoro. La sua postazione Virtual Mode l’ha ottenuta facendo un po’ [...]]]> di Daniele Gambit

Una nuova giornata sta iniziando nella Zona 41-B. I raggi di sole, proiettati dallo schermo della cupola sovrastante, illuminano i palazzi e i giardini, mentre Marcus, padre dei Rodriguez, si mette sotto le coperte dopo una nottata di lavoro.
«Anita sveglia, tra un’ora inizi tu…»
La moglie, a fianco a lui, ancora stanca dal turno del giorno prima.
«Ancora 5 minuti…»
Come molti altri della zona, Marcus lavora come commesso. A un fast food. Non che debba uscire di casa per recarsi al lavoro. La sua postazione Virtual Mode l’ha ottenuta facendo un po’ di spazio in studio, tra la scrivania e la finestra. A seconda degli orari, sempre variabili e spesso imprevedibili, si mette sul sedile, indossa il visore, i guanti, ed è subito in cucina tra i fornelli. O alla cassa a servire i clienti. Insomma, dove vi sia bisogno, nella sede in cui vi sia bisogno: Zona 30-F, 45-C, o 67-V3, che resta la sua preferita per la simpatia dei colleghi, e nella quale è stato l’ultima notte a servire qualche centinaio di panini.
Anita a differenza del marito ha orari fissi. Passandosi le mani tra i capelli si alza, cerca le pantofole sotto il letto e si dirige in cucina, dove un caffè la sta già aspettando grazie ai sensori di rilevamento del sonno, che hanno iniziato a prepararlo da quando il battito cardiaco di Anita è aumentato. Inizialmente Marcus e Anita condividevano la stessa postazione, poi il sovrapporsi dei turni e la buona disponibilità economica li spinsero a comprare una postazione per la moglie, sistemandola in mansarda. Anita è un’insegnante di lingue a una scuola di fascia media. Ogni mattina si predispone, casco e guanti, ed eccola davanti a una classe di trenta giovani studenti della zona 67-4F. O almeno, così le hanno detto.

L’edificio di Marcus e Anita è un colosso di 20 piani, ciascuno di 15 appartamenti. Non uno dei più grandi della Zona, ma in una posizione molto centrale e vicina ai servizi. Giù, davanti all’ingresso, alcuni anziani stanno già portando i nipoti a giocare al parco.
«Giornata nuvolosa oggi. Speriamo non siano in programma piogge per il weekend.»
Carl controlla: prende il suo palmare, apre la scheda di programmazione meteorologica.
«No Ernesto, possiamo stare tranquilli, da domani riprende bello. Per fortuna, non avrei sopportato di passare un altro weekend interamente connesso su Zona 18…»
Alcuni dei residenti, i più convinti dell’efficienza della struttura a zone, spesso avevano inviato richieste al Settore Centrale perché impostassero sempre bel tempo. Che ce ne facciamo di un cielo artificiale – si chiedevano – se poi continuiamo a far piovere?
Di risposta, dal Settore rispondevano che queste erano disposizioni imposte dal Dipartimento di Salute, perché un’alternanza di giornate uggiose con schiarite regolarizzava i cicli dell’umore. D’altronde un vantaggio non indifferente di avere un cielo programmato sopra la testa era la possibilità di un meteo accurato al 100% almeno per la settimana successiva, dopo la quale le previsioni erano leggermente inaccurate per l’influenza di fattori casuali appositamente inseriti per simulare il più possibile il cielo “di fuori”.

Il vecchio Joe diceva sempre che suo nonno gli aveva detto che suo nonno era uno degli ultimi ad aver visto il cielo “di fuori”. Prima dell’Evento, ovviamente. Ma i più pensavano che Joe raccontasse un po’ troppe favole, e che l’Evento fosse di gran lunga anteriore all’avo di cui raccontava le gesta. D’altronde nessuno può dirlo con esattezza. Perché nessuno, nella Zona, sa quanto tempo sia trascorso dall’Evento.
Più passano le generazioni, più sembra che ai giovani non importi indagare troppo sulla questione. Accettano il fatto di vivere nella Zona, o al massimo di trasferirsi in un’altra per studiare o lavorare, ma non cercano come alcuni loro vecchi la ragione della struttura in zone. Sanno che è per la sicurezza, e gli basta.
Il giovane Antony, il figlio più piccolo dei Rodriguez, ogni giorno, finite le lezioni – o, per meglio dire, una volta sconnesso dal visore per l’apprendimento – esce a giocare al parco sotto casa. La figlia di mezzo, Susy, è più propensa a restare sintonizzata anche nel tempo libero. Si sente con amiche di altre zone conosciute sul virtuale, poi si connette a AlterLife e passa le serate a feste e concerti. La sua destinazione preferita restano le feste in spiaggia, e si chiede se mai un giorno vedrà il mare. Per davvero. Il più grande dei Rodriguez, Martin, ha più di 30 anni, e ha lasciato la Zona 41-B per fare la fortuna altrove, come molti della sua età.

