Franklin Delano Rooosvelt – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale: chi semina vento raccoglie tempesta https://www.carmillaonline.com/2022/02/25/il-nuovo-disordine-mondiale-chi-semina-vento-raccoglie-tempesta/ Fri, 25 Feb 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70654 di Sandro Moiso

Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più (Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce [...]]]> di Sandro Moiso

Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più (Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce e davanti agli occhi di tutti quelle stesse contraddizioni, troppo spesso sommerse da un mare di menzogne e illusioni, cui si è prima accennato.

Contraddizioni di ordine economico, geo-politico, militare, sociale, produttivo e ambientale che di volta in volta vengono segnalate singolarmente, in nome di un’eccezionalità che invece, vista in una dimensione più ampia e completa, dovrebbe essere percepita come norma di un sistema che, dopo aver suscitato appetiti ed aspettative esagerate in ogni settore di una società in/civile basata sull’egoismo proprietario e l’individualismo atomizzante, non può soddisfare le aspirazioni materiali ed ideali che si manifestano globalmente, sia a livello macroscopico che molecolare.

Prima con la spartizione del mondo in due blocchi, definiti più dal punto di vista ideologico che da quello della effettiva struttura economica, poi con il preteso nuovo ordine mondiale a sola guida statunitense dopo il fallimento del blocco definito come orientale o sovietico, era sembrato agli analisti politici ed economici superficiali e agli ideologi da strapazzo come Francis Fukuyama (politologo e teorico statunitense della “fine della Storia”) che fosse possibile un lento e progressivo affermarsi dei valori democratici e liberali occidentali e del conseguente modello di sviluppo e progresso capitalistico, sotteso dagli stessi, a livello mondiale. Il tutto attraverso un costante appiattimento delle contraddizioni residue in funzione di un radioso e felice futuro di sfruttamento e accumulazione di ricchezze (private più che pubbliche e, possibilmente, più nella parte occidentale del mondo piuttosto che in quella orientale e meridionale).

Così, negli ultimi decenni, soprattutto nel paese di Sanremo e delle canzonette politically correct, il lavoro di chi non ha avuto timore di “sporcarsi le mani” con la questione della guerra e di un suo possibile allargamento a livello generale1 è stato visto come un’inutile e superata (forse ridicola per alcuni?) predizione da eterna Cassandra, in un sistema in cui non solo le contraddizioni interimperialistiche, ma anche sociali erano invece destinate a risolversi attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa e della trattativa qualunque essa fosse (diplomatica, sindacale o politico-parlamentare non importa), purché non violenta e rispettosa delle regole del buon vivere in/civile.

Purtroppo per gli illusionisti del capitale e dei loro, talvolta inconsapevoli, seguaci le cose non sono andate affatto così. Anzi, al contrario, gli eventi hanno preso una piega “imprevista” che, a partire dall’11 settembre 2001, ha subito un’accelerazione legata al sorgere del radicalismo islamico (anche e forse in maniera ancor più significativa nelle periferie delle metropoli occidentali), alle lunghe e irrisolte guerre nel quadrante mediorientale e afghano, al progressivo ritorno della Russia sulla scena internazionale sia dal punto di vista militare che diplomatico (proprio a partire dall’era Putin), all’irresistibile ascesa economica e politica della Repubblica Popolare cinese, alle conseguenze della prima gigantesca crisi finanziaria dovuta alle conseguenze della globalizzazione (2008 e anni successivi), ad uno ipertrofico sviluppo della digitalizzazione e dell’applicazione dell’elettronica in un contesto in cui sempre più spesso i metalli e le terre rare di cui si fa uso sono quasi totalmente sotto il controllo della Cina e della Russia e, in tempi ormai recentissimi, alle conseguenze sanitarie economiche e sociali della pandemia oltre che del sempre più drammatico manifestarsi della divisione politica (sociale razziale e di classe) negli Stati Uniti e al precipitoso e infruttuoso ritiro degli stessi e della NATO dall’Afghanistan.

