Frankenstein – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 Jan 2025 21:07:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le radiazioni atomiche del dottor Frankenstein https://www.carmillaonline.com/2024/06/22/le-radiazioni-atomiche-del-dottor-frankenstein/ Sat, 22 Jun 2024 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82891 di Franco Pezzini

È appena uscito il volume di Ginevra Ballati e Iacopo Cassigoli, Per i nostri voli interplanetari. Disastri atomici, UFO e inquietudini spaziali tra arte, letteratura del secondo Dopoguerra e immaginario pop, pp. 160, volume con immagini a colori, € 20,81, UrsaMaior, Pistoia 2024. Quella che segue è la mia introduzione. F.P.

1958: in una fase di continui richiami all’energia atomica come rischio e insieme potenzialità esce il film Frankenstein 1970 di Howard W. Koch – una pellicola di fantascienza orrifica certamente minore ma di notevole interesse simbolico. Il barone Victor von Frankenstein sta continuando la sua attività di scienziato [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito il volume di Ginevra Ballati e Iacopo Cassigoli, Per i nostri voli interplanetari. Disastri atomici, UFO e inquietudini spaziali tra arte, letteratura del secondo Dopoguerra e immaginario pop, pp. 160, volume con immagini a colori, € 20,81, UrsaMaior, Pistoia 2024. Quella che segue è la mia introduzione. F.P.

1958: in una fase di continui richiami all’energia atomica come rischio e insieme potenzialità esce il film Frankenstein 1970 di Howard W. Koch – una pellicola di fantascienza orrifica certamente minore ma di notevole interesse simbolico. Il barone Victor von Frankenstein sta continuando la sua attività di scienziato dopo le traumatiche vicissitudini patite sotto il nazismo, quando era stato torturato e sfigurato per il suo rifiuto di collaborare. La guerra è finita da anni, e ora per motivi economici il barone permette a una troupe televisiva di girare un horror sulla sua storia familiare (i grandi costruttori di mostri del passato) nel proprio castello in Germania.

Il fatto è che anche lui, come gli antenati, vagheggia di portare in vita una creatura. Per questo si è procurato un reattore atomico, ma per i corpi deve ricorrere ai soliti vecchi sistemi: e avvia dunque la disinvolta mattanza della squadra televisiva. Ovviamente la creatura si rivolterà contro il barone, ed entrambi periranno per un incidente al reattore. Scese le radiazioni a livelli di sicurezza, emergerà infine che sotto le bende il mostro ha lo stesso viso del barone, e avrebbe dovuto perpetuare l’esistenza dell’ultimo epigono della stirpe Frankenstein.

Come detto, a parte l’indubbio divertimento, la pellicola è interessante a livello di simboli e implicazioni. Anzitutto il barone è interpretato da Boris Karloff, il più leggendario interprete della creatura (anzi, del Mostro, come si usa dire nel cinema americano) in film consegnati all’immaginario planetario dalla stagione d’oro Universal, attraverso la produzione geniale e poetica postespressionista degli anni Trenta e quella più popolare e folle dei Quaranta: l’agnizione finale che il volto sia quello di Karloff non costituisce dunque solo un Amarcord, ma una sorta di garbata rivendicazione entro una storia che parla (non casualmente) di riprese video e di troupe. Il mostro della Universal è quello del baraccone delle meraviglie, il gangster dell’anima latore delle ambiguità del Vecchio Mondo, l’impressionante e fiabesca anomalia in un onirico e freudiano bianco e nero che minaccia la società – in particolare qualche giovane coppia pegno del futuro – e dovrà scomparire in un incidente clamoroso. Dal fondo ora di un film indipendente come Frankenstein 1970, Karloff ammicca a quei fasti passati ormai acquisiti da un fandom ultrapopolare e giovanissimo da drive-in, che trova il suo santo protettore nell’incredibile Forrest James Ackerman e ha appena visto inanellarsi surreali naïveté come I Was a Teenage Werewolf di Gene Fowler Jr. e I Was a Teenage Frankenstein di Herbert L. Strock, entrambi 1957 (a fronte dei quali il film con Karloff presenta ovviamente un’altra dignità).

Il fatto è che negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, sull’onda della Guerra fredda, i vecchi mostri del gotico sono stati archiviati per lasciar spazio ai raggelanti alieni del Pianeta Rosso (comunista), a qualche mostruosità avventurosa da fronteggiare con la scienza invece che con l’occulto (il birichino sciupafemmine uomo pesce della Laguna Nera, 1954-56, alcuni gotici “riconvertiti”) e a un linguaggio di tipo fantascientifico.

Ma sta succedendo dell’altro: l’Inghilterra si sta riprendendo il gotico con le mitologiche riscritture Hammer delle saghe di Frankenstein (1957) e Dracula (1958), con Peter Cushing e Christopher Lee, per la regia di Terence Fisher e la sceneggiatura di Jimmy Sangster – e con loro cambia tutto. Il mostro diventa una figura impastata delle ambiguità sociali di tutto un mondo circostante (nella saga di Frankenstein il vero mostro è il barone, che però spicca da titano sull’odiosa società intorno); e se c’è un eroe non è più il giovanotto facciafresca di un’America che ostenta ottimismo, ma un uomo maturo e segnato dalla vita, affidabilmente british anche quando porta il cognome olandese Van Helsing. Il lavoro della Hammer, col miracolo di una piccola casa di produzione che subentra al colosso Universal nel dettare gli incubi a tutto il pianeta, avrà un peso non relativizzabile nell’immaginario – con curiosi cortocircuiti tra manti neri vampireschi e minigonne della Swinging London – e contribuirà all’innesco dello stesso revival magico dei Settanta. Inizia così una nuova stagione del gotico su schermo (ora in costume ottocentesco e a colori, sangue compreso) e Frankenstein 1970 con le sue radiazioni atomiche è il canto del cigno della vecchia.

Mary Shelley aveva probabilmente immaginato il materiale tecnico necessario allo studente (giovanissimo e borghese, non barone) Victor Frankenstein come un paio di borse di attrezzature galvaniche, che il giovanotto si porterà a zonzo per l’Europa assieme ai pezzi anatomici; ma già le prime liberissime trasposizioni teatrali avevano piazzato sulla scena istallazioni ingombranti come negli opifici della rivoluzione industriale. La stessa autrice, nell’edizione definitiva 1831, mostrerà di recepire questi spunti. Che, trasposizione dopo trasposizione, con attrezzature sempre più incontrollabilmente steampunk, alla fine si arrivi all’energia atomica non è dunque strano.

Del resto, radiazioni atomiche recheranno conseguenze impreviste anche nei laboratori del film giapponese Furankenshutain tai Baragon, letteralmente “Frankenstein contro il Baragon”, in Italia Frankenstein alla conquista della Terra) di Ishirō Honda, 1965. Lì il superuomo da guerra progettato da scienziati tedeschi nel secondo conflitto, e a distanza di anni realizzato dai giapponesi, diventa il mostro di Frankenstein e ingigantisce accidentalmente per effetto delle radiazioni: finirà utilizzato per fronteggiare l’ennesimo collega di Godzilla, il kaijū (cioè “mostro radioattivo”) Baragon emerso da un tempio maledetto a minacciare il Sol Levante… In un paese che cerca di metabolizzare il trauma di Hiroshima e Nagasaki, c’è qualcosa di un po’ disturbante che il feticcio pop sia il caposaldo di un’intera stirpe di mostri che flirta con l’atomica.

Siamo ormai approdati all’immaginario su Godzilla (o più filologicamente Gojira), e all’ultima parte dell’originalissimo lavoro di Ginevra Ballati e Iacopo Cassigoli che a partire dalle provocazioni sullo spazio tra Movimento Spazialista e Movimento Nucleare, trasmissioni nell’etere e dischi volanti, arte interplanetaria e radiazioni cosmiche, minacce atomiche e Eaismo, infinitamente piccolo dell’atomo e infinitamente grande degli spazi, porta su e giù – come è prezioso fare – tra cultura “alta” e “bassa”, arte e fantascienza, cronaca e affabulazione – una serie di parole d’ordine, e finisce con l’implicare una lunghissima storia immaginale. Una storia collettiva, ma in fondo anche personale di quanti, come il sottoscritto, siano figli del boom economico e in quell’orizzonte hanno visto svilupparsi una serie di miti d’epoca qui ben evocati.

 

La televisione richiamata in Frankenstein 1970 è quella del resto tanto importante per la nostra generazione: e lo spoglio del materiale del Radiocorriere TV (oggi meritevolmente riproposto online) mi permette di collocare al 1972 nell’ambito della serie Realtà e fantasia la programmazione alla TV del ragazzi del film giapponese Atragon del già citato Ishirō Honda, 1963, che avrebbe molto colpito la mia immaginazione. Atragon – probabilmente da “drago atomico”, il tipo di sottomarino in questione – mostrava l’epico scontro tra l’incredibile sottomarino Gotengo in grado di muoversi anche nella terra o nell’aria, e sottratto a fine guerra dall’irriducibile capitano Hachiro Jinguji (Jun Tazaki) per riscattare l’onore del Giappone, e il redivivo impero di Mu, attualmente sommerso, che ça va sans dire mira a conquistare il mondo. Di qui la concitata tagline giapponese “Il temuto regno sottomarino sfida la superficie! La risposta d’emergenza della corazzata atomica multiuso!”, nell’ambito di una storia godibilissima dove non manca il solito kaijū, in questo caso il serpentiforme Manda, dio e custode di Mu (in seguito integrato nella saga di Godzilla). A commentare il film al passaggio in Rai erano stati il geofisico Antonio Rapolla dell’Università di Napoli, il direttore generale della Tecnomare Giuseppe Muscarella e il titano dell’orizzonte che questo libro andrà a scandagliare, il giornalista esperto di misteri e mondi perduti Peter Kolosimo.

Ma quella storia di energia atomica volta a scopi difensivi contro un nemico di tutti i popoli della terra emersa – i Mu di un’imperatrice cattivissima – presentava anche un altro abbinamento significativo di quella temperie culturale: quello tra un futuro estremamente avanzato e tempi passati non solo recenti (gli echi del secondo conflitto mondiale) ma anche molto remoti. Ecco così Kolosimo che parla dei continenti scomparsi Atlantide, Mu e Lemuria in libri che più generazioni divoreranno e portatori eventuali di tecnologie avanzatissime (anche Atlantide, il continente perduto di George Pal, 1961, metteva in scena sommergibili e un’arma dalla distruttività similnucleare); ecco i dischi volanti della clipeologia, il sottosettore dell’ufologia attento ai presunti contatti con oggetti volanti nel passato, tanto florida a Torino negli anni Sessanta (quando nel 1964 vi viene fondata la rivista «Clypeus»); ecco un’archeologia che flirta con lo spiritismo (a suon di rivelazioni di spiriti egizi o etruschi). Però i rivoli sono tanti: pensiamo a un libro come Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier, 1960, in Italia 1963, con le sue riflessioni sulle tecnologie perdute, o al lavoro sul linguaggio fantastico del gruppo torinese Surfanta nato nel 1964. E attraverso una serie di maree culturali nella risacca della Guerra fredda, la voglia di mistero si declina in forme ora parascientifiche (archeologia misteriosa, ufologia, parapsicologia…), ora occultistiche (sotto il velo della cultura ufficiale nei lunari anni Sessanta – a usare l’aggettivo di un bel saggio di Fabio Camilletti –, ma pronte a eruttare fuori col grande revival magico dei Settanta). Un’ondata di pubblicazioni emerge negli Stati Uniti, in Francia, in Italia, e sui rotocalchi spuntano come funghi lisergici articoli su questi temi…

La televisione – oggetto-simbolo del viaggio nell’etere – registra le aperture d’epoca, la nuova frontiera e le sue varie declinazioni, sia per adulti (si pensi a Sapere, ricchissimo programma di divulgazione scientifica varato da Giovan Battista Zorzoli, e trasmesso 1967-1976, che non disdegna i risvolti pop), sia per ragazzi (per esempio Spazio – Il settimanale dei più giovani, a cura di Mario Maffucci – dove già il titolo suona indicativo).

Ed è in fondo la televisione, con buona pace dei cospirazionisti, a renderci partecipi di un evento epocale come lo sbarco sulla luna. Preceduto da fiumi di dirette alle quali assistevo (non a quella a notte fonda dell’allunaggio, domenica 20 luglio 1969, ma ricordo l’indomani mattina l’acquisto del giornale con i titoloni alla piccola edicola di quartiere), renderà lo spazio qualcosa di più concreto per gli spettatori. E stabilirà una sorta di paradigma del modo di interrogarsi dell’uomo dell’età atomica: come lo sintetizza la rivista «Epoca», varando nel 1972 la storica serie di inserti Gli uomini del mistero (primo numero su Nostradamus), “Perché nell’era spaziale rinasce l’interesse per maghi, veggenti e alchimisti?”. È l’avvio del grande revival magico, più o meno coevo allo sbarco sulla luna ma anche al Sessantotto e alla rivoluzione sessuale.

E intanto, tra manifesti, esperimenti, suggestioni l’arte – nelle sue varie declinazioni – è attenta a cogliere le energie d’epoca: Buzzati, Fellini, Giorgio Monicelli fondatore di «Urania», Calvino, David Bowie, Flaiano, Zanzotto, e tanti altri (fino idealmente ai Wu Ming di Ufo 78, 2022), contribuiscono con il loro lavoro a un immaginario che media tra il panico legato al rischio d’un cataclisma atomico e l’ottimismo sotteso a un’epoca ancora in grado di coniugare al tempo futuro. Fin nell’uso innovativo di termini come spazio o nucleare.

Poi certo, come mostrano Ballati e Cassigoli, una serie di suggestioni era assai precedente, fin dall’origine della Guerra fredda: il Movimento Spazialista era nato nel 1946 attorno alla personalità di Lucio Fontana, il primo manifesto in italiano era stato redatto nel 1947, nel 1948 è seguito il secondo, nel 1950 il terzo, e nel 1952 il Manifesto del Movimento spaziale per la televisione. A collocare queste intuizioni all’inizio della confusa e diramatissima storia fin qui abbozzata, che con i conflitti culturali della Guerra fredda ha molto a che vedere e condurrà a strascichi imprevisti: come quando nel 1977, sull’onda del fortunato filone anticristico del primo The Omen dell’anno prima, esce Holocaust 2000 di Alberto De Martino – che associa all’Anticristo nientemeno che la costruzione di una fatale e gigantesca centrale termonucleare.

Si riserva dunque agli autori la libertà (rigorosa) di articolare il discorso con l’originalissimo taglio che da Fontana traghetta a Godzilla. E intanto ci lasciamo portare dall’affascinante esperienza di un viaggio che per molti di noi recupera almeno scampoli di un passato amato e remoto.

Torino, maggio 2024

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Un incubo ad alta tecnologia https://www.carmillaonline.com/2023/07/11/un-incubo-ad-alta-tecnologia/ Tue, 11 Jul 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78209 di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene [...]]]> di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene di montaggio si assemblano appunto i “ciberneti”, automi che percepiscono ed elaborano informazioni che arrivano dall’ambiente. La parola di Terzago riesce a trasferire sulla pagina una dimensione di disumanizzazione senza precedenti: ogni singolo fonema scorre freddo, incastonato perfettamente in quello che segue e in quello che precede, come se formalmente, appunto, intendesse ricreare l’andamento di una catena di montaggio del futuro. Lo stesso operaio che deve seguire tutte le operazioni, e che spesso prende la parola, sembra pervaso della medesima disumanizzazione che grava ogni dove, su ogni spazio che lo circonda, in una dimensione metafisica ma continuamente sofferente a causa di uno spento dolore che sembra covare silenzioso sotto uno strato di cenere.