Il Cafè è uno degli spazi più frequentati da chi gradisce di tanto in tanto incontrare fisicamente qualcuno alla Zona, anche se ovviamente è disposto di una sala interamente piena di visori per l’interazione ludica con giocatori da remoto. Calcio, biliardo, rugby, pallavolo. Si può giocare a tutto da una semplice postazione. Victor è seduto ad un tavolo da un paio d’ore, quando Marcus entra nel locale. A parte loro solo qualche cliente abituale e un giovanotto che affrontava a hockey sul ghiaccio un giocatore di Zona 73.
«Victor, da quanto tempo! Hai una faccia stanca, che hai combinato oggi?»
«Poco di nuovo. Oggi ho avuto una lunga chiacchierata con Frank, sai…»
Frank, il figlio maggiore di Victor, è stato trasferito da ormai un anno alla zona adiacente, dotata di una buona facoltà di Ingegneria. Da allora, come è prassi, non è più tornato a far visita alla 41-B, e i familiari lo contattano esclusivamente tramite Virtual Mode.
«Dice di essere passato al test di Ingegneria Aereospaziale, ora ha i crediti sufficienti per entrare in tirocinio…»
«Che bella notizia! Sarà felice Erika! È sempre stata premurosa riguardo l’istruzione dei vostri figli… ancora qualche anno e poi tocca anche alla nostra Susy partire…»
L’espressione di Victor non è entusiasta come quella del suo interlocutore.
«Davvero sei così contento? Di vedere partire tua figlia per… bah, chissà dove?»
Marcus cerca di distogliere lo sguardo.
«Lo sai che non mi piacciono certi discorsi, Vic…»
«Ah no? Non ti piacciono? Lo sai che è da quando è partito che non vedo in faccia mio figlio? Sempre e solo tramite quel fottuto visore, e vuoi sapere una cosa? La sua voce… la sua voce non è quella di Frank, capisci? E se non fosse davvero lui.. E se…»
Marcus si alza dalla sedia, mostra evidenti segni di irritazione, alza la voce.
«E “se” cosa? Ancora con questa storia?! Ne abbiamo già parlato fin troppo, e non continuare se non vuoi che tagli i ponti con te, Victor! Frank è alla zona qui a fianco, è dovuto partire come tanti per avere un lavoro migliore! La voce? Ma che storia è questa, sarà qualche imperfezione del sistema audio, o il fatto che alla sua età la voce può cambiare… ma che cosa vuoi ancora? Il Settore ci fornisce di qualunque necessità. Ci consegna cibo, attrezzi, vestiti. Possiamo ordinare praticamente qualunque cosa, e mai nulla di grave ci è successo. Perché dubitare ancora, se è dal giorno dell’Evento che siamo stati sempre al sicuro?»
Victor avrebbe dovuto ponderare meglio la domanda che stava per fare, perché già sapeva la reazione che Marcus avrebbe avuto.
«Come posso non dubitare di nulla come fate voi, se neanche sappiamo cosa sia stato l’Evento? Un’invasione? Un’epidemia? Una guerra? Come fate a non porvi domande…»
Marcus sbatte il bicchiere sul tavolo.
«Ora basta! Finiscila! Non voglio più fare questi discorsi con te! Già lo sapevo che eri uno di quelli, me lo dicono sai, che parli con Rob, Virna, e la loro banda! Ora smettila di parlare di queste cose… o devo ricordarti la fine che fece Mike?»
Victor ricade nel silenzio, deglutendo, gli occhi fissi sul pavimento.