Così, in un articolo del comitato di redazione apparso il 14 febbraio scorso sul «Wall Street Journal», alla fine, una delle voci più importanti del capitalismo statunitense ha dovuto prendere atto di tutto ciò, anticipando i fatti successivi:

Un’invasione russa dell’Ucraina sarebbe un evento fondamentale destinato ad accelerare il nuovo disordine mondiale. I segnali si stanno costruendo da anni, ma l’America e i suoi alleati sono impreparati […] L’amministrazione Biden ha fatto un discreto lavoro di retroguardia nel mobilitare l’Europa e la NATO in opposizione ai progetti della Russia sull’Ucraina […] Gli alleati sono per lo più a bordo della promessa degli Stati Uniti di “conseguenze massicce” se la Russia invade, anche se ci chiediamo per quanto tempo Germania, Francia e Italia manterrebbero la rotta. Le deboli sanzioni occidentali dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008 e della Crimea nel 2014, hanno incoraggiato Vladimir Putin a credere che l’Europa non abbia la volontà di resistere con qualcosa di serio.
Quello che Biden non ha fatto è spiegare agli americani i nuovi pericoli globali e cosa deve essere fatto per proteggere gli interessi degli Stati Uniti. Il problema va ben oltre l’Ucraina. La Cina vuole conquistare Taiwan e dominare il Pacifico occidentale. Il nuovo condominio Russia-Cina significa che lavoreranno insieme contro gli interessi degli Stati Uniti. L’Iran è vicino a ottenere un’arma nucleare e i jihadisti sono tutt’altro che sconfitti.
L’avanzamento della tecnologia e la sua proliferazione mettono anche a rischio gli americani, in patria e all’estero. L’attacco informatico al Colonial Pipeline dello scorso anno è stato un modesto spettacolo del danno che un attore straniero può infliggere alla patria degli Stati Uniti. Le armi ipersoniche e antisatellite potrebbero eliminare le difese statunitensi in tutto il mondo in pochi minuti e con poco o nessun preavviso. In una sorta di Pearl Harbor high-tech.
Niente di tutto questo è allarmista o inverosimile per chiunque presti attenzione. Eppure la maggior parte degli americani sembra indifferente o compiacente riguardo ai rischi. In parte questo è il risultato della stanchezza per le guerre in Iraq e Afghanistan. Gli ultimi tre presidenti hanno anche alimentato il desiderio, a sinistra e a destra, di tornare a casa, l’America.
Barack Obama ha risposto docilmente alle avances di Putin e a quelle di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Donald Trump ha assunto una posizione più forte e ha aumentato la spesa per la difesa, ma ha anche alimentato l’illusione che gli Stati Uniti potessero ritirarsi dal mondo e rimanere al sicuro. Biden ha per lo più ignorato il mondo nella campagna del 2020 e il suo fallito ritiro dall’Afghanistan ha convinto gli avversari, e persino molti alleati, che gli Stati Uniti sono in ritirata.
Ma la realtà alla fine morde, e ora lo sta facendo sotto gli occhi di Biden.
[…] La diffusione dell’aggressione e del disordine minaccia la libertà e la prosperità americane. Nessuno sta per invadere la patria, ma gli attacchi informatici potrebbero paralizzare pezzi dell’economia. Gli alleati che sono stati a lungo al nostro fianco potrebbero voltarsi dall’altra parte per compiacere i nuovi stati canaglia. Gli interessi economici degli Stati Uniti saranno a rischio.
Biden dovrà anche spostare l’attenzione della sua presidenza dall’espansione dello stato sociale interno al miglioramento della sicurezza nazionale. Le sue richieste di bilancio per la difesa dovranno aumentare in modo sostanziale.
Soprattutto, Biden dovrà costruire alleanze bipartisan sulla sicurezza nazionale, come hanno fatto Franklin Delano Roosvelt e Harry Truman in altri punti cardine della storia. Le forze isolazioniste emergono sempre quando il mondo diventa più pericoloso, nella speranza che gli Stati Uniti possano nascondersi dietro una Fortezza America. Biden dovrà trovare alleati in entrambe le parti per sconfiggere quel richiamo di sirena.
Nel 1940 Roosevelt nominò i repubblicani Henry Stimson Segretario alla Guerra e Frank Knox Segretario della Marina. Iniziarono a ricostruire le difese degli Stati Uniti in previsione che il paese potesse essere trascinato nei conflitti che infuriavano in Europa e in Asia. Truman lavorò con Arthur Vandenberg, un tempo senatore isolazionista del GOP2, per costruire la NATO e combattere la Guerra Fredda contro il comunismo. Biden dovrebbe portare i falchi del GOP nei ranghi più alti della sua amministrazione per ottenere consigli migliori e sottolineare i pericoli che ci attendono.
Niente di tutto questo sarà facile nella nostra politica divisa […]. Biden ha ancora tre anni di mandato e i nemici del mondo non aspetteranno fino al 2024 perché gli Stati Uniti si mettano d’accordo3.

