Fratelli Musulmani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 World War Zombie https://www.carmillaonline.com/2014/08/22/world-war-zombie/ Thu, 21 Aug 2014 22:04:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16855 di Sandro Moiso papa1

Ogni volta che vedo un Papa non posso fare a meno di pensare ad una vecchia canzone di Edoardo Bennato: “Affacciati affacciati / coi tuoi gesti larghi / e con i tuoi vestiti bianchi…/ Affacciati affacciati / e facci uno dei tuoi discorsi / sulla pace universale…/ Affacciati affacciati / dicci che va a finire male”. Era il 1975 e uno dei più radicali e sottovalutati cantautori italiani coglieva in pochi versi e con molta ironia la “sostanza” delle comparsate papali: “Affacciati affacciati / non ti stancare…/ tanto sono quasi duemila anni / che stai a guardare...”

[...]]]>
di Sandro Moiso papa1

Ogni volta che vedo un Papa non posso fare a meno di pensare ad una vecchia canzone di Edoardo Bennato: “Affacciati affacciati / coi tuoi gesti larghi / e con i tuoi vestiti bianchi…/ Affacciati affacciati / e facci uno dei tuoi discorsi / sulla pace universale…/ Affacciati affacciati / dicci che va a finire male”. Era il 1975 e uno dei più radicali e sottovalutati cantautori italiani coglieva in pochi versi e con molta ironia la “sostanza” delle comparsate papali: “Affacciati affacciati / non ti stancare…/ tanto sono quasi duemila anni / che stai a guardare...”

Le recenti esternazioni di Papa Francesco pertanto non mi hanno colpito più del dovuto, anche se, a dire il vero, il papa argentino ha avuto il pregio di anticipare almeno una parziale verità, costantemente rimossa dai governi e dai media, soprattutto a casa nostra: la Terza guerra mondiale si avvicina a passi da gigante. Nella più completa incoscienza dei politici, dei popoli e anche, bisogna dirlo forte e chiaro, di vasti settori dell’antagonismo sociale occidentale.

Ora, Papa Francesco non ha fatto una gran scoperta e non è uscito nemmeno troppo dal canone vaticano perché, se proprio si vuol guardare alla situazione internazionale senza preclusioni o bende ideologiche sugli occhi, dentro ai prodromi di un nuovo conflitto mondiale ci stiamo almeno fin dai tempi della prima guerra del Golfo. Dal 1991, da ventitre anni. Eppure, eppure…

Poiché la scuola ha insegnato a tutti che la Seconda Guerra Mondiale si è svolta dal 1939 al 1945, quasi nessuno osa pensare che le campagne africane del Duce, l’espansione giapponese in Estremo Oriente, le annessioni territoriali tedesche, la guerra civile spagnola, le politiche economiche degli stati dopo la Grande Crisi fossero già, di fatto, guerra mondiale. Così come oggi nessuno sembra voler intendere che dalla riunificazione tedesca in avanti, e non soltanto per colpa della Germania, le guerre prima già ampiamente diffuse nel mondo si sono riavvicinate sempre più pericolosamente a quello che era, e per certi fatti rimane, il cuore del capitalismo e, soprattutto, alle aree e alle situazioni irrisolte dei due precedenti conflitti globali.

Oltre a ciò va sottolineato che, da un punto di vista generale, soltanto una certa scarsa conoscenza della storia e dei processi economici reali può far sì che ancora si creda in alcuni ambienti che siano state le manovre keynesiane di intervento statale a far uscire il capitalismo dalla grande crisi degli anni ’30 e non, al contrario, le distruzioni, i massacri e l’intensificazione dello sforzo bellico-economico che lo accompagnò, insieme allo sfruttamento più che intensivo della manodopera dell’industria, coatta e/o schiava durante il conflitto e oltre. Per esempio durante i “gloriosi anni della Ricostruzione” (oggi assai più santificata della Resistenza anti-fascista). guerra_morte

La guerra oggi riparte esattamente da lì, dove il secondo conflitto mondiale l’aveva lasciata. Dai problemi irrisolti di allora (la spartizione territoriale dell’area centro-europea e del Medio Oriente), dalla necessaria ed inevitabile ridistribuzione in ambito imperialista dei ruoli economici e politici oltre che dei mercati (finanziari e commerciali) e delle materie prime (prima tra tutte, come allora, il petrolio). Con alcune aggravanti dovute all’indebolimento storico degli attori principali di allora (USA, Russia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Giappone e Italia) e al sorgere di nuovi ed agguerriti competitori economico-militari e diplomatici che al tempo contarono,invece, ben poco (prima di tutto la Cina, seguita però dall’India, dalle monarchie del Golfo, dalla Turchia, dall’Iran e da un sempre più agguerrito, seppur apparentemente defilato, Sud Africa, solo per citarne alcuni).

Ripercorrere ancora una volta, qui, tutti i motivi di conflitto locale dal Nord Africa all’Ucraina sarebbe soltanto un noioso e ripetitivo esercizio scolastico, ma il viaggio del nostro Pinocchio fiorentino in Iraq rende obbligatorie alcune considerazioni legate nello specifico, ancora una volta, al Medio Oriente e al Nord Africa.
E proprio qui su Carmilla si è già accennato in tempi recenti ad un prevedibile e farsesco, oltre che pericoloso, esercizio muscolare di stampo mussoliniano che il governo degli incapaci avrebbe dovuto mettere in atto per far vedere all’Europa e al mondo (oltre che al tremebondo elettorato interno) le proprie capacità di iniziativa.

D’altra parte, dovremmo saperlo bene tutti, le guerre sono spesso state anche delle momentanee uscite di sicurezza per regimi e governi in difficoltà. Naturalmente la nostra genia di incapaci (con una Ministra della Difesa che afferma che uno scontro tra due caccia-bombardieri Tornado in volo si è svolto tutto “rispettando gli standard di sicurezza” e una ministra degli Esteri che parla alle Camere più per convincere se stessa di essere una candidata accettabile per una poltrona europea più che per esporre fatti e propositi dotati di un minimo di coerenza) non poteva far altro che infilarsi, a caccia di onori e gloria, in uno dei peggiori gineprai del pianeta. Quello siro-curdo-iracheno con contorno di jihad islamica finanziata dalle monarchie del Golfo e dall’Arabia Saudita.