Sono in pochi nella zona quelli che affrontano con leggerezza la questione, anche se in intimità. Vero anche il fatto che nella zona l’intimità e la privacy erano fatti alquanto relativi, vista la presenza di un sistema di monitoraggio distribuito collegato direttamente con il Settore. Mike. Di Mike nessuno ormai parla, anche se alla sua storia tutti pensavano almeno una volta al giorno. Mike iniziò a dubitare attorno ai vent’anni, quando suo fratello lasciò la zona per recarsi sul fronte. Erano tempi in cui l’esercito reclutava almeno una decina di giovani per zona, per combattere contro i Forestieri. Alcuni pensavano che fossero loro la causa dell’Evento, ma nulla era dato sapere. Soltanto che si doveva stare attenti, perché in alcune zone i Forestieri erano riusciti ad entrare manomettendo i servizi di sicurezza dei cancelli, compromettendo l’isolamento delle zone. Alti, di carnagione scura, dicevano. Ma per distinguere un Forestiero in modo inequivocabile vi era solo un modo: sulla nuca erano sprovvisti di codice magnetico identificativo. Nessuno alla zona 41-B ha mai visto un Forestiero dal vivo, né una loro incursione. I notiziari a volte parlavano di attacchi compiuti verso altre zone, ma le informazioni erano sempre incomplete o poco chiare.

Il fratello di Mike partì a settembre, pochi mesi prima della notizia di un attacco dei Forestieri ad una base militare. Ignorare lo stato e la posizione di suo fratello fu per Mike insostenibile. Iniziò a cercare informazioni, trovare contatti in Rete, persone che dicevano di saperne di più, sull’Evento, sui Forestieri, sulle zone. Un giorno arrivò una comunicazione per lui direttamente dal Settore Centrale, lo metteva in allerta su alcune sue recenti visite su portali non autorizzati. Nei giorni successivi Mike si chiuse in casa, alcuni dicono che bloccò anche l’invio dei file di registrazione della sua abitazione, per non essere monitorato. Da lì a poco, una mattina il cancello della zona si aprì. Non per far entrare viveri o prodotti come al solito, ma un comando dell’esercito, che sfondò la sua porta di casa, prese Mike, e lo portò via dalla zona. Da quel giorno di lui nessuno seppe più nulla, e molti pochi si fecero domande su tutto quanto.

Marcus d’altronde ha ragione. All’interno della zona 41-B c’è praticamente tutto. La palestra, le scuole, i locali per la sera, anche se molti preferivano le versioni virtuali, così da poter frequentare anche locali di altre zone, o visitare posti lontani. La generazione di Marcus è una delle ultime di quelli che non sono mai usciti dalla propria zona. Nati, cresciuti e il più delle volte deceduti in quel chilometro quadrato racchiuso da alte mura metalliche di cinquanta metri e sovrastato da uno schermo come firmamento. Per stare al sicuro.

La sera in cui avvenne il fatto, Marcus è al Cafè, con alcuni suoi amici di vecchia data. Stanno seguendo la partita in diretta dalla zona 18-K, quando Dan e Manuel arrivano di corsa al locale. Con fare affannato, si avvicinano al tavolo, sussurrando all’orecchio.
«Marcus, Tom, dovete venire a vedere… quello che è arrivato…»
Quella sera Dan e Manuel, insieme ad altri due, erano di turno al portale di ingresso. Non che fosse successo qualcosa di strano nell’ultimo periodo, vi erano stati giorni in cui la guardia si manteneva costante a dieci persone, ma anche in tempi tranquilli un minimo di controllo era sempre garantito.
Quando Marcus arriva, accompagnato dagli altri, trova un gruppo di una decina di persone già raggruppate attorno a un mucchio di scatoloni e casse arrivate dall’esterno. Così arrivava il materiale. Una di queste casse, particolarmente lunga per contenere pali, era stata aperta, tutti osservano con stupore il suo contenuto.
«Abbiamo sentito qualcosa muoversi, per questo abbiamo provveduto ad aprire.»
Marcus si avvicina facendosi spazio tra i presenti, punta la luce della torcia. Nel suo sguardo un misto di meraviglia e terrore.
Un uomo sulla quarantina, mulatto, giace davanti a sé, rannicchiato per riuscire a stare nascosto e sigillato all’interno della scatola. Il respiro fioco e i movimenti lasciano intendere che sia in una sorta di stato confusionale, forse svenuto per il caldo, o per la mancanza di alimentazione da lungo tempo. Sulla nuca, esposta dalla sua posizione rannicchiata, non si vede alcun segno di identificazione.
«Un Forestiero! È un forestiero!», mormorano intorno.
«Pensiamo che si sia introdotto nella cassa per nascondersi, per fuggire. Di certo è riuscito a superare i controlli. Quando abbiamo aperto la cassa credevamo fosse ormai morto, poi ha ripreso a muoversi, ma non conosciamo il suo stato di salute.»
«Tom, che facciamo?»
«Dobbiamo contattare subito le autorità!»
«Stai scherzando, capite cosa abbiamo tra le mani? E se sapesse qualcosa? E se fosse stato, o addirittura provenisse… da fuori?»
«Non voglio sentire questi discorsi, né mettermi nei guai. Qualcuno chiami la centrale.»
Inizia un’animata conversazione, che non mostra segno di durare poco. È Marcus, irritato, a riprendersi l’attenzione.
«Basta! Fermi! Smettiamola di litigare, così non concludiamo nulla! Tom, io e te portiamo l’ospite su da noi: l’appartamento dei Fernandez è libero da quando Carola se n’è andata, lì saremo al sicuro da occhi indiscreti e valuteremo che fare.»
Complice l’autorevolezza che Marcus esercita nella zona, nessuno ribatte.
«Avanti! Chiudiamo la cassa e portiamola su. Manuel, dacci una mano.»