Non vi può essere dubbio alcuno, scorrendo le righe appena proposte, che la richiesta sostanziale del capitale finanziario (e non) americano al proprio governo sia quella di prepararsi ad una guerra allargata, sostanzialmente mondiale.
Confermando così anche quanto scritto nell’editoriale dell’ultimo numero della rivista «Limes»4 a proposito della spinta che l’attuale politica estera americana ha dato al riavvicinamento politico ed economico, senza escludere al momento quello militare, tra Cina e Russia:

Sulle bandiere di ogni potenza è ricamato il motto romano divide et impera, Washington dissente e incolla i Numeri Due e Tre, forse per noia del suo esorbitante primato. Matrimonio di puro interesse, indissolubile fin quando cinesi e russi non stabiliranno chiusa per palese inutilità la stagione dell’asimmetrica manipolazione reciproca. Portiamo questo argomento a suggestione della tesi per cui non solo l’ordine mondiale inteso ordine americano del mondo è in crisi, ma che qualsiasi altro assetto contrattualizzato del pianeta è improbabile.
Non sappiamo quando il Numero Uno abdicherà. Ci illudiamo di poter stabilire che a succedergli non sarà altro egemone. Più probabile un’età di torbidi…

Per aggiungere poi ancora, poco dopo:

Il generale cinese Qiao Lang5 ha sviluppato nel suo L’arco dell’impero6 la tesi per cui l’errore ormai irrecuperabile di Washington è di considerare Pechino massimo sfidante: «In un futuro non troppo lontano, la vera causa del declino dell’America non verrà dalla Cina, ma dall’America stessa».

Sarà ripreso più avanti il discorso qui accennato sulla rovina proveniente da fattori interni all’America settentrionale7, mentre per adesso occorre sottolineare come il rischio effettivo di una guerra allargata sia entrato di colpo nel discorso mediatico mainstream, come non mai da molti decenni a questa parte. Come ad esempio dimostra il direttore di «La Stampa», Massimo Giannini, nel suo editoriale del 25 febbraio:

Con tutta evidenza, la via delle sanzioni è insufficiente. L’America e l’Europa ne parlano da giorni, ne hanno annunciate “diverse e dolorose” l’altro ieri. Si è visto com’è finita. Putin non se n’è neppure accorto, e 24 ore dopo ha attaccato come se nulla fosse. Ieri sera Biden ha rilanciato, parlando di restrizioni economiche che costerebbero 3 trilioni di dollari al ricco Vladimir e ai suoi “apparatciki”. Armi spuntate, purtroppo. Vuoi perché gli Stati che le dovrebbero applicare sono troppo divisi tra loro (come dimostra il veto italo-tedesco posto al Consiglio europeo sull’ipotesi di esclusione della Russia dal circuito finanziario Swift). Vuoi perché le sanzioni sono una spada senza impugnatura: colpiscono chi le subisce, ma feriscono anche chi le irroga (come dimostrano quelle sulle forniture di gas, infinitamente più pesanti per l’Europa, che grazie a quello russo soddisfa il 90 per cento del suo fabbisogno, di quanto non lo sarebbero per Putin, che può dirottare facilmente l’eventuale invenduto alla “sorella Cina”).
Ci restano solo le armi convenzionali, o magari addirittura nucleari? La prospettiva è agghiacciante in ogni senso, per gli effetti devastanti che avrebbe in termini di costi umani, economici, diplomatici. Ma questo parrebbe il dilemma, oggi. Lo “spirito di Monaco”, che lascia a un altro Fuhrer i suoi Sudeti e getta le basi di futuri stravolgimenti globali. O lo “spirito di Marte”, il dio furente e vendicativo che prepara la Terza Guerra Mondiale. L’alternativa del diavolo. Perché se la seconda è moralmente scandalosa, la prima è maledettamente pericolosa8.

Ciò che è interessante, nell’editoriale di Giannini è che il discorso su una possibile guerra mondiale è definitivamente sdoganato: in entrambi i casi, infatti, il gran finale è costituito da una guerra su larga scala. Al di là degli accostamenti tra Hitler e Putin, oggi così di moda e fuorvianti, non certo sulla base del fatto che il secondo possa essere più accettabile del primo, è però necessario annotare come in entrambi i casi la spinta alle annessioni territoriali e all’espansionismo militare fu ed è determinato da un problema di “spazio vitale” per la nazione ritenuta responsabile dell’aggressione.

Nel caso di Hitler determinato dall’annosa questione del corridoio di Danzica e dalle severe restrizioni territoriali e dalle riparazioni “di guerra” imposte alla Germania dopo il primo conflitto mondiale che, come annotò già ai tempi un osservatore come John Maynard Keynes9, non avrebbero potuto condurre ad altro che ad un nuovo conflitto. Nel caso di Putin da un’arroganza, tipica dell’Occidente americano e della sua cecità prospettica, nel voler imporre basi della Nato, dopo averle distribuite già in tutti i paesi dell’ex-Patto di Varsavia, praticamente alle porte di Mosca, posizionando i missili a poche centinaia di chilometri dalla capitale russa (4 minuti di volo per eventuali missili ipersonici). Dimenticando così la massima del generale inglese Montgomery secondo il quale su ogni manuale di strategia militare si sarebbe dovuto scrivere, fin dalla prima pagina: Mai marciare su Mosca. E autentico casus belli, come ha anche dichiarato il direttore di «Limes», Lucio Caracciolo, alla trasmissione serale condotta dalla Gruber la sera del 24 febbraio: «E’ stata la causa movente. Dal punto di vista russo, la Nato è il nemico che le sta entrando in casa e l’allargamento fatto a partire dagli anni ’90 in maniera sistematica dal punto di vista russo è percepito come una minaccia esistenziale».

Ritornando invece all’editoriale della medesima rivista di geo-politica, può rivelarsi utile riprendere il discorso sulla “debolezza americana”, di cui le accresciute tensioni interne sono una riprova e allo stesso tempo, uno dei principali motivi dell’altalenante azione politica, diplomatica e militare della superpotenza atlantica.

Il fenomeno geopolitico più importante del nostro tempo è la scissione interna alla nazione americana. I tecnici della politica la marchiano “polarizzazione”. Termine anodino. Riduce la scissione a biforcazione, meccanica all’interno di un insieme nel quale si manifestano opinioni e tendenze diverse che si legittimano reciprocamente. Qui però è in questione l’identità collettiva. Postulato non negoziabile[…] Non dunque la classica bipartizione politica. Qualcosa di molto pi intimo e radicale […] Di qui la crescita della violenza in un paese che vi inclina per nascita, come testimoniano proliferare delle milizie e diffusione delle armi. Fra l’etnia repubblicana, certo, ma anche democratica, specie donne e neri che non contano sulla protezione dello Stato. Nelle stesse forze armate, in particolare fra i veterani, serpeggiano intenzioni sediziose. Un assaltatore del Campidoglio su cinque ha una storia militare.
[…] Dal destino manifesto al declino manifesto? […] Washington al bivio: rilanciare o ritirarsi? Istinto e record storico spingono all’offensiva […] I destinisti inconcussi puntano tutto sulla prima scelta, a costo di partire in guerra. Ma guerra vera contro Cina o/e Russia, senza esclusione di colpi. Non l’ennesima guerretta persa o pareggiata dal 1945 in poi. Rien ne va plus? I declinisti timorosi di perdere tutto, perplessi sulla tenuta del fronte interno, invitano a restringere l’angolo d’impegno esterno […] Se l’America scansa la scelta, saranno gli sfidanti a imporle le proprie. Convinti di potersi manifestare molto più aggressivi grazie allo sfasamento del leader. Cina e Russia paiono disposte a rischiare la guerra, quanto meno in retorica (ma in geopolitica la distanza tra parole e cose può svelarsi minore di quanto appaia). Da tre generazioni i pesi massimi non si affrontano più in battaglia, se non per via indiretta. Contingenza fortunosa o nuova legge storica? Preferiremmo non sciogliere la riserva. Ma se il lettore pretende, riluttando, indicheremmo busta numero uno10.

Un altro aspetto importante sottolineato invece da Giannini è quello di una coalizione di alleati, quelli europei, estremamente divisi, la cui dipendenza energetica da Mosca è anche dovuta alle sconclusionate politiche neo-coloniali condotte da nazioni come la Francia che, dopo aver definitivamente minato le basi dell’approvvigionamento energetico italiano in Libia, si è poi trovata a vedersele contese da due avversari dal ben diverso potenziale militare: Turchia e Russia.

Divisioni dovute ad interessi geo-politici, economici e finanziari che restano assopite, nel caso europeo, soltanto per l’ambiguo legame rappresentato dall’Unione Europea e dalla “comune” appartenenza alla NATO. Divisioni che dovrebbero far capire, anche ai più testardi e duri di comprendonio, come il cosiddetto secolo breve si stia invece rivelando come uno dei più lunghi della Storia, considerato che il ‘900 iniziato con il primo conflitto mondiale non è ancora mai finito e che anzi vede tornare ripetutamente alla ribalta gli stessi fattori geopolitici, sociali ed economici che finirono col determinare due guerre mondiali, un numero imprecisato di dittature, di rivoluzioni e controrivoluzioni e, soprattutto di stragi infinite. In ogni angolo del pianeta, ma anche qui in Europa dove le stesse contraddizioni attuali già segnarono il cammino del martirio dei paesi balcanici negli anni ’90. Come, forse, anche il presidente ucraino Zelensky ha iniziato a comprendere di fronte all’attuale disparità che intercorre tra le ridondanti promesse europee e americane ed effettiva volontà di intervento a favore del suo governo.