La parola di Ciberneti appare quindi meccanizzata, inserita nella macina polverizzante di un nuovo capitalismo che, come un Frankenstein ipermoderno (“surmoderno”, direbbe Marc Augé), diventa il creatore di tecnologici automi probabilmente destinati a trasformarsi a loro volta in forza lavoro, come i “replicanti” di Blade Runner di Ridley Scott, il cui assemblatore, l’ingegnere genetico J. F. Sebastian, conduce anch’egli una vita immiserita nella solitudine e nella disumanizzazione. Si potrebbe pensare a una costruzione di una poesia ‘operaia’ antitetica a quella allestita da Joseph Ponthus in Alla linea (Á la ligne. Feuillets d’usine, 2019) in cui emerge invece una personale dimensione corporea che coinvolge il lettore nella propria sofferenza fisica e psicologica. Se Alla linea è il lascito di un corpo sofferente che si rivolge a noi nella sua dimensione profondamente umana, Ciberneti è il resoconto macchinico di un perfetto congegno a orologeria che sembra essere riuscito ad annientare qualsiasi dimensione umana, rendendo simile agli automi gli stessi lavoratori impegnati nell’assemblaggio. Ciberneti racconta con grande maestria la glaciale freddezza del congegno del capitale: ogni parola si muove come una macchina e spesso le parole usate appartengono ad un gergo tecnico, come ad esempio “scialitico” o “derma”. Anche le parentesi che incontriamo nel testo assumono una forma meccanizzata e geometrizzata: nella poesia di Ciberneti non esistono infatti parentesi tonde ma solo quadre. Se la parentesi quadra può rimandare ad un altro contesto ‘tecnico’ come quello della filologia, si può pensare piuttosto che esse rappresentino l’avvenuta ‘robotizzazione’ delle parentesi tonde. Sembra che nel mondo di Ciberneti non ci sia posto per le linee curve e sinuose, ma solo per quelle rigide e geometriche.

In un mondo siffatto, gli ultimi lembi di natura rimasta non possono che spaventare e sconvolgere ma anche offrire una dimensione più umana e ‘confortevole’; così leggiamo in Il bisogno di energizzare il sistema albero: “Distraggono e spaventano, le foglie. Il verde inatteso: / distraggono dall’entità degli stipendi, dalla voce lunare / in radio, dalla subordinazione, dalla gerarchia. / Stavamo aspettando questo segnale, dice il neo-assunto: / deve essere la nostra via di esodo: galleggia verde su di noi / tangibile fantasma negli interminabili spazi della produzione”. Una “via di esodo” è allora forse possibile negli “interminabili spazi della produzione”? quegli spazi che riecheggiano forse in versione ipermoderna (o “surmoderna”, per utilizzare ancora il termine di Augé) gli “interminati spazi” che si trovano al di là della siepe dell’Infinito di Leopardi. La “via di esodo” potrebbe anche far pensare al “varco” montaliano ma, ancora una volta, l’ambiente naturale appare stravolto: non è più quello imprigionante ma comunque ancora incorrotto di – ad esempio – Meriggiare pallido e assorto.

Nella poesia successiva, intitolata Tosaerba automatici a guida satellitare, lo spazio naturale assomiglia a quello marittimo delle Cinque Terre descritte da Montale (Terzago, come leggiamo nella nota biografica, vive a La Spezia, porta d’ingresso delle Cinque Terre) mentre una serie di infiniti sostantivati (come nella citata poesia di Montale) scandiscono le azioni che devono essere compiute dall’operaio nei rari momenti di ferie e di tempo libero offerti dall’azienda (“…tra pini e castagni / raccogliere quelle tre varietà di funghi che conoscono tutti quanti. Concedersi tepidari; cercare asparagi / selvatici e staccare, dagli alberi, i frutti / non ancora maturi”). Tra l’altro, queste incursioni nello spazio naturale dovrebbero facilitare l’operazione dei tosaerba del titolo, il cui unico scopo è quello di antropizzare l’ambiente in maniera indiscriminata. Se al giorno d’oggi l’antropizzazione e la distruzione dell’ambiente naturale hanno già raggiunto livelli esorbitanti, fino a provocare tragedie come quella recente in Emilia Romagna (e a questo proposito si legga Violazione di Alessandra Sarchi, un romanzo che già nel 2012 scopriva scheletri negli armadi dei potenti, allestendo una storia di disboscamento e di cementificazione di corsi d’acqua nella campagna vicino a Bologna), nel futuro prossimo di Ciberneti l’ambiente naturale sembra essere ormai già stato allontanato in una dimensione irreale e fantasmatica.

In La terra del prato, infatti, “la terra del prato è stata messa / da un’altra parte. Adesso c’è impermeabilità”. Là dove c’era un prato adesso c’è una colata di calcestruzzo sormontata da “cespi di corrugato indeperibile”. La natura è stata sostituita da un ambiente artificiale: sembra quasi una rilettura “surmoderna” del processo descritto da Pier Paolo Pasolini ne Il pianto della scavatrice, ne Le ceneri di Gramsci. “Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore”, scrive Pasolini descrivendo la cementificazione degli spazi verdi attorno a Roma avvenuta nel corso degli anni Cinquanta. Ciberneti parla di una contemporaneità che è già futuro, una contemporaneità in cui quegli anni Cinquanta sembrano già preistoria come sembrano già preistoria le lotte operaie della fine degli anni Sessanta. In Un sogno a occhi aperti lo stesso abbrutimento procurato da un ciclo quasi ininterrotto di lavoro sfuma nell’irrealtà e nel sogno, perché “abbiamo / lasciato le nostre case quando era buio, sarà buio / quando ritorneremo e questo ci darà la sensazione / che sia stato tutto un sogno ad occhi aperti”. Lo stesso avveniva negli anni Sessanta e Settanta ma sembra che allora le azioni fossero immerse in una realtà fatta di corpi e di lotte; adesso, invece, nella ‘robotizzazione’ iperbolica dell’esistenza, ciò che è reale sfuma nel sogno e in una onnipresente dimensione virtuale. Più che a un sogno, allora, ci troviamo di fronte a un incubo: un incubo ad alta tecnologia.

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Noi, la Creatura e altre macchine fragili https://www.carmillaonline.com/2023/05/05/noi-la-creatura-e-altre-macchine-fragili/ Fri, 05 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77072 di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di [...]]]> di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di confrontare i testi delle due principali edizioni storiche, notando il passaggio dalla versione più ruvida e ribelle di una Mary Shelley giovanissima – che qualche lettore preferisce per la sua intatta freschezza – all’altra definitiva del 1831, più levigata e moderata. La seconda, Villa Diodati Files. Il primo Frankenstein, curata da Fabio Camilletti grazie a Nova Delphi, Roma 2018, presenta connotati curiosi e di grande fascino: riporta infatti il contenuto originario del manoscritto di Mary senza l’editing del suo geniale partner Percy Bysshe Shelley – dunque un testo più “imperfetto” di quello pubblicato, ma tale da fornirci un più diretto colpo d’occhio sulla scrittura della ragazza Mary e sfatare definitivamente il pregiudizio sessista che avrebbe voluto il romanzo frutto del lavoro del brillante Percy e non della sua giovanissima compagna.

Ovviamente parecchie altre case avevano nel frattempo allestito nuove edizioni del romanzo, e ormai la versione 1818 può essere reperita facilmente anche in Italia, dove in precedenza si trovava in libreria solo quella definitiva. Ma, in attesa delle mirabilia che potranno essere offerte dal bicentenario 2031, Mary Shelley ha continuato a suscitare interessi e scrittura: a essere portata per esempio nelle scuole, per le provocazioni vivide che reca a un pubblico di adolescenti.

Materiali d’interesse sono a questo proposito offerti da un volume divulgativo di grande intelligenza da poco uscito, Vita e visioni. Mary Shelley e noi, a cura di Vittorina Maestroni e Thomas Casadei, con una graphic novel di Claudia Leonardi (pp. 137, € 15) per i tipi Mucchi, Modena 2023: un testo adatto soprattutto a lettori giovani, e che affronta il panorama dell’opera dell’autrice – non solo Frankenstein ma Valperga (1823), L’ultimo uomo (1826) e cenni sul resto (in effetti non andrebbe dimenticato il suo romanzo ultimo Falkner, 1837, ottimamente presentato in Italia come Il segreto di Falkner, a cura di Elena Tregnaghi, Edizioni della Sera, Roma 2017) – mediante una prospettiva di genere. Alla Presentazione dei curatori segue Mary Shelley: una graphic novel, apprezzabile al netto di alcune libertà; una breve, partecipe biografia a cura di Silvia Bartoli, Mary Shelley: una vita fra dolore e scrittura; la panoramica sui tre romanzi citati Scrittura, sogni e visioni. Selezione e traduzione dei testi a cura di Lilla Maria Crisafulli (con S. Bartoli, P. Leech e V. Maestroni); un’interessante rassegna di Parole-chiave dell’opera di Mary (Maternità; Trauma, dolore, sofferenza; Mostro; Bellezza; Fantascienza; Donne e scienza; Cultura patriarcale; Relazioni; Repubblicanesimo; Traduzione), commentata a firma di più autori. Termina il tutto una sezione Strumenti, articolata in Lo sapevi che… e in Consigli di lettura a cura del Centro documentazione donna. Finito di stampare – significativamente – l’8 marzo di quest’anno, il volume persegue come detto una prospettiva di genere: un grandangolo che permette in realtà di cogliere in modo molto ampio e sfaccettato i temi dell’opera shelleyana e induce senz’altro a consigliare questo testo per attività didattiche.

Decisamente una diversa complessità offre uno splendido studio di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (pp. 179, € 19) Carocci, Roma 2022: se l’intersezione-Frankenstein riguarda anche qui solo una delle opere citate, per quanto emblematica, il focus è la provocazione su cosa significhi essere umani a partire dalla figura dell’automa nell’immaginario letterario e audiovisivo.

 

Il volume riguarda gli effetti di una rivoluzione tecnologica molto discussa e che la comunità umana sente imminente. Se nel corso del XX secolo sono state considerate rilevanti le conseguenze culturali e antropologiche della possibilità di riprodurre il manufatto artistico attraverso la tecnica, gli scrittori di finzione si sono spesso confrontati con quelle legate alla riproduzione tecnologica dell’umano stesso. Il tema centrale del libro riguarda i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica della contemporaneità, nell’ibridazione dell’umano con la macchina, e nella crescente automazione degli oggetti che ci circondano e delle attività a cui prendiamo parte. L’argomento è declinato su diversi livelli di discorso: la fragilità umana, quella corporea e nella dimensione interiore ed esistenziale, la fragilità dell’ambiente che ci circonda, quella del nostro pianeta vulnerabile all’impatto di otto miliardi di esseri umani che lo sottomettono nell’esercizio della vita. A complemento di queste condizioni incarnate nel reale, esploreremo ipotesi affini, ma applicate a figure dell’immaginario fantascientifico. Attraverso l’analisi di una selezione di testi che provengono dalla letteratura, dal cinema, dall’animazione e dalla serialità televisiva, e lungo il crinale che le ibridazioni tra natura e artificio rendono via via meno netto, andremo alla ricerca di cosa significhi essere umani scrutando nell’immagine rovesciata della natura umana, nel negativo che è dato dall’artificio dell’automa e del cyborg.

 

Il testo, dalla bibliografia ricchissima, si articola in cinque parti: il ripercorrerle sinteticamente in questa sede potrà offrire solo una vaghissima impressione della ricchezza dei contenuti. La prima parte, Tra paradigma indiziario e seduta psicoanalitica: il dialogo con la macchina antropomorfa, prende avvio dall’interrogarsi su Il problema della coscienza, con le sue dimensioni sfuggenti; Oltre l’antropocentrismo conduce a riflettere sul concetto di io, sulla critica della “tradizione dell’umanesimo occidentale, basata su una serie di opposizioni dicotomiche che risalgono alla suddivisione cartesiana tra res cogitans e res extensa” (identità/alterità, natura/cultura, uomo/donna, bianco/nero ecc.), sulle istanze del postumano degli studi di Donna Haraway; Il cyborg e l’androide tratta della rappresentazione della creatura artificiale offrendo un po’ di puntualizzazioni lessicali. “L’atteggiamento dell’umano nei confronti della creatura artificiale oscilla tra fascinazione e paura”: e di qui si apre un discorso sui Dialoghi perturbanti tra uomo e oggetti umanoidi, con il riferimento fondamentale alla categoria del Perturbante (Jentsch, Freud…) e la teoria della uncanny valley di Masahiro Mori. Proprio la chiave del dialogo finisce con l’essere rivelativa: e lo studio procede con esempi in questo senso tratti da testi letterari e cinematografici. In particolare attraverso due autori emblematici: Isaac Asimov: i robot e l’interrogatorio; Philip K. Dick: i replicanti e la misurazione dell’empatia; e di qui si passa alla seconda parte.

Dal cyberpunk al postumano:Ghost in the Shell’ prende le mosse da un’Ontologia del cyborg. Considerando preliminarmente che “Negli ultimi settant’anni, la figura dell’umano-macchina ha cambiato statuto, passando dalla dimensione dell’immaginario a quella dell’esistente”, e che “Il cyborg ha attraversato i sottogeneri della letteratura fantascientifica, e non di rado è femminile e immaginato da scrittrici”. Donna Haraway definisce il cyborg

 

un controparadigma che descrive l’intersezione del corpo con una realtà esterna molteplice e complessa: è una lettura moderna non solo del corpo, non solo delle macchine, ma di quello che passa e succede tra di loro. In quanto modo di intervenire nel dibattito sul rapporto tra mente e corpo, il cyborg è un costrutto post-metafisico.

 

Di qui la riflessione sulla fascinazione per l’Asia e il Giappone come uno dei tratti distintivi del cyberpunk e La genesi diGhost in the Shell’, manga di Masamune Shirow (1988) poi affiancato dalla reinterpretazione di Mamoru Oshii in formato anime (1995). Un’opera dai connotati illuminanti (“Il cyberpunk aveva recuperato la distinzione in modo ambivalente attraverso la separazione semantica tra hardware/corpo e software/coscienza. Qui questi termini sono ulteriormente traslati rispettivamente nelle metafore shell e ghost”) affrontata da Piga Bruni attraverso gli step di Caduta e rispecchiamento, Autocoscienza e riconoscimento, Ambizione e trascendenza: verso il postumano.

Un’altra opera-cardine è quella cui viene dedicato il capitolo 3, ‘Westworld’ e l’inconscio artificiale: a partire dal film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton e distribuito in Italia con il titolo Il mondo dei robot, da cui deriva la serie televisiva Westworld (in Italia, Westworld – Dove tutto è concesso) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy, prime quattro stagioni 2016-2222. Il film originale era stato di grande successo negli anni Settanta e di culto per l’immaginario distopico: la storia di un parco a tema (ben prima dell’altrettanto crichtoniano Jurassic Park) dove qualcosa va storto nella programmazione degli androidi, detti host o “attrazioni”: impossibile dimenticare il raggelante pistolero-androide Yul Brinner. Epopea western e wonderland. Dal film alla serie TV affronta vari nodi della riscrittura: in Forme della serialità televisiva emerge tra l’altro l’influenza di Ghost in the Shell nell’immaginario di Westworld; Dal robot elettromeccanico alla ginoide vitruviana tratta gli adattamenti del romanzo da parte di Nolan e Joy per quanto concerne la fisicità degli androidi; Sguardi situati e visioni creaturali affronta le variazioni di “interiorità” rispetto alla versione-fonte, che conducono gli spettatori a identificarsi in androidi con coscienza e inconscio artificiali (emblematico il caso della ginoide Maeve, la cui prospettiva è “Lontanissima dalla visione pixellata e asettica del pistolero nero nel film”); Variazioni distopiche: dal vecchio West al panopticon riflette sul parco come sistema totalitario. Ampliando l’obiettivo, Labirinti del sogno. Alice e Borges aWestworld’ parte con Figure del labirinto dalla constatazione borgesiana che “Tutto è labirinto, gli oggetti ma anche il tempo e l’universo. Il vero labirinto non è spaziale ma è lo scarto tra ciò che crediamo di vivere e ciò che viviamo realmente”.