L’appartamento è vuoto, a parte un vecchio armadio a tre ante lasciato dai vecchi residenti, in attesa di riassegnazione. Nel frattempo Marcus ha le chiavi, lasciategli dai Fernandez in caso di necessità. A salire insieme a lui solo Tom e Manuel, due di cui Marcus sa quali sono le opinioni su certe questioni.
«E ora? Che ne facciamo?»
«Marcus, tu che proponi?»
Il Forestiero inizia a mugolare. Chiede qualcosa, forse acqua. Marcus percorre la stanza avanti e indietro, in preda al panico.
«Non capisco che dice, forse neanche parla la nostra lingua.», interviene Tom «Io dico di aspettare… magari domani possiamo…»
«No! Non capite? Cosa potrebbe succedere se qualcuno della zona venisse a sapere di un Forestiero vivo? Quanti vorrebbero venire a parlarci? E poi? Pensate che sarebbero disposti a fare Victor e i suoi amici pazzi! Vogliamo davvero mettere tutto a repentaglio?»
Marcus non è mai stato così irrequieto. Mentre cerca di trovare una buona ragione per nascondere il ritrovamento al resto della zona, dentro di lui tornano vive antiche paure che credeva aver rimosso per sempre. La partenza del figlio maggiore per il fronte, i dubbi, la crisi.
Manuel se ne resta zitto, pensieroso. Poi, senza nascondere un certo imbarazzo, avanza la sua proposta:
«Sentite, sappiamo bene che siamo voluti salire da soli per un motivo. Abbiamo tutti e tre buone ragioni per… beh, per non dover rimettere proprio tutto in discussione ora… Io, personalmente, ho una moglie, un lavoro come consulente virtuale e una figlia di pochi mesi. Se fosse stato anni fa forse, ma ora…»
Lo straniero inizia a prendere più coscienza, continuando a parlare, seppur in modo incomprensibile.
«Kamba… kamba mates…»
Nel formulare frasi incomprensibili l’uomo solleva la mano per indicare un punto sul suo addome, rendendo visibile una ferita da taglio. I tre si guardano negli occhi.
«E va bene. Procediamo.»
Marcus attende un istante, immobile, prima di uscire dalla stanza. Dopo pochi minuti torna con una siringa e una fialetta di siero, un miscuglio a base di penthothal e cloruro. Prepara l’iniezione e si avvicina al corpo.
«Per la pace di noi tutti.»
Afferra il braccio e conficca l’ago, che in un istante rilascia il siero.
Dopo pochi secondi, l’ospite indesiderato smette di affannarsi.
Tom, alle sue spalle, non mostra cedimenti.
«Abbiamo fatto la scelta giusta.»

Il giorno dopo, alle prime ore della mattina, inizia a circolare per tutta la zona la voce del ritrovamento di un Forestiero, deceduto pochi minuti dopo per malessere dovuto al viaggio.
Due ore dopo il cancello si apre, e un reparto militare entra a prelevare il corpo, ringraziando i cittadini presenti per la collaborazione.
«Confermate l’ora del decesso per le undici e quaranta della serata di ieri?»
«Confermiamo.»
Dopo aver caricato il Forestiero, il camion riparte, chiudendo il cancello alle proprie spalle, mentre nella Zona 41-B ricomincia una nuova giornata illuminata da un sole giallo su uno schermo senza nuvole.