Per questo motivo le ultime righe di questo primo intervento non sono destinate ad individuare le linee di sviluppo militare, geo-politico e strategico inerenti all’attacco russo all’Ucraina, ma, principalmente, a sottolineare i ritardi e gli errori, troppo spesso clamorosi, di tutti coloro che pur sentendosi parte di un’opposizione all’esistente hanno preferito chiudere gli occhi, illudersi e rivolgersi ad obiettivi apparentemente già belli e pronti, con tanto di simulacri di movimenti nelle piazze, piuttosto che dedicare tempo e attenzione a ciò che da tempo bolliva nella pentola degli apprendisti stregoni del capitale e delle sue esigenze. Perdendo così l’occasione sia di farsi trovare pronti al momento dell’esplodere del conflitto, sia di meritare qualsiasi riconoscimento o merito politico “reale” per poter affrontare i difficili tempi che verranno. Accontentandosi magari e ancora una volta di accodarsi a movimenti pacifisti di stampo umanitario che non serviranno ad altro che a motivare ancor di più la partecipazione a guerre che, sia da un lato che dall’altro del fronte, non appartengono a chi vuole liberarsi da un modo di produzione immondo. Ad Ovest come ad Est, a Nord come a Sud.

Così mentre il capitale riuscirà probabilmente ancora a volgere a proprio favore un’altra situazione difficile, come ha già saputo fare con l’emergenza pandemica, avanzando fin da subito le richieste di riapertura di centrali a carbone o nucleari per far fronte alla nuova emergenza energetica, gli antagonisti da riporto continueranno a discettare, sulle orme di un incartapecorito Agamben, su libertà individuale, democrazia formale ed altre quisquilie, dimenticando che qualsiasi discorso di opposizione all’esistente deve per forza di cose ruotare, senza se e senza ma, intorno ai due assi del conflitto tra capitale e lavoro (guerra di classe) e dell’opposizione alle insanabili contraddizioni interimperialistiche (guerra imperialista) intersecantisi sul piano cartesiano delle possibilità di rovesciamento reale del modo di produzione attuale. Unica bussola possibile per orientarsi nel caos della disinformazione, della propaganda, della paranoia, della drammatizzazione mediatica e della muffa ideologica che vengono propinate come verità assolute da entrambe le parti in conflitto.

(1 – continua)


  1. Si veda in proposito: Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019  

  2. Grand Ole Party, come viene definito il Partito repubblicano  

  3. The New World Disorder, «Wall Street Journal», 14 febbraio 2022  

  4. Cose dell’altro mondo in L’altro virus, «Limes» n° 1/2022, pp. 7-30  

  5. Già autore insieme a Wang Xiangsui di Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione (a cura del generale Fabio Mini), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001  

  6. Qiao Lang, L’arco dell’impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle due estremità (a cura del generale Fabio Mini), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2021  

  7. Già anticipato da chi scrive qui  

  8. Massimo Giannini, L’ora più buia dell’Occidente, «La Stampa», 25 febbraio 2022  

  9. Si veda: John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano 2007  

  10. Cose dell’altro mondo, «Limes» n° 1/2022, pp. 16-25  

]]>
Due anni senza Philip Roth https://www.carmillaonline.com/2020/05/11/due-anni-senza-philip-roth/ Mon, 11 May 2020 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59910 di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di quel materiale, prevalentemente saggistico, è stato raccolto e pubblicato un anno prima che morisse. Ma quello che Roth aveva davvero da dire lo aveva già scritto nei suoi romanzi: l’ultimo suo lavoro, Nemesi, è del 2010 . L’anno dopo dichiarò che si sarebbe ritirato perché continuando “avrebbe potuto fare solo disastri”: momento topico, il raggiungimento del punto di saturazione, dopo una vita interamente spesa “a rigirare parole”. E anche quello che c’era da scrivere, su di lui – presenza mondana ingombrante, spesso al centro di polemiche feroci e autentici atti di culto – è già stato scritto, tra biografie autorizzate e non – ottima quella di Claudia Pierpont Roth, a cui l’autore collaborò volentieri, nonostante il tono franco e non elegiaco dell’opera.

Ma qual è il lascito vero, ultimo, di questo gigante della letteratura americana contemporanea? Forse la sensazione che ha lasciato, nei suoi lettori più attenti, di non riuscire mai ad afferrare il segreto lontano di quella scrittura, qualcosa di nascosto, indefinito, pur nella estrema evidenza della pagina scritta, qualcosa di non catalogabile nei canoni tradizionali della critica. Philip Roth lascia sempre una domanda sospesa nell’aria: perché i suoi libri, le sue storie, i suoi personaggi, sono quasi tutti segnati da una cifra memorabile, imperitura, perché esercitano una fascinazione che solo i grandi classici riescono a impiantare nell’anima dei lettori?

In fondo Roth non era “il più bravo” della sua generazione. Riconosceva l’inarrivabile primazia di Saul Bellow; ammetteva pubblicamente che Updike – amico, poi nemico, sempre competitor –, con la sua saga del Coniglio, si era dimostrato tecnicamente superiore per la profondità descrittiva dell’America wasp sconvolta dal boom e dalla rivoluzione sessuale; sapeva di doversi misurare con un gigante come Don De Lillo – che pubblica Underworld lo stesso anno di Pastorale Americana. Lui stesso era consapevole di non essere il migliore, e lo ammetteva. Eppure: perché i suoi libri, almeno alcuni, danno l’idea di essere il lascito “del migliore”? Qual è l’ingrediente segreto di una scrittura potente, ironica, ma anche contorta, personalissima, colloquiale fino allo stremo, allergica alle esigenze di sobrietà che da sempre gli editor vanno predicando, senza mai sfociare nello sperimentalismo bislacco oggi di moda? Non era il “number one” ma dalle sue pagine si sprigiona una misteriosa scintillanza che tutti gli altri non possono non avergli invidiato. E questo a dispetto delle malriuscite trasposizioni cinematografiche (Dio ci preservi dall’ultima, la serie HBO ispirata alla geniale ucronia di Complotto contro l’America).

Fu un personaggio famoso, decisamente non schivo, anche se mai in cerca di pubblicità o visibilità gratuita. Rilasciava interviste, ebbe amicizie prestigiose con il gotha della cultura americana e si concesse più di uno sprazzo mondano – compreso un breve flirt con Jaquie Kennedy. Più di De Lillo, riusciva a unire pubblico e critica, ma la sua carriera letteraria non fu sempre rose e fiori.

Dopo l’esordio pruriginoso del Lamento di Portnoy, che tanta popolarità gli aveva dato consacrandolo come il più interessante dei giovani della sua generazione, affrontò una ventina d’anni di scrittura dalle alterne fortune. In questa fase si annoverano gioielli come Lo scrittore fantasma (in cui osa resuscitare l’icona santificata – e mummificata – di Anna Frank, immaginando di incontrarla negli anni ’60, confusa e attraente giovane donna di cui invaghirsi, in mezzo alle memorie ancora fumanti dell’Olocausto e l’ebbrezza di quel decennio pirotecnico, facendo incontrare nella finzione narrativa due universi lontanissimi). Ma anche anni di solenni stroncature, in cui le grandi aspettative sollevate agli esordi parevano non concretizzarsi mai pienamente, lasciandolo nel limbo degli “ex giovani” di talento tristemente inespressi.

Fu al giro di boa dei sessant’anni che Roth infilò la sfilza dei suoi capolavori, talmente letti e famosi – come La macchia umana – da suscitare lo snobismo di quei critici che lo avevano atteso al varco per anni, e adesso guardavano diffidenti agli enormi successi di pubblico.

Cosa era scattato, in quegli anni, per dargli la spinta decisiva? La vecchiaia incipiente – che con pudore chiamiamo maturità? Lo sblocco emotivo di alcuni nodi esistenziali, la sua uscita, come ha scritto qualche critico, dalla fase di “eterno figlio”, dal ribellismo emotivo e identitario, per entrare dentro – lui e il suo alter ego Nathan Zuckerman – la fase malinconica dei capelli bianchi, degli acciacchi, delle disillusioni? Probabilmente è questa condizione che lo porta a usare al massimo la sua forza, la chiave di lettura di ogni storia e ogni suo personaggio: il paradosso – l’incongruente, l’inatteso, lo sconcertante – portato allo stremo, con coraggio, risolutezza, senza le speranze giovanili a mitigarlo, con la spietatezza di chi non perde più tempo a dare un senso alla vita.

E proprio la sua identità ebraica, è il terreno di fondo del suo spirito di paradosso: mai uno scrittore ebreo, ufficialmente ateo e allergico alle rivendicazioni identitarie di molti suoi correligionari, aveva passato tanto tempo a parlare e fare i conti con la “sua” ebraicità. E questo con una ossessione, un puntiglio, uno scrupolo psicologico, da far invidia a un rabbino. La sua pretesa di essere considerato “un ebreo” senza tanti altri aggettivi, “come essere qualsiasi altra cosa, come essere una mela”, si scontrava con il suo continuo battere e ribattere su quel medesimo tasto irrisolto. Come il prurito della pelle segnata dalle ortiche: anche se sai che non fa bene, continui a grattare fino al sangue, se necessario – questo significava ebraicità per il laicissimo e peccaminoso Roth.

Lo stesso esordio di Portnoy fu traumatico, con le accuse pubbliche rivoltegli da ambienti religiosi, circa il presunto “odio di sé”, tipico delle minoranze vogliose di assimilazione, che la scrittura del giovane Roth, dietro spregiudicatezze e oscenità, in realtà pareva rivelare agli occhi dei suoi detrattori. Forse fu proprio quello shock a chiarirgli le idee: non doveva ritrarsi dalle polemiche, doveva scavare e scavare e ancora scavare dentro il filone aurifero della suo ebraismo, perché lì dentro c’era l’arte, lì c’era la vita, lì c’era il fuoco, e le ferite aperte che germinano letteratura.

E negli anni sfornerà una galleria di “moderni tipi ebraici” assolutamente non stereotipati, problematici, contemporanei, eppure segnati da un qualche arcaico rimando tradizionale: i vecchi padri ebrei, laboriosi indomiti e premurosamente oppressivi verso il destino dei figli; e figli come Seymour Levov, l’eroe di Pastorale Americana, che ha realizzato il sogno dell’integrazione americana persino nella eccellenza genetica, meritandosi l’appellativo di “svedese”, genitore e imprenditore modello a cui toccherà la più feroce delle nemesi paterne; e Sabbah l’ebreo gaudente, ripugnante e pure a suo modo romantico, che incarna il “perturbante”; e Rita Cohen, l’enigmatico spiritello ebraico che disorienta i lettori di Pastorale, con le sue maligne apparizioni agli snodi cruciali della storia, simbolo dell’insopprimibile pulsione critica, feroce, erotica, oppositiva, che pure é stata una componente dell’anima della diaspora. Il filo conduttore dell’ebraismo afferra Roth e lo conduce nei labirinti oscuri della vita e del romanzo.

“Nella mia vita mi sono occupato sempre delle stesse cose ebrei, ebrei, ebrei, Newark, Newark, Newark”. Ed effettivamente i nodi identitari e quella “periferia” newyorkese che è considerato il Jersey, sono gli ingredienti immancabili, lo sfondo di ogni sua narrazione: e si sposano meravigliosamente bene. Qual è il luogo d’America dove un ragazzino ebreo piccolo borghese può meglio affrontare gli anni più turbolenti ed eccitanti della storia americana – dalla vittoria della guerra alla crisi del Vietnam? Il Jersey, naturalmente. A un passo dalla grande metropoli ma ancora in una dimensione umana, periferica, in cui quel ragazzino può ben dire di conoscere e identificarsi con ogni marciapiede e ogni vicolo del suo (ebraicissimo) quartiere. L’identità ebraica di prudente ponderatezza, che si dilata e si stiracchia verso la tensione sessuo-politica degli anni ’60, tendendosi senza mai spezzarsi: quanta ricchezza di temi, storie, volti, parabole possono sorgere da un simile calderone?

E poi a venticinque anni il matrimonio con una shiksa conosciuta in un bar dove la ragazza lavora – una bionda non ebrea che gli da l’illusione di avere finalmente conquistato la vera America, l’America profonda del biondismo; ma proprio come l’America, dietro la patina di brillantezza wasp, si nasconde un portato di sofferenza irredimibile e violenta, una sorta di miniera radioattiva. Il matrimonio è un disastro follemente distruttivo, che demolisce la vita di Roth e la condiziona (anche economicamente ) per molti anni, spedendolo in analisi per “recuperare la sua esausta virilità”. La bionda ha un passato terribile, viene da una scassata famiglia di alcolisti, le sono stati sottratti da un giudice due figli ed emana una tale carica di aggressività possessiva, che il giovanotto brillante della Bucknell University ne viene travolto.

Ma che fa uno scrittore – oltre ad andare in analisi, assumere psicofarmaci e lamentarsi del destino? Prende tutto questo veleno, lo mette a macerare nel suo laboratorio segreto e lo trasforma in una saga narrativa potente. Attraverso trasposizioni e finzioni letterarie, continua per anni a raccontare del suo maledetto matrimonio. Dal romanzesco avvio, con la futura moglie che per costringerlo al matrimonio si finge in dolce attesa, dopo aver acquistato in un androne del Bronx le urine di una barbona nera incinta; fino all’inaspettato epilogo: la morte in un banale incidente stradale della donna, che lo libera dalle vessanti condizioni imposte dal divorzio, che avevano ridotto Roth sul lastrico.