 

Per Borges, il labirinto riguarda la vita e la scrittura, sia la realtà sia la finzione. In queste pagine mi soffermo sulla complessità della relazione che lega assieme le due sfere e, con un’estensione metaforica, includo nella riflessione un’articolazione ulteriore del termine “finzione”, il sogno. Altra passione borgesiana, il sogno è una modalità altra «di creare mondi possibili, virtuali, del tutto alternativi al mondo reale» […]. Tanto il labirinto quanto il sogno possiedono due volti. Nella metafora del labirinto troviamo, a un tempo, struttura dell’esperienza, ricerca del sé, percorso di formazione e allegorie del sacro, così come smarrimento, impotenza, orizzonte celato o visione inibita. Il sogno può divenire incubo.

 

Un motivo per cui Borges riprende Lewis Carroll e il dittico di Alice: e qui la riflessione su Westworld si protrae in due direzioni, Il labirinto come struttura dell’esperienza (nonché metafora della memoria, “la quest coincide con la ricerca della propria identità” e “metafora del proprio sé più profondo, da raggiungere, come Alice, oltrepassando lo specchio”) e Il labirinto come metafora della complessità (dove “la sfera in cui maggiormente si dispiega è quella del tempo”). Fino a Risvegli. Il sogno nel sogno, sulla domanda “Am I in a dream?” del personaggio Dolores, con significativi echi non solo al “dubbio ontologico tanto esplorato dalla fantascienza («in quale mondo siamo?»)”, ma alle avventure di Alice, visto che “il parco Westworld è una versione distopica del wonderland”. Gli sviluppi conseguenti non potranno che trattare Presa di coscienza e rivolta: dall’apocalisse alla genesi, con il massacro degli umani funzionale a un nuovo inizio, e L’inconscio artificiale, sulle reveries che permettono agli androidi di evolvere e riappropriarsi della memoria (“In quanto immagini di esperienze appartenenti al passato, sono brandelli di un inconscio artificiale di tipo personale” trattandosi di “ricordi di storie dismesse”), a sovvertire il sistema.

Il capitolo 4, Il realismo perturbante delle macchine come noi, prende avvio da Una questione morale, sui risvolti etici del tema evocati da Ian McEwan (Machines Like Me and People Like You, 2019); e i paragrafi successivi – Il realismo perturbante, Forme del dialogismo, Forme dell’immedesimazione – approfondiscono le relative provocazioni. Fino alla nota chiave in cui culmina l’intero volume, La fragilità dell’altro attraverso gli step di Contraddizioni e rivolta e La solitudine della creatura: presenti già nell’opera di Mary Shelley, questi stigmi dolorosi finiscono con lo stemperare il nostro timore delle macchine nella contemplazione di esiti di sofferenza che ci affratellano e non possono lasciarci insensibili.

A chiudere il volume come quinto capitolo è un bel contributo di Christiano Presutti, L’umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che prende le mosse dal romanzo steampunk di William Gibson e Bruce Sterling The Difference Engine (La macchina della realtà), 1990. Lo sfocarsi dei confini tra scienze naturali e scienze umane nella seconda rivoluzione industriale grazie all’emergere di nuovi paradigmi “avrebbe portato il mondo scientifico a orientare il proprio punto di vista verso il dominio umanistico e viceversa, in un gioco di specchi e scambi di ruolo che si è protratto sino a oggi e che caratterizza le moderne discipline scientifiche interdisciplinari”. Sempre più lo scienziato è – o dovrebbe essere – indotto a interpellarsi sul significato filosofico e “umanistico” del risultato delle proprie ricerche: e a parte alcune opere pionieristiche dell’ottocento (Mary Shelley, Hoffmann, Poe…), è solo con il secolo successivo che la protofantascienza di Verne e Wells può lasciare il posto alla SF vera e propria. Tra le idee più fortunate sviluppate in quest’ambito sono quelle attorno alla macchina intelligente e al problema dell’emergenza della coscienza. Di qui l’esame di Presutti si sviluppa attraverso tre tappe, La mente artificiale (con le varie definizioni di IA), Che cos’è la coscienza, La coscienza artificiale o immaginare l’impossibile, arricchendo in modo importante l’itinerario di Piga Bruni.

Una ricca bibliografia conclude questo studio molto bello, dove la chiave della macchina fragile rappresenta una preziosissima provocazione. La presa di coscienza della quale dovrebbe illuminare non solo la nostra percezione teorica di questi temi, ma in fondo la vita stessa che ci arrabattiamo a vivere.

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L’altro che è (anche) in me https://www.carmillaonline.com/2023/04/25/laltro-che-e-anche-in-me/ Tue, 25 Apr 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76766 di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, [...]]]> di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, entrambi sospinti in un improvviso vuoto di riferimenti oggettivi, appare come una caratteristica dell’immaginario moderno, eccitato da un ambiente sociale e tecnologico divenuto sempre più estraneo al proprio essere presente di ogni singolo individuo.
E’ evidente che l’altro da sé stimola gran parte delle paure moderne basate sulle differenze di razza, classe, genere, ma ciò avviene perché spesso tale alterità può anche presentarsi come la presa di coscienza dell’esistenza dell’altro nel sé,

Fu certamente Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 -1822) il primo autore a far precipitare nella letteratura della sua epoca la figura dell’altro da noi che in realtà è in noi, del doppelganger (in tedesco il “doppio camminatore”) che con la sua presenza faccia parte di un altro essere umano e ne condivida la vita, la osservi soltanto oppure cerchi di sostituirsi ad esso. Una sorta di gemello malvagio che si presenta rivelandone il lato oscuro e patologico della personalità.

Ma se la figura del doppio o dell’altro consimile era già presente nelle culture dei secoli precedenti, come effetto di magie e stregonerie, è proprio con la Rivoluzione Industriale che l’altro da sé di cui si ha paura, ma che in realtà è anche parte del proprio sé, esplode nell’immaginario e nella psiche individuale e sociale. Come ha affermato Luca Crescenzi, in una sua introduzione ai Notturni di E.T.A. Hoffmann:

[…] il vero movente della narrazione notturna era la rappresentazione tanto evidente quanto spietata della modernità e, soprattutto, della tecnica quale sua componente essenziale. In modo clamoroso questa dimensione del notturno emergeva nelle pagine dell’Uomo della sabbia, il racconto che, non a caso, poté sedurre più di ogni altro l’immaginazione artistica ottocentesca e novecentesca. Il primo dei Notturni rappresentava infatti in modo più esplicito di ogni altra narrazione hoffmaniana l’aggressione che l’impotente individuo moderno subiva ad opera della tecnica.
[…] L’aspirazione demiurgica della tecnica, la sua volontà di assimilarsi alla potenza divina, venivano qui mostrate nella loro valenza nichilista e distruttiva. Il mondo costruito dalla scienza racchiudeva in se stesso il germe della notte.
[…] Il tratto veramente spaventoso e «perturbante» dei Notturni hoffmaniani era dato dalla visione di un’umanità disumanizzata dalla tecnica e di individui resi incapaci di esercitare un autonomo controllo sulle loro facoltà fisiche e psichiche. Il mondo moderno appariva a Hoffmann percorso in profondità dall’orrore della spersonalizzazione e dell’alienazione del singolo da se stesso. La realtà che esso produceva era una realtà oscura, dominata d una titanica volontà distruttiva1.

Redatto di getto, in una prima versione, nella notte tra il 15 e il 16 novembre 1815 L’uomo della sabbia sarà eguagliato all’epoca, nella critica alla notte dell’umano creato da una tecnica dalle aspirazioni caratterizzate da una demoniaca volontà di potenza, soltanto da un altro romanzo della stessa epoca: Frankenstein o il moderno Prometeo (Frankenstein, or The Modern Prometheus).

Scritto, tra il 1816 e il 1817, da una Mary Shelley ancora diciannovenne, il romanzo sarebbe stato ideato nella piovosa e fredda estate del 1816 mentre l’autrice, Mary Wollstonecraft Godwin insieme al futuro marito Percy Bysshe Shelley e John William Polidori, era ospite di Lord Byron che, per l’occasione aveva affittato Villa Diodati, già Villa Belle Rive, a Cologny, nel cantone di Ginevra.

Se nel racconto di Hoffmann a dominare sarebbe stata l’immagine dell’automa dalle sembianze femminili e dotato di occhi umani strappati a un vivente, nel romanzo della Shelley il lettore sarebbe stato terrorizzato dell’essere creato dal dottor Victor Frankenstein per mezzo dell’assemblaggio di parti di cadaveri e dell’utilizzo della corrente elettrica originata dai fulmini per dare vita al cadavere così ricomposto attraverso un esperimento ispirato a quelli di Luigi Galvani (1737 – 1798).

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a qualcosa di inumano cui viene donata la vita per mezzo di una scienza e di una tecnica profondamente marcate dall’inumanità degli strumenti della ricerca.
In tutte e due le narrazioni ci troviamo di fronte all’anticipazione letteraria di quell’alienazione dell’individuo creata dal sistema delle macchine assurto in auge a partire dalla Rivoluzione industriale e perfettamente messa a fuoco, sul piano politico e sociale, da Karl Marx fin dai suoi giovanili Manoscritti economico filosofici del 1844.

L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. […] Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
[…] La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia capitalistica come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.2.

Svelando poi definitivamente l’arcano nelle pagine successive.

E ora in che consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. […] Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […] Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma a un altro3.

Il passaggio dell’alienazione nella contemporaneità, dal lavoro operaio a quello di strati sociali che da questo pretendevano di essere separati, si manifesta letterariamente nella più famosa opera di Franz Kafka, pubblicata per la prima volta a un secolo di distanza dalle due precedenti nel 1915, La metamorfosi. L’opera forse più sintomatica dell’immaginario moderno vede il tranquillo rappresentante di commercio Gregor Samsa, membro di una famiglia piccolo borghese di Praga, scoprire la propria alienazione, lavorativa e famigliare, e la separazione dal proprio sé attraverso una drammatica e sconvolgente trasformazione fisica.

Gregor Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un po’ la testa vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi. “Che mi è successo?” pensò. Non era un sogno.

Possiamo fissare qui l’inizio dell’incubo della modernità rappresentato dalla paura della perdita del sé o della scoperta di esserne individualmente portatori di un altro che caratterizza le opere cinematografiche analizzate da Gioacchino Toni e Paolo Lago.

Rispettivamente del 1979 (Alien), 1982 (Blade Runner e La cosa) e 1983 (Videodrome), nel giro di pochissimi anni portano sulla scena l’anticipazione, se non la conferma, delle paure più recondite degli individui, più o meno consci della radicale trasformazione antropologica, sociale e psicologica in atto in prossimità della fine del secondo millennio.

Più di centosessanta anni dopo le prime e sessanta dopo l’opera di Kafka, quegli autori ci dicono che la situazione non è migliorata ma, anzi, che è peggiorata. Che, insomma, non è bastato andare sulla Luna o cantare le lodi del welfare state per convincere la società che tutto sarebbe andato bene da lì in avanti. La festa post-sessantottina e successiva alla fine della guerra in Vietnam era già finita.

Il piccolo margine di autonomia conquistato dai lavoratori dell’Occidente e dagli esclusi del Primo e del Terzo Mondo si stava già rinchiudendo. Margaret Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990) e Ronald Reagan (quarantesimo presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989) preannunciavano, non solo simbolicamente, il trionfo di un ultra-liberismo che avrebbe portato alla globalizzazione economica su scala planetaria e alla fine di ogni diritto collettivo o su scala comunitaria, per tornare a rinchiudere gli individui nella ristretta e meschina dimensione del sé.

Motivo per cui sarebbe cresciuta in maniera esponenziale la paura di essere come l’altro, il povero, l’emarginato, il migrante proveniente dalle aree più povere, o devastate da crisi economica o ambientale oppure dalla guerra, del mondo al di fuori di quello che un tempo si riteneva sicuro, benestante e garantito, identificabile con quello bianco e occidentale.

Il cittadino occidentale nello specchio dell’immaginario ha iniziato a non riconoscersi più come tale, ma piuttosto come il futuro povero, figura ben più terrificante della figura del vampiro (che nello specchio, secondo la tradizione, non si rifletteva).

Un altro da sé iniziava a strisciare sul fondo delle coscienze individuali, mentre la crisi del lavoro, delle certezze (anche tecnico-scientifiche) e la paura di un futuro che iniziava a mostrarsi nuovamente come ignoto riportavano alla ribalta la figura dell’automa dotato soltanto di vita apparente, del mostro pronto a esplodere dal proprio interno e dell’individuo sfigurato, fisicamente e psichicamente, da una magia esterna, di cui il medium non sarebbe stato più il negromante, colui che ha la facoltà de di comunicare con gli spiriti e con i morti, ma la rete mediatica rappresentata dalla televisione e dagli altri strumenti di comunicazione di massa elettronici.
Nelle quattro opere cinematografiche analizzate dagli autori sono presenti, in forme e modalità diverse, tutti questi aspetti di una nuova paura che si alimenta ancora di quelle più vecchie, sorte fin dagli albori dell’attuale modo di produzione.

Nell’ultimo dei quattro film analizzati, Videodrome di David Cronenberg, tutti i temi si riuniscono: dal controllo esterno esercitato dai media alla possessione del corpo, orrendamente trasformato in qualcosa di alieno e altro dall’umano, tutto concorre a dare voce alla paura e all’orrore per il non essere più ciò che si pensava di essere oppure del dover rassegnarsi ad agire in maniera non più umana o, perlomeno, che come tale si pensava.

Nel film di Cronenberg, ha scritto in suo saggio Gianni Canova: «Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno delle televisione.»4.

Tecnologia, controllo della mente e del corpo, alienazione sociale e individuale si fondono nel corpo umano che diventa altro da sé e allo stesso tempo non più umano ma nemmeno soltanto artificio robotico. In tal modo

Cronenberg inaugura dunque un nuovo tipo di cyborg, che nasce dalla fusione del corpo biologico dell’uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta: non più un cyborg elettromeccanico, con impianti spinotti e prese craniali, ma un ibrido tra corpo e flusso comunicativo, quello che potremmo definire “cyborg del codice”5.

E’ di una anno successivo l’uscita del romanzo di SF che avrebbe poi aperto le porte al cyberpunk nella fantascienza, Neuromante di William Gibson (1984), in cui il collegamento tra mente e rete diventa elemento, forse meno tormentato che nel film sopra citato, di quasi normalità nell’esistenza quotidiana e nella società dell’economia dell’informazione.

Quest’ultimo tema, però, rischia di portare lontano da quello iniziale, sul quale occorre tornare in queste ultime righe. Sottolineando come le paure manifestatesi nell’immaginario letterari all’inizio del capitalismo industriale e nel periodo della sua conferma come modo di produzione dominante su scala planetaria siano state confermate e amplificate dal cinema della fine del secondo millennio.

Aprendo una finestra da incubo su quella che sarebbe poi diventata la nostra attuale realtà: in cui l’individuo si è perso, dentro e fuori i luoghi di lavoro e in cui i social hanno finito col divenire luoghi “reali” dell’agire umano e della diffusione di un pensiero unico, di cui gli utenti non sembrano più manifestare alcune coscienza.

Da oggetti originari delle paure della modernità gli automi, i corpi modificati e la perdita della coscienza individuale sono quindi diventati il pane quotidiano dell’agire umano, rovesciando e trasformando in disumano e nemico ciò che è altro da sé: l’umana fatica e sofferenza, nella loro concreta realtà, e il conflitto sociale che ne deriva inevitabilmente.

