Furio Jesi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il fascismo prima e dopo il fascismo https://www.carmillaonline.com/2024/02/06/il-fascismo-prima-e-dopo-il-fascismo/ Mon, 05 Feb 2024 23:30:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80898 di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico? In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori [...]]]> di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico?
In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori tempo” dato il loro intimo legame con la crisi capitalistica successiva alla Prima guerra mondiale, con l’era del lavoro manuale di massa, della coscrizione universale maschile in vista della guerra totale e dell’imperialismo esplicitamente razzista. Possiamo allora dormire sonni sereni, fiduciosi nel carattere straordinario dei regimi fascisti?
Non proprio, sostiene sempre Toscano, perché il quadro cambia se abbandoniamo una concettualizzazione meramente analogica del fascismo. In altri termini, se lasciamo da parte l’idea che per parlare di questo fenomeno politico la cosa essenziale sia raffrontare gli epigoni contemporanei con il loro modello originale, stilando una sorta di checklist dei sintomi in grado di diagnosticare lo stato di avanzamento della malattia.
Abbandonare il piano analogico significa concepire il fascismo come un fenomeno di lunga durata e storicamente mutevole. Vuol dire intenderlo come una dinamica che precede la sua stessa denominazione, sempre strettamente legata ai prerequisiti della dominazione capitalistica, anch’essa diversificata nel tempo. Utilizzando la definizione di W. E. B. Du Bois, si può parlare di “controrivoluzione della proprietà”.

Sviluppando questo approccio, Toscano mette in luce quattro dimensioni del fascismo. In primo luogo, bisogna riconoscere che le pratiche e le ideologie che si sono cristallizzate tra le due guerre mondiali sono state anticipate e preparate dall’espropriazione e dallo sfruttamento delle “razze minori senza legge”, perpetrati attraverso il colonialismo, la schiavitù e il capitalismo razziale intra-europeo. Una sorta di “fascismo senza fascismo” che ha contraddistinto l’espansione imperialistica su scala mondiale.
In secondo luogo, i sistemi politici considerati liberaldemocratici possono ospitare al loro interno istituzioni che operano come regimi di dominio e terrore per ampi settori della loro popolazione, soprattutto nei confronti dei soggetti razzializzati, come ha messo bene in evidenza il pensiero nero radicale negli Stati Uniti (George Jackson e Angela Davis sono alcuni tra gli autori citati da Toscano). Occorre dunque superare l’idea che si possano proiettare univocamente gli idealtipi sulla storia: il liberalismo, la socialdemocrazia, il neoliberismo e lo stesso fascismo non sono ordini politici che operano in spazi e tempi mutuamente esclusivi, ma ideologie e pratiche, anche istituzionali, che possono coesistere e intrecciarsi.
In terzo luogo, il fascismo si fonda su una controviolenza preventiva, su un desiderio di rinascita etno-nazionalista alimentato dal fantasma di un’imminente e potenzialmente catastrofica minaccia di natura culturale, demografica ed esistenziale. Il panico epocale generato dalla “marea crescente di colore” e dalla “rivoluzione mondiale di colore”, che ha favorito l’ascesa del fascismo dopo la Prima guerra mondiale, si è mutato nelle narrazioni tossiche sulla sostituzione etnica e sul suicidio culturale che sono oggi condivise sia dai mass shooter sia da molti rispettabili politici. Paure cui si aggiunge una sorta di “gender panic”, derivante da un presunto disordine sessuale figlio del femminismo, funzionale a un tentativo di restaurazione dell’autorità patriarcale. Questa tendenza reazionaria può risultare tanto più efficace quanto più è capace di offrire anche alle donne, ovviamente solo a quelle bianche, una pseudo-spiegazione della loro infelicità e un’arena affettiva per esprimere la loro malintesa rabbia, dando luogo, tra l’altro, a una forma “anti-femminismo femminile” che ha come bersaglio preferito il femminismo neoliberale, facilmente criticato per il suo carattere elitario ma pretestuosamente identificato con il femminismo tour court.

In quarto luogo, il fascismo richiede la produzione di soggettività che, di certo, prevedono obbedienza a un potere statale dispotico, ma attingono anche a un’idea sui generis di libertà e di uguaglianza. La partecipazione allo squadrismo fascista o alle SS naziste ha infatti concesso a un gran numero di individui il potere di uccidere, di violentare e di derubare il proprio vicino. Si tratta, in breve, di una reinvenzione della logica coloniale della piccola sovranità, di una “liberalizzazione” e “privatizzazione” del monopolio della violenza, sicuramente circoscritte, ma molto reale. Allo stesso tempo il fascismo promuove un “egualitarismo repressivo”, basato su un’identità nella sottomissione e una fraternità nell’odio che, ovviamente, non ha carattere universalistico ma esclusivistico, essendo riservato a coloro che appartengono alla razza e alla nazione eletta.
Parlando di libertà e uguaglianza fascista si può comprendere, secondo Toscano, come la rinascita contemporanea dell’estrema destra non si basa sul rovesciamento dell’individualismo competitivo di stampo neoliberale, ma su un suo particolare compimento. L’autore ci ricorda che, storicamente, il fascismo non nasce con l’intenzione totalitaria di fondere politica ed economia, ma come un “virulento antistatalismo guidato dallo stato”, finalizzato a risolvere la crisi postbellica attraverso la restaurazione dell’egemonia liberale sul terreno economico. Tornando ai nostri giorni, vediamo come si facciano sempre più porosi i confini tra la concezione neoliberista della libertà (libertà di mercato e di possedere, assenza di interferenze con la sovranità individuale) e quella fascista (libertà di dominare e di governare). Una convergenza resa possibile dalla condivisione di un immaginario incentrato sulla competizione e sulla sopravvivenza del più forte, e sull’avversione nei confronti della solidarietà, della cura e della vulnerabilità. Il neoliberismo, in breve, deve essere autoritario e populista perché non può essere autenticamente democratico e popolare, preparando così il terreno al tardo fascismo.

Ma cosa dire dell’iperindividualismo contemporaneo che sembra segnare uno scarto decisivo rispetto alle masse compatte mobilitate dal fascismo storico? In realtà le cose sono ben più complesse. Seguendo Adorno, Toscano sostiene che, anche nei movimenti tra le due guerre, gli individui non si identificano realmente con i rispettivi leader, ma partecipano alle loro performance, mettendo in scena un’entusiastica adesione alla causa collettiva. Fermandosi anche per un secondo, l’intera performance è a rischio di andare in pezzi lasciando gli individui nel panico.
Utilizzando le categorie di Sartre, si può anche sostenere che i movimenti fascisti, pur agendo realmente, non si trasformano mai in un gruppo in fusione, rimanendo sempre allo status di massa eterodiretta, dispersa e connotata dalla serialità. Il fatto che per Sartre proprio la serialità sia una determinazione cruciale per la costituzione della sovranità statuale moderna suggerisce come i confini tra l’eterodirezione fascista e quella non fascista potrebbero essere più porosi di quanto pretenderebbe il buon senso liberale. Anche se, aggiunge Toscano, il fascismo eccelle nella manipolazione delle serialità generate dalla vita sociale capitalista, con la sua capacità di plasmare pseudo-unità e false totalità attraverso discorsi di supremazia razziale, etno-nazionalista e religiosa.

Il carattere per certi versi farsesco dell’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump nel 2021 non deve trarre in inganno. Anche la farsa è una forma di performance che, al pari delle messe in scena più seriose, è in grado di tenere insieme differenti e incompatibili immaginari autoritari, coinvolgendo una composizione sociale e di classe quanto mai eterogenea. I molteplici vettori di comunicazione e di aggregazione che oggi contraddistinguono l’estrema destra americana (e non solo), amplificano il carattere “pluralistico” e contraddittorio del fascismo tradizionale. Ma questa è tutt’altro che una debolezza, sostiene Toscano, come l’approccio razionalistico della sinistra sembra spesso ritenere.
Questo perché il “tempo per il fascismo” è il tempo della crisi, nella sua dimensione oggettivamente socioeconomica. La sfida per ogni risoluzione fascista della crisi è di realizzare una mediazione tra due tipi di temporalità divergenti: da una parte, il tempo del risentimento e del revanchismo (il tempo dell’identità e della razza), dall’altra quello dell’accumulazione (il tempo del valore). O, meglio ancora, la vera sfida è di subordinare il primo tipo di temporalità al secondo. La soluzione viene allora trovata attingendo a un archivio disordinato di immaginari ed esperienze sedimentate nel tempo grazie al quale il futuribile e l’arcaico, il nuovo e la ripetizione, la rivoluzione e il ritorno all’origine, la decisione e il destino possono convivere in una miscela instabile ed esplosiva.
Tutto ciò richiama la dimensione della “non-contemporaneità” che Bloch, citato da Toscano, ha per primo messo in luce sottolineando la presenza nella Germania degli anni Trenta di strati sociali fuori sincrono rispetto ai ritmi dell’accumulazione capitalistica (contadini, piccolo borghesi, aristocratici, sottoproletari ecc.). Strati sociali cui appartengono fantasie irrealizzate di una vita migliore, memorie di modi di vita precapitalistici, desideri improduttivi e in eccesso che sono stati deviati e irreggimentati dal fascismo. Allo stesso tempo, prosegue Bloch, abbiamo a che fare  con frammenti di un immaginario che possono rivelarsi rivoluzionari qualora riescano entrare in risonanza con la contraddizione “sincronica”, quella tra capitale e lavoro. 

Ma nelle società dei nostri giorni, si chiede Toscano, possiamo ancora parlare di non-contemporaneità? Il capitalismo attuale, con la sua capacità senza precedenti di modellare e omogeneizzare i desideri e la vita quotidiana, soprattutto sotto l’apparenza di differenza, scelta e libertà, ha portato con sé il prosciugamento delle differenze culturali e temporali dall’esperienza vissuta, insieme a tutte le loro potenzialità utopiche. Insomma, secondo l’autore di Late Fascism, non ci sarebbe più alcun passato da salvare. Quantomeno nulla di antico. Quando Trump parla di fare di nuovo grande l’America, infatti, non fa riferimento ad alcunché di  arcaico, ma a un fordismo post-bellico con tratti fortemente idealizzati, soprattutto per quanto riguarda il benessere diffuso e il compromesso patriottico tra grande capitale e lavoro.
Eppure, possiamo commentare, la sussunzione di modi di vita, culture e tradizioni non capitalistiche sotto il segno della mercificazione universale, non significa necessariamente la scomparsa di tutto ciò che viene dal passato e/o dal mondo non occidentale. Il capitale ha interesse a distruggere solo ciò che è incompatibile con le leggi della sua valorizzazione. Tutto il resto lo può rifunzionalizzare, mettere a valore o lasciar vivacchiare ai suoi margini. Il passato può sopravvivere come preferenza individuale per il consumo di merci e valori vintage, privato della sua profondità storica. Potremmo allora ipotizzare che il postmoderno, a modo suo, generalizzi il rapporto con la storia proprio della cultura di destra per la quale, sostiene Furio Jesi citato da Toscano, “il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile”. La non-contemporaneità è dunque salvata, ma al tempo stesso superata al punto di essere resa difficilmente riconoscibile. 

Similmente deformati, secondo Toscano, appaiono i lineamenti della classe operaia cui si appella il tardo fascismo, poco o nulla definita dal suo rapporto con i mezzi di produzione. Il suo tratto caratteristico è invece quello di essere di pelle bianca e di genere maschile. La connotazione razziale (e di genere) riempie una nozione politicamente vuota o spettrale della classe operaia permettendo a una soggettività pseudo-collettiva di aggregarsi per mezzo di un investimento emotivo caratterizzato da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Per questo, a differenza di quello che pensa un certo populismo di sinistra a rischio di colorarsi di tinte rossobrune,  

non esiste alcun percorso che conduca dalla falsa totalità di una classe razzializzata ed eterodiretta a una rinascita della politica di classe, non esiste alcun modo per trasformare le statistiche elettorali o gli studi mal progettati sul “soggetto populista” e sugli “uomini e donne dimenticati”, in punti di partenza per ripensare una sfida al capitale o per analizzare e mettere in discussione i fondamenti stessi del discorso fascista.1

Questo pallido simulacro del proletariato è solo un ostacolo. Ma ciò non significa buttarsi dalla parte opposta per contrastare le tendenze autoritarie del nostro periodo, annacquando l’antifascismo in un “fronte (im)popolare con liberali e conservatori”. Anche il neoliberismo presuntamente progressista, quello che sta alla base della maggior parte delle denunce tradizionali del fascismo, è contraddistinto dalla continua produzione di disuguaglianze ed esclusioni infiocchettate da impegni formali e stereotipati a favore dei diritti, della diversità culturali e delle differenze di genere. Facendo causa comune con esso, ammonisce Toscano, ci si allea con la causa per scongiurarne gli effetti. Di conseguenza, riecheggiando le parole del francofortese Max Horkheimer, non si può che giungere a una conclusione:

Chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe anche tacere sull’antifascismo. Quest’ultimo, inteso in senso ampio, non è solo una questione di resistenza al peggio, ma sarà sempre inseparabile dalla costruzione collettiva di modi di vivere che possono annullare le narrazioni letali di identità, gerarchia e dominio che la crisi capitalista ripropone con così cupa regolarità.2

In estrema sintesi, il fascismo di cui ci parla Alberto Toscano non è l’alterità mostruosa che si oppone al capitalismo, come vorrebbe il pensiero liberale che spesso immagina l’affermazione di questo altro da sé come un evento storico aberrante ed eccezionale. E’ piuttosto il suo lato oscuro, il suo doppio che vive costantemente ai margini (interni ed esterni, sociali e geopolitici) di quello che la cattiva coscienza liberale percepisce come il suo mondo ordinario (che è normalmente assai più limitato dell’intera realtà). Un lato oscuro che è pronto a proiettare la sua fetida ombra sull’intera società quando erompe il tempo della crisi. 

I margini in cui allignano le tenebre, aggiungiamo da parte nostra, possono anche essere concepiti, con l’aiuto di Marx, come ciò che si trova al limite dell’arco visivo dell’ideologia dominante. Quest’ultima fissa di preferenza il suo sguardo sulla sfera della circolazione delle merci, vero Eden dei diritti dell’uomo dove regnano libertà e uguaglianza per tutti i possessori di merci e, per estensione, per tutti i cittadini. Da questo punto di vista, ciò che rimane ai margini è, paradossalmente, il cuore di tenebra del mondo capitalistico, dove domina tutt’altra logica. Nel “segreto laboratorio della produzione”, infatti,

il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro.3

Ed è proprio questo dispotismo, connaturato al rapporto tra capitale e lavoro nella sfera della produzione, che tende a prevalere anche nell’ambito politico, investendo le relazioni tra governanti e governati fino nel centro dell’impero, quando la silenziosa coazione dei rapporti economici non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione del sistema capitalistico, cioè in tempi di crisi. Tempi che, oggi come in passato, ci portano verso scenari bellici sempre più allargati, lasciando spazi di libertà sempre più ristretti per chiunque non si voglia schierare tra le file delle armate patrie. 


  1. Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Vereso, London-New York 2023, p. 21, ed. Kindle. 

  2. Ivi, p. 158. 

  3. K. Marx, Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, 1980, pp. 468-69. 

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Clima e letteratura: è finita l’età dell’innocenza https://www.carmillaonline.com/2023/10/24/clima-e-letteratura-e-finita-leta-dellinnocenza/ Tue, 24 Oct 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79669 di Paolo Lago

La società attuale lacera gli ultimi brandelli di innocenza rimasti a qualsiasi espressione culturale; ormai è stato definitivamente strappato anche il sottile velo che avvolgeva la letteratura. Lo chiarisce in modo esemplare Maurizio Bettini all’inizio del suo saggio Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, quando afferma che oggi non possiamo più leggere i versi del libro I dell’Eneide relativi al naufragio di Enea e compagni nel canale di Sicilia analizzandone stile e figure retoriche, come faceva lui quando era studente universitario. Se allora pareva ovvio e normale sondarli soltanto attraverso la lente della filologia, oggi, che in [...]]]> di Paolo Lago

La società attuale lacera gli ultimi brandelli di innocenza rimasti a qualsiasi espressione culturale; ormai è stato definitivamente strappato anche il sottile velo che avvolgeva la letteratura. Lo chiarisce in modo esemplare Maurizio Bettini all’inizio del suo saggio Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, quando afferma che oggi non possiamo più leggere i versi del libro I dell’Eneide relativi al naufragio di Enea e compagni nel canale di Sicilia analizzandone stile e figure retoriche, come faceva lui quando era studente universitario. Se allora pareva ovvio e normale sondarli soltanto attraverso la lente della filologia, oggi, che in quello stesso luogo trovano la morte innumerevoli nuovi profughi in fuga da guerre e distruzioni, non è più possibile. Come scrive Bettini, “inevitabilmente leggendo le parole di Ilioneo il pensiero corre ai nuovi profughi che, come i Troiani dell’Eneide, cercano di varcare il canale di Sicilia per raggiungere (come allora) l’Italia, fuggendo da morte e distruzione; e come i Troiani sono vittime di un naufragio. Ci sono troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a mezz’acqua perché quei versi si possano ancora leggere solo come poesia. Sono diventati cronaca. Gli orrori del Mediterraneo hanno tolto all’Eneide qualsiasi innocenza letteraria”1.

Penso che le osservazioni di Bettini riguardo alla perdita dell’innocenza della letteratura possano valere – mutatis mutandis – anche per il clima. Qui non si tratta, come nel caso analizzato dallo studioso, di letteratura classica che, inevitabilmente, si trasforma in “cronaca”. Si tratta, comunque, sempre di cambiamento di prospettiva di lettura. Mi spiego: oggi – in un momento in cui il clima, a causa delle emissioni inquinanti, sta mutando nella direzione di un surriscaldamento globale e in cui molte stagioni intermedie, come l’autunno, stanno sparendo – non possiamo più leggere poesie o brani di racconti o romanzi del passato (anche i cosiddetti classici), dedicati al susseguirsi ‘tradizionale’ delle stagioni, con la stessa ottica di trenta o quarant’anni fa. Se, leggendoli, non rileveremmo le differenze fra allora e oggi, saremmo colpevoli. Colpevoli di ignorare i cambiamenti climatici e non provarne dolore. Quelle poesie e quei brani che parlano di un susseguirsi ‘normale’ delle stagioni sono ormai separati da noi da uno spazio temporale incolmabile. Uno spazio in cui i cambiamenti avvenuti, provocati dal cinismo meccanico e autoreferenziale del capitale, hanno fatto perdere ad essi qualsiasi possibilità di essere rivissuti. Per cui, non li possiamo più studiare ed analizzare, anche in ambito scolastico o universitario, senza porre l’accento sul fatto che quei testi ci parlano ormai di un altro tempo, di un’altra era.

Dal momento che stiamo vivendo un ottobre caldissimo, con trenta gradi in molte località italiane durate almeno fino alla metà del mese, vorrei concentrarmi soprattutto su come l’autunno e l’inverno sono stati cantati, con un’innocenza che ormai ci dobbiamo dimenticare, in alcune poesie e romanzi del passato. E ci dobbiamo dimenticare anche delle stagioni delineate in queste poesie e in questi romanzi, o dobbiamo ricordarle come qualcosa che mai più rivedremo. Mi viene subito in mente, però, non un esempio letterario ma uno tratto dal cinema, il quale potrebbe apparire emblematico del mutamento del clima avvenuto anche in tempi relativamente recenti. Il film La prima notte di quiete (1972), di Valerio Zurlini, racconta l’arrivo del professore di Lettere Daniele Dominici, interpretato da Alain Delon, in una Rimini livida e invernale. Come spesso succede, il film, distribuito in vari paesi europei, ha subito, nelle traduzioni, un vero e proprio stravolgimento del titolo. Ad esempio, in Francia venne rititolato Le professeur mentre in Germania Oktober in Rimini (anche se il film venne girato in febbraio). Ebbene, l’immaginario tedesco del 1972 associava al mese di ottobre un paesaggio della riviera adriatica malinconico e gelido, con i personaggi del film perennemente avvolti in sciarpe e cappotti. Si tratta di un abbaglio? Forse i tedeschi hanno pensato a una Rimini ottobrina più vicina al loro clima continentale o forse nel 1972 le condizioni climatiche erano tali che, in alcuni giorni, potevano avvicinarsi a temperature prettamente invernali. Fra le due ipotesi propenderei di più per la seconda, anche tenendo conto del fatto che due anni dopo, nel 1974, dati alla mano, si ebbe un ottobre freddissimo. Di sicuro, sarebbe impensabile un titolo del genere per la prima metà dell’ottobre 2023 (e, diciamocela tutta, anche per questi giorni): altro che cappotti e gelo invernale, a Rimini le spiagge saranno state ancora affollate come ad agosto. Il film di Zurlini ci può portare direttamente anche ad un esempio letterario. Ne Gli occhiali d’oro (1958), Giorgio Bassani racconta il mutamento stagionale dall’estate alle prime avvisaglie d’autunno proprio sulla riviera adriatica: lo scrittore descrive come, ai primi di settembre, il mare comincia a cambiare colore, divenendo più cupo e agitato e annunciando così il mutamento di stagione. L’Oktober in Rimini dell’immaginario tedesco assomigliava molto di più a un ciclo stagionale non ancora stravolto dal riscaldamento globale. E comunque, già nel 1958, ma ancora di più nel 1972, l’Antropocene2 stava già gettando solide basi per il surriscaldamento del clima.

Facciamo adesso un salto indietro nel tempo e andiamo, in pieno Romanticismo, a leggere l’Ode al vento occidentale di Percy Bisshe Shelley che venne scritta in un bosco sulle rive dell’Arno, vicino a Firenze, il 25 ottobre del 1819. Shelley descrive il “Vento selvaggio occidentale” come “alito della vita d’Autunno” mentre le foglie, con accenti romantici, diventano “spettri in fuga da un mago incantatore”. Il vento è anche colui che guida “i semi alati ai loro letti oscuri / dell’inverno”. La poesia riecheggia di tonalità cupe venate però di una speranza, il ritorno della Primavera; il finale, infatti, così suona: “Oh, Vento, / se viene l’Inverno, potrà la Primavera esser lontana?”3. Il poeta, all’arrivo del vento occidentale che porta l’autunno, rimpiange la primavera e il calore dell’estate. Lo stesso rimpianto lo incontriamo nel Canto d’autunno, appartenente ai Fiori del Male (1857) di Charles Baudelaire, il cui incipit è questo: “Ancora un poco e c’immergeremo nelle fredde tenebre, / e, allora, addio viva luce di un’estate troppo breve!”4. Estate troppo breve? Forse nel 1857 ma non davvero ai giorni nostri: almeno personalmente, non vedo l’ora che il caldo anomalo cessi per dare l’avvio a temperature più consone al mese di ottobre, senza magari provocare nubifragi forieri di danni (e bisogna dire che in questo caso, l’operato umano, con le sue cementificazioni indiscriminate, aiuta tantissimo i fenomeni metereologici estremi a provocare danni e tragedie). La stessa malinconia e lo stesso rimpianto per l’estate li incontriamo anche nella Canzone d’autunno di Paul Verlaine, appartenente alla raccolta Poèmes Saturniens del 1866, in cui, di fronte ai “singhiozzi lunghi / dei violini / dell’autunno” il poeta ricorda “gli antichi giorni” e piange5.

Anche Giovanni Pascoli, in Novembre, appartenente alla raccolta Myricae (1891) ricorda l’estate e la primavera con malinconia mettendo in scena l’illusione della breve “estate di San Martino”. La poesia è incentrata sui falsi segnali che farebbero pensare a una nuova primavera: il sole è così splendente e il cielo è così chiaro da far credere che ci possano essere gli albicocchi in fiore da qualche parte (ma è solo un’illusione, non c’è nessuna fioritura fuori stagione come oggi), mentre invece ci sono solo rami spogli e tutto d’intorno campeggia uno scenario invernale. La chiusa è cupa come un tetro suggello: è solo “l’estate, / fredda, dei morti”6. Vincenzo Cardarelli, addirittura, nella sua poesia Autunno, appartenente alla raccolta Giorni in piena del 1934, scrive che “già lo sentimmo venire nel vento d’agosto, / nelle piogge di settembre / torrenziali e piangenti”7. Certo, al giorno d’oggi non possiamo dire la stessa cosa. Come già accennato, se fino a trenta o quarant’anni fa questi testi potevano essere letti senza ulteriori precisazioni dal momento che conservavano intatta la loro innocenza, oggi sarebbe opportuno fermarci un attimo e riflettere che nella contemporaneità il clima non è più quello che hanno vissuto questi poeti. Potremmo anche chiederci se ai giorni nostri i poeti proverebbero la stessa malinconia per l’estate oppure, dal momento che quest’ultima sembra protrarsi all’infinito, non cambierebbero le carte in tavola dicendo: “dolce autunno sospirato, quando arriverai?”. In questo caso, esso non rappresenterebbe più una cupa immagine di morte ma il tanto agognato refrigerio dopo un’estate troppo lunga.

Se poi dall’autunno ci spostiamo all’inverno, potremmo chiederci se, con la drastica riduzione delle nevicate invernali, molte pagine potrebbero ancora essere state scritte. Pensiamo alla celebre, intensa nevicata (che ha comunque anche un significativo valore metaforico) sulla Dublino del primo Novecento nel racconto I morti, appartenente a Gente di Dublino (1914) di James Joyce oppure, in tempi e in spazi più vicini a noi, a La città smarrita nella neve, racconto di Italo Calvino incluso in Marcovaldo (1963) o alla Torino rivisitata fantasticamente da Furio Jesi ne L’ultima notte (1962-1970, edito postumo nel 1987), rappresa in un freddo e nevoso inverno e attaccata dai vampiri. Forse, fra qualche generazione di narratori, anche la neve in città diventerà un elemento narrativo fantastico alla stessa stregua dei vampiri. Eppure, ci sono diversi scrittori che, anche in passato, non si sono davvero adagiati nell’innocenza della letteratura in fatto di clima: lo stesso Calvino ne è un esempio, il quale, insieme a Pasolini e Bianciardi (ma si potrebbero ricordare altri nomi), ha denunciato l’edilizia selvaggia degli anni cinquanta e l’inquinamento spregiudicato sorto in Italia con il boom economico.

Se non possiamo leggere con la stessa innocenza del passato questi autori ‘classici’ (e, al solito, se ne potrebbero aggiungere altri), è anche vero che potremmo leggere, disincantati e dopo aver buttato via gli ultimi rimasugli di innocenza, molti autori contemporanei che pongono in primo piano le stringenti problematiche legate al cambiamento climatico. Non è necessario che questi autori scrivano per forza testi distopici o popolati di “ibridi, mutanti, teriomorfi, simbionti, megafauna, alieni, materie instabili”8 (come, secondo Matteo Meschiari, dovrebbero presentarsi i romanzi dell’Antropocene) ma basta che rappresentino, anche all’interno di scene quotidiane, un autunno non più autunno, caratterizzato da un caldo anomalo (o un’estate e una primavera eccessivamente calde) come, ad esempio, Sesso più, sesso meno (2021) di Mario Fillioley o La meravigliosa lampada di Paolo Lunare (2019) di Cristò, la cui azione si svolge in ottobri e novembri ancora caldi e quasi estivi. L’ipercontemporaneità di un autore la si percepisce anche da come rappresenta il clima delle stagioni nella sua narrazione. Leggiamo gli autori contemporanei allora, ma leggiamo anche i classici cercando di uscire dall’aura incantata dell’età dell’innocenza che essi hanno vissuto in tema di clima. Altrimenti resteremmo intrappolati in vuoti involucri schematici come se ci trovassimo rinchiusi nei quadri del ciclo delle stagioni di Pieter Brueghel il Vecchio. Constatiamo quindi che la letteratura ha ormai perduto l’innocenza anche in fatto di clima non senza un pizzico di nostalgia, però, per quei (bei) tempi in cui l’espressione “autunno caldo” aveva un significato completamente diverso, e non certo legato al clima meteorologico.


  1. M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino, 2019, p. 4. 

  2. Termine che dobbiamo al biologo Eugene Stoermer e al premio Nobel per la chimica Paul Crutzen e che indica un’epoca in cui la presenza umana sta inesorabilmente mutando il pianeta. 

  3. La poesia è tratta da P.B. Shelley, Poesie, a cura di R. Sanesi, Einaudi, Torino, 1983. 

  4. La poesia è tratta da C. Baudelaire, I fiori del male e tutte le poesie, a cura di C. Rendina, Newton Compton, 1991. 

  5. La poesia è tratta da P. Verlaine, Poesie, a cura di L. Frezza, Rizzoli, Milano, 1986. 

  6. La poesia è tratta da G. Pascoli, Myricae, a cura di F. Melotti, Rizzoli, Milano, 1981. 

  7. La poesia è tratta da V. Cardarelli, Opere, Mondadori, Milano, 1990. 

  8. M. Meschiari, Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo, Armillaria, Milano, 2020, p. 27. 

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Augusta Wampyrorum https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/augusta-wampyrorum/ Sat, 19 Jun 2021 21:23:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66804 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di un successivo volume dei curatori al momento in preparazione. In questo, tra storie di lupi e fantasie su Lovecraft in Italia, etruscologia metapsichica e teatri della morte, anime pezzentelle, bambole sinistre, sopravvivenze sciamaniche, massoni a Trieste e tanti diavoli, è apparso anche un contributo di chi scrive sulla genesi di un fortunato mito pop da giornali della sera emerso nella Torino degli anni Settanta e ormai assurto a brand: The Wicker Town. Torino magica & orrore popolare. Se ne riporta uno stralcio.

 

[…] Nella galleria di Haining & Parker [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, I colibrì Mondadori 1972, a poca distanza dall’originale inglese Witchcraft and Black Magic, 1971, con un meraviglioso corpus d’illustrazioni di Jan Parker – cfr. qui] non manca uno spazio sui vampiri: e la bellissima raffigurazione di un volto inquietante con occhi azzurri, capelli rossi e labbro leporino, la consistenza incorporea venata però da una circolazione malsana, che emerge in un cimitero con aria maligna e assetata, è accompagnata da una spiegazione (un po’ banalizzante, ma tant’è) deliziosamente vintage.