Un matrimonio sbagliato, diventa uno scrigno inesauribile di vite e controvite – una devastazione mentale al limite del patologico, si trasforma in una potente macchina narrativa. Anche Roth, alla fine, dovrà riconoscerlo: chi, se non la moglie distruttiva e squilibrata, è stata la vera editor e la vera musa della sua esistenza? Chi ha preso lo studentello presuntuoso innamorato di sé e dei libri e lo ha sbattuto faccia a faccia con la vita vera, fatta di stupri, alcolismo, sofferenze inenarrabili e famiglie devastate? Dopo gli anni passati a lottare con la bionda shiksa, Philip, non può che ringraziare e renderle pubblico riconoscimento (pur specificando che se fosse Dante, saprebbe bene dove collocarne il destino post-mortem).

Negli anni buoni della sua scrittura, questa “domesticità” di ambienti, temi e personaggi, si è fatta più ardita, è andata a porsi in contesti diversi, lontani dalle strade di New York. È il caso di Operazione Shylok, dove i temi classici di Roth vengono calati nel calderone furioso della storia: Gerusalemme diventa il teatro in cui l’autore, passata la mezz’età, si confronta con i suoi nodi irrisolti di uomo, di ebreo, di scrittore progressista. È la Gerusalemme di fine anni ’80, in cui una Corte israeliana processa John Demjanjuk, operaio di Cleveland riconosciuto come il boia di Treblinka. Ma sono anche gli anni in cui l’Intifada palestinese mette Israele sul banco degli accusati della storia, in un rovesciamento schizofrenico e drammatico in cui Roth irrompe portandosi dietro le sue paranoie, le sue domande irrisolte, saltabeccando tra le aule del processo Demjanjuk che lo ipnotizza, l’amico professore palestinese che cerca di tirarlo dalla sua parte, il Mossad che prova ad arruolarlo come doppiogiochista, in un gioco tra finzione e verità storica, prolisso, verboso, ridondante di temi e di parole, ma straordinariamente avvincente.

Ha sempre saputo, giocarci, con la storia, Roth. Come quando racconta, in Complotto contro l’America l’avanzata del fascismo in America. Cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se, alle elezioni presidenziali del 1940, Charles Lindebergh, eroe nazionale germanofilo, avesse battuto Franklin Delano Rooosvelt e si fosse piazzato alla Casa Bianca? Lo sguardo ignaro di un ragazzino di un quartiere ebraico, registra lo smottamento progressivo, la deriva lenta ma inesorabile verso gli scenari peggiori: l’incubo degli ebrei americani che rischiano di ritrovarsi – davvero e in via definitiva – soli dentro il montare della marea antisemita. Ma anche senza complesse evocazioni geopolitiche, a Roth basta raccontare una banale cena di classe tra ex studenti ultra sessantenni, per far fremere le pagine di ironia ed epicità: nel salone del ristorante aleggia l’Angelo della Storia, mentre dentisti, commercianti, carpentieri e casalinghe raccontano la loro normalità, la poderosa ascesa sociale che, grazie al boom del dopoguerra, ha consentito loro di abbandonare i vecchi quartieri ebraici e incarnare il sogno americano della piena assimilazione – salvo accorgersi che alla fine del sogno, ci sono sempre dentiere, prostate infiammate e capelli candidi. È su quelli, che sta svolazzando “l’Angelo della storia”.

Nel 2017, un anno prima che morisse, È uscita in America una ponderosa raccolta di saggi, articoli, recensioni, scritte da Roth. Una specie di suggello “post-romanzo” della sua storia letteraria. Why write? – perchè scrivere – è intitolata. Se ne dovrebbe ricavare una summa delle complesse motivazioni dello scrittore, denudato dai suoi filtri romanzeschi, dai suoi alter ego, dai suoi personaggi. Ma siamo sicuri di volerlo vedere nudo, lo scrittore? E se il misterioso segreto della sua scrittura si rivelasse per quello che è stato – puro talento – non rimarremmo forse delusi, come quando si svela il trucco di un numero di alta prestidigitazione? Perché scrivere? Bella domanda. Se la pongono ogni giorno milioni di scrittori e scribacchini, tutti mossi dalla medesima ansia. Al termine della sua carriera se la pose anche Philip Roth. Ma per lui, ormai acquietato, si trattava della contemplazione postuma di una grande eredità.

]]>