Il capitale è entrato così nei corpi, nelle coscienze e nell’immaginario della specie minandone la comunità possibile per perpetrare, come lo xenomorfo di Alien, unicamente la propria.


  1. L. Crescenzi, Introduzione a E.T.A. Hoffmann, Notturni, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 12-13.  

  2. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi editore, Torino 1968, p. 71.  

  3. K. Marx, op. cit., pp.74-75.  

  4. G. Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano 1993 cit. in A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing, Brescia 2022, p. 111.  

  5. A. Caronia, op. cit., p.112.  

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Nel 1899 naviga un piroscafo lisergico e mostruoso https://www.carmillaonline.com/2023/02/21/nel-1899-naviga-un-piroscafo-lisergico-e-mostruoso/ Tue, 21 Feb 2023 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76222 di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e [...]]]> di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e il progresso si celano il buio e l’orrore. Ecco che, proprio in quegli ultimi lembi di Ottocento, nel 1897 vede la luce “Dracula” di Bram Stoker, in cui il mostruoso vampiro proveniente dai desolati confini dell’“impero” si reca a Londra, nel cuore economico di quello stesso “impero”. Ecco che, spesso, dietro ai viaggi dall’Inghilterra verso Oriente narrati da Joseph Conrad come, ad esempio, in “Il negro del «Narciso»” – romanzo uscito sempre nel 1897 – si celano la malattia e l’orrore.

Questa dicotomia e questa dialettica sono assai presenti anche nella serie TV Netflix, 1899 (2022, otto episodi di un’unica stagione) di Baran Bo Odar e Jantje Friese. L’azione narrativa si svolge su un piroscafo in viaggio tra l’Europa e l’America sul quale i passeggeri, com’era uso all’epoca, sono rigorosamente divisi in classi. Ci sono i ricchi di prima classe e i poveri di terza, prevalentemente migranti. Il piroscafo, emblema del progresso e della velocità del nuovo secolo che sta per arrivare, fin dalle prime puntate, possiede una marcata connotazione mostruosa: oscuro, gigantesco, con enormi fumaioli dai quali esce perennemente fumo nero proveniente dal suo ventre infernale, la sala macchine, dove i fuochisti sono costretti a lavorare in condizioni ai limiti dell’umano. La nave porta un alone di mostruosità anche nel suo stesso nome, “Kerberos”, che rimanda al guardiano infernale presente nella mitologia antica e nell’Inferno dantesco, un mostruoso cane a tre teste. Se nelle prime puntate la narrazione sembra poggiare su un impianto – se così si può dire – ‘tradizionale’, successivamente subentrano degli spunti narrativi che la trasformano in qualcosa che mai ci saremmo aspettati. Senza spoilerare troppo, si potrebbe affermare che 1899 possiede due film in uno: il primo, prevalentemente di carattere storico, horror e thriller; il secondo di carattere fantascientifico. Gli spazi della nave si configurano come un labirinto dalle connotazioni quasi kafkiane: se all’inizio si potrebbe pensare di trovarci sulla nave di Amerika (postumo, 1927) di Franz Kafka, dove il giovane Karl Rossmann non riesce più a ritrovare la via giusta, successivamente quel labirinto kafkiano si trasforma in un universo virtuale in cui i ‘pixel’ iniziano a spostarsi e a decostruirsi distruggendo passaggi o creandone di nuovi.

Perché – e mi si perdonerà questo spoiler, ma è funzionale a quanto voglio dire – nella seconda parte della narrazione i personaggi, lentamente, capiranno di trovarsi in un mondo virtuale. Se, come scrive Franco Moretti, due ‘classici’ del terrore come Frankenstein di Mary Shelley e Dracula, “sono romanzi in cui la realtà funziona spesso secondo le leggi che governano i sogni”1 sembra che in molto cinema e in molti prodotti per la televisione contemporanei, al sogno, si sostituisca la realtà virtuale a partire, diciamo, da Matrix (The Matrix, 1999) di Lana e Lilly Wachowski. Un altro film incentrato sulle doppie realtà, una virtuale e una reale e sulla necessità di ‘svegliarsi’, da parte dei personaggi, per vedere il mondo reale, è anche l’oscuro e intrigante Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, del 1999 come Matrix) di Josef Rusnak. E allora, in molto cinema contemporaneo – parafrasando Moretti – la realtà funziona secondo le leggi che governano i mondi virtuali creati da fantomatici ‘manovratori’, spesso in intricati giochi di scatole cinesi per cui non si capisce fino in fondo quale sia la ‘vera’ realtà. A monte dell’idea degli universi virtuali creati per mezzo di un computer c’è un archetipo classico come il mito della caverna di Platone che, nella serie TV, viene anche direttamente citato.

Ecco che la nave di 1899, da buona eterotopia (secondo Foucault, infatti, la nave è “l’eterotopia per eccellenza”, cioè lo spazio altro per eccellenza)2 può sovrapporre, in un unico luogo reale, spazi che sono anche molto diversi tra loro3. Attraverso misteriosi passaggi dimensionali, i personaggi si ritrovano in luoghi svariati e, comunque, estremamente diversi dallo spazio navigante circondato dall’Oceano: lande ghiacciate, paesaggi montani desolati oppure luoghi legati al loro doloroso passato. D’altra parte, nella serie, incontriamo una presenza iperbolica e francamente eccessiva di questi passaggi dimensionali i quali, talvolta, conducono anche a sviluppi non sempre comprensibili della trama. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che gli autori di 1899 sono anche quelli di Dark (2017-2020, 3 stagioni per 26 episodi), una serie TV incentrata sui viaggi nel tempo che avvengono, appunto, mediante un apposito varco dimensionale localizzato nella misteriosa cittadina tedesca di Winden.

Fra i luoghi che incontriamo una volta imboccate le porte dimensionali, particolarmente interessante è la clinica psichiatrica del padre della protagonista, la dottoressa Maura Franklin, che è anche il proprietario della compagnia di navigazione alla quale appartiene il “Kerberos”. Dietro i muri della clinica, i personaggi scoprono le nere e tetre fiancate della nave: quest’ultima appare perciò strettamente associata all’universo della follia. Allora, non si può non pensare nuovamente a Foucault e alla sua Storia della follia nell’età classica, nel momento in cui lo studioso descrive l’usanza rinascimentale – che molta fortuna avrà nell’arte letteraria e figurativa – tedesca (come gli autori della serie TV) della “nave dei folli”: affidare i folli alla massa oscura dell’acqua4. Tra l’altro, sempre secondo Foucault, la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”5. Chi altri sono quei personaggi intrappolati sul “Kerberos”, in mezzo all’Oceano, se non dei ‘folli’ alla deriva dal mondo roccioso della ragione? Tra l’altro, il racconto mette in gioco anche il tema del doppio: il “Kerberos”, infatti, si imbatterà in un suo inquietante doppio andato alla deriva, il “Prometheus” sul quale, in una lisergica esplosione musicale di White Rabbit dei Jefferson Airplane (e la colonna sonora è indubbiamente un punto a favore di 1899), verrà ritrovato un bambino misterioso in possesso di una piccola scatola a forma di piramide.

Inutile dire che, anche nel mondo virtuale del piroscafo “Kerberos”, domina la logica spietata del Capitale. I passeggeri di terza classe appaiono come i prigionieri dei più bassi interstizi della nave, solo un gradino più alto della manovalanza maledetta e condannata dei fuochisti. Intrappolati nei loro alloggiamenti separati dal resto della nave da un cancello chiuso a chiave, se solo osano avventurarsi negli eleganti saloni della prima classe, vengono ricacciati dentro il loro inferno in malo modo. Ognuno, sulla nave, sembra condannato a rivestire il suo ruolo in una specie di eterno presente, quello forgiato dalle logiche capitalistiche. D’altra parte, gli stessi ricchi di prima classe, colpiti da una misteriosa epidemia di trance, quasi come zombie si dirigeranno in fila indiana fino sul ponte della nave per poi gettarsi in mare e, come zombie, macchine asservite al Capitale, sono tratteggiati anche i già nominati fuochisti, costretti a gettare incessantemente il carbone nelle caldaie per far correre la nave mostruosa verso un progresso che assomiglia sempre di più ad una prigione. Perché vie d’uscita non ce ne saranno, né nuove sponde e neppure nuovi futuri (e non svelerò davvero l’esplosivo finale): il piroscafo, come un inquieto “Olandese volante” della Rivoluzione industriale, come il vascello dannato del Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe, è solo una truce macchina nomadica lanciata verso gli inferni del mondo irreale nel quale ci stiamo perdendo.


  1. F. Moretti, Dialettica della paura, in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, febbraio 1978, p. 97. 

  2. cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine, 2001, p. 31. 

  3. cfr. ivi, p. 27 

  4. cfr. Id., Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978, p. 26. 

  5. Id., L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74. 

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Dalla Narodnaja volja a Superman https://www.carmillaonline.com/2020/12/09/da-narodnaja-volja-a-superman/ Wed, 09 Dec 2020 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63788 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il filisteo: lo Stato e l’Io». (Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!» (Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il
filisteo: lo Stato e l’Io».
(Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!»
(Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità” (Bompiani 2014), in cui si ipotizza che il motivo dell’affermazione della nostra specie sulle altre sia dovuto, sostanzialmente, alla capacità di produrre realtà intersoggettive, capaci di funzionare da collante per gruppi molto grandi di individui. Realtà “inventate”, cui solo gli uomini come specie possono credere (religione, denaro, Stato, diritto e diritti, solo per citarne alcune), ma che allo stesso tempo si sono trasformate in realtà oggettive o, almeno, in forze produttive reali.

Tema particolarmente caro ai redattori di Carmilla, quello dell’immaginario collettivamente condiviso costituisce un territorio troppo spesso relegato a fattore secondario dello sviluppo sociale e delle leggi che ne regolano il funzionamento. In ogni epoca storica e in ogni fase del cammino dell’Umanità. Una riduttivistica lettura in chiave volgarmente marxista ed economicistica l’ha infatti ridotto a mera sovrastruttura di una struttura portante basata su rapporti di produzione determinati esclusivamente dall’economia e dalla gestione delle necessità da questa pre-detefinite. Dimenticando che per far sì che queste strutture funzionino è necessario che il gruppo sociale ne condivida, intimamente e soggettivamente oltre che collettivamente, principi e finalità. E non dimenticando, neppure, che anche le necessità sono frutto non solo di bisogni materiali, ma anche di un immaginario condiviso.

E’ chiaro come al centro di questi principi condivisi risieda quello del potere e della sua gestione, sia esso di carattere monarchico o elettivo oppure ancora dittatoriale.
Problema non di certo recentissimo se si pensa che già, nel XVI secolo, Étienne de La Boétie poteva chiedersi:

Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. E’ cosa veramente sorprendente – e pur tuttavia così comune che c’è più da dolersene che da stupirsene – vedere milioni di uomini miseramente asserviti, il collo piegato sotto il giogo, non perché costretti da una forza più grande ma soltanto, sembra, perché incantati e affascinati dal solo nome di uno di cui non dovrebbero temere la potenza […]1

Domanda e ipotesi poi rafforzata da David Hume che, nel 1741, nel suo saggio Sui primi principi del Governo, affermava:

Nulla appare più sorprendente, a chi consideri le cose umane con occhio filosofico, della facilità con cui i molti vengano governati dai pochi, e dell’implicita sottomissione con cui gli uomini rinunciano ai loro sentimenti e alle loro passioni per quelle dei loro governanti. Quando ci chiediamo attraverso quali mezzi si realizzi questo prodigio, troviamo che, essendo la forza sempre dalla parte di chi è governato, chi governa non ha nulla a proprio sostegno se non l’opinione. Pertanto è sull’opinione soltanto che si fonda il governo; e questo principio si estende tanto ai domini più dispotici e militari, come a quelli più liberi e popolari.2

Preludio, infine, a quello stato di minorità volontario di cui avrebbe parlato Immanuel Kant, nel suo Che cos’è l’Illuminismo?, circa quarant’anni dopo, nel 1784.
Mi scuso con i lettori, e con l’autore, per la lunga passeggiata tra i filosofi del XVI e XVIII secolo, ma questa era necessaria per ricollegare le osservazioni iniziali al libro di Gabutti di cui qui si parla, poiché l’autore riporta il problema all’interno dell’epoca moderna, con una lunga cavalcata che a partire dal Palais Royal di fine Settecento, passando per i nichilisti russi, Dostoevskij e Nietzsche giunge fino al ‘900 delle dittature, delle grandi utopie trasformate in incubi e, ancora, alla narrativa popolare di Edgar Rice Burroughs, creatore di Tarzan, ai fumetti della DC Comics con Batman e Superman a farla da padroni e, successivamente, a quelli degli Avengers e di Spiderman della Marvel.

Sono i due, tre secoli in cui è più forte la spinta verso l’affermazione della capacità del singolo individuo, o del manipolo di eroi (organizzati bolscevicamente in Partito oppure in banda dai poteri sovrumani) di cambiare il mondo, distruggendo quello che lo precede o già contiene oppure, molto più prosaicamente, riformarlo eliminandone i cattivi e gli indesiderati guastafeste (Batman contro il Joker, Lenin contro il capitalismo mondiale, Stalin contro gli anarchici e i fascisti, la Lorenzin, oggi Speranza, contro i NoVax, i fascisti e i populisti contro tutti).

E’ una lettura non priva di rischi quella che Gabutti propone al pubblico, ma, sicuramente adatta a vangare e a rivoltare un terreno troppo spesso ricoperto dalla melma dell’ideologia. Ideologia che, troppo spesso, è ancora figlia di una “Rivoluzione” borghese che ha promesso di cambiare radicalmente il mondo senza mai davvero volerlo o poterlo fare. Una promessa o una speranza riposta in individui, di cui i supereroi, buoni e cattivi, non sono altro che le proiezioni popolari e semplificate, che pur Amadeo Bordiga, nel testo citato in epigrafe aveva già liquidato quasi settant’anni fa.

Individui, comunque e sempre, dai ‘trogloditi’ russi3 a John Lennon4, inadatti a cavalcare i movimenti sociali, quasi sempre sotterranei e profondi, che li ispirano. Così, quello di mantenere le cose come sono, se non addirittura peggiorarle, attraverso la promessa di cambiarle per mezzo di un eroe e della sua volontà, rispettando naturalmente la volontà del popolo, è il prodotto di un’epoca, iniziata con l’avvento della macchina e del vapore, preludio di ogni altra energia a venire (da quella elettrica a quella nucleare), che hanno contribuito come pochi altri fattori a ridurre a scarto la volontà e la capacità d’azione dell’individuo. E che proprio di questa impotenza, individuale e collettiva, costituisce l’immagine specularmente rovesciata.

Ecco allora l’individuo, figlio del libero arbitrio cristiano e dell’illusione democratica liberale, che con la bomba e il terrore, oppure indossando le mutande sugli abiti, come ogni buon supereroe, si illude, ma soprattutto illude il singolo oppure le masse che la “libertà” (altro termine fantasmagorico) sia a portata di mano (oppure di pistola, di manganello, di coltellaccio da decapitazione, come negli horror movie prodotti dall’Isis, o qualsiasi altro strumento legato all’uso della forza).

Gabutti proprio non vorrebbe essere accostato ai marxisti (al massimo, ma con distaccata ironia, a Bordiga) eppure come non cogliere in una celebre lettera di Karl Marx a Kugelmann il principio e il motore delle sue riflessioni?

Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stato possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti se ne potessero un tempo costruire in un secolo5

Peccato, ci sarebbe da aggiungere, che anche quello che dovrebbe essere l’affossatore “naturale” della classe al potere ci creda altrettanto e forse di più. In un’epoca in cui si sono aggiunti il cinema, la radio, i comics, la tv, internet, i social e tutti i loro infiniti derivati. La rivolta luddista corre nelle immagini della serie infinita di film dedicati a Terminator e Skynet e la paura delle macchine si ribalta, poi, ancora in fiducia nelle stesse e nel loro utile e sano uso per tramite delle app suggerite dal governo, sia per contrastare la diffusione del Covid che per il cashback e le sue lotterie natalizie. Così dal teatro pedagogico di Bertold Brecht si è passati alle influnencer “impegnate” alla Chiara Ferragni, ma in un’epoca di mass-media il passo tra i due è stato probabilmente sempre molto breve.

L’emancipazione femminile passa attraverso l’immagine di Uma Thurman di Kill Bill 1 e 2, ma resta pur sempre in mano ad Hollywood e al movimento MeToo che ne è scaturito. Spettacolo nello spettacolo e dello spettacolo. Così, mentre anche a Guy Debord sarebbe iniziata a girare la testa, il Superuomo o Übermensch oppure ancor la Superdonna ne sono il prodotto diretto, così come lo era la creatura di Victor Frankenstein all’epoca dalla prima rivoluzione industriale.

Se, come sottolineava già Pirandello, è la vita a copiare dal teatro oppure, come ci ricorda Gabutti, i poeti tragici vennero raffigurati, già ne Le rane di Aristofane, come educatori del popolo che tenevano alto il modello da ammirare:

Otto e Novecento sono secoli in cui fiction e realtà coincidono quasi del tutto.
E una vertigine. Oscar Wilde, gli anarchici con la fissa della dinamite, Huck Finn e Tom Sawyer, Giuseppe Garibaldi, gli apaches parigini e quelli della frontiera americana, la Regina Vittoria, Madama Butterfly e la Creatura del Barone Frankenstein, Sandokan, lo stesso Nietzsche prima e dopo l’incidente di Torino: quando non sono letterati, sono personaggi letterari, e quel che fanno e sempre e soltanto letteratura e intrattenimento. Showbiz… «è tutta industria dello spettacolo», dirà poi William Burroughs, dadaista pulp. Un utopista che sale al potere, come Lenin in Russia in che cosa si distingue da Fu Manchu, un personaggio immaginario che la vede come lui e che, nella finzione romanzesca e cinematografica, agisce esattamente come gli utopisti agiscono nella realtà storica (smontando e rimontando il giocattolo a molla delle società umane: più libertà, più libero arbitrio… no, meno, di più, così è troppo, così troppo poco)?6

Del superuomo, o più precisamente di chi passa per tale, o semplicemente si richiama a questa spettacolare figura della modernità, si continua naturalmente a parlare. Non si parla, anzi, quasi d’altro. Perché il superuomo non e soltanto, come a volte capita di pensare, una presenza fissa nel nostro immaginario («anche filosofico», aggiunge il pedante). Causa che s’autopromuove – attraverso il cinema, come attraverso la politica e le religioni, ma che conquista spazio e audience soprattutto attraverso la sua eccezionale e finora ineguagliata natura camaleontica, grazie cioè alla sua capacità d’incarnare contemporaneamente la Tecnica che divora il mondo e il suo contrario, cioè la guerra per mare e per terra alla riduzione della vita a incubo chapliniano-orwelliano – l’Übermensch è un’ombra a lato dello sguardo d’ogni nostra esperienza storica recente. E l’abisso che ci restituisce lo sguardo ogni volta che ci affacciamo incautamente nel vuoto. E il fantasma che, come nell’incipit d’un manifesto rivoluzionario old style, infesta il castello della Zivilisation.
Ma non ne sono piu invasati gli avventurieri letterari, come nella belle époque, quando nel calderone della radicalità ribollivano insieme il sesso e la politica, il misticismo e il materialismo, l’impassibilità nichilista, la rivoluzione socialista (o quella conservatrice) e la poesia sfrenata come una danza sufi. Romanzieri e filosofi, artisti e poeti, hanno superato indenni le prove infernali che il XX secolo ha imposto a tutti quanti, persino ai chierici che in genere sgusciano fuori vista quando le cose si fanno difficili, ma non hanno conservato il ruolo che avevano un tempo, quando gli amori di Lady Chatterley, gli inni londoniani al popolo dell’abisso, le imprese militari del Vate e quelle di Lawrence d’Arabia (la prima tarocca, la seconda non del tutto vera) galvanizzano il fan club del superuomo.
Tifosi del sesso libero, della bella morte, della rivoluzione purchessia, di destra o di sinistra è lo stesso, i tifosi dell’intellighenzia oltreumana e «immoralista», attivi soprattutto nell’interregno tra le due guerre mondiali, sciolgono le loro curve sud dell’apocalisse quando a nessuno è più possibile negare l’esistenza del lato oscuro e nichilista del tempo presente: una guerra terribile, uno spaventoso dopoguerra totalitario, seguito da un’altra guerra e da altre sventure. Succede esattamente come nei sixties americani dopo l’eccidio di Bel Air da parte della Famiglia Manson, ala satanista della controcultura. Niente più fiori nei capelli, basta con le svenevolezze e d’ora in avanti, ai concerti rock, nessuno si metta più nudo: prudenza.
E’ il momento in cui l’uomo potenziato, sospettando d’averla fatta troppo grossa, entra prudentemente (anche lui) in clandestinità, come se temesse le torce e i forconi degli abitanti del villaggio planetario, che da un momento all’altro, pensa, potrebbero decidere di dargli la caccia come a una Creatura delle dimensioni del Leviatano di Hobbes, o di Godzilla. Circospetto, sguardo a destra, sguardo a sinistra, questo Übermensch inesistente, simile per consistenza al cavaliere d’Italo Calvino, lascia la copertura metafisica (chiamiamola cosi) e si trasforma, per istinto di conservazione, in un personaggio immaginario, eroe e antieroe dei fumetti, del cinema, dei tabloid. Ma e una precauzione inutile, data la sua natura illusoria7.

Si avvicina Natale e il governicchio dei super-omuncoli vi costringerà a rimanere chiusi in casa più del dovuto e più di quanto vi sareste aspettati. Già solo per questo motivo il libro di Gabutti potrebbe rivelarsi una lettura provocatoria, intelligente e divertente, per sfuggire alle maglie di un quotidiano ormai profondamente addomesticato in ogni sua espressione. Una riflessione destinata, infine, a suggerire come la linea che divide l’utopia dalla distopia e la Storia dalla commedia o da un horror movie sia, quasi sempre, molto sottile.

«Non sono un socialista, sono un furfante» (Pëtr Stepanovič Verchovenskij, I demoni)

«Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace» (S. M., L’estate del 1964 o giù di lì e oltre)


  1. É. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1576), Edizioni Il Foglio, Milano 2018, p. 4  

  2. D. Hume, Essays, Literary, Moral and Political, ora citato in Murray N.Rothbard, Il pensiero politico di Étienne de La Boétie, Introduzione a É. De La Boétie, op. cit., p. XXXIX  

  3. Come «fu battezzato un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari della capitale che si distingueva per il fatto che nessun estraneo sapeva dove abitassero e sotto che nome vivessero. Perciò si disse che avevano trovato rifugio in segrete caverne», secondo Franco Venturi nel suo libro Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972  

  4. Übermensch involontario, al quale oggi, in occasione del quarantesimo anniversario della morte, i tg italiani attribuiscono la formazione dei movimenti pacifisti grazie alle sue canzoni Imagine e Give Peace a Chance  

  5. K. Marx, Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma 1976, lettera del 27 luglio 1871, 173  

  6. D. Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, pp. 96-97  

  7. D. Gabutti, op.cit., pp. 111-113  

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Giallo e Noir a Ravenna https://www.carmillaonline.com/2018/10/26/49355/ Thu, 25 Oct 2018 22:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49355 Parte oggi l’atteso festival del giallo e del noir italiani “Giallo Luna Nero Notte”, che da sedici anni si tiene a Ravenna. Quest’anno, oltre a incontri con gli autori Nadia Fusini, Alessandro Fabrizi, Francesca Bertuzzi, Mauro Baldrati, Alberto Cassani, Roberto de Luca, Riccardo Lantini, Fabio Mongardi, Danilo Arona (che presenterà insieme a Edoardo Rosati, la nuova collana Medical Noir dell’editore Ink), Hans Tuzzi, Luca Poldemengo, Franco Forte, Giancarlo de Cataldo, si terrà un convegno sul romanzo Frankenstein, apparso per la prima volta in forma anonima duecento anni fa, in occasione della pubblicazione della [...]]]> Parte oggi l’atteso festival del giallo e del noir italiani “Giallo Luna Nero Notte”, che da sedici anni si tiene a Ravenna. Quest’anno, oltre a incontri con gli autori Nadia Fusini, Alessandro Fabrizi, Francesca Bertuzzi, Mauro Baldrati, Alberto Cassani, Roberto de Luca, Riccardo Lantini, Fabio Mongardi, Danilo Arona (che presenterà insieme a Edoardo Rosati, la nuova collana Medical Noir dell’editore Ink), Hans Tuzzi, Luca Poldemengo, Franco Forte, Giancarlo de Cataldo, si terrà un convegno sul romanzo Frankenstein, apparso per la prima volta in forma anonima duecento anni fa, in occasione della pubblicazione della versione originale dall’editore Neri Pozza.

Inoltre si segnala la mostra dedicata a Franco Brambilla, uno dei principali illustratori di fantascienza italiani e creatore delle copertine di Urania. La mostra resterà aperta fino all’11 novembre alla biblioteca Classense, sala Muratori, in Via Baccarini 3.

La rassegna è organizzata dall’associazione culturale Pa.gi.ne, con la direzione artistica di Nevio Galeati.

Qui approfondimenti e dettagli.
Cliccare sull’immagine del programma per ingrandirla.

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Black Empusa. Füssli, la koiné degli incubi e il fantastico moderno (II) https://www.carmillaonline.com/2018/08/03/black-empusa-fussli-la-koine-degli-incubi-e-il-fantastico-moderno-ii/ Fri, 03 Aug 2018 21:03:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47723 di Franco Pezzini

Dalla Royal Academy al cinema

Fin qui alcune interpretazioni sul quadro L’incubo, con tutta l’ambiguità che presenta e le motivazioni non necessariamente consce (teniamo presente che Füssli non ha mai fornito commenti o riflessioni in merito). Mentre su un piano più evidente e diffusamente noto al tempo dell’apparizione del dipinto, il tozzo, pesante demone che comprime il torace della fanciulla evoca un’intera costellazione di disturbi fisici notturni associati al termine nightmare, dal peso/oppressione sul petto (per i più vari motivi), alla “sleep paralysis”, alla dispnea o fame d’aria, a [...]]]> di Franco Pezzini

Dalla Royal Academy al cinema

Fin qui alcune interpretazioni sul quadro L’incubo, con tutta l’ambiguità che presenta e le motivazioni non necessariamente consce (teniamo presente che Füssli non ha mai fornito commenti o riflessioni in merito). Mentre su un piano più evidente e diffusamente noto al tempo dell’apparizione del dipinto, il tozzo, pesante demone che comprime il torace della fanciulla evoca un’intera costellazione di disturbi fisici notturni associati al termine nightmare, dal peso/oppressione sul petto (per i più vari motivi), alla “sleep paralysis”, alla dispnea o fame d’aria, a vari tipi di terrori notturni (soffocamento, sensazione di essere schiacciati a morte o di subire violenza sessuale): realtà tradizionalmente associate alla presenza di spiriti “incumbentes” ma insieme note da secoli alla medicina. È molto probabile che il dipinto sia ispirato a esperienze concrete, se non direttamente del pittore almeno di testimoni dell’epoca: il visionario Füssli è colpito dal successo del tema nell’immaginario coevo (ne vedremo qualcosa) e attinge alla ricchezza visiva delle relative tradizioni folkloriche.

Nelle tavole di Füssli emerge una dimensione di straordinaria perizia tecnica, di maestria nella gestione di spazi e chiaroscuri, di efficacia teatrale delle figure (rinvio qui); si aggiunga la scelta di soggetti intensi nel frequente richiamo a opere letterarie notissime e influenti sul piano immaginale. Anche sul piano teorico il Nostro sosterrà del resto l’importanza per l’arte di esplorare l’ambito del sogno, associato alle personificazioni del sentimento e all’esaltazione dell’anima nella latitudine del Sublime (il vivere la realtà oniricamente di cui parla nel suo Aforisma 231); ma ciò che a quel punto epifanizza non è semplicemente una forte originalità nel modulare temi strani. La visione di Füssli spalanca abissi del subconscio, senza limiti o censure; la potenza onirica delle soluzioni flirta con l’allucinazione – non a caso verrà considerato precursore del simbolismo – e spiazza lo spettatore. I suoi quadri e a maggior ragione i bozzetti privati svelano visioni torbide e concitate, fremiti inquieti (e non di rado esplicitamente erotici, nel segno della predazione e proprio del sadomasochismo, forse in termini di sublimazione), spettri e fantasie fisse. Al di là del motivo pragmatico ed economico della popolarità riscontrata dal quadro The Nightmare, il fatto che prenda a riprodurlo continuamente con alcune varianti ma sostanziale unità tematica sembra echeggiare proprio sue personalissime ossessioni.

Non si entra qui nel merito della compresenza di elementi romantici e neoclassici, delle fonti artistiche cui Füssli possa essersi ispirato per il dipinto. Interessante può essere semmai il fatto che la cavalla spettrale non facesse parte del progetto originario, e viene a un certo punto felicemente inserita sull’onda di un’intera nebulosa di suggestioni.

Esposto per la prima volta nel 1782 alla Royal Academy di Londra, The Nightmare colpisce tutti, consacrando la gloria artistica dell’autore già in ascesa; e anche se viene venduto per sole 20 ghinee il tema incontra un successo straordinario. Del dipinto (oggi conservata al Detroit Institute of Arts) Füssli realizzerà poi come detto varie altre versioni, differenziandone i toni di colore e le luci: basti pensare alla bellissima versione verticalizzata e con la giovane volta a sinistra, 1790-91, conservata alla Goethe-Haus di Francoforte. Ma il soggetto resta sostanzialmente lo stesso e verrà continuamente riprodotto in forma di stampa, come quella trattane da Thomas Burke, 1783, che reca una poesia di Erasmus Darwin, Night-Mare,

 

Sulla mara della notte nella nebbia della sera

Tozzo il demone svolazza sopra il lago e l’acqua nera;

Lei che freme in sensi e sonno in tal modo va cercando,

E disceso le si asside sopra il seno sogghignando

 

e viene conservata alla Tate. Il contenuto viene anche ripreso in termini non meramente imitativi  in opere di una quantità di pittori e incisori, da Nicolai Abraham Abildgaard (1800, Vestjaellands Art Museum, Sorø) a Ditlev Blunck (1846, Nivaagaard Museum) e con mille altre versioni anche nella grafica odierna. Nonché frequentemente caricaturato in chiave di satira politica: come nello sfottò di Thomas Rowlandson contro il politico libertario Charles James Fox, The Covent Garden Night Mare (1784, Tate), o in altri contro il premier William Pitt, Lady Hamilton – con Lord Nelson come incubus a sovrastarla –, Napoleone o Luigi XVIII di Francia. Freud stesso possiederà una riproduzione del dipinto appesa nel suo appartamento a Vienna, e Jones ne sceglierà un’altra versione per la copertina del suo saggio sull’incubo.

D’altra parte l’impatto della scena raffigurata arriverà alla grande letteratura fantastica, e basta citare alcuni esempi emblematici di un’influenza tanto diffusa e profonda da rappresentare qualcosa di più del classico precedente con cui inevitabilmente fare i conti.