Roba che fino ad ora ha fatto tremare i polsi a gente poco pratica di guerra come americani, francesi, inglesi; incapaci di decidere quale scelta possa essere la meno costosa ed errata per l’imperialismo occidentale dopo i clamorosi passi falsi fatti nel corso degli ultimi anni dalla Libia alla Siria ( come ha dovuto velatamente ammettere pochi giorni or sono lo stesso David Cameron).
Continuare a chiudere un occhio sull’invasiva presenza saudita dalla Libia all’Iraq oppure mandare a carte quarantotto gli equilibri raggiunti in quell’area grazie, anche alla spartizione del Kurdistan tra Turchia, Siria, Iraq?
Continuare a trattare come demone l’Iran oppure cogliere l’occasione di attrarlo nei giochi occidentali inimicandosi, però, Israele e Arabia Saudita? E, soprattutto, aprendo una diversa trattativa sul nucleare di Teheran?1
Inviare armi, soldati e ulteriori “aiuti” economici nell’area ( e a fianco di chi poi, visto che fino a qualche mese fa il principale nemico era il regime di Assad in Siria) oppure astenersi pilatescamente ed aspettare di vedere chi potrebbe essere il candidato più forte a cui affidare il governo di una delle aree del pianeta più ricche di petrolio?

Ma, come nella classica barzelletta in cui all’idiota di turno viene detto: “Vai avanti tu che a me vien da ridere”, il Sindaco d’Italia si è fatto perniciosamente avanti e, come per altre mille questioni irrisolte o aggravate dai perentori interventi del suo esecutivo, ha deciso che avrebbe smosso le acque…bisogna fare in fretta! L’Italia, l’Europa, il Mondo ce lo chiedono!!

Mancano solo i milioni di baionette promesse da Mussolini, sostituite però dalle migliaia di kalashnikov sequestrati ad una nave ucraina durante le guerre balcaniche. Come dire: poca spesa, molta resa! annuncio_guerra
E infatti c’è da chiedersi quale sarà la “rendita” a cui mira l’improvvida ed avventuristica uscita del nostro presidente del consiglio. Recuperare in Iraq le forniture di petrolio perse con l’affaire libico? Affermare che la diplomazia italiana, e quindi la Mogherini, è degna di rappresentare gli interessi europei su scala internazionale? Ma, quali sono gli interessi europei? Siamo proprio sicuri che dalla Germania al Regno Unito passando per la Francia gli interessi siano davvero comuni?

Oppure solamente aprire la strada ad un intervento occidentale che, per ragioni di equilibrio interno ed internazionale, Obama può soltanto indicare ma non garantire e definire di più?
Basta guardare ad alcuni dei principali quotidiani nazionali degli ultimi giorni per capire la confusione in cui versa tutta l’iniziativa politica italiana. La Stampa, come al solito filo-israeliana ed imbeccata dai servizi del Mossad, indica nel Qatar il principale finanziatore dello Stato Islamico e per fare ciò ricollega questo sia ai Fratelli Musulmani che ad Hamas, nel tentativo di suggerire una fragile equazione in cui il progetto dei jihadisti siriaco-iracheni è parallelo a quello di Hamas e quindi, quest’ultima formazione politica deve essere bombardata ed annichilita insieme a tutti i Palestinesi, nemici di Israele.2

Posizione il cui primo risultato sembra essere quello delle rivelazioni derivanti dalla desecretazione dei documenti riguardanti i legami e i patti intercorsi tra l’OLP di Arafat, il Sismi e la Dc.3 Una “tempestiva” iniziativa che rompe definitivamente con la tradizione politica seguita per decenni nell’area mediorientale e mediterranea dai governi italiani e che consegna definitivamente ogni iniziativa politica di Roma nelle mani dei servizi anglo-americani ed israeliani.

La Repubblica, invece, tende a cogliere nel coacervo di rivalità e mire espansionistiche, almeno dal punto di vista finanziario, petrolifero ed anti-iraniano, presenti tra gli stati del Golfo (Arabia Saudita e Kuwait in testa) l’origine dell’attuale situazione in Medio Oriente e in Nord Africa ed indica nell’Egitto uno degli “attrattori fatali” degli attuali contrasti. Ma ha almeno il buon gusto di far risalire l’attuale groviglio medio orientale all’arroganza coloniale espressa, dopo il primo conflitto mondiale, dall’Asia Minor Agreement firmato e voluto dal francese Francois Georges-Picot e dall’inglese Mark Sykes che ridisegnò i confini dei territori dell’ex-impero ottomano.4 Mentre uno strano incidente, verificatosi a Parigi nei giorni scorsi e riferito da Repubblica il 18 agosto, sembra avvallare una certa attenzione dei servizi segreti di varie nazioni nei confronti di possibili trame saudite. Infatti un corteo di automobili di un principe saudita è stato attaccato da un commando armato di kalashnikov a Parigi. Non vi sono vittime, ma sono stati rubati almeno 250.000 euro in contanti e documenti definiti “sensibili” dalla polizia francese. Il corteo aveva lasciato l’ambasciata saudita e si stava dirigendo verso l’aeroporto di Le Bourget. Si è trattato, ha riferito una fonte della polizia, di “un modo di agire inusuale e raro. Sicuramente erano ben informati” sulla composizione del corteo e sul contenuto stipato nelle auto che lo formavano.

L’unica cosa certa è che la questione non si risolverà troppo in fretta, che non sarà poco costosa e che chi si sta attualmente precipitando disordinatamente nel centro dell’arena rischia soltanto di anticipare i tempi di apertura delle porte dell’inferno. Sembra rendersene conto perfino Lucia Annunziata che in un recente articolo sull’Huffington Post afferma: “Le decisioni che l’Europa e l’Italia stanno maturando in queste ore contengono un passaggio tremendamente nuovo e definitorio: dare armi ai curdi significa infatti oggi rientrare appieno, sia pur indirettamente per ora, nel conflitto iracheno e mediorientale in generale. Spero che le nostre classi dirigenti vorranno parlarcene senza veli[…] Ma ci diranno tutti loro questa verità? Intervenire in Medio Oriente (e sulla Russia, e in Libia,dove operiamo già con nostre operazioni “segrete”) è più che mai urgente […] Ma sicuramente non rimandabile è un chiarimento con le nostre opinioni pubbliche sulle conseguenze delle decisioni che la classe dirigente sta prendendo“.5

Gli appelli a salvare cristiani e yazidi nascondono soltanto le mire imperialistiche diverse dei vari attori. I civili, ci dispiace ancora una volta per tutte le anime belle che, dalla Serbia all’Afghanistan al Kurdistan di oggi, hanno sempre giustificato come “umanitari” i bombardamenti e gli interventi militari occidentali, non interessano realmente a nessuno. Dalla striscia di Gaza a Mosul, passando attraverso tutta la storia delle guerre del XX e del XXI secolo, nessuno si preoccupa realmente di loro o della loro sorte. Tutti potenziali ostaggi della guerra, degli imperi e degli scoop mediatici.
Perché, oggi, la crisi economica e politica internazionale grida: “Guerra!”
Mentre i nostri politici irresponsabili sanno soltanto rispondere: “E così sia”.

ROUSSEAU - La guerraLa guerra si avvicina a passi da gigante.
Il capitale deve rigenerarsi come un vampiro attraverso le distruzioni, i massacri e le ricostruzioni in grande scala, ma
l’antagonismo di classe non può che avere una posizione anti-imperialista e anti-bellicista.
Ma se ho parlato a lungo delle irresponsabili scelte italiane è soltanto perché il nostro vero nemico è, prima di tutto, qui. In casa.

Una classe dirigente acefala, in grado soltanto di straparlare tenendo le mani in tasca e di cercare di trarre profitto dalle sofferenze altrui, sia che si tratti di lavoratori, giovani e pensionati italiani soffocati dalla crisi, sia che si tratti dei palestinesi o dei popoli soffocati dalle guerre, dai nazionalismi e dalle religioni in ogni parte del mondo.

La guerra potrebbe servire a prolungare ancora una volta (altro che keynesismo!) la vita di un morto vivente chiamato capitale. Trasformiamola, con le nostre lotte, in una guerra contro gli zombie del profitto e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di una classe su un’altra e di alcune nazioni (qualsiasi esse siano) su tutte le altre. Fino alla loro definitiva scomparsa dagli orizzonti futuri della specie.


  1. cfr.Iraq, Iran: “Pronti ad agire contro Isis in cambio di progressi sul nucleare”, Huffington Post 21 agosto 2014  

  2. Maurizio Molinari, Ecco chi finanzia il califfato del terrore, La Stampa 21 agosto 2014  

  3. Andrea Palladino, Si apre una breccia nel muro di gomma. I rapporti inconfessabili tra palestinesi e Sismi, L’Espresso 21 agosto 2014  

  4. Bernardo Valli, L’inganno feroce del califfato, La Repubblica 21 agosto 2014  

  5. Lucia Annunziata, Dare armi ai curdi è un’operazione militare, parliamone senza ipocrisia, Huffington Post 19 agosto 2014  

]]>
Chi vince e chi perde a Gaza https://www.carmillaonline.com/2014/08/01/vince-perde-gaza/ Fri, 01 Aug 2014 21:40:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16523 di Sandro Moiso

gazaE’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.

A Gaza si combatte e si muore non solo perché il popolo palestinese possa affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome. A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del [...]]]> di Sandro Moiso

gazaE’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.

A Gaza si combatte e si muore non solo perché il popolo palestinese possa affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome.
A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del sionismo più aggressivo.
A Gaza non si può guardare soltanto con gli occhi dell’umanitarismo becero del cattolicesimo e del generico pacifismo.
A Gaza si sta giocando una partita mondiale.

Partita che si è aperta ormai da molti anni e che, con buona pace di chi predicava circa vent’anni fa la fine della storia, vede venire al pettine tutti i nodi della storia del novecento e della crisi del dominio occidentale (economico, politico e militare) sul globo.
Gli Stati Uniti non sono più credibili e l’Europa Unita è un puro concetto filosofico di scarso valore ed entrambe questa realtà non hanno più la forza di risolvere le crisi internazionali. Né con la diplomazia, né e tanto meno con gli eserciti.

Su questo non c’è alcun motivo per versare lacrime, come alcuni infausti democratici ed intellettuali più sinistri che di sinistra, vorrebbero forse fare.
Il capitalismo e l’imperialismo occidentali stanno declinando rapidamente dopo essersi illusi di aver sconfitto la lotta di classe e dei popoli soltanto perché alcune sigle e definizioni sono scomparse essendo diventate obsolete e prive di significati reali.

Ma la lotta di classe, all’interno di un sistema diviso ed organizzato per trarre profitto dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non può scomparire. Così come non possono sparire a comando, e nemmeno in seguito alla più terribile repressione, le richieste dei popoli oppressi di veder riconosciuti i propri diritti inalienabili. Poiché, in ultima analisi, la lotta di classe e l’anti-imperialismo non sono soltanto patrimonio del marxismo, del comunismo o dell’anarchismo, ma delle contraddizioni reali, radicate nella storia e nell’economia del sistema mondo.

Allo stesso tempo le contraddizioni del dominio e della spartizione imperialistica del globo stanno venendo a galla. In maniera sempre più evidente e proprio grazie all’indebolimento, non solo di immagine, dell’imperialismo occidentale.
Costretto ormai a delegare, anche contro voglia, ad altri il proprio ruolo di controllore planetario.
Il falso trionfo del 1989 mostra ora le sue drammatiche conseguenze e la spartizione del mondo tra due sole superpotenze è stata sostituita da un intricatissimo gioco di grandi e medie potenze locali con aspirazioni planetarie.

Ma tagliamo subito la testa al toro: oggi a Gaza non sta vincendo Israele.
Come già non aveva vinto nella guerra libanese del 2006, condotta con lo stesso dispiegamento di forze, mezzi e violenza distruttiva. Anzi, l’immagine dello stato ebraico ha iniziato a sfaldarsi anche là dove, per esempio presso l’opinione pubblica americana, era sempre risultata più convincente e vincente.

Non vince l’ebraismo che, sempre di più, viene accomunato alla responsabilità dei massacri perpetrati in Palestina, nonostante le voci critiche nei confronti del sionismo armato israeliano che provengono, sempre più numerose, dall’ambito della comunità ebraica internazionale e anche, seppure in maniera minore, dall’interno della stessa Israele.