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Futuro prossimo o remoto: mala tempora currunt https://www.carmillaonline.com/2016/12/19/futuro-prossimo-remoto-mala-tempora-currunt/ Mon, 19 Dec 2016 22:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35013 di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente [...]]]> di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente percepite difficoltà e paure odierne di pensare, immaginare, progettare il tempo futuro. La società nel suo insieme ed ogni singolo individuo per la propria parte vivono a capo chino, con lo sguardo rivolto ad un angusto presente, come timorosi di guardare davanti a sé o impossibilitati a farlo per la miopia di un occhio per cui la linea dell’orizzonte è così lontana da risultare sfocata ed indefinita.

È alla cultura allora che si richiede di diradare le nebbie, di tracciare e definire i contorni delle cose, immaginando la società del futuro, prossimo o remoto ed è uno sforzo predittivo ed immaginativo non facile a compiersi nell’epoca di quella post-modernità che sembra aver mortificato ed inibito le moderne speranze/velleità di leggere e comprendere in continuità il passato ed il presente e di indirizzare/immaginare il futuro; non facile – scrive Bordoni – per «lo spirito odierno, permeato d’incertezze, che spinge ad aggrapparsi al presente e a farne una nicchia di sopravvivenza, di cui si conoscono almeno i contorni e le criticità» (p. 9). Il presente critico e problematico impaurisce e preoccupa, ma il futuro – osserva l’autore – indefinibile, inafferrabile, insomma ignoto, sembra atterrirci e immobilizzarci con il raggelante sentimento dell’angoscia oppure ci sprofonda nella più rassicurante, ma sterile, nostalgia del passato.

Dalle opinioni raccolte in questo volume risulta evidente come non solo nella percezione comune, ma anche sul piano dell’immaginario colto oggi prevalgano le letture in negativo del futuro che ci attende, visioni talvolta catastrofiche, che «richiamano gli echi delle apocalissi medievali che predicavano la fine del mondo se gli uomini non si fossero pentiti dei loro peccati e non avessero seguito gli insegnamenti della religione» (p. 15). Ma al posto del pentimento del peccatore, oggi si richiederebbe il «ravvedimento dei sistemi politici e dei governi che non si preoccupano dell’esaurimento delle risorse e del degrado del pianeta. […] La differenza è però evidente: allora la minaccia della fine del mondo era strumentale, serviva a controllare il comportamento delle moltitudini in assenza di un forte potere sovrano, lo Stato-nazione. Adesso la minaccia è concreta, fondata e quantificabile. Più che una maledizione, è una denuncia pubblica al fine di risvegliare le coscienze e spingere a prendere provvedimenti prima che sia troppo tardi» (p.15).

Il tempo, la storia, il loro senso costituiscono una materia complessa ed opaca che spesso la filosofia si è sforzata di mettere a tema e per questo iniziamo la presentazione di alcuni dei tanti contributi raccolti da Carlo Bordoni proprio da un filosofo, Remo Bodei, che muove da un assunto fondamentale: l’idea di una storia orientata da una logica intrinseca che la guida appare ormai tramontata definitivamente; abbiamo dovuto rinunciare ad essa e scivolare dal piano di una Storia a quello di molteplici particolari storie che faticano a rientrare in un quadro comune di destini interconnessi. La prospettiva escatologica o comunque variamente finalistica del tempo storico che aveva spronato e sostenuto la progettualità umana nel corso dei secoli ha lasciato il posto ad una storia “invertebrata”, di cui si dimentica la provenienza e si ignora la destinazione.

Tre – ritiene Bodei – sono le conseguenze immediate di questa situazione i cui effetti a lungo termine ancora non sono del tutto evidenti. In primo luogo, la difficoltà odierna di rapportarsi al futuro secondo una modalità proiettiva, che sia in grado di collocarvi traguardi da raggiungere. Ne consegue che la prospettiva della nostra attesa viene a tal punto ridotta da risultare tutta schiacciata sul presente, ma un presente immediato e puntuale, o poco più, che fatica a costruire relazioni con un tempo che lo trascenda. Viene meno la possibilità di pensare ad un riscatto prossimo di qualsivoglia specie – il progresso, la libertà, la società senza classi – e questo alimenta l’indifferenza, la rassegnazione o induce all’angoscia. Ma produce anche qualcosa di peggiore: l’assolutizzazione del presente, un presente senza futuro che induce all’opportunismo predatorio, proprio di uomini e società, sistemi economici e politici che non sono più in grado di «preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato» (p. 33).