Dopo il matrimonio con la propria modella Sophia Rawlins (1788), Füssli è per un periodo amante della scrittrice, filosofa, pensatrice femminista inglese Mary Wollstonecraft, che gli propone una convivenza a tre. A seguito della – forse prevedibile – reazione della moglie, la relazione viene interrotta (1792): ma la figlia di Mary e di un altro conoscente di Füssli, William Godwin, cioè la futura Mary Shelley, troverà nel pittore uno dei riferimenti fondamentali per l’immaginario visivo del suo romanzo Frankenstein, 1818 (rivisto 1831), composto guarda caso dopo un incubo e ambientato nella stessa Svizzera patria del pittore. Un influsso non solo generale dell’opera füssliana un po’ in tutto il testo, con le sue figure estreme, ossesse e gesticolanti, ma anche specifico di The Nightmare in un paio di scene del capitolo sulla morte della sposina del protagonista. Con un’attenzione puntuale ai dettagli ancorché liberamente riutilizzati; e come l’incubus del dipinto di Füssli potrebbe virtualmente mirare a evitare il matrimonio dell’amata Anna con un altro uomo, così la Creatura di Frankenstein colpisce nel contesto della notte di nozze del suo creatore (anzi in qualche modo è lui a consumarla in via vicaria, togliendo il fiato alla ragazza come l’incubus alla dormiente). Come insomma mostrato in altra sede, intere pagine del romanzo costituiscono una sorta di lettura minuziosa e visionaria del quadro: quasi idealmente a costituirne la trasposizione letteraria. Considerando il peso del Frankenstein per l’immaginario occidentale, questo influsso anche indiretto del dipinto ne mostra la clamorosa importanza.

D’altra parte, nello stesso 1818, un carissimo amico di Percy Bysshe Shelley marito di Mary, cioè il narratore e poeta Thomas Love Peacock, coinvolge Percy come protagonista in una novella satirica dal titolo Nightmare Abbey: si tratta soltanto del nome di una tetra magione in un contesto goticamente comico, ma è impossibile non pensare all’icona di Füssli. Associato all’immagine dell’“abbey” – gli edifici diruti della Dissolution of the Monasteries oggetto d’infinite fantasie d’epoca tra suggestioni artistiche, riflessioni sul passato e sano turismo – il tema dell’incubo veicola una storia grottesca di innamoramenti all’insegna del gotico. Insomma, ancora lui, lei & l’incubo.

Una ventina d’anni dopo, Poe evoca The Nightmare nel suo capolavoro “The Fall of the House of Usher”, 1839, richiamando Füssli e l’incubus con un gioco di similitudini e metafore. La sua attrazione per il soggetto non stupisce: cita il tema anche altrove (per esempio in “La conversazione di Eiros e Charmion”) e in altri casi ne richiama implicitamente la dinamica (come nell’orango/incubus della “Rue Morgue”). Per quanto a colpire maggiormente Poe non sia l’orrore alla Füssli, il riferimento è comunque di notevole rilievo.

Ancora più avanti, la novella Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu, 1871-72, tornerà ad attingere al tema del quadro, stavolta nell’ambito di una suggestione vampiresca. Il gatto mostruoso che nello Schloss stiriano del racconto incombe su Laura – e che costituisce una trasfigurazione onirica dell’ospite vampira Carmilla – è sostanzialmente l’incubus di Füssli (soprattutto della versione 1790-91, dove presenta un aspetto vagamente felino). Non solo: in un altro quadro di Füssli che è una sorta di sequel del primo, L’incubo abbandona il giaciglio di due fanciulle dormienti, 1793 (lo vediamo a cavallo fiondarsi fuori dalla finestra: Zurigo, Muraltengut), ed esso pure poi declinato in diverse versioni (si veda per esempio quella a matita e acquerello su carta, Zurigo, Kunsthaus, 1810, dove le due ragazze sono nude), la condivisione del letto delle protagoniste, il loro aspetto provato e i seni all’aria della bionda ben si adattano al contesto di languori saffici della novella di Le Fanu. A traghettare insomma l’erotismo di The Nightmare anche verso ulteriori latitudini: il che però conferma l’importanza dirompente della suggestione.

Merita peraltro ricordare che in altro testo di Le Fanu, Green Tea del 1869, poi accorpato a Carmilla nella raccolta In a Glass Darkly, 1872, a tormentare un povero reverendo (un po’ come il pastore zwingliano Füssli?) è uno scimmiotto demoniaco che può far pensare all’incubus del quadro.

Nei casi di Frankenstein, “Casa Usher” e Carmilla il rimando è chiaro, diretto. Ma a ben leggere il contenuto, il dipinto torna anche nell’ultimo dei grandi titoli del gotico ottocentesco, Dracula di Bram Stoker: non solo perchè il vampiro maschio simil-stupratore in scena è parente stretto dell’incubus, ma perché il primo attacco a Lucy nel cimitero di Whitby sembra rifarsi ancora una volta alla dinamica del dipinto, e quello a Mina – parecchi capitoli dopo – ne sembra la trascrizione da parte della ragazza interessata. D’altra parte Dracula appare in libreria nel maggio 1897, e soltanto un mese prima si è avuta la scandalosa presentazione alla New Gallery di Londra di un altro quadro, The Vampire di Philip Burne-Jones, figlio del più celebre Edward e amico di Stoker, palesemente ispirato a The Nightmare. Si tratterebbe di una denuncia della femminilità predatrice, sulla scia delle ultime “rivelazioni” scientifiche (gli Charcot, Lombroso, Nordau guarda caso citati in Dracula – di nuovo il nesso tra fiction e studiosi della psiche); anche se pare che il dipinto adombri la relazione dell’autore con l’attrice Beatrice Stella Tanner, alias Mrs. Patrick Campbell, che all’epoca fa furore sul palcoscenico del famoso Lyceum di Henry Irving. Nel quadro vediamo un giovane dall’aria un po’ bohémien privo di sensi e di energie su un letto, con una macchia scura come una ferita a segnargli il costato, a riportare ai drenaggi pettorali (e non dal collo) associati nel folklore e in classici pre-stokeriani come Carmilla all’azione del vampiro. Dal petto, cioè ancora una volta a strappare il respiro/vita: e infatti a incombere sul giovane è una femme fatale (i figli della generazione preraffaellita come Philip sembrano guardare con estremo sospetto le dee evocate dai padri), mentre sullo sfondo è evidente la solita tenda/sipario. Un impianto insomma piuttosto teatrale; ma anche Stoker, impresario proprio al Lyceum, scrive con un occhio al teatro, ed è possibile che i due amici si influenzino reciprocamente con anticipazioni delle relative opere. Ancora una volta, insomma, nel segno di Füssli.

Se questi, e infiniti altri autori dell’Ottocento traghettano alla narrativa del fantastico la scena di The Nightmare, non stupisce a questo punto che la recuperi il cinema. Si pensi al primissimo Frankenstein di James Searle Dawley, 1910, dove la Creatura (Charles Ogle) appare da un tendaggio a incombere sull’inventore riverso, in una palese citazione; o al Frankenstein del 1931 con la sposina del protagonista riversa nella stessa posizione della fanciulla del dipinto e il Mostro/incubus occhieggiante dalla finestra (come peraltro nel romanzo). Fino alla scena del molto più tardo Gothic di Ken Russell, 1986, tutto costruito con un occhio alla pittura di Füssli e il Nightmare citato fin dalla locandina; e lì in una scena geniale è Mary Shelley (Natasha Richardson) coricata nel proprio letto a trovarsi addosso un nano mostruoso.

Leggiamola pure come vogliamo: ma The Nightmare innerva in termini diretti una quota importante della maggiore letteratura fantastica di lingua inglese – e si potrebbe trovarne traccia anche nelle esperienze letterarie di altri paesi – con un peso che va ben oltre il “normale” successo di un tema artistico, svelando una potenza immaginale di vero e proprio mito. Capace, attraverso quelle opere eccellenti, d’influire a cascata sul fantastico successivo.

[2-Continua]

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Gotici per le feste https://www.carmillaonline.com/2017/12/09/gotici-per-le-feste/ Sat, 09 Dec 2017 22:10:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42035 di Franco Pezzini

(Dell’autore di questa rassegna è uscito da poco in libreria Fuoco e carne di Prometeo. Incubi, galvanisti e Paradisi perduti nel Frankenstein di Mary Shelley, per i tipi Odoya, Bologna 2017.)

Il lettore che nel periodo successivo all’11 marzo 1818 nota sul bancone del libraio un’opera fresca di stampa di cui ha letto alcune recensioni, non può immaginare che quel romanzo, tirato da Lackington, Hughes, Harding, Mavor, & Jones nel modesto numero di cinquecento copie, sia destinato a cambiare parecchie cose nell’immaginario collettivo. Sul termine “fresca di stampa” dobbiamo intenderci, perché materialmente il volume è uscito dalla tipografia [...]]]> di Franco Pezzini

(Dell’autore di questa rassegna è uscito da poco in libreria Fuoco e carne di Prometeo. Incubi, galvanisti e Paradisi perduti nel Frankenstein di Mary Shelley, per i tipi Odoya, Bologna 2017.)

Il lettore che nel periodo successivo all’11 marzo 1818 nota sul bancone del libraio un’opera fresca di stampa di cui ha letto alcune recensioni, non può immaginare che quel romanzo, tirato da Lackington, Hughes, Harding, Mavor, & Jones nel modesto numero di cinquecento copie, sia destinato a cambiare parecchie cose nell’immaginario collettivo. Sul termine “fresca di stampa” dobbiamo intenderci, perché materialmente il volume è uscito dalla tipografia a Capodanno: ma è vero che nei primi due mesi, e nonostante un certo movimento (rilascio di esemplari, consegna di quelli per il copyright, invio ai giornali o a scrittori amici, e naturalmente alle librerie), non sembra filarselo quasi nessuno, e solo a marzo la novità editoriale inizia ad avere il botto di recensioni. Se ne parla su “La Belle Assemblée, or Bell’s Court and Fashionable Magazine” e “The Edinburgh Magazine and Literary Miscellany; A New Series of ‘The Scots Magazine’” in date non specificate del mese, sul “Blackwood’s Edinburgh Magazine” (con la recensione di Walter Scott) il 20 marzo a Edimburgo e il 1° aprile a Londra, su “The British Critic”, “The Gentleman’s Magazine” e “The Monthly Review” in date non specificate di aprile… Al punto che ottime edizioni (Oxford World’s Classic, University Chicago Press…) lo danno per edito decisamente nel marzo o aprile, e magari proprio il citato 11 marzo. In realtà sarebbe bizzarro perché in quella data la famiglia dell’autore – anzi autrice, che ovviamente ha voluto vedere l’avvio editoriale – chiude le borse per partire verso il Continente, imbarcandosi il giorno dopo a Dover per Calais: ma la data che associa alla partenza resta simbolicamente significativa e di svolta. Nel libro, Frankenstein di Mary Shelley (ancora coperta da un pudico anonimato), la Creatura, dopo una fase di vita defilata, inizia a colpire in assenza e anzi a notevole distanza geografica dal suo creatore; ma anche il romanzo, dopo il primo periodo defilato, dopo l’11 marzo inizia a “colpire” in assenza e a notevole distanza dalla sua autrice. A colpire i recensori, i lettori da loro indirizzati a quelle pagine, gli uomini di teatro che si approprieranno dell’opera iniziando a trasformarla…

Se insomma oggi – a dirla in linguaggio mutuato dalla liturgia – natale ed epifania di un romanzo devono essere estremamente ravvicinati (se no, si dice, non “funziona”), ciò non è sempre stato vero: e possiamo ben festeggiare entrambi i prossimi bicentenari del Frankenstein, il 1° gennaio e poi in marzo – magari il simbolico 11 –, per il loro rispettivo peso. Iniziando magari a (ri)prenderlo in mano con occhi (il più possibile) vergini: come tutti i romanzi assurti a mito, il capolavoro di Mary Shelley è infatti più conosciuto per i suoi derivati (soprattutto, ma non solo cinematografici) che per i contenuti, e il rischio è di leggerlo col pregiudizio delle pur geniali trasposizioni, che però restano molto libere.

A badare a cosa l’autrice realmente scrive, scopriamo che la Creatura non assomiglia se non in minima parte al “Mostro” dell’immaginario collettivo; che il modo di costruirla e persino l’attrezzatura hanno ben poco a che vedere con le straordinarie apparecchiature steampunk cui siamo abituati; ma soprattutto che il senso dell’apologo non è affatto quello un po’ reazionario e ostile alla scienza che il nome Frankenstein evoca all’uomo della strada. In scena è una grande metafora sulla responsabilità, a ogni livello: a partire da quella verso le creature che nella nostra cerchia di rapporti “costruiamo” e nutrono legittime attese verso di noi. Ma il senso voluto da quella riflessiva, un po’ ribelle, affascinante ragazzina (ricordiamo che i personaggi principali del romanzo, Creatura compresa, sono poco più che adolescenti) nutrita di istanze libertarie si allarga ad abbracciare dimensioni sociali, politiche… Quello dunque della scienza è soltanto uno dei campi interessati: importante, certo, ma senza le implicazioni pavide che infinite banalizzazioni hanno rovesciato su una grande storia d’amore – Victor è anzitutto il partner amatissimo e nevrotico, ammirato e criticato, Percy Bysshe Shelley – e di dolore. Come in genere i capolavori della letteratura, Frankenstein non è insomma un romanzo a tesi, ma una macchina per pensare dove precipitano conati d’angoscia, frustrazioni, fantasmi personalissimi dell’autrice e generalissimi di un mondo.

Il bicentenario ovviamente ha già iniziato a impattare sull’editoria anche in Italia. Se meriterebbe proporre una versione del Frankenstein 1818 – cioè la prima, più ruvida e ribelle, e con alcune significative divergenze rispetto a quella definitiva e levigata 1831 generalmente presente nei cataloghi – già sono apparsi vari testi nuovi o si annunciano riedizioni di altri proposti, sia in tema Frankenstein che più in generale sull’autrice.

Fin da settembre è per esempio approdato in libreria a firma di Adriano Angelini Sut il buon saggio divulgativo – non è una dequalificazione, c’è bisogno di buona divulgazione – Mary Shelley e la maledizione del lago (Giulio Perrone, Roma). Vi si presenta con qualche concessione alla docufiction (in dialoghi ipotetici) il momento genetico di Villa Diodati e, come un’ombra, ciò che seguirà nel tessuto delle vite coinvolte, fino alla morte dell’autrice (1851) e oltre. Un teatro di figure carismatiche che non a casa ha dato la spinta a vari film e porzioni di sceneggiati TV per l’intensità delle passioni coinvolte.

È poi appena comparso in novembre il romanzo ultimo di Mary Shelley, Il segreto di Falkner (Falkner, molto ben curato da Elena Tregnaghi, Postfazione di Elisabetta Marino, nella collana I grandi inediti diretta da Giorgio Leonardi, Edizioni della Sera, Roma 2017). Datata a quel 1837 anno di avvio dell’età vittoriana, l’opera rappresenta dunque in qualche modo una cerniera ideale tra due mondi che in quel momento ancora inavvertitamente si compenetrano. Protagonista della storia drammatica (non propriamente gotica, ma certo a tinte forti) è una ragazza coraggiosa, Elizabeth, cui Mary – che non si ritrova più nel radicalismo dei suoi giorni verdi, ma combatte per valori cui non ha abdicato – dona evidentemente parecchio di sé. Il romanzo merita senz’altro una riscoperta.