Nel corso degli anni il governo sionista ha spinto il paese tra le braccia dei peggiori avversari e dei più acerrimi nemici dell’ebraismo: le destre di governo occidentali (dal Partito Repubblicano negli USA a Forza Italia qui da noi) e l’Arabia Saudita. Nemica di ogni emancipazione sociale, politica e nazionale in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa e, soprattutto, dell’Iran.

Ne abbiamo già parlato altre volte su Carmilla: non si può capire cosa è avvenuto in Nord Africa e Medio Oriente, dalla caduta del regime di Gheddafi alla guerra in Siria e fino all’attuale “califfato iracheno”, se non si considera l’azione lenta ed inesorabile dell’Arabia Saudita e di alcuni suoi concorrenti degli Emirati per accaparrarsi le riserve petrolifere dell’area e il controllo politico e militare delle aree geografiche interessate

Infatti tra i vincitori dell’attuale scontro a Gaza vanno annoverati, in primo luogo, i sauditi.
Dalla Libia alla Siria, giù forse fino al Mali e alla Nigeria, le milizie integraliste che si scontrano tra di loro e con i rimasugli del potere statale superstite, lo fanno in nome dell’Arabia Saudita e del Qatar ovvero del petrolio. Occorre dirlo: Al Qaeda di Osama Bin Laden era al confronto una sorta di internazionale progressista, con l’idea di rovesciare il regime saudita, nazionalizzarne le risorse e le ricchezze e non abbandonare, almeno a parole, i vari popoli in lotta al loro destino.

Il progetto visionario, e per molti versi reazionario di Bin Laden, era, nonostante tutto, altra cosa da quello che si sta realizzando tra Iraq e Siria. Da quest’ultimo e dalle milizie jihadiste presenti in Libia e Siria non è mai giunta nemmeno una voce a difesa dei palestinesi. Anzi nei primi giorni del dramma si è cercato di distrarre l’attenzione degli arabi da Gaza attraverso la distruzione della moschea e del mausoleo di Giona.

Certo se si segue con attenzione lo sviluppo degli avvenimenti dal 2010 in avanti ci si accorge che lentamente ed inesorabilmente le milizie jihadiste si sono progressivamente impegnate, non solo nelle aree petrolifere del continente africano e del Medio Oriente, a coinvolgere in uno scontro militare senza fine tutte quelle forze che, in un conflitto locale o allargato, avrebbero potuto prestare il loro appoggio all’Iran: Hezbollah, Siria e Hamas.

L’obiettivo di indebolire i potenziali alleati del principale nemico comune di Israele e Arabia Saudita è stato infatti raggiunto con l’aggravante, se vogliamo così dire, di aver diviso tra di loro anche alcune di queste forze. Per esempio proprio Hamas e Fratelli musulmani che dopo aver preso le distanze, in maniera opportunistica e becera, dal regime di Assad, sperando in un riconoscimento occidentale, si sono trovati poi alla mercé del colpo di stato militare egiziano (di cui il principale sponsor è stata proprio il capitale saudita) e dell’attacco israeliano (con poco o nessun appoggio militare dai cugini di Hezbollah, già fin troppo impegnati sul fronte siriano).

Cosa quest’ultima che ha spinto e spinge i militanti di Hamas ad intensificare l’azione di “bombardamento” del territorio israeliano per dimostrare la propria esistenza in vita.
Certo la resistenza dei militanti del suo braccio militare ha dell’eroico e il fatto stesso che Israele abbia dovuto richiamare altri 16.000 riservisti, facendo arrivare a quasi 100.000 i militari impegnati nell’operazione di invasione e controllo territoriale della striscia di Gaza, lo dimostra.

D’altra parte fino ad ora le truppe di terra sono state maggiormente impegnate nelle aree agricole e più scoperte della Striscia. Le aree urbane possono essere devastate , distrutte e massacrate, ma difficilmente conquistate come dimostra tutta la storia del ‘900 da Leningrado a Varsavia fino a Grozny. Le vittime dell’esercito di Israele aumenterebbero in maniera sproporzionata e il costo potrebbe risultare troppo alto anche per i più famigerati sostenitori israeliani dell’operazione.

Ma, nonostante ciò e a differenza di Hezbollah nel 2006, molto probabilmente anche Hamas non risulterà nel novero dei vincitori di questo conflitto: troppi morti e troppi sacrifici costerà il tutto ai Palestinesi di Gaza e questo sicuramente significherà un indebolimento delle sue posizioni, politiche e militari.
Mentre l’ipocrisia pacifista ed umanitaria che finge ancora che si possano fare guerre senza coinvolgere i civili e le strutture pubbliche (scuole, ospedali, abitazioni civili, infrastrutture di vario genere) nella distruzione, raggiungerà sicuramente il risultato di confondere ulteriormente le idee sul conflitto e sulle sue cause.

ONU, Ban Ki Moon, Obama, democratici di sinistra e di vario genere, pacifisti cattolici e mille altri pensano che sia possibile limitare i danni, pur mantenendosi equidistanti e riconoscendo il diritto all’autodifesa di Israele. Stupidi, arroganti e ignoranti che pensano, con parole di cordoglio, di nascondere che ogni difesa non può essere che attacco e che, nel caso di Israele, tale difesa può usufruire di mezzi di offesa straordinariamente efficaci e distruttivi.

Dimenticano, tutti e senza distinzione, che già nel 1921 proprio un teorico italiano, Giulio Douhet, nel suo testo “Il dominio dell’aria” (poi divenuto a livello internazionale una vera bibbia della guerra aerea) teorizzava l’uso dell’arma aerea come strumento di distruzione totale delle infrastrutture economiche e civili e di vero e proprio terrorismo nei confronti della popolazione soggetta ai bombardamenti. Infatti l’aviazione militare, dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale e dal Vietnam all’Iraq e a Gaza non è stata mai utilizzata per la guerra intelligente (che già di per sé costituisce un curioso ossimoro), ma solo e sempre in chiave terroristica.

Scoprirlo ogni volta, con pianti e strepiti istituzionali e privi di conseguenze, è assolutamente ridicolo e fuorviante. La guerra è la guerra ed è diritto degli oppressi denunciarlo ed opporsi ad essa con ogni mezzo necessario. Altrimenti si rischia di tornare ancora una volta a giustificarla sotto forma di “operazioni di polizia” oppure di “pacificazione” oppure, ancora, con le mille altre formule elaborate dall’opportunismo immarcescibile nel corso degli anni.

Israele, l’abbiamo già detto, anche se dovesse radere al suolo la striscia di Gaza e massacrare tutti i suoi abitanti non vincerà mai questa guerra. Non solo per l’immagine, ma anche perché attraverso di essa e, soprattutto, con una possibile futura guerra all’Iran si sarà totalmente messa nelle mani dei suoi peggiori nemici/amici. Prima di tutto l’Arabia Saudita che, quando avrà acquisito il controllo di quasi tutte le aree petrolifere più importanti dell’Africa e del Medio Oriente avrà buon gioco a ricattare gli USA e ad utilizzare i regimi jihadisti e califfati vari contro Israele stessa.

Nel disastro del Medio Oriente, dopo aver distrutto i movimenti classisti e laici e gli stati nazionali nati da moti anti-coloniali, gli occidentali non hanno più che una carta: la forza militare di Israele.
Dopo aver alimentato il mostro integralista pur di troncare qualsiasi appartenenza di classe e dichiaratamente anti-imperialista dei movimenti in Africa del Nord e Medio Oriente oggi scoprono che dal califfato islamico iracheno e siriano, giù fino alla Palestina, passando per il Libano, e fino a gran parte dell’Africa essi hanno coltivato, da un lato, forze incontrollabili legate agli interessi e agli investimenti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi e dall’altra, e questa la cosa più interessante per l’antagonismo sociale, dei momentanei contenitori per una rabbia che non può più essere ulteriormente compressa.

Una rabbia che affonda le sue radici nelle contraddizioni di classe e nella miseria, ma anche, e forse soprattutto, in quelle ridicole divisioni territoriali legate agli interessi, prima, europei e, poi, americani che, a partite dalla spartizione dell’impero ottomano, dopo la prima guerra mondiale, e dalla dichiarazione Balfour del 1917 hanno riempito il Medio Oriente di linee di confine verticali ed orizzontali che non hanno mai tenuto conto delle reali esigenze dei popoli coinvolti. Come già il Congresso di Berlino del 1885 aveva fatto con il continente africano.

Lasciamo pure piangere i filistei, soprattutto di sinistra, sugli orrori della guerra. Lasciamoli scoprire che ad ogni tornata di guerra l’antisionismo si trasforma, troppo spesso, nel più bieco e volgare antisemitismo. Lasciamoli credere che il sionismo sia divenuta l’unica espressione possibile dell’ebraismo. Tutti uniti nel dire che non è più possibile schierarsi in questo conflitto, ma lasciateli perdere perché sono già politicamente e socialmente morti.

Tutti i nodi stanno venendo al pettine e l’Occidente è debole come non mai. Mickey Mouse Obama ne è la migliore esemplificazione. E tutti, ma proprio tutti, corrono a mettersi al riparo delle bombe israeliane, sperando che queste li salvino un giorno da ben altri missili sparati contro di loro e da ben altri conflitti, militari e di classe.

Ma i calcoli degli “occidentalisti”, quelli che sventolano in questo contesto le bandiere della democrazia greca, del femminismo di facciata e del cristianesimo di papa Francesco, sono errati e nascondono solo il vuoto politico, esattamente come i discorsi del bulletto di Firenze, e la paura. Di perdere. Tutto.

Anni fa, quando cominciarono le guerre afgane, chi scrive ebbe modo di affermare che la potenza militare statunitense si sarebbe rivelata un colosso d’argilla nei confronti dei combattenti che portavano solo sandali ai piedi e un kalashnikov a tracolla. Mi sembra che nulla abbia contraddetto quella affermazione. Anzi.
Oggi a Gaza è lo stesso. Gli israeliani potranno uccidere migliaia di palestinesi: combattenti, donne e bambini. Ma non vinceranno mai.

La specie nel suo insieme vuole continuare a vivere e non potrà sopportare in eterno una suddivisione dei beni, dei territori e delle risorse che implica una condanna alla miseria e alla morte per miliardi di individui da Sud a Nord e da Est a Ovest.
Nelle sue sempre più spaventose convulsioni il modo di produzione capitalistico, soprattutto qui in Occidente, non ha più altre risposte che la repressione, lo strozzinaggio finanziario e i bombardamenti. Così oggi, non solo per scelta ma neanche solo per necessità, siamo tutti Palestinesi davanti alle forze del capitale.
Ma alla fine la risposta di “quei piccoli uomini e di quelle piccole donne”, di cui ha parlato recentemente Valerio Evangelisti in un articolo, “chiamati a compiti molto più grandi di loro e delle loro capacità”, sarà adeguata e giustificata e ne decreterà la fine insieme a quella di tutti i suoi servi.

]]>
War! https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ Mon, 09 Sep 2013 23:00:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9243 di Sandro Moiso

Strangelove“War / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della [...]]]> di Sandro Moiso

StrangeloveWar / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della storia sono più vicini a quelli della tettonica a zolle piuttosto che a quelli (fasulli) di Italo e dell’alta velocità.

Accade così che l’opinione pubblica come si stupisce, immancabilmente e ogni volta, di fronte al fatto che città costruite lungo la faglia adriatica siano destinate, prima o poi, a soccombere sotto la furia di “imprevedibili” terremoti, altrettanto  si stupisca di fronte al fatto di trovarsi davanti al pericolo di un nuovo, imponente, devastante e altrettanto “imprevedibile” conflitto mondiale.

Ciò non sarebbe grave se lo stupore riguardasse soltanto la tanto denigrata pubblica opinione e l’arrendevolezza mentale al quieto vivere dettato dai media di ogni formato, ma lo diventa quando tale sorpresa riguarda anche chi di tale modello di pensiero quieto dovrebbe farsi critico o antagonista. Così, per decenni, una certa sinistra, da quella democratica e riformista fino a certe frange della cosiddetta estrema sinistra, ha potuto crogiolarsi nell’illusione che la guerra, come strumento di risoluzione delle contraddizioni dell’imperialismo, fosse ormai superata.

Sì, certo, poteva svilupparsi qua e là in giro per il mondo sotto forma di scontro tra stati e regimi sottomessi all’impero della finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi e i popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per dio, sempre a casa d’altri. Non ora, non qui.