In secondo luogo, lo sbriciolamento di aspirazioni e progetti collettivi, pubblici ed universalistici, che dal secolo dei Lumi in poi avevano tracciato l’orizzonte di senso dell’uomo in Occidente, ha dato spazio ad aspettative sempre più private e quindi particolaristiche ed atomizzate, ad una privatizzazione del futuro che si trasforma nella «fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa» (p. 33). In terzo luogo, sia il pensiero politico sia la sua prassi non sono più in grado di proporsi come strumenti di ideazione e realizzazione di traguardi venturi, prossimi o remoti e finiscono per essere imprigionati nel ristretto spazio amministrativo del presente contingente.

Conclude pertanto Bodei che il «presente è sguarnito in quanto il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento, è diventato debole. […] Ora, il cospicuo abbassamento dell’orizzonte temporale rappresenta l’elemento più macroscopico ed insieme tra i meno indagati degli atteggiamenti socialmente diffusi. Uno dei risultati è che lo sguardo in avanti verso il futuro — che aveva preso il sopravvento su quello verso l’alto — tende di nuovo a restringersi, permettendo a quest’ultimo di risollevarsi parzialmente» (p. 33).

L’arroccamento nella cittadella fortificata del presente per fuggire da un futuro che ci terrorizza è – secondo Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma – il nostro odierno atteggiamento verso il tempo e l’esistenza. Seguendo concetti e stilemi di pensiero heideggeriani, Di Cesare fissa il mal-essere attuale «nella chiusura dell’avvenire» (p. 61), in quanto “l’aspettare” (erwarten) ha sostanzialmente sostituito “l’attendere” (warten) come modalità di rapportarsi al futuro. “L’aspettativa” riguarda qualcosa di conosciuto, programmato, immaginato che, pertanto, induce l’uomo al calcolo, alla previsione, alla proiezione statistica, nell’estremo tentativo di estendere il controllo anche sul tempo, sul futuro per renderlo anticipatamente familiare, per disinnescarne la carica di potenziale inquietudine. «Il dominio del futuro è l’aspirazione ultima, il contrassegno e il sigillo della nostra epoca. Quanto più il futuro ci terrorizza, tanto più vogliamo dominarlo. In una vertigine senza fine, dove si moltiplicano analisi, misurazioni, sondaggi, previsioni» (p. 62).

“L’attesa” invece riguarda qualcosa di inaspettato, di non calcolabile, contempla l’alterità, l’eterogeneità dell’imprevedibile; l’attesa è apertura dell’avvenire. Abbandonarsi all’attesa vuol dire aprirsi all’avvenire. «Nell’attesa di ciò che viene, e avviene […] l’apertura non è preclusa e il futuro si rivela perciò a-venire, tempo che porta con sé la possibilità dell’impossibile. Nell’avvenire aperto dell’attesa si mantiene l’eterogeneità dell’evento che interrompe il presente, lo oltrepassa, eccedendo ogni estremo, superando ogni éschaton» (p. 62).
Pare essere proprio l’attuale incapacità di attendere il tempo a-venire che ci induce a rifugiarci nella cittadella fortificata del presente assediata dai fantasmi di un futuro che, disorientati ed impauriti, aspettiamo.

Zygmunt Bauman ritiene che se prevedere il futuro è operazione di per sé difficile, a maggior ragione lo è oggi, in un’epoca in cui si moltiplicano gli «eventi che testimoniano l’assenza di una logica di sviluppo nella condizione umana e quindi anche di conseguenza nelle imprese umane» (p. 25). Le società contemporanee si trovano nella condizione di non essere più in grado di concepire le forme del proprio futuro e i modelli del proprio sviluppo, in particolare a causa del fatto che è venuta meno la fiducia riposta nelle principali «agenzie di azione collettiva – i partiti politici, i parlamenti, il governo – di riorganizzare/riformare e mantenere le loro promesse» (p. 26).
A monte di questa inettitudine di istituzioni ed organi socio-politici, il sociologo polacco colloca la separazione attualmente prodottasi tra potere e politica, «tra il potere (la possibilità di fare cose) e la politica (la capacità di decidere quali cose devono essere fatte)» (p. 26); una divergenza che a sua volta è conseguenza della globalizzazione in atto, che ha investito il potere, ormai globalizzato, ma non la politica. «La maggior parte dei poteri epocali», scrive Bauman, «che determinano la condizione e la capacità umana di agire in modo efficace sono già sul globale, sfidando il principio della sovranità territoriale degli organismi politici – mentre gli attuali organismi politici, le cui competenze sono racchiuse entro i confini di uno stato territoriale, rimangono confinati a livello locale come un centinaio di anni fa. I poteri globalizzati si trovano oltre la portata delle attuali istituzioni politiche. Ci sono poteri esenti dal controllo politico, a fronte di una politica spogliata di gran parte del suo antico potere» (p. 26-27).

In assenza di strumenti socio-politici adeguati a poteri globalizzati, l’attuale condizione degli uomini, considerati individualmente o collettivamente, è del tutto simile – sostiene Bauman con una immagine oltremodo efficace – a quella del plancton: siamo come organismi acquatici, sospesi in balia delle correnti, per i quali non è ragionevolmente possibile prevedere alcuna direzione di spostamento.

Sul piano dell’analisi economica dell’odierno capitalismo globalizzato si sviluppa il ragionamento di un altro sociologo, Wolfgang Streeck, docente dell’Università di Colonia, che vede le società occidentali avviate a proseguire nei prossimi decenni un trend complessivo di declino sociale che già da anni si manifesta nelle forme della disuguaglianza crescente, della stagnazione economica, dell’aumento dell’insicurezza e della frammentazione politica. Si tratta di un piano inclinato lungo il quale la società contemporanea sta precipitando con accelerazione crescente e senza che si intravedano possibilità concrete di frenare tale corsa rovinosa. Questo processo ha «a che fare con la rapida espansione dell’economia capitalista su scala globale. Vale a dire una scala che le regole della politica democratica e le altre forze contrarie al capitalismo non possono assolutamente arginare, benché in passato fossero riuscite nell’insieme a contenerle e a incorporarle» (p. 143).

Rifacendosi al pensiero di Karl Polanyi, Wolfgang Streeck ritiene che la globalizzazione abbia ormai impresso una forma “mercantile” all’intero mondo e abbia prodotto un’accelerazione mai vista prima alla mercificazione del lavoro, del denaro e della natura, che possono «essere trattate come merci pure e semplici solo a rischio di una catastrofe sociale. Si stanno cominciando a vederne i risultati: mercati del lavoro deregolamentati con successo e declino a livello globale delle condizioni di lavoro, a fronte di un rapido avanzamento del degrado ambientale e di sempre più gravi crisi finanziarie. Al centro del marciume sociale che vedo avanzare trovo l’economia capitalista liberata di ogni controllo, avendo sciolto il suo matrimonio forzato con la democrazia, che era stato consumato dopo la seconda guerra mondiale» (p. 144).

Pertanto, continua Streek, il neoliberismo mondializzato, liberatosi da ogni vincolo o condizionamento politico, ha fatto sì che oggi l’economia capitalista non sia più capace di sostenere la società capitalista e abbia prodotto disordine, ingovernabilità e ingiustizia dilaganti.
«L’ascesa inarrestabile della disuguaglianza nei paesi che una volta avevano fatto dell’uguaglianza uno dei loro obiettivi etici e politici più importanti, è solo un altro aspetto della crescente ingovernabilità del capitalismo globale» (p. 144), che conduce Streek a conclusioni desolanti riguardo l’immediato futuro che ci attende. «L’ordine sociale del momento è rappresentato da lavoratori precari trasformati in consumatori fiduciosi (Colin Crouch) per effetto di continue pressioni sociali generate dalla grande industria della pubblicità e dello spettacolo, alleata a uno sproporzionato settore finanziario. […] Gli immigrati, che in numero sempre maggiore forniscono alla classe media servizi privati a prezzi accessibili – in forza della sottomissione a un modello orientato al mercato e sempre meno in grado di rinunciarvi – saranno esclusi formalmente o di fatto dai diritti civili. Le classi medie, incantate da un individualismo meritocratico, essendo abituate dalla privatizzazione a difendersi e a pagare per sé, perderanno interesse per la politica. Ciò corrisponderà alla crescita del dominio tecnocratico sulla spesa pubblica da parte delle banche centrali e delle organizzazioni internazionali, imponendo ai governi l’austerità e il consolidamento per fare spazio al consumo privato e dare nuova fiducia ai mercati finanziari. La partecipazione politica diminuirà ancora di più tra il sottoproletariato, che non ha più nulla da aspettarsi dalla politica pubblica» (p. 145-146).

Questi qui considerati sono solo alcuni degli interventi che compongono l’interessante lavoro curato da Carlo Bordoni che fornisce un contributo apprezzabile allo sforzo odierno di pensare ed immaginare il futuro, in un contesto di incertezza e disorientamento crescenti ad ogni livello della vita sociale, ma anche con la consapevolezza che – come dice J.M.Keynes, da Bodei citato nel suo breve saggio – l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre.

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Il libro raccoglie saggi di: Marc Augé, Zygmunt Bauman, Remo Bodei, Edoardo Boncinelli, Valerio Castronovo, Vanni Codeluppi, Domenico De Masi, Donatella Di Cesare, Àgnes Heller, Giuseppe O. Longo, Michel Meffesoli, Patrizia Magli, Paolo Maria Mariano, Michel Meyer, Edgar Morin, Elga Nowotny, Alberto Oliverio, Telmo Pievani, Stefano Rodotà, Alessandro Scarsella, Denise Schmandt-Besserat, Wolfgamg Streeck, Keith Tester, Silvia Vegetti Finzi.

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Cazzari di un futuro passato https://www.carmillaonline.com/2014/11/02/cazzari-di-un-futuro-passato/ Sun, 02 Nov 2014 18:00:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18436 di Alessandra Daniele

OTPNon c’è assolutamente niente di moderno nel marchesino Matteo e nella sua corte di petulanti puffi arrampicatori, e boccolute Barbie Leopolda. Non c’è niente di moderno nei pescecani che lo finanziano,  nei manganelli che schiera contro gli operai, nel suo governo di incapaci, marpioni, e marpioni incapaci. La modernità non è una questione d’anagrafe né di calendario. Esiste una forma d’involuzione reazionaria che cronologicamente segue le conquiste sociali, e mira a cancellarle retroattivamente: si chiama Restaurazione. Da anni il mondo del lavoro non fa che regredire. Affrontarlo non è come [...]]]> di Alessandra Daniele

OTPNon c’è assolutamente niente di moderno nel marchesino Matteo e nella sua corte di petulanti puffi arrampicatori, e boccolute Barbie Leopolda.
Non c’è niente di moderno nei pescecani che lo finanziano,  nei manganelli che schiera contro gli operai, nel suo governo di incapaci, marpioni, e marpioni incapaci.
La modernità non è una questione d’anagrafe né di calendario.
Esiste una forma d’involuzione reazionaria che cronologicamente segue le conquiste sociali, e mira a cancellarle retroattivamente: si chiama Restaurazione.
Da anni il mondo del lavoro non fa che regredire. Affrontarlo non è come “cercare d’infilare un gettone in un iphone”, è come cercare d’infilare un gettone in culo a un piccione viaggiatore.
L’obiettivo che le classi padronali perseguono è riportare indietro d’un secolo i diritti dei lavoratori, spacciando per progresso un ritorno a livelli di sfruttamento premoderni assimilabili allo schiavismo.
Matteo Renzi non è che l’attuale gommosa maschera di questo progetto.
La vacua Gioventù Renziana è solo una schiera di ballerini di fila, una coreografica chorus line di facciata che sculetta al ritmo di stucchevoli slogan da televendita, marchi e neologismi stolidamente ripetuti come parole magiche in grado di evocare il futuro con il loro semplice suono: selfie, iphone, twitter, USB.
Così come Benigni e Troisi, bloccati a Fritole nel 1492 di Non ci resta che piangere, ripetevano “autobus, ascensore, semaforo” nella vana speranza che una litania di termini moderni avesse il potere di riportarli al loro presente.
E restavano a Fritole nel 1492.
Quando l’Italia s’è trovata al bivio dell’evoluzione, ha imboccato decisa la strada sbagliata.
Finendo nell’attuale realtà da incubo in cui, come nell’ucronia di Ritorno al Futuro II, sono i pescecani alla Biff Tanner i padroni del paese.
Proseguendo su questa linea temporale e politica le cose possono solo peggiorare.
Per raddrizzare la rotta dobbiamo tornare a quando si era capaci di lottare tutti insieme per ottenere diritti comuni e per cambiare davvero le cose, ai giorni in cui tutte le conquiste sociali adesso sotto attacco sono state compiute.
Dobbiamo tornare sui nostri passi e stavolta girare a sinistra.
Solo da lì potremo ritornare al futuro, quello autentico.
Chi oggi ci trascina ancora avanti sulla strada sbagliata non ci porta nel futuro.
Ci porta al macello.

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