 

Che, al di là degli anniversari specifici, il gotico appaia un linguaggio molto più congruo ai nostri tempi di quanto spesso si creda – con le impennate e gli eccessi, ma anche le provocazioni più sottili, e quella cartapesta di un teatro che può inscenare istanze serissime – ricomincia a venire intuito anche a livello collettivo. È di lì in fondo, dal seminale Castello d’Otranto (1764), che nascono i generi moderni: e se AD 2017 non siamo ancora nella fase ascendente di quei picchi trentennali di successo gotico che hanno connotato il Novecento per il traino del cinema, e potrebbero riproporsi nel nuovo secolo (trentennali, cioè guarda caso della durata di una generazione, quasi a suggerire che si tratti di un linguaggio di “iniziazione” immaginale, una sorta di rito collettivo di passaggio) fin d’ora soprattutto i piccoli editori brillano per attenzione. Merita dunque anche da questo punto di vista visitare le manifestazioni a loro dedicate, come la romana Più libri più liberi aperta in questi giorni.

Qualche testo lo si è citato, ma in realtà non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per dire, Beat di Milano ha ripubblicato mesi fa a cura di Sergio Marconi Il vecchio barone inglese di una delle prime Madri gotiche antesignane di Mary Shelley, cioè Clara Reeve (1777 come The Champion of Virtue, 1778 col titolo più noto The Old English Baron), giunto qualche anno dopo la birichinata grottesca e onirica di Walpole e invece orribilmente serio. Che pure merita la rilettura, tanto più che è il vero battistrada per il successivo gotico “di consumo” ma anche per una serie di romanzi ben altrimenti brillanti, a partire da quelli di Ann Radcliffe. L’attivissima Nova Delphi di Roma ha riproposto invece quel testo incompiuto di grande fascino che è Il visionario di Friedrich Schiller (Der Geisterseher, 1789), nella traduzione classica di Giovanni Berchet (1838), magnificamente curato da Fabio Camilletti (già curatore nel 2015 per Nova Delphi del Fantasmagoriana letto a Villa Diodati) e dall’illusionista e scrittore Mariano Tomatis, fautore di una magia militante e dalle vivaci iniziative (si rinvia senz’altro al suo sito): una macchina per pensare sul tema di quell’illusione che si fa anche motore politico, come in fondo vediamo in azione fino agli ultimi (ma purtroppo non ultimi) epigoni nell’Italietta berluschina renzina grillina.

Però anche sul terreno della saggistica, su gotico e affini brillano uscite di grande interesse. Odoya ha appena edito – 30 novembre 2017 – una sontuosa Guida al grottesco, a cura di Carlo Bordoni e Alessandro Scarsella (contributori assieme a Susanna Becherini, Francesco Galluzzi, Riccardo Gramantieri, Patrizia Magli, Giuseppe Panella), che ovviamente impatta sulla materia in discorso per aprire a sviluppi poi autonomi. Tra Rabelais, Bosch e Arcimboldo, Hugo (firmatario del “Manifesto del grottesco” in appendice, 1827) e Browning, freaks e mascherate, l’opera è un intero, trasversalissimo canto – letteratura e arti visive, filosofia e spettacolo – al “sublime orrorifico”. Già indicativo l’indice, che dopo un paio di capitoli introduttivi dei curatori vede articolare il discorso nei suoi richiami storici (mondo antico e via via fino al barocco e poi alla modernità), nelle forme diversificate di singoli ambiti (allegoria, maschere e carnevale, fiaba, circo, Grand Guignol, cinema…), nelle connotazioni che associamo al termine (eccesso, disarmonia, rovesciamento della realtà, deformità fisica, oscenità…), ma anche in alcune specifiche figure (diavoli, vampiri, fantasmi, mostri assortiti…), con ovvio spazio al gotico e appunto al Frankenstein. “Il brutto e il grottesco ne hanno fatta di strada per farsi accettare, per uscire dal silenzio e dall’emarginazione” scrive Bordoni nell’introduzione: “finalmente sono entrati a pieno titolo nelle forme riconosciute dell’espressività umana e si sono conquistati, a buon diritto, il posto che compete loro nell’estetica, nella storia della letteratura e dell’arte, al punto da giustificare una Guida al grottesco”.

Qui il tema era visto col grandangolo, ma non mancano uscite più settoriali. Quodlibet di Macerata ha per esempio presentato nel 2017 un affascinante studio di Alessandro Botta, Illustrazioni incredibili. Alberto Martini e i racconti di Edgar Allan Poe, sull’opera dello scrittore moderno che può griffarsi del titolo di “più illustrato”. L’incontro postumo dell’Americano Maledetto – per cui l’etichetta di gotico non è certo inappropriata, pur con tutte le specificazioni che la critica suole recare – con il grande illustratore trevisano Alberto Martini (1876-1954) vede produrre la meravigliosa, imponente serie di tavole qui raccolte: tavole visionarie, alcune notissime (ma che nella completezza di un itinerario assumono un senso assai più ricco) e altre conosciute in genere soltanto dai cultori, con un commento sull’itinerario dell’artista.

Gli editori grandi riservano al gotico (e dintorni) attenzioni istituzionali senza grosse sorprese, anche se qualche eccezione è significativa. Come il monumentale volume (754 pp.) appena edito dal Saggiatore delle Lettere di Edgar Allan Poe, a cura di Barbara Lanati: un corpus che corre dal 1824 (Poe quindicenne sottoscrive una richiesta al governatore della Virginia dei Giovani Volontari di Richmond per poter trattenere in custodia le armi loro affidate durante il trionfale passaggio del vecchio La Fayette negli States) al fatale 1849 (tre lettere vergate una ventina di giorni prima della morte). Un volto cangiante di maschera in maschera, come ignoto a se stesso (a voler richiamare il titolo di una vecchia mostra torinese su ritratti fotografici di scrittori proposta da Sciascia, 1987, e del relativo catalogo edito da Bompiani, Ignoto a me stesso, che poneva proprio Poe in copertina), tra disvelamenti ed autofiction, drammi autentici e teatro, dove lo scarto sfuggente, continuo obbliga il lettore a porsi continue domande, e insieme panoramica (ancora una volta elusiva) sul dietro-le-quinte di una produzione che troppo spesso si presume nota.

Si citava Ann Radcliffe: che per inciso figura come protagonista di un geniale, scatenato, ironico controcanto al gotico di uno dei padri del feuilleton, Paul Féval, cioè La città vampira o la sventura di scrivere romanzi gotici (La Ville Vampire, 1875). La scrittrice vi è immaginata in missione nei Balcani per aiutare amici nei pasticci: e in un contesto grottesco, pirotecnico e onirico da delirio acido dovrà fronteggiare vampiri che si sdoppiano, si trasfondono o si moltiplicano come entrando e uscendo da specchi, fino alla loro città babelica, folle come in una visione di Moreau e “superba sotto la maledizione di Dio, [che] viene chiamata Selene, […] nome greco della luna”. Ora, questa edizione con prefazione di Claudia Salvatori e tradotta magnificamente da Massimo Caviglione (anche nei tascabili, per favore, dateci più spesso professionisti del genere) è apparsa sì per un grande editore, Mondadori, ma solo in edicola all’interno di un volume curato da Giuseppe Lippi, Cerimonie nere (che comprende anche altri due gioielli horror, Il villaggio nero di Stefan Grabinski e La cerimonia di Laird Barron). Solo in edicola – quindi sparito subito – e come ultimo volume della serie Urania Horror, che avrebbe meritato ben maggiore visibilità di quella in effetti concessa (il che non va inteso in alcun modo come polemica con Lippi, che merita riconoscenza sempiterna per la sua opera a favore del fantastico e del gotico in Italia). Urge recuperarlo in qualche collana da libreria.

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Il golem di Victor, come venne al mondo (Nightmare Abbey 9) https://www.carmillaonline.com/2016/06/18/golem-victor-venne-al-mondo-nightmare-abbey-9/ Fri, 17 Jun 2016 22:02:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31234 di Franco Pezzini

Il golem di Victor 6[“Cominciato la mia storia di fantasmi dopo il tè”, scrive nel proprio diario alla data 18 giugno 1816 John William Polidori: e ai giorni immediatamente precedenti risale la famosa sfida letteraria idealmente a monte del fantastico moderno. Duecento anni dopo la fatale vacanza a Villa Diodati si propone qui un brano dai testi di ‘TuttoFrankenstein’, un ciclo di incontri a Torino sul romanzo di Mary Shelley conclusosi appropriatamente nella serata del 17 giugno: il passo qui commentato riguarda la scena del destarsi della Creatura. Per [...]]]> di Franco Pezzini

Il golem di Victor 6[“Cominciato la mia storia di fantasmi dopo il tè”, scrive nel proprio diario alla data 18 giugno 1816 John William Polidori: e ai giorni immediatamente precedenti risale la famosa sfida letteraria idealmente a monte del fantastico moderno. Duecento anni dopo la fatale vacanza a Villa Diodati si propone qui un brano dai testi di ‘TuttoFrankenstein’, un ciclo di incontri a Torino sul romanzo di Mary Shelley conclusosi appropriatamente nella serata del 17 giugno: il passo qui commentato riguarda la scena del destarsi della Creatura. Per la traduzione utilizzo l’edizione Einaudi 2011.]

Fu in una cupa notte di novembre che vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un’ansia che assomigliava all’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti atti a infondere la scintilla di vita nell’essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva sinistra sui vetri e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; un ansito e un moto convulso le agitarono le membra.
Come descrivere le mie emozioni dinanzi a questa catastrofe, o come dare un’idea dell’infelice che, con cura e pene infinite, mi ero sforzato di creare? Le sue membra erano proporzionate, e avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra copriva a malapena la trama sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucente, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma questi pregi non facevano che rendere più orribile il contrasto con quegli occhi acquosi, che apparivano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano collocati, con la pelle grinzosa e le labbra nere e tirate.

È emozionante vedere questa pagina del manoscritto (sia pure in foto, sul sito Abinger papers, Dep. c. 477, fol. 21r, Bodleian Library, University of Oxford), con la grafia di Mary e le correzioni di Percy: da un punto di vista materiale il vero inizio del romanzo, come racconta Mary stessa nell’Introduzione all’edizione 1831. E con questo passo straordinario inizia l’avventura nel mondo dell’essere qui definito la “creatura” (“creature”): dove la stessa mancanza di un nome parrebbe indicativa di un rigetto. È un po’ come se Mary, figlia di una coppia innamorata con tutta la relativa fecondità emotiva, figlia di una madre morta per averla data alla luce, mostrasse il diverso stile di una nascita senza madre: non nel senso ovviamente dell’odierno dibattito sul gender, ma in quello simbolico “tradizionale” dei ruoli di padre e madre. Una nascita blasfema – un assemblaggio di pezzi morti, un anti-natale – nel segno dell’angoscia e non della gioia; un generare solo col cervello, con l’orgoglio e con quel senso di potere e normatività “paterna” al cui stile non sfugge Victor stesso (“Nessun padre avrebbe avuto diritto – ecco il termine – a una gratitudine così totale da parte dei figli come quella che io avrei meritato da loro”) e poi subito pronto a mutarsi in abbandono per delusione.
Consideriamo che il cap. V è rimasto quasi invariato dalla prima edizione 1818 (dove semplicemente si trattava del cap. IV), e soffermiamoci sui dettagli. Il tempo: una nascita in “una cupa notte di novembre”, anzi “l’una del mattino” in una notte livida di pioggia, a evocare cioè non un’alba simbolica ma un inizio nella notte fonda dell’anima. Le emozioni: “un’ansia che assomigliava all’angoscia”, ben diversa dai dolori del travaglio aperti però alla gioia. L’attrezzatura: “raccolsi attorno a me gli strumenti atti a infondere la scintilla di vita”, cioè in apparenza l’apparecchiatura leggera di pratiche galvaniche – sia pure fantasticamente reinventate, con batterie e forse muscoli animali collegati con cavi; e d’altronde in quel raccogliere gli strumenti sembra evocato il muoversi dei vecchi medici che radunano il necessario (bacinelle, forcipi, attrezzi per suturare) per far partorire in casa. La postura della creatura: che non sta affatto su fantastici letti steampunk, magari elevabili con funi e catene verso il tetto a ricevere l’energia del fulmine, mentre qui si parla di un “essere inanimato che giaceva ai miei piedi”. Cioè simbolicamente a terra per esserne tratto, un Adamo farlocco che è un coacervo di carni rabberciate, di ossa ficcate alla meglio, di parti anatomiche dilatate artigianalmente per semplificare il lavoro.
Sembra densa di valore simbolico anche quella candela che sta per spegnersi quando “vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; un ansito e un moto convulso le agitarono le membra”, come nel resoconto del famoso esperimento di Giovanni Aldini o in un risveglio traumatico da un incubo. Ed è allora che – tornando nuovamente al Genesi – “si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi” (3, 7): non Adamo e la complice, che però è anche compagna, aiuto e consolazione, ma il falso Adamo e il falso creatore, ciascuno abbandonato alla propria solitudine. Uno che apre occhi morti, l’altro che finalmente si rende conto, e vede sconvolto ciò che ha animato. Sì, membra proporzionate, e tratti scelti “in modo che risultassero belli”: ma la bellezza che per Victor è probabilmente ancora quella neoclassica ha dovuto fare i conti con la messa in macchina, con la pelle necessariamente ingiallita (e qui vengono in mente certe immagini di antichi volumi anatomici, Il golem di Victor 2come quella barocca della pelle di un cadavere appeso in mostra – testa, mani e piedi penzolanti dall’epidermide staccata – che funge da cartiglio per il frontespizio dell’Anatomia reformata di Thomas Bartholin, 1655) fin troppo tirata per coprire l’intreccio di muscoli e arterie da macchina anatomica di carne. Sì, capelli nerissimi e denti bianchissimi sembrano belli – quasi finti nel loro esser morti – ma rendono “più orribile il contrasto con quegli occhi acquosi, che apparivano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano collocati”: perché la vitalità degli occhi è andata perduta. E in quel viso “la pelle grinzosa e le labbra nere e tirate” sono – a dispetto della scelta di cadaveri dai tratti regolari – il frutto di cuciture, tensioni di muscoli assemblati come si può, e un inevitabile processo di degradazione dei materiali pur nelle migliori condizioni di conservazione.
Victor ha “lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato”, con un fanatismo assoluto e divorante, consumandosi: “ma ora che avevo finito, la bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore si riempì di orrore e di un disgusto indicibili”. Subito prima aveva considerato che i sentimenti umani sono persino più mutevoli dei casi della vita: ma in realtà, a ben vedere, era lui a non essersi guardato dentro, a non aver interpretato l’angoscia che provava, a non essersi domandato se stava fissando la bellezza o non piuttosto il buco nero d’orgoglio del suo sogno febbrile.
E ci torna alla mente il brano in cui parlava della propria infanzia: l’amore della coppia che si fa “vera e propria miniera d’amore” riversata su di lui, mentre qui il suo orgoglio lo rende affettivamente sterile verso quel figlio; “le tenere carezze di mia madre e il benevolo sorriso compiaciuto di mio padre quando posava lo sguardo su di me costituiscono i miei primi ricordi”, mentre qui all’armeggiare galvanico è seguito lo sguardo inorridito del padre come primo, potenziale ricordo della creatura; l’Eden familiare in cui per i genitori Victor è stato “il loro giocattolo e il loro idolo, e qualcosa di più – il loro bambino, la creatura inerme e innocente loro concessa dal cielo”, ma qui il cielo si è limitato a permettere la libertà di lui di costruirsi un giocattolo e un feticcio, un finto bambino (in realtà già adulto) che si rivelerà niente affatto inerme e perderà subito l’innocenza. Inevitabile dunque il paragone tra le due situazioni, di fronte a quest’atteggiamento anaffettivo del figlio/padre.
Ed è in questo istante di smarrimento che lo coglie una delle primissime immagini all’opera, quella del grande Theodor von Holst, il più prolifico illustratore inglese di romanzi tedeschi, dal frontespizio dell’edizione 1831: la Creatura a terra, nerboruta e col viso allucinato, tra uno scheletro, un panno e un libro, mentre alle spalle si intravede qualcosa come un macchinario; e sullo sfondo di una grande finestra gotica Victor con lo sguardo stravolto, che sta prendendo la porta per scappare.
Così il testo del ’18 e così quello identico del ’31: ma abbiamo detto che c’è un terzo testo a cui fare riferimento, cioè la descrizione/ricostruzione del sogno ispiratore di Mary nell’Introduction ’31. E che riporta:

La mia immaginazione, non richiesta, mi pervase e mi guidò, donando alle immagini che si affacciavano alla mia mente una lividezza di gran lunga superiore alle solite visioni delle fantasticherie. Vidi – con gli occhi chiusi, ma con una percezione mentale acuta – il pallido studioso di arti profane inginocchiato vicino alla cosa che aveva assemblato. Vidi l’orrenda sagoma di un uomo disteso, poi, all’entrata in funzione di un qualche potente macchinario, lo vidi dar segni di vita e fremere con un movimento impacciato, vivo solo a metà. Doveva essere spaventoso, perché spaventoso sarebbe stato l’effetto di ogni sforzo umano di scimmiottare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. Il successo avrebbe terrorizzato l’artista, che sarebbe fuggito colmo d’orrore dall’orrido manufatto.