Come se il Mediterraneo fosse lontano, come se i Balcani appartenessero a un altro continente, come se i paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente si trovassero su un altro pianeta. Già: non adesso, non qui a casa nostra. Eppure, eppure… il rischio di un conflitto allargato, destinato a coinvolgere anche e, soprattutto, tutte le grandi potenze è esploso letteralmente tra le mani di capi di stato, di uomini politici di piccola e media statura, di esperti (quanto?) di affari internazionali, di analisti politici e vassalli dell’informazione di regime, degli imprenditori e, anche, del clero e dei suoi massimi vertici.

Tutti a dire: ”sì, un po’ di guerra ci va bene…anzi è essenziale per i nostri affari, ma dislocata un po’ più in là e con motivazioni condivisibili”. Da lì l’eterna e mefitica barzelletta delle guerre umanitarie, delle operazioni di polizia internazionale, delle missioni di pace ONU e così via. Mentre chi da tempo indicava la guerra come fase ultima della risoluzione dei conflitti economici e sociali scatenati dalle brame capitalistico-finanziarie finiva con l’essere indicato, a seconda delle occasioni, come visionario, profeta di disgrazie o portavoce di una concezione politica ormai definitivamente morta e sepolta.

Così da un lato si è finiti spesso col cadere in una passiva accettazione dello status quo dettato dall’immagine che lo stesso ordine capitalistico voleva e vuole dare di sé e dall’altro nell’eleggere la volontà del capitale a forza capace di  dominare le proprie, inevitabili contraddizioni (Trilateral, G 8 – 10 – 20 oppure SIM – Stato Imperialista delle Multinazionali). Posizioni, a sinistra, che finiscono col riflettersi specularmente l’una nell’altra e destinate a far cadere quel potente baluardo di classe sempre rappresentato dall’antimilitarismo attivo e cosciente.

Non è un caso che in questi giorni agitati, mentre gli italiani continuano a trascorrere lieti week-end estasiati di fronte alle vetrine dei negozi che riaprono per la stagione autunno-inverno, l’unica forza che si è mobilitata davanti al pericolo di una nuova guerra sia stata quella della Chiesa e del pacifismo di stampo cattolico. Forza che oltre a perseguire propri scopi geo-strtategici e politici (presenza cristiana in Siria, problema dei rapporti con il mondo islamico, origine argentina del novello Papa), ha il difetto di restringere la critica alla guerra a una semplice occasione di accettazione del verbo cristiano e a scelta etica e morale individuale.

 Tanto è vero che al digiuno “vaticano” hanno potuto appellarsi non solo le decine di migliaia di credenti affollatisi in Piazza San Pietro il 7 settembre, non solo i rappresentanti di tutta la chiesa cattolica nelle funzioni domenicali dell’8 settembre, i rappresentanti del mondo islamico e ortodosso, ma anche personaggi che del gioco imperiale fanno parte come la Ministra degli Esteri o, addirittura, il Ministro della Difesa che, mentre da un lato digiuna per la pace, dall’altro insiste per l’acquisto degli F – 35, che strumenti di pace non sono. Non occorre qui ricordare che il buon Anton Čechov affermava che “se un fucile appare appoggiato al caminetto durante il primo atto (di un’opera teatrale), sicuramente avrà sparato prima della conclusione dell’ultimo”.

Occorrerà tornare ancora su questo argomento, ma, ora, è meglio tracciare per linee ampie e (forse) grossolane il quadro di instabilità politica, militare, sociale ed economica (ultima nell’elenco, ma non per importanza) che ha portato alla situazione attuale. Osservando però che, a differenza di quanto molti credono, l’imperialismo traccia il quadro generale della sua attività di dominio ed espansione, ma non può determinare con certezza tutte le conseguenze delle sue scelte. Come dire: l’imperialismo è la causa di ogni guerra moderna, ma non sempre la vuole.

Scriveva Lev Trotskij nel 1937: ”le contraddizioni internazionali sono così complesse e intricate che nessuno può prevedere con esattezza dove la guerra potrà scoppiare, né come si delineeranno gli schieramenti contrapposti. Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti […]. Tutti vogliono la pace, soprattutto coloro che non possono aspettarsi nulla di buona da una guerra […]. Nessuna delle piccole potenze potrà restare in disparte. Tutte verseranno il loro sangue […] Gli schieramenti dei campi belligeranti e il corso della guerra non saranno determinati da criteri politici, razziali o morali, ma da interessi imperialistici. Tutto il resto non è che polvere negli occhi. Le forze che operano sia per un’accelerazione sia per un rinvio della guerra, sono così numerose e così complesse da rendere rischioso ogni tentativo di azzardare previsioni sulle date. Tuttavia esistono punti di riferimento che consentono un pronostico**.

Qualche lettore potrà dire : ”Ma una guerra, anzi più guerre sono già in corso…”. E’ vero, d’altra parte anche quando il rivoluzionario russo in esilio scriveva già più guerre erano in corso, preludendo al secondo conflitto mondiale: guerra civile spagnola, guerre d’occupazione italiane in Africa orientale, occupazione giapponese della Cina, solo per citare le più evidenti. E infatti oggi affermare che la seconda guerra mondiale si è svolta tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945 non è più così corretto. Sono date di comodo, soprattutto per i manuali scolastici, ma è chiaro che il secondo conflitto mondiale andrebbe datato almeno dal 1936, se non addirittura dagli accordi di spartizione degli imperi firmati a Versailles.

Così la guerra futura, anche se  dovesse iniziare nei prossimi giorni oppure negli anni a venire,  affonderebbe chiaramente le sue radici almeno negli avvenimenti seguiti alla caduta dello Scià di Persia, alla fallita invasione sovietica dell’Afghanistan e in quelli successivi alla fine dell’URSS (1989) e alla riunificazione tedesca (1990) con la Guerra del Golfo e le guerre balcaniche (1991). Da allora, infatti, gli Stati Uniti hanno perseguito un obiettivo di destabilizzazione completa del Mediterraneo e del Vicino Oriente che, con la caduta di Assad, dovrebbe essere ora portata a termine.

Ma si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco. Nei trent’anni trascorsi dall’affermazione dell’ayatollah Khomeyni in Iran molte cose sono cambiate sotto il cielo e non tutte sono andate per il verso desiderato dalla potenza imperiale americana. Che dopo aver fatto scannare per dieci anni il regime di Saddam Hussein con la nascente Repubblica Islamica iraniana, si vide costretta a fare sempre più affidamento su Israele e Arabia Saudita per il mantenimento della propria supremazia petrolifera, militare e politica nell’area.

Sul ruolo di Israele all’interno delle strategie americane poco ci sarebbe da aggiungere se non che data proprio dal 1978 (anno dell’inizio della rivolta popolare contro Mohammad Reza Pahlavi che l’avrebbe costretto, un anno dopo, alla fuga e all’esilio) quella mini-serie televisiva (“Olocausto”) che avrebbe così potentemente rilanciato l’immagine di Israele nel mondo (attraverso la messa in scena  della Shoa come spettacolo) dopo la sconfitta militare del 1973 ( ad opera delle forze armate egiziane) con la perdita del Sinai. E che è andata crescendo ininterrottamente fino all’altra sconfitta militare israeliana avvenuta nel 2006, in Libano, ad opera di Hezbollah e del suo braccio armato.

Ed è proprio la comune opposizione all’islamismo sciita iraniano e libanese ad aver avvicinato negli anni, in un’alleanza a tempo e blasfema, i due poli dell’azione americana: il regno saudita e lo stato ebraico. Che dei misfatti attuali in Nord Africa, Medio Oriente e Siria sono tra i principali protagonisti e  non solo  strumenti.

L’Arabia Saudita, che detiene, insieme agli altri emirati, oltre che una delle più vaste riserve petrolifere del globo anche una discreta parte dell’imponente debito pubblico americano, sta presentando il conto dei suoi “fedeli” servizi. Il finanziamento e il sostegno dei mujāhidīn in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, nei Balcani negli anni novanta e successivi, il concorso al mantenimento di un prezzo (di volta in volta basso oppure alto) dell’oro nero conveniente alle multinazionali petrolifere. Conto forse già presentato in maniera poco elegante con l’attentato alle torri gemelle nel 2001 e col lasciar correre (ma solo fino al 2 maggio 2011) le “birichinate” terroristiche e indipendentistiche di Osama Bin Laden (con buona pace di chi voleva anche qui da noi suggellare un patto politico con i “fratelli” dell’integralismo sunnita armato).

E lo presenta in maniera pesante, tanto da determinare, ben più dell’Occidente nel suo insieme, le politiche interne del Nord Africa e dell’Egitto. Tanto per fare un esempio: mentre in tempi di crisi l’Unione Europea ha promesso 500 milioni di euro  e gli Stati Uniti un miliardo di dollari ai militari egiziani, l’Arabia Saudita ha letteralmente “sganciato” 12 miliardi di dollari (sostanzialmente a fondo perduto) al regime che ha rovesciato il governo dei Fratelli Mussulmani (che, non dimentichiamolo, ci piaccia o meno, era stato democraticamente eletto).

Lo fa armando e appoggiando le bande di “guerriglieri” islamici, spesso vicini ad Al Qaeda, che scorrazzano ormai dalla Libia al Mali, dalla Somalia alla Siria. In territori dove rendono difficile non solo la possibile penetrazione cinese, ma anche la presenza diplomatica russa e quella economica europea. Insomma “questa è casa mia” inizia a dire la monarchia saudita, ricca di dollari e petrolio e povera, fino a ieri, di peso politico e diplomatico. Ma questa strategia la spinge inevitabilmente a scontrarsi con quella della “Grande Israele” voluta dai sionisti.

Certo, in comune tra Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti, c’è di fondo l’interesse per il ridimensionamento politico, economico e militare dell’Iran e il fine ultimo dell’attuale crisi siriana dovrebbe, nel loro intento portare ad una guerra contro la repubblica islamica di Teheran, ma, oltre allo scontro tra sunniti e sciiti  e al di là della sempre centrale questione del controllo delle principali risorse petrolifere, nella crisi mondiale attuale altre forze sono destinate a entrare in campo.

Se si analizza attentamente chi, al G 20 di Pietroburgo, si è opposto all’intervento militare in Siria ci si può rendere facilmente conto che tutti i BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) lo hanno fatto compatti. Non è più tempo di paesi non allineati dipendenti da questo o quel blocco. Se si aggiunge l’Indonesia, il più grande stato islamico con circa 240 milioni di abitanti, che si è espressa contro l’intervento, si arriva a quasi 4 miliardi di abitanti sui 7  dell’intero pianeta. Ma è il peso economico dei BRICS a contare e giusto il 27 marzo 2013, a Durban in Sud Africa, questi si sono accordati per la creazione di una banca internazionale per lo sviluppo economico da contrapporre alla Banca Mondiale e al FMI, enti di controllo economico legati a doppio filo alla finanza americana e inglese.

La Russia di Putin, che non è più quella stremata di Michail Gorbačëv e neppure quella dell’etilico Boris Eltsin, è quindi capofila (a denti stretti se si considera la Cina) del gruppo più importante di quelli che un tempo erano definiti paesi emergenti. Lo spostamento di navi e truppe davanti alla Siria non riguarda quindi soltanto la difesa dell’unica base navale e militare che la Russia, sempre a caccia di porti fuori dal Mar Nero e dal Mar Glaciale Artico fin dai tempi di Pietro il Grande, ha sul Mediterraneo a Tartus, a circa 200 chilometri da Damasco. Ha anche a  che fare con la volontà dei suddetti paesi di manifestare la propria rappresentatività diplomatica, politica e militare e il proprio peso economico nell’economia mondiale.

L’azione dei BRICS, di Arabia Saudita e di Israele è legata significativamente alla crisi di rappresentatività e di potenza militare ed economica degli USA e dell’Occidente. Non vi è dubbio che le guerre imperiali americane nel Golfo e in Afghanistan, oltre che destabilizzanti, sono state oltremodo dannose per l’immagine degli USA come potenza militare. I pashtun afghani hanno segnato più di un punto a proprio favore contro le truppe statunitensi. Più di quanti, probabilmente, i comandi americani fossero intenzionati a concedere.

La caduta del regime di Gheddafi e il crollo prima di Mubarak e poi di Morsi in Egitto hanno gravemente nuociuto agli interessi italiani nel Mediterraneo e provocato subdoli e inevitabili contrasti all’interno dello schieramento europeo, che si sta presentando all’appuntamento siriano estremamente diviso e accomunato formalmente soltanto da una mozione che dice tutto e il contrario di tutto. La Gran Bretagna indebolita dalla crisi economica tarda a riconoscersi nelle scelte di Cameron, la Francia vorrebbe trattare Libia e Siria come ai tempi degli splendori imperiali, ma oggi non è più quella di un tempo. La borghesia italiana paga pesantemente il mancato proseguimento delle autonome politiche mediterranee perseguite dalla DC, da Enrico Mattei fino a Giulio Andreotti, e l’essersi lasciata imbarcare in imprese contrarie ai propri interessi nei Balcani e nel Nord Africa. Così ancora una volta si trova costretta a presentarsi al mondo con le solite due facce: quella della Bonino, contraria all’intervento militare se non supportato dalle Nazioni Unite, e quella di Letta, fedele alleato degli USA sulla linea di D’Alema e dei ministri della difesa e degli esteri berlusconiani.

Mentre la Germania è tentata di coccolare di più le sue strategie a Est con la Russia e le sue joint-venture con la Cina, anche un’altra potenza è entrata in gioco, per quanto piccola territorialmente. L’attuale fibrillazione pacifista di Papa Francesco non rappresenta soltanto la pruderie del pacifismo di stampo cattolico, rappresenta anche la preoccupazione che il mondo cristiano (cattolico e ortodosso) sia completamente espulso dal Vicino Oriente e dal Nord Africa a vantaggio dell’islamico radicale sunnita che pesta anche i piedi degli interessi russi nel Caucaso e cinesi nell’Asia Centrale.

Ma rappresenta anche, e non da ultimo, gli interessi di quei paesi del Sud America che, a partire proprio dall’Argentina di papa Bergoglio e del Venezuela dello scomparso Chavez, intendono perseguire autonome politiche di sviluppo e di regolamentazione del mercato mondiale del petrolio. Sì, insieme all’Iran e senza dimenticare che l’Argentina non ha mai digerito l’appoggio dato dagli USA, non solo al golpe militare degli anni settanta, ma anche alla Gran Bretagna nella contesa sulle Isole Falkland. Utili e possibili basi per il controllo delle rotte verso le ricchezze (future) dell’Antartide, sulle quali l’Argentina vanta vasti diritti contrapposti (anche nel continente di ghiaccio) agli interessi britannici .

Ultimo, ma non secondario, protagonista dell’attuale contesa è il presidente turco Erdogan che sembra costretto e determinato, allo stesso tempo, a perseguire politiche di espansione di stampo ottomano, soprattutto dopo l’esclusione della Turchia dalla comunità europea. Gli incidenti di Istanbul, in cui è scesa in piazza una parte significativa della borghesia laica del suo paese e la sempiterna questione kurda lo costringono, poi, a cercare comunque un momento di unità nazionale attraverso la guerra, anche se i rapporti con Israele variano dall’alleanza alla ruggine formale di stampo sunnita.

Così, mentre appare sempre più chiara la bufala, grazie anche alle rivelazioni del giornalista belga Perre Piccinin appena liberato dai presunti “ribelli” siriani,  con cui Obama sta cercando di coinvolgere gli “alleati” e gli americani in un conflitto in cui si è trovato anche lui trascinato un po’ per forza, fondamentale e predominante appare  la crisi economica mondiale, che spinge tutti gli attori qui nominati e, probabilmente, molti altri ancora verso l’appuntamento fatale. Al di là delle volontà e delle scelte. Esattamente come la Grande Crisi fu la causa detrminante del secondo conflitto mondiale. Poiché “il grande Spinoza ci insegnava giustamente: non ridere, né piangere, ma comprendere***, è utile a questo punto cercare di trarre alcune conclusioni dai fatti e non dai desideri.

Per i lavoratori e i giovani di tutto il mondo non vi è scelta: il vero nemico è sempre quello che sta in casa, quello più vicino: i governi  e le camarille finanziarie e imprenditoriali nazionali. Per questo motivo occorre essere anti-militaristi sempre, contro le guerre di aggressione imperialistiche, ma anche contro le guerre di pretesa difesa degli interessi nazionali, sempre contrari agli interessi del 99% della popolazione. Così, anche se, in assenza di una rivoluzione sociale unica e vera alternativa alla guerra, dal futuro e inevitabile conflitto sarebbe meglio che uscissero sconfitti gli Stati Uniti e l’Occidente, l’Arabia Saudita e Israele, questo non deve imprigionare la lotta contro la guerra in una scelta di parte. Così come, purtroppo, avvenne al termine del disastroso secondo conflitto mondiale.

Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti**** appunto. Ma non vi è ragione nazionale o migliore per gli oppressi se si rimane in ambito capitalistico. I regimi più o meno dittatoriali che si scontreranno nella conflagrazione sono tutti egualmente nemici dei giovani che manderanno a morire accampando mille demagogiche scuse e dei lavoratori che dovranno sacrificarsi in nome dell’interesse nazionale e del profitto di impresa. L’opposizione non potrà essere solo morale ed etica, dovrà essere attiva e non potrà attendere il massacro di milioni di civili per manifestarsi pietosamente ed “è necessario che il proletariato mondiale non sia preso di nuovo alla sprovvista dai grandi avvenimenti*****  di cui tutti parlano celandone però le reali ragioni d’essere.

Ma, di certo, anche se sul momento le manovre diplomatiche messe in atto nei confronti della Siria, del suo regime e delle sue presunte o reali armi chimiche dovessero servire a rinviare il momento dell éclatement generalizzato, i primi e incerti passi verso l’inferno sono già stati fatti. Il piano delle contraddizioni politiche ed economiche si è fatto più inclinato e scivoloso e chiunque o qualunque presunto leader, partito o gruppo politico si allontani da una chiara e precisa scelta anti-imperialista e anti-militarista non potrà diventare altro che un avversario della lotta di classe e della lotta per la liberazione dell’umanità da quest’orrido presente storico.

 * Ne è consigliabile l’ascolto nelle versioni di Edwin Starr (1970), The Temptations (1970) e Bruce Spingsteen (live, 1985).

 **Lev Trotskij, Di fronte a una nuova guerra mondiale (9 agosto 1937), in Guerra e rivoluzione, Mondadori 1973, pp. 3 – 10.

 *** L. Trotskij, op. cit., p. 21

 **** L.Trotskij, op. cit., p. 3

 ***** L. Trotskij, La situazione mondiale e la guerra (18 marzo 1939), in op. cit., p. 48.

]]>