 

Recentemente fantasiosi romanzi e films (specialmente quelli su Dracula, personaggio creato da Bram Stoker) hanno reso molto popolari questi “mostri” che molto probabilmente erano solo persone che soffrivano di disturbi mentali, bandite a causa della loro brama morbosa per il sangue [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, cit., p. 93]

 

Tra le concause del revival magico si può senz’altro identificare – si è detto – il decennio di successo capitalizzato dai film gotici Hammer, a partire dai primi a fine anni Cinquanta con i quattro moschettieri Cushing, Lee, Fisher, Sangster (due attori, un regista, uno sceneggiatore) a innesco di una straordinaria operazione di mitopoiesi: e Haining pensa proprio a quelli. Non è questa la sede per un’analisi del fenomeno, dove la riappropriazione di un’eredità gotica inglese già sfruttata e buttata oltre oceano, ristrutturata film dopo film in chiave di sistema mitologico, si accompagna alla vera e propria liturgizzazione di misteri pagani: e tutto ciò attraverso storie che sempre più innervano i classici del fantastico di concessioni a una cultura del magico (riti, culti, sette…) covata nelle Isole Britanniche fin dall’Ottocento, poi rinverdita dai fasti popolari delle tesi negli anni Venti/Trenta di Margaret Murray sul presunto “dio delle streghe” e dal successo popolare dei romanzi di Dennis Wheatley. La provocatoria saldatura tra tutto questo e una Swinging London per una breve stagione tornata centro del mondo offre una nuova marcia all’horror popolare saldando nostalgie e nuove provocazioni. E incentivando lo sviluppo di filoni dall’origine autonoma come la (grande) stagione del gotico italiano su schermo.

Certo il pantheon (o pandemonium) Hammer comprende un’estrema varietà teratologica: ma altrettanto certamente i vampiri vi vantano un ruolo e un fascino particolare. Sia quelli della vecchia generazione – in particolare Dracula/Lee, vero mattatore dell’epoca nonostante le continue frenate dell’interprete che teme di restare confinato nella parte – sia le sempre più disinibite nipotine del ciclo Karnstein, Carmilla & Co. In rapporto da un lato, del resto, con un boom vampiresco nel segno della trasgressione, a cavalcare un’euforia sessuale d’epoca che vede ammorbidirsi drasticamente le maglie della censura: si pensi alle belle succhiatrici di Jean Rollin e Jess Franco, a La novia ensangrentada di Vicente Aranda, 1972, allo stesso recupero filmico di una figura amata dai surrealisti fin dagli anni sessanta, la Contessa sanguinaria Erzsébet Báthory, da cui la definizione per i primi anni del nuovo decennio come “the Golden Age of the Lesbian Vampires”. E dall’altro con l’entusiastica divulgazione da parte di Raymond T. McNally e Radu Florescu dell’esistenza di un Dracula storico, Vlad III Țepeș, argomento presto amato dalle riviste anche italiane [cfr. qui].

Inevitabile che il successo della creatura liminare per definizione – tra vita e morte, materiale e spettrale, umano e bestiale, ripugnante e seducente – influisca anche sui miti di una città liminare quale Torino. Dove fantasie vampiresche sono attestate in realtà da parecchio tempo, sia pure in forme liberissime: si pensi all’opera lirica Il vampiro di A. De Gasparini rappresentata per la prima volta proprio in città nel 1801; alla commedia satirica in cinque atti Il vampiro del torinese Angelo Brofferio, 1827; allo sfarfallare vampiresco attorno a due veronesi eccellenti insediati a Torino, cioè Emilio Salgari (che ben prima della truce saga uruguayana Il Vampiro della foresta, 1902, aveva messo in scena un Sandokan “che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei moribondi” in La Tigre della Malesia, 1883-1884, protoversione a forti tinte del poi rielaborato Le tigri di Mompracem, 1900) e Cesare Lombroso (che definisce il serial killer Vincenzo Verzeni “Sadico sessuale, vampiro e divoratore di carne umana” e viene omaggiato da Luigi Capuana della sua novella Il vampiro, 1904). Anche non in presenza di un nesso diretto, la pratica (barocca, ma perpetuata a lungo) di conservare nelle chiese corpi santi sotto cera che riempiva d’orrore me bambino traghetta a quella dimensione di cadaveri inquietantemente conservati che trova qualche eco anche nella mitologia vampiresca.

Un discorso a parte andrebbe poi condotto sulle pratiche di assunzione di sangue per via orale: a volte per mantenere un aspetto giovanile (come nel caso della “vampira di Torino” Agnese Draghetti, originaria di Serralunga d’Alba e morta novantottenne nel 1785 a Villadeati, nell’Alessandrino, ma vissuta a lungo nella Contrada degli Angeli, poi chiamata Contrada della Dogana, attuale via Carlo Alberto, al n. 2, che girava i sobborghi pagando giovani donatrici di piccole quantità ematiche); a volte a fini di cura dell’anemia, anche se in quel caso si ricorreva normalmente al sangue animale dei macelli, e la pratica è attestata diffusamente nell’Italia dell’Ottocento.

È una fiaba scherzosa la storia dell’uomo vampiro catturato nel 1863 in città: riportata sul sito del C.A.U.S. – Centro Arti Umoristiche e Satiriche, racconta di questo tipo enorme tenuto agli arresti domiciliari in uno spazio annesso alla caserma di San Salvario onde svolgere con più efficacia il compito di salassare secondo prescrizioni mediche (al tempo normalmente gestito con sanguisughe). Alla sua morte, così vien detto, la municipalità lo ricorderebbe favorendo l’inserimento sulle case di San Salvario di immagini vampiresche (ovviamente i mascheroni sulle facciate degli edifici torinesi presentano spesso fattezze più o meno richiamabili a tali tipologie). Vera e propria leggenda metropolitana è invece quella del vampiro di San Mauro Torinese che nell’autunno 1947 semina il panico soprattutto in due frazioni confinanti con Torino, Cascina del Molino e Barca, guadagnandosi gli onori della cronaca. Occhi fosforescenti, vestito di nero, cappa e cappello da montanaro, morderebbe il collo a donne sole e soprattutto giovani; ma presto emerge che la voce è stata messa in giro per frenare un po’ le figliole in un momento in cui, terminata la guerra, sembra più difficile trattenerle da fughe serali. E tuttavia un’aggressione vera e in apparenza analoga – almeno secondo la vittima, che però non ha il tempo di perdere sangue – si verificherebbe poco dopo in corso Matteotti, pieno centro di Torino. Impossibile ormai stabilire la consistenza dei fatti.

Ma coi nuovi tempi il richiamo assume un altro peso. È difficile non cogliere un nesso in chiave di sogghigno colto tra le pellicole vampiresche Hammer e un’opera-chiave del fantastico torinese, L’ultima notte di Furio Jesi (1941-1980), eminente studioso del rapporto tra miti e storia: un romanzo di vertiginosa erudizione e scintillante, divertita intelligenza composto tra il 1962 e il 1970 – in due versioni piuttosto diverse – e pubblicato solo postuma da Marietti nel 1987 (riedizione per Nino Aragno, 2015). Jesi, autore anche della voce “Vampiri” nel Grande Dizionario Enciclopedico Utet e della fiaba vampirica La casa incantata (Vallardi, 1982, poi Mondadori 2000), mette in scena nel romanzo il tentativo di rivincita dei vampiri, stirpe altra un tempo dominatrice della Terra: Dio concede loro, stanco dei guasti prodotti dagli uomini, di riprendersi quanto hanno perduto. Conquisteranno quasi tutto il pianeta, ridando spazio alla natura che gli uomini hanno violato in tutti i modi – torniamo insomma al fiato apocalittico di un’epoca – e proprio a Torino, dove i vampiri hanno installato il quartier generale nella Torre littoria sovrastante Piazza Castello, avverrà lo scontro definitivo. Tra scontri in piazza, piccoli eroi e profittatori, affannati conciliaboli coi santi e giochi anche di piccolo cabotaggio tra Cielo e mondo umano, il risultato lascerà intravedere la fine della Terra…

Con lo sguardo pure alle nuove provocazioni e insieme a una Torino-osservatorio è il film fantastico, visionario e ironico di Corrado Farina Hanno cambiato faccia, 1971, dove il dipendente di una grande azienda torinese dell’auto, Alberto Valle, viene invitato – novello Jonathan Harker – nella villa di campagna del presidente, l’ingegner Giovanni Nosferatu interpretato da Adolfo Celi. Nel parco si aggirano come lupi delle Fiat (pardon, Auto Avio Motor) 500, e il povero Valle dovrà constatare la natura vampiresca dell’industriale e del suo potere sui mezzi di produzione e di comunicazione.

Negli anni che seguono, l’icona del vampiro è molto presente nell’immaginario, veicolata a Torino attraverso pubblicazioni popolari, giornali, proiezioni del Movie Club – piccolo ma importante, sul tesserino figurava l’immagine di Dracula/Lee – e programmazioni sulle prime minuscole televisioni private locali: dove con molta fortuna, in assenza di segnalazioni dei palinsesti, ci si poteva imbattere in quei film horror ancora banditi dalla tv di Stato (la mia prima visione di Dracula il vampiro, incontrato al tempo su una di queste reti, parte in effetti da metà film). La ribellione magica dei Settanta trova nel vampiro eversore di ogni punto fisso di natura e cultura un’icona eminente, e nelle fantasie dei miei anni di liceo (conclusi nel 1980) si tratta di uno degli archetipi fantastici più amati; anche se sul tema non compaiono al tempo e per qualche decennio altri romanzi o produzioni di rilievo torinesi. Negli anni Ottanta, con l’inabissarsi dell’icona vampirica al cinema, si sviluppa però in Italia una vera e propria critica in tema di fantastico, iniziano a moltiplicarsi edizioni di autori introvabili (come Le Fanu, per esempio la bella edizione Sellerio di Carmilla, 1980, o la proposta di altri suoi testi per Serra e Riva e soprattutto per Theoria); e con il revival gotico dei Novanta e nuovi mezzi come i VHS anche la cinematografia sul tema inizia a essere più avvicinabile.

 

Vampiri di passaggio

Un discorso a parte può poi valere per alcuni dei citati (presunti) visitatori a Torino abbinati a storie vampiresche. Si parte naturalmente dall’esorcista di protovampire Apollonio, antenato virtuale di Van Helsing & Co.; mentre il vampiro Nostradamus interpretato da Germán Robles in alcune pellicole messicane (1960-62) sarebbe un solo ipotetico figlio del veggente. Quanto all’immortale Saint-Germain capace a sua volta – secondo alcuni racconti – di cacciare parassiti sovrannaturali, lo troviamo assurgere a vampiro buono nei romanzi di Chelsea Quinn Yarbro: a partire da quell’Hôtel Transylvania, 1978, proposto in Italia agli esordi (2005) della breve gloriosa stagione gotica della Gargoyle di Paolo De Crescenzo, a sua volta grande fucina editoriale di storie di vampiri.  

 

Una svolta si ha a Torino con il nuovo millennio, che vede uscire a breve distanza il film Io sono un vampiro di Max Ferro, 2002 – dove il non-morto attraversa i secoli dall’assedio del 1706 alla nuovissima movida – e il romanzo erotico/ironico L’ultima ceretta di Anna Berra per Garzanti, 2003: quest’ultimo avrebbe anzi dovuto intitolarsi Bevimi, a saldare suggestioni da Alice in Wonderland con le suzioni di una setta (umana) praticante il vampirismo in una villa di zona Crocetta. Qualche suggestione vampiresca emerge anche nella sua bella raccolta Piume di sangue. 69 racconti noir, Enrico Casaccia/Co.RE Editrice, 2009 [per un suo lavoro più recente in tema vampiri, cfr. qui]. In Quarto di luna per i tipi SBC, 2008, il musicista Marco Gallesi inscena invece l’arrivo a Torino di un vero vampiro, il soldato tedesco Rutger Haussman, trasformato durante la battaglia di Stalingrado; e vampiri vi porta Carla Oddoero/Blake B (Blink), che nel 2010 inizia a raccontare la saga di Zora von Malice, ventisettenne non-morta svegliatasi all’improvviso in una villa decadente della collina, edita in due volumi per i tipi Golem, La curiosità uccide il gatto e Il silenzio è dorato (l’autrice è purtroppo mancata prematuramente nel dicembre 2017). Più avanti nella città inizia e termina – anche se gran parte è ambientata a Budapest – il romanzo Tutto quel buio di Cristiana Astori per Elliot, 2018, nuova avventura della cacciatrice di film perduti Susanna Marino: la ricerca della prima pellicola su Dracula di attestata produzione, Drakula halála di Károly Lajthay, 1921, conduce a confrontarsi con le dimensioni vampiresche dell’uomo e della Storia. E ancora è chiaramente Torino la città non identificata della storia fantasiosissima e lugubre, e soprattutto vampiresca, narrata da Ade Zeno in L’incanto del pesce luna per Bollati Boringhieri, 2020.

Ma ormai e sempre più i vampiri sono raggiungibili via internet, mentre fioriscono iniziative aperte al tema come il TOHorror Film Fest, fondato nel 1999 e in progressiva crescita, alcuni eventi sgranati negli anni (per esempio la mostra Diversamente vivi al Museo Nazionale del Cinema, tra settembre 2010 e febbraio 2011) e spazi nell’ambito di realtà museali come il MUFANT – MuseoLab del Fantastico e della Fantascienza. Non stupisce peraltro che proprio a Torino, tra Centro, Borgo Medievale e Valentino vengano girate scene della seconda stagione di A Discovery of Witches (Il manoscritto delle streghe), produzione televisiva britannica – 2018-in produzione  – ispirata alla Trilogia delle anime di Deborah Harkness, fitta di fattucchiere e appunto vampiri.

Certo, le storie di non-morti come normalmente presentate non sono ascrivibili a un contesto di Folk Horror o Urban Wyrd. E tuttavia attraverso il tessuto della Torino magica si può parlare di una sorta di obliquo genius loci. Che non movimenta ovviamente i Dracula Tour; ma in una città dagli scorci barocchi come le capitali mitteleuropee delle grandi epidemie vampiriche, e dove i non pochi richiami letterari e cinematografici al tema mantengono sottotono un’elusività tutta piemontese, un intero itinerario nel segno del vampiro potrebbe essere agevolmente disegnato sulla mappa urbana. Una Torino/Karlstadt, a dirla con la Hammer, tra gli uffici di grandi aziende e le chiese con corpi stranamente conservati, le palazzine di sette vampiresche e quel certo negozio (ormai chiuso) di San Salvario dove si trovavano un po’ sottobanco i film sulle vampire di Franco e Rollin; tra il pop dei Seventies, dalla vertiginosa saldatura di miti, e quello di oggi, coi real vampires che rilasciano interviste e la stessa domanda che mi è capitato di sentirmi porre (con serietà, e senza citare Emilio de’ Rossignoli) se credo nei vampiri. A un livello più sottile, per capire la natura di Augusta Wampyrorum occorre considerare come detto la circolazione negli anni Settanta dei primi testi di cinema horror, le apparizioni dei film di vampiri sfarfallanti e sgranate sulle prime tv locali, le fantasie di adolescenti che nell’icona dell’arconte dell’indecidibile – anni luce prima del mieloso Twilight – ritrovavano qualcosa delle loro inquietudini. Ma poi, e sempre più mentre crescevamo, emergeva la percezione di un vampirismo come sopravvivenza di dimensioni non-morte nella storia e nella società italiana, che hanno soltanto cambiato faccia: qualcosa certo non esaurito in Torino, ma che sul set della città di passaggio (già prima capitale, già capitale industriale, già città olimpica, eccetera eccetera) trova un teatro eccellente, a suo modo emblematico. […]

 

P.s. Seguendo i consigli di un’amica specializzata in Lingua e letteratura romena, adotto in questo pezzo la lezione  Augusta Wampyrorum invece che Augusta Vampyrorum come nel contributo al volume o in altre precedenti occasioni.