Dove acquisiamo qualche particolare in più, a cavallo tra ricordo e ricostruzione del medesimo. Il golem di Victor 3Anzitutto in quel “pallido studioso di arti profane inginocchiato vicino alla cosa che aveva assemblato” vediamo che non c’è un tavolo, ma Victor, pallido e presentato come una sorta di negromante, studioso di arti blasfeme, è in ginocchio accanto alla cosa che ha messo insieme. “Vidi l’orrenda sagoma di un uomo disteso, poi, all’entrata in funzione di un qualche potente macchinario, lo vidi dar segni di vita e fremere con un movimento impacciato, vivo solo a metà” (“I saw the hideous phantasm of a man stretched out, and then, on the working of some powerful engine, show signs of life, and stir with an uneasy, half vital motion”), con il possibile scarto tra l’attrezzatura leggera del romanzo e il “potente macchinario” qui evocato (e suggerito vagamente dall’incisione di von Holst); ma l’espressione sul moto con cui la creatura riprende una vita deminuta è ancora una volta coerente con i racconti dell’esperimento Aldini. Con una nota aggiuntiva, ora, sull’inevitabile mostruosità derivata dal “to mock the stupendous mechanism of the Creator of the world”; e – con un tocco di ironia nera – sul successo che “would terrify the artist; he would rush away from his odious handywork, horror-stricken”, come se il mostro fosse un’opera d’arte e Victor un artista.
E infatti, continua ora Victor nel romanzo, “Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori dalla stanza e camminai a lungo su e giù per la mia camera da letto, incapace di prender sonno”: e possiamo solo immaginare cosa confusamente gli stia esplodendo dentro. Mary in qualche modo lo esplicita nell’Introduction:

Avrebbe sperato che, lasciata a se stessa, la flebile scintilla della vita che aveva comunicato si sarebbe spenta; che quella cosa che aveva ricevuto un’imperfetta animazione, sarebbe tornata a essere materia inerte; e si sarebbe addormentato sperando che il silenzio della tomba avrebbe soffocato per sempre la breve esistenza dell’orrido cadavere a cui aveva guardato come alla culla della vita.

E infatti alla fine – riprendiamo il romanzo – Victor crolla, si getta sul letto vestito, si addormenta e sprofonda negli incubi.

Credetti di vedere Elizabeth che, nel fiore della salute, passeggiava per le strade di Ingolstadt. Felice e sorpreso la abbracciavo, ma le sue labbra, che le sfioravo nel primo bacio, assumevano il pallore livido della morte, i suoi lineamenti mutavano, ed ecco che io stringevo fra le braccia il cadavere di mia madre; un sudario nel ricopriva le forme, e io potevo vedere i vermi brulicare tra le pieghe della stoffa.

Questa scena è terribilmente forte. Consideriamo pure che nel 1818 il gotico ha già mostrato un più che ampio teatro di orrori: ma ciò che sconvolge il lettore del Frankenstein è l’innesto delle fantasie macabre – finora lontane dalla realtà coeva, e perse in un passato di castelli e di spettri ai limiti del grottesco – entro dimensioni della modernità, dalla scienza di punta al tessuto di emozioni di una società borghese. Fino a sogni come questo, che prefigura le confidenze agli analisti del secolo successivo.
Sembra emblematico che il primo bacio del romanzo avvenga, sia pure nella forma vicaria del sogno, a seguito del trauma del laboratorio. È come se quell’evento scioccante avesse sbloccato qualcosa nella vita del giovane intelligentissimo e un po’ represso che deve fare i conti con un modello ingombrante di perfezione familiare; e per la prima volta entra l’eros nel romanzo. Ma un eros nero, nerissimo: e del resto Frankenstein pare quasi una grande seduta psicoterapica in cui Mary butta fuori i grovigli che ha dentro, in forma metaforica e non conciliata, neppure forse cosciente. Butta fuori non solo gli strascichi della crisi seguita alla morte della prima figlia – evento precedente al romanzo, e forse saldato luttuosamente in lei al ricordo della prima completa esperienza sessuale; ma butta fuori, nelle edizioni successive e in particolare in quella del ’31, il dolore e lo smarrimento, il vuoto e l’orrore per il fiume di morti seguiti all’estate di Villa Diodati. In questo sogno non c’è il compiacimento provocatorio degli Scapigliati, con i loro baci macabri: lo smarrimento è autentico, i morti ora rianimati stanno dietro una fragile porta a fissare con occhi acquosi, e nel gioco di specchi dell’incubo di un incubo Frankenstein esprime qualcosa di straziatamente vero.
Il golem di Victor 5D’altronde anche il sogno di Victor così descritto è perturbantemente credibile: al punto che possiamo domandarci se Mary non stia presentando sotto il velo narrativo qualcosa di conturbante vissuto davvero in sogno – da lei o piuttosto da Percy. Nell’Introduzione ’31, dove Mary (guarda caso) sta parlando di un altro sogno proprio sugli eventi di questa porzione di romanzo, non si fa cenno in nessun punto di tale fantasia onirica di Victor. Ma a ben vedere non è neppure necessario che si tratti di un’esperienza vissuta: ben prima di Freud, Mary potrebbe aver colto nei rapporti di suo marito col Femminile una confusione che noi classifichiamo in modo più strutturato come conflitto di Edipo. La vivacità delle frequentazioni tra Percy e le donne è stata letta da alcuni critici freudiani come desiderio edipico irrisolto di possedere la madre molto più giovane del padre – proprio come nel caso di Victor, specialmente nella versione ‘31. Nei versi di una già citata opera di Percy in qualche modo vicina al Frankenstein, cioè il poema Alastor, il desiderio di tornare alla tomba quale grembo della Madre Terra è stato interpretato in chiave edipica; ma soprattutto sembra interessante notare che il nome della partner di Victor che nell’incubo metamorfizza in sua madre, Elizabeth, è lo stesso dell’amata sorella che con Percy scrive poesie e insieme della loro madre, già a prefigurare una situazione di potenziale confusione. Nel romanzo, Elizabeth subentra alla zia adottiva Caroline in un ministero accuditivo della famiglia, anzi è come se Caroline morendo si incarnasse in lei attribuendole il proprio ruolo e consegnandola in sposa al figlio Victor: entrambe avvenenti e sensibili, entrambe votate al sacrificio, entrambe donne-angelo. Nella realtà Elizabeth/madre ed Elizabeth/sorella sono volti dell’Eden familiare che Percy ripudia con la sua vita libera, ma ancora presenti in forma irrisolta nella sua vita interiore: o così almeno Mary sembra adombrare.
Qualche ulteriore conferma la troveremo più avanti; ma anche senza insistere in una lettura freudiana (pure tanto promettente),

Mi svegliai di soprassalto, inorridito; un sudore gelido mi copriva la fronte, i denti mi battevano, tremavo convulso in tutte le membra; poi, al chiarore incerto e giallo della luna che filtrava attraverso le imposte, mi vidi davanti lo sciagurato, il miserabile mostro che io avevo creato. Teneva sollevate le cortine del letto, e i suoi occhi, se occhi si possono chiamare, erano fissi su di me. Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre un ghigno gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io non lo sentii; aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi, ma fuggii e mi precipitai giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa dove abitavo, e lì rimasi per il resto della notte, camminando su e giù in preda alla più grande agitazione, tendendo l’orecchio e sussultando di paura a ogni rumore, quasi esso mi annunciasse l’avvicinarsi del demoniaco cadavere al quale così follemente avevo dato la vita.
Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto! Una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa. Lo avevo osservato quando era incompiuto: era già brutto allora; ma quando muscoli e giunture erano stati resi capaci di moto, era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire.

Anche questa scena, pure tratta dall’incubo narrato da Mary nell’Introduzione (“Dorme; ma qualcosa lo sveglia; apre gli occhi; vede che l’orrida cosa è a fianco del letto, apre le cortine e lo guarda con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande”), e che si può considerare nella sua onirica e raggelante efficacia una delle scene-chiave del fantastico di tutti i tempi, ha una fortissima valenza emotiva. Come un incubus da quadro di Füssli, o un brutto sogno evaso dai limiti della dimensione onirica, ecco la creatura occhieggiare dalle cortine del letto; Victor che pensava di essere sfuggito all’orrore di cadaveri del proprio incubo vi viene riprecipitato, e in modo molto più traumatico perché questa è la realtà e l’ha costruita lui; come prima era Victor a veder aprire gli occhi della creatura ora succede l’inverso, a stabilire un parallelismo che è anche allarmante rifrazione – e non solo perché il presunto creatore è in realtà creatura quanto l’altro.
Una con/fusione tra i due e un virtuale rapporto di rifrazione che evocano una serie di suggestioni, su cui occorre tornare nel corso dell’itinerario sul romanzo: il “mostro” come Doppio di Victor, come sua Ombra e come Perturbante (suggestivo pensare che il Frankenstein sia coevo di uno dei testi-base della riflessione sul Perturbante, Der Sandmann di E. T. A. Hoffmann, scritto nel 1816 e pubblicato l’anno seguente), come suo demone custode e nemesi personale.
Itinerari nel Frankenstein 1Ma in fondo un aspetto di questo rapporto di doppio/rifrazione sta nella stessa confusione poi consumata a livello popolare su “Frankenstein” come nome di Victor o piuttosto della sua innominata prole. Una confusione documentata fin dall’Ottocento (per esempio tra le pagine del romanzo Mary Barton di Elizabeth Gaskell, 1848, poi in un’opera di Edith Wharton, The Reef, 1916), e consacrata nella versione teatrale del Frankenstein di Peggy Webling, 1927 (ritoccata 1930), dove Victor attribuisce il proprio cognome alla Creatura: ma assurta la versione-Webling a base della sceneggiatura del film 1931 di James Whale, capostipite di un’intera serie Universal dove pure il mostro non ha nome, l’uso popolare troverà conferma attraverso richiami impliciti in titoli quali Bride of Frankenstein, 1935 – dove si gioca di rifrazioni tra la sposa dell’inventore e quella della creatura. Una tentazione del resto tanto più forte a considerare la scomoda varietà di epiteti generici, in gran parte offensivi, che l’innominato essere incassa nel corso del romanzo.
D’altra parte, nonostante il coinvolgimento nelle emozioni di Victor, iniziamo a nutrire il sospetto di una fondamentale incomprensione, di un tragico strabismo. Un’incomprensione nei confronti di colui che è etimologicamente infante, non sa parlare (“Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre un ghigno gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io non lo sentii”); un’incomprensione della sua gestualità (“aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi”); un’incomprensione del senso dello stesso sguardo della Creatura (“i suoi occhi, se occhi si possono chiamare, erano fissi su di me”), su cui Mary torna nell’Introduction (“l’orrida cosa […] lo guarda con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande”). Un’incomprensione che attraverso orrore e paura spalanca il rifiuto.
Paradossalmente noto a Victor fin nelle sue fibre costitutive (quasi in una contraffazione blasfema del Salmo 138 [139]: “Sei tu che hai formato i miei reni / e mi hai tessuto nel grembo di mia madre. // Io ti rendo grazie: / hai fatto di me una meraviglia stupenda; / meravigliose sono le tue opere, / le riconosce pienamente l’anima mia. // Non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto, / ricamato nelle profondità della terra. / Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; / erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati / quando ancora non ne esisteva uno” – si noti che l’espressione ebraica galmi qui usato per “[massa] ancora informe/embrione” può tradursi letteralmente “mio golem”), pur essendo insomma più che noto al suo costruttore, il “mostro” appare invece a Victor il radicalmente sconosciuto, l’altro da temere.
È anzi interessante notare come questa creatura, sconvolgente epifania del mostruoso agli occhi del suo stesso costruttore, sussuma in poche righe altre due categorie teratologiche alla quali oggi tendiamo a dare nomi diversi. Parlando infatti di “demoniaco cadavere al quale così follemente avevo dato la vita” (“demoniacal corpse to which I had so miserably given life”, così già nel ‘18) – una definizione riduttiva, perché si tratta di ben più di un cadavere, ma insieme estensiva per quell’aggettivo demoniaco – già prefigura l’horror di zombie, cadaveri resi attivi (virtualmente) con il ricorso a potenze infere; e più avanti, affermando che “Una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa” (“A mummy again endued with animation could not be so hideous as that wretch”, così già nel ‘18), sembra ammiccare a un altro protagonista dell’immaginario moderno, la mummia reviviscente. Che in effetti ha idealmente radici già all’epoca: se le campagne napoleoniche hanno portato in Europa la cosiddetta egittomania – dall’arte pubblica dei monumenti, che disseminano Parigi di sfingi e obelischi, a quella privata dell’arredamento che invita i faraoni nei salotti borghesi – già all’epoca le mummie (ennesimo modo di garantire una qualche resistenza del corpo al tempo) suscitano fascino e brividi. Pensiamo al leopardiano Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, 1824; ma pensiamo anche a quel protoconnubio di mummie e fantascienza offerto dalla scrittrice inglese Jane C. Loudon in The Mummy!: Or a Tale of the Twenty-Second Century, 1827, dove la storia della mummia Cheops riportata alla vita nell’anno 2126 rilegge liberamente (in chiave conservatrice) suggestioni del Frankenstein e storie di maledizioni egizie. Il faraone che l’eroe e i suoi amici hanno sciaguratamente risvegliato (guarda caso) con l’elettricità riesce a fuggirsene in pallone verso l’Inghilterra andandosi a ficcare in complicate beghe per il trono; e solo dopo una mole di pagine deciderà infine di tornarsene alla tomba.
Ma nel nostro testo c’è un altro richiamo interessante subito dopo: “Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto!” (“Oh! no mortal could support the horror of that countenance”, così già nel ‘18), dove il mostro alluso è addirittura la Gorgone: e questo è particolarmente interessante solo a pensare al peso simbolico che negli anni del Terrore rivoluzionario in Francia e successivi ha il volto pietrificante della maschera di Medusa. Attraverso l’icona della sua testa tagliata, la Gorgone del Terrore è assurta a figura della “libertà alla francese” (eventualmente in opposizione alla saggia ed equilibrata Atena suo contraltare “all’inglese”) non solo nel dibattito intellettuale, ma in un simbolismo molto più popolare e diffuso attraverso stampe e persino oggettistica rivoluzionaria. Dove l’ossessiva riproduzione della testa mozza – in particolare il gorgoneion della testa del re – reca una confusa e arcaicissima nebulosa di simboli, ma richiama in termini diretti al mito di Perseo; e la scelta della definizione di terrore nella narrativa gotica inglese vede quell’ombra estendersi oltