futuro apocalittico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le lancette ruotano avanti https://www.carmillaonline.com/2019/08/05/le-lancette-ruotano-avanti/ Mon, 05 Aug 2019 21:14:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53963 di Franco Pezzini

Visioni dell’apocalisse. L’immaginario cinematografico della fine del mondo, a cura di Stella Marega, pp. 278, € 24, Mimesis, Milano-Udine 2018.

Tanto tempo fa, in un mondo lontano lontano. Ossia Torino, metà anni Ottanta: un gruppo di giovani poco più che ventenni radunati attorno al futuro giornalista e scrittore Luca Rastello avvia una rivista, “L’Opera al Rosso”, destinata a produrre alcuni protonumeri, poi all’inizio del decennio successivo due numeri editi da Marietti – al tempo sotto la direzione di un provocatore culturale come don Antonio Balletto – e nel complesso un [...]]]> di Franco Pezzini

Visioni dell’apocalisse. L’immaginario cinematografico della fine del mondo, a cura di Stella Marega, pp. 278, € 24, Mimesis, Milano-Udine 2018.

Tanto tempo fa, in un mondo lontano lontano. Ossia Torino, metà anni Ottanta: un gruppo di giovani poco più che ventenni radunati attorno al futuro giornalista e scrittore Luca Rastello avvia una rivista, “L’Opera al Rosso”, destinata a produrre alcuni protonumeri, poi all’inizio del decennio successivo due numeri editi da Marietti – al tempo sotto la direzione di un provocatore culturale come don Antonio Balletto – e nel complesso un robusto archivio di materiali. Si tratta di volumi monografici, con saggistica, narrativa, schede connettive e grafica: e il numero-sfida con cui Marietti li mette alla prova (“Abbiamo un intero sgabuzzino pieno di prove di riviste, perché dovremmo pubblicare questa?”), da comporre in trentacinque giorni, per scelta del gruppo è sul tema di apocalittiche, millenarismi e parole sulla fine. Nei fatti, varata la collana, i volumi pubblicati trattano però d’altro. Quello sperimentale sulle apocalittiche viene infine ripreso in mano, completamente riaggiornato, per diventare il n. 3: e quasi in beffarda coerenza col tema finisce con l’essere nel segno della fine, travolto da un riassesto nell’organizzazione Marietti che taglia la collaborazione con don Balletto e falcidia le riviste, nonché dalle inevitabili ridefinizioni di vita dei giovani che portano alla chiusura quell’esperienza decennale.

È parso non inutile per almeno due motivi avviare con un preambolo su fatti lontani la presentazione di questo bel Visioni dell’apocalisse, pure a più voci, edito da Mimesis. Anzitutto perché ciascun tempo riflette sulla categorie della fine con linguaggi propri. Nella piccola esperienza dell’“Opera al Rosso” c’era la presa d’atto della fine degli anni Settanta – un mondo che si era chiuso, anche in modo traumatico – e della necessità di lavorare in forma nuova sulle parole importanti. C’era la scoperta di letterature che arrivavano allora in Italia dall’est europeo alla svolta di un’epoca (un est già fervente di suggestioni millenaristiche, e in un momento oltretutto in cui la dimensione dell’eskaton veniva fortemente riproposta da un papa polacco) ma anche dal mondo arabo, le une e le altre a far scoprire parole non ancora consumate da un logorio occidentale. E c’era il riemergere anche più diffuso di suggestioni sulla fine, dal famoso film televisivo The Day After di Nicholas Meyer, 1983, a quella Guerra del Golfo, 1990-91, nel cui contesto i giornali nostrani avevano riscoperto il linguaggio dell’apocalittica (uno studio sul tema, se non già presente, meriterebbe). Ragionare oggi in termini di parole sulla fine guarda a un quadro storico senz’altro diverso, dove gli scricchiolii di quell’epoca sono divenute esplosioni consumate, i punti fermi sono saltati tutti o quasi, all’ottimismo di almeno parte della popolazione è subentrato un pessimismo diffuso e greve.