 

 

 

 

 

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Persuadere la vita https://www.carmillaonline.com/2019/06/30/persuadere-la-vita/ Sat, 29 Jun 2019 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53212 di Jack Orlando

Quello con la Morte, a queste latitudini, è sempre stato un rapporto problematico. Come, d’altronde, mantenere sereno il contatto con la Falciatrice di anime? Il taglio brusco tra la materia terrena e il vuoto, tra i piccoli amori e le ossessioni dell’umano, tra l’ansia di apparire ed il terrore di non essere più. Un demone che nel corso delle epoche si è sempre cercato di esorcizzare e che ritorna, puntualmente, beffardo agli occhi dell’uomo.

E se per fuggire a quel demone si ricorresse, come in parte già è, alla [...]]]> di Jack Orlando

Quello con la Morte, a queste latitudini, è sempre stato un rapporto problematico. Come, d’altronde, mantenere sereno il contatto con la Falciatrice di anime? Il taglio brusco tra la materia terrena e il vuoto, tra i piccoli amori e le ossessioni dell’umano, tra l’ansia di apparire ed il terrore di non essere più.
Un demone che nel corso delle epoche si è sempre cercato di esorcizzare e che ritorna, puntualmente, beffardo agli occhi dell’uomo.

E se per fuggire a quel demone si ricorresse, come in parte già è, alla chimica ed a piccoli miracoli in pillole? Se la morte fosse un esperienza impossibile da rimuovere dalla biologia ma arginabile dalla coscienza grazie alla farmacologia?
Potrebbe, ad esempio, accadere che il decesso diventi talmente soft da far sì che il trapassato, inconsapevole della sua condizione di non più vivo, si accanisca a perpetuare le sue abitudini e ad attraversare il mondo dei vivi con incurante goffaggine.

È questa la dimensione che racconta Sergio Maglietta nel romanzo Il poeta persuasore ( Il Galeone ed., 2019 ). Una Napoli surreale e caotica, più di quanto non sia nella realtà, dove morti e vivi abitano la stessa dimensione spazio-temporale e le Asl sono costrette a provvedere al riposo forzato dei cari estinti. Nascono così i Poeti Persuasori, professionisti dell’accompagnamento all’Altro Mondo tramite le parole e la metrica.

Eota, sgualcito e indolente protagonista della narrazione, è uno di questi e con i morti ci vive. Li accompagna all’Oltretomba liberandoli dalle ossessioni del lavoro salariato, oppure ci passa il tempo come si farebbe in compagnia di un amico, legami improbabili per avventure oniriche.
Quel che questo poeta porta con sé è la fuga da una mediocrità perenne e quotidiana che nemmeno la morte riesce spezzare.

C’è chi è, nel suo piccolo angolo, uno spirito libero che attraversa il suo tempo con inclinazione ribelle ed è in grado di sperimentare vissuti differenti e scenografie contraddittorie pur rimanendo coerente al tentativo di dare un senso al proprio agire; per costui la morte non è, in fondo, che un passaggio ulteriore, un veicolo per accedere a nuovi stadi e nuove percezioni dell’essere. Personaggi folli quanto felici e stimolanti, questi spiriti liberi, compagnie difficili da gestire ma irrinunciabili nella loro assurdità.

Ma per i più, l’attaccamento alla vita terrena, non è che un susseguirsi di giorni incrostati dal proprio ruolo lavorativo e sociale, una catena invisibile che tiene l’umano ben vicino al suo posto di produzione ed incapace di scoprire mondi altri, ostinato a ripercorrere gli stessi passi anche quando ogni necessità fisiologica è terminata.
Liberare queste anime, strapparle alla gabbia della coazione a ripetere dell’iperproduzione è un dovere quasi messianico eppure necessario.

In fondo, oltre l’assurdo di una Napoli protozombie e psicotica, c’è qualcosa di molto reale e concreto in questa storia. Non c’è una gran differenza tra un morto che cammina (o lavora) ed un vivo che svolge la medesima attività con lo stesso afflato… sembrerà una domanda banale, ma nei fatti non lo è mai, può essere considerato vita il lasso di tempo che l’uomo passa sulla terra, se è esclusivamente dedicato alla produzione e all’accumulo? Qualcuno l’ha definita piuttosto Non-vita o Morte in vita, e la definizione sembra assai più azzeccata.
Furio Jesi, nell’introduzione al suo Spartacus, citava Carl Justi quando scriveva che “l’uomo dovrebbe vivere prima coi morti, poi con i vivi ed infine con sé stesso”.
Un’indicazione feconda per riflettere, e vivere, in un mondo in cui la morte appare come la conditio sine qua non della vita stessa.

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Trent’anni di Crêuza de mä https://www.carmillaonline.com/2014/07/11/trentanni-creuza-de/ Thu, 10 Jul 2014 22:01:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15576 di Luca Casarotti

Creuza de ma 1Fortemente eccentrico, lontano dalle (anche se non estraneo alle) sonorità pop di metà anni Ottanta, i testi scritti in una lingua ostica persino ai genovesi: questo è stato Crêuza de mä. Uno degli esperimenti più rischiosi nella discografia di Fabrizio De André. Uno dei suoi maggiori successi. Come mai? Com’è accaduto che un pugno di canzoni incomprensibili – a meno di non avere la traduzione sotto gli occhi – è risuonato con una tale potenza nella testa e nel cuore di molti? Esiste una risposta emotiva, che ognuno può dare per sé: l’evocazione di un [...]]]> di Luca Casarotti

Creuza de ma 1Fortemente eccentrico, lontano dalle (anche se non estraneo alle) sonorità pop di metà anni Ottanta, i testi scritti in una lingua ostica persino ai genovesi: questo è stato Crêuza de mä. Uno degli esperimenti più rischiosi nella discografia di Fabrizio De André. Uno dei suoi maggiori successi. Come mai? Com’è accaduto che un pugno di canzoni incomprensibili – a meno di non avere la traduzione sotto gli occhi – è risuonato con una tale potenza nella testa e nel cuore di molti?
Esiste una risposta emotiva, che ognuno può dare per sé: l’evocazione di un altrove, il riconoscersi in un’appartenenza, o tutte e due le cose. Risposta vera, ma individuale, valida una tantum. Non esaustiva.
Se Crêuza de mä è stato così influente, se a trent’anni dall’uscita lo si continua a comprare, ristampare, rimasterizzare, reinterpretare, se non si contano le tribute band che lo suonano in giro per i locali, ci dev’essere dell’altro: motivi più profondi e collettivi, meccanismi in grado di attivare quella risonanza a distanza nel tempo e nello spazio.
I mantra vogliono che sia il quarto miglior disco italiano di sempre secondo Rolling Stone, uno dei più influenti degli anni Ottanta secondo il Talking Heads David Byrne, vogliono che abbia fondato un genere nuovo, la world music, e altre cose ancora che mi sto dimenticando. Sono dati che riducono in pillole l’impatto del disco su pubblico e critica, ma non ne spiegano le ragioni: non penetrano la carne viva di testi e musica, ché le suddette ragioni vanno cercate tra versi e pentagrammi, non altrove.
A voler riassumere quel che io ho capito di Creuza de mä, non saprei far di meglio che citare Michel Foucault:
“Occorre fare a pezzi ciò che permetteva il gioco consolante dei riconoscimenti, giacché sapere non significa «ritrovare», e ancor meno ritrovarsi: anzi, la storia non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità, ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, ma al contrario si occupa di far apparire tutte le discontinuità che ci attraversano”. (M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi 1977)
Non so se De André conoscesse e apprezzasse Foucault. Di sicuro apprezzava Pasolini, che negli stessi anni del filosofo francese andava sviluppando un pensiero a tratti non dissimile (cfr. qui): prova ne sia che Foucault presenziò a una retrospettiva parigina del ’75 sul Pasolini-regista e la recensì per Le monde.
Durante i concerti del 1998, il cantautore era solito citare Pasolini:
“Pasolini diceva che il dialetto è il popolo e il popolo è l’autenticità”.
E continuava, alludendo a Crêuza de mä:
“Ho fatto questo disco (…) per riconoscere questa nostra etnia in un universo più vasto, quello del mar Mediterraneo”.

Nel compiere la loro ricognizione sulle musiche del “nostro” mare, De André e Mauro Pagani non sono andati alla ricerca delle radici di una cultura per affermarne la superiorità: al contrario, la loro è una dimostrazione, poetica ma non per questo meno impietosa, che non esiste nessuna superiorità identitaria, che la presunta “tradizione” può avere un senso solo nel momento in cui viene ibridata, sfidata, riutilizzata, messa in discussione. Ho usato di proposito il verbo “ibridare” e non “contaminare”. Il concetto di “contaminazione”, pur ribadito ad nauseam anche in ambienti che si vorrebbero tutt’altro che razzisti, è un altro di quelli di cui faremmo meglio a sbarazzarci il più in fretta possibile. La “contaminazione”, per esser tale, presupporrebbe una iniziale o mitica “purezza” (di sangue, di stirpe, di nascita, di costumi…). Ma niente nasce “puro”: nessun popolo, nessuna lingua o musica. Tutto è già in partenza “contaminato”.
Potrebbe essere questo il senso, uno dei sensi, di Crêuza de mä, anzi la sua allegoria profonda, per usare la terminologia di Benjamin: non c’è nessuna purezza; ci sono, semmai, millenni di culture (rigorosamente al plurale) da interrogare. L’ipotesi non è implausibile, se teniamo conto che De André aveva inizialmente l’idea di scrivere i testi in una lingua inventata, sorta di grammelot del marinaio, misto di tutte le lingue “impure” parlate nei porti e nelle città che attorno ad essi vivono.
Ma la scelta del genovese non è stata meno radicale. Se è vero che la base sintattica e lessicale è la lingua post-rinascimentale della repubblica marinara, è vero anche che Fabrizio non esita a mandarla gambe all’aria, a rovesciarla dall’interno, infilandoci una serie di voluti anacronismi, come quando menziona una “foto da ragazza” (fotu da fantinn-a) in D’ä mê riva; oppure, e ancor più scopertamente in Sidún , ricorrendo all’adynaton, cioè facendo parlare in genovese un abitante di Sidone, a cui la guerra ha strappato il figlio. Qui il cantautore usa la lingua del Seicento, ma sta raccontando un evento contemporaneo alla stesura del disco: la strage del 1982 perpetrata nella città libanese dalle truppe di Ariel Sharon, la cui voce si ascolta prima dell’inizio del brano, in montaggio sovrapposto con quella di Ronald Reagan che esalta “il crescente ruolo dell’Italia sul palcoscenico internazionale”.

Creuza de ma 2E come i testi, così le musiche. Gli arrangiamenti sono addirittura più ibridi e stratificati delle liriche. Vi si trovano strumenti che spaziano – parole di De André – “dal Bosforo allo stretto di Gibilterra”: ci sono fiati tipici della Turchia come lo shanai, cordofoni greci come il bouzouki o nordafricani come l’oud, accanto a mandolini e chitarre. Nelle note di copertina si legge di uno strumento dallo strano nome, l’undulele… che non esiste. Era una beffa di Pagani, che probabilmente voleva mettere alla prova i presunti studi di etnomusicologia vantati da parecchi recensori nostrani. Infatti, puntuali, uscirono gli articoli che si sperticavano in lodi per “il sapiente uso dell’undulele”… A riprova che Crêuza de mä è un’opera meticcia, i suoni di tutti questi strumenti acustici, undulele a parte, si sommano a quelli di sintetizzatori e macchine elettroniche come il Synclavier. Anche l’interpretazione vocale di De André si fa più articolata che in passato. Forse lo agevola il genovese, zeppo com’è di gruppi consonantici gutturali, di parole tronche e sdrucciole, metricamente duttili. Pure le potenzialità microfoniche sono sfruttate con maggior consapevolezza. In studio più che dal vivo, l’artista genovese comincia ad aggiungere nuove sfumature alla sua vocalità: arrochisce il timbro, alterna il suo solito canto scandito a una pronuncia più “zoppicante” e sussurrata, in linea con la metrica.
Il risultato è un amalgama originale, un impasto musicale in cui, anche volendo, le singole identità etniche, di cui dovrebbero essere portatori gli strumenti tradizionali, non si riescono più a distinguere: un inno potente alla mescolanza.

Si diceva che Crêuza de mä ha gettato le basi per una strada, quella della world music, molto battuta negli anni successivi. Non si contano gli artisti, non soltanto musicisti, che hanno eletto De André a loro padre nobile e questo album a primaria fonte d’ispirazione. Ciò che difetta in più d’un epigono è però proprio questa complicata stratificazione di significati. C’è chi si concentra solo sulla ricerca etnomusicale e tralascia gli elementi di innovazione, così riproponendo una “tradizione” che, a forza d’esser ripetuta identica a se stessa, diventa sterile. In questo senso è interessante l’operazione sperimentata da Pagani con l’ultima riedizione del disco, uscita a febbraio in occasione del trentennale dalla prima pubblicazione. Il polistrumentista bresciano, che oltre ad essere coautore era stato anche coproduttore di Crêuza de mä, ha remixato alcune tracce dell’album, ma nel farlo ha usato soltanto le parti vocali e strumentali originali, senza aggiungere o risuonare niente: mostrando che il missaggio del 1984 non era che uno dei risultati possibili, una delle plurime possibili ricombinazioni del materiale registrato allora. Purtroppo questa nuova edizione include anche un secondo cd con una raccolta di esecuzioni live che non brillano per qualità, esito del classico svuotamento di cassetti ormai consueto in iniziative editoriali del genere. Fortuna che De André aveva l’abitudine di far distruggere i nastri di cui non era soddisfatto, dunque di roba simile dovrebbe essercene in giro ancora poca.
Tornando agli epigoni, a volte è l’accuratezza filologica a mancare, laddove De André e Pagani erano stati invece scrupolosissimi.
Con la conseguenza che al posto di essere riproposta, qui la tradizione viene inventata di sana pianta: il mitologo Furio Jesi non si stancava di ribadire che l’invenzione di una inesistente tradizione è tipica del pensiero e della “Cultura di destra”, espressione che dà il titolo al suo libro del 1979.
C’è chi si accontenta dell’uso del proprio dialetto d’origine, come bastasse quello a dar dignità letteraria a un testo, mentre in De André la scelta linguistica era in rapporto di dipendenza reciproca con il tipo di messaggio che il brano voleva significare.
Naturalmente non mancano esempi di segno contrario, artisti che si sono dedicati alla cultura popolare con attenzione meticolosa. Per restare nella cerchia di quelli che hanno collaborato con il cantautore genovese, viene in mente il nome di Andrea Parodi, che pure si muoveva in un universo estetico assai diverso. Senza dimenticare i lavori dello stesso Mauro Pagani successivi a Crêuza de mä, magari quelli meno commerciali, ma non meno saldamente pop.

Creuza de ma 3Bisognerebbe sempre evitare di scrivere l’agiografia di un autore. Con De André il rischio esiste, se lo si celebra di continuo, almeno a parole, ma lo si fa smussandone gli spigoli e le contraddizioni, rendendo evanescente il lato contestatario della sua poetica, a beneficio d’una sorta di “memoria condivisa” che permette a chiunque di citarlo a sproposito, anche ai figuri più biechi e distanti dalla sua storia.
A chi si dice fan, o estimatore, o studioso di Faber, è richiesto, credo, di lavorare per mantenere attuale, radicale e tagliente il messaggio della sua opera, ritorcendolo contro chi pretende di appropriarsene, mentre farebbe bene a lasciar perdere: vedi recenti e disastrosi tentativi di celebrazione sanremesi, profluvi di serate in memoriam nel più puro spirito veltroniano e quant’altro ci offrano a cadenza periodica i palinsesti televisivi.

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