Questo, si è detto, è un primo motivo. Rinviando per il secondo alle conclusioni, è però tempo di aprire il volume curato da Stella Marega – Ph.D. in Filosofia delle scienze sociali e comunicazione simbolica all’Università dell’Insubria e cultore della materia in Filosofia politica all’Università di Trieste, già Postdoctoral fellow presso la LMU di Monaco e Visiting Scholar all’Università di Belgrado – che al tema dell’apocalisse ha dedicato lunghe ricerche. Il testo, molto bello e ricco di spunti, di impressionante latitudine e virtuale “completezza” in termini panoramici – anche se ovviamente suscettibile di indefinite estensioni in opere future – è coronato da un saggio iniziale della curatrice, Scenari per una ricognizione dell’immaginario apocalittico. Che si sofferma su alcuni nodi essenziali alla base di qualunque trascrizione filmica sul tema, in chiave cronologica e tematica.

A partire da morte e rinascita: da un lato, se non possiamo sapere quando sia nata l’idea di fine del mondo, possiamo però ravvisare una dimensione “apocalittica” nell’elaborazione e ritualizzazione dell’evento morte; dall’altro esiste un bacino immaginale antichissimo che comprende i miti sul diluvio universale, l’idea di una lotta tra forze di luce e di tenebra, quella di cicli del tempo e relativa rottura. Altre accezioni implicate sono rivelazione, in rapporto particolarmente al libro biblico dell’Apocalisse e alle sue interpretazioni; rivoluzione, con forme di secolarizzazione in età moderna dell’escatologia cristiana; crisi, dove il significato originario di decisione presa in stato d’incertezza (ma che richiama anche la fase terminale di una malattia) viene recepito in genere con una sfumatura pessimista; catastrofe, dall’etimo di “rivolgimento”, con l’epoca del postmoderno delimitata

 

simbolicamente da due rovinosi crolli, la demolizione del complesso residenziale Pruitt-Igoe a Saint Louis, completato il 15 luglio del 1972, che ne segna ufficialmente la nascita, e il crollo delle Twin Towers a New York l’11 settembre del 2001, che ne sancisce la fine. Questa correlazione non è casuale: si può affermare anzi che esista una fitta e complessa rete di connessioni tra la dimensione apocalittica e la maggior parte delle logiche culturali che contraddistinguono la fase storica del tardo capitalismo.

 

E ancora visioni, una cifra che già annuncia idealmente l’esperienza filmica; e fine come categoria che, almeno questo sappiamo, giungerà alla Terra al più tardi con lo spegnimento del Sole…

Il testo si divide poi in quattro sezioni, significativamente titolate da suggestioni cinematografiche e precedute da riflessioni della curatrice, per otto contributi critici di ottima qualità, a passare in rassegna oltre un centinaio di pellicole e serie televisive.

Armageddon, la prima sezione, riguarda il tema del conflitto escatologico, e la curatrice ne traccia all’inizio una breve filmografia – comprensiva di riletture laicizzate – attenta a una varietà che non si esaurisce nel cinema “apocalittico” propriamente detto. Gli sviluppi offerti dai contributori la analizzano in chiave ontologica (Tommaso Gazzolo, Apocalypse (is) now?, che s’interroga sul qui e ora dell’apocalisse in riferimento all’orrore di ogni guerra sulla falsariga del film di Coppola) e di velleità egemonica in rapporto col trauma di un evento epocale (Diane Langlumé, La questione dell’egemonia nel discorso apocalittico delle serie televisive fantascientifiche statunitensi, con un esame puntuale ad ampio raggio di quelle prodotte dopo l’11 settembre). Questa sezione già prefigura l’impostazione del volume e l’intelligente originalità dei tagli monografici all’interno di un ampio inquadramento della curatrice.

The Day After è il titolo della seconda sezione, che porta l’analisi nello spazio di un già e non ancora della catastrofe, evocando scenari distopici e post-apocalittici. Si parte qui dall’immaginario apocalittico su Los Angeles – il richiamo stesso nel toponimo agli angeli pare interessante –, presentata in più produzioni filmiche degli ultimi trent’anni come teatro del conflitto ultimo al posto di città-simbolo quali Gerusalemme o Roma (Alfonso Pinto, Los Angeles e l’esperienza dello spazio e del tempo. Immaginari di una città senza futuro); e si prosegue con il tema delle prefigurazioni della catastrofe ambientale, che il cinema ha articolato nel confronto con un ampio ventaglio di istanze scientifiche, politiche e culturali (Davide Mana, Niente margherite nella Terra Promessa. Ecologia dell’apocalisse). L’ampiezza della panoramica e la qualità dell’analisi che dal cinema spazia in realtà verso aree molto diverse – il dibattito scientifico, la letteratura, il ruolo dell’ambientalismo… – rendono questi saggi non solo preziosi supporti per corsi universitari ma letture godibilissime.

They Live, la terza sezione, affronta il tema delle figure mostruose – zombie ma anche angeli, replicanti eccetera – associate alla crisi dell’umano. A partire dalla cifra del corpo come elemento che permette l’essere nel mondo: e la metafora della dissoluzione o riconfigurazione del corpo accompagna in forme diverse l’immaginario apocalittico e le sue declinazioni sull’orizzonte del fantastico. Come nel corpo decaduto degli zombie, mattatori dell’immaginario odierno che vedono stratificare una pluralità di tensioni etniche, politiche, economiche, ambientali (Zara Zimbardo, Specchi mostruosi della pandemia zombie); e continuando con i corpi potenziati di robot e cyborg, con particolare riferimento all’immaginario di quel Giappone la cui storia si è confrontata con catastrofi naturali o belliche emblematicamente apocalittiche (Gianluca Di Fratta, Anime dell’Apocalisse. Visioni di macchine e di corpi mutanti nel cinema di animazione giapponese).

Apocalypto, la quarta sezione, riconduce invece alle origini della paura o più in generale del sentimento della fine in rapporto a futuro, morte e relativi misteri. Lo spazio insomma delle apocalissi private, con focus su due opere cinematografiche senz’altro paradigmatiche. La prima legata alla riflessione di Bergman sul tempo, a partire da suggestioni sul suo termine (Fabio Pezzetti Tonion, Come in una danza di morte. L’attesa della fine ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman); la seconda a un’altra opera nordica nel segno della bile nera, sul percorso di danza nietzschiana che dall’Apocalisse giovannea conduce idealmente a Tarkovskij (Fabio Corigliano, Il principio e la fine. La “danza pastorale della metafisica” in Melancholia di Lars von Trier).

Certo, nonostante la vastità e – torno a scrivere – la virtuale “completezza” della panoramica, lucida è la rinuncia a pretese di esaustività: si tratta di una possibile mappa filmica che intende illuminare una serie di punti-chiave. Del resto, se ogni epoca è “apocalittica” e offre al relativo referente peculiari connotati, ogni epoca declina in modo diverso anche le relative paure.

Il che conduce in chiave di riflessione al secondo motivo della premessa. Nel dialogo sul ventaglio di possibili scenari della fine, a colpire i redattori dell’“Opera al Rosso” era emerso un modello teorico persino più allarmante di quello sulla chiusura traumatica di un tempo: la visione cioè di una società in cui la svolta di una crisi epocale, catastrofica ma potenzialmente aperta a un nuovo inizio, non sarebbe più avvertita come credibile. E dove tutto, semplicemente, si decomporrebbe in via indefinita in un presente protratto e sempre più putrido… Un modello teorico, è ovvio, ma che pro parte può far pensare a società concrete: e in termini di sentire diffuso, per esempio in Italia, l’odierna crisi della categoria-futuro – sorta di tempo verbale desueto per una quota significativa della giovane generazione, al di là di fenomeni clamorosi come Fridays for Future – sembra occhieggiare in quella direzione. Un presente gonfiato a dismisura, che nelle agende della politica vede solo tattica di piccoli interessi e mai strategia (appelli farlocchi a un futuro che non interessa realmente, richiami travisati a un passato che si fa in fretta a manipolare per cortezza diffusa di memoria); gente depressa che si sente minacciata da chi sta peggio, su cui scarica (tramite social, ronde, muri di gomma o di mattoni) un livore flirtante con la patologia… e i più disagiati che, stentando ad arrivare a stasera, possono – forse comprensibilmente – relativizzare ciò che accadrà tra qualche anno. Ecco servito quel che sembrava un modello astratto.

E mentre i piccoli uomini consumano il loro teatrino di distrazioni vittimismi sdegni, le lancette dell’orologio dell’apocalisse – quella climatica, e poi tutte le altre – ruotano silenziose avanti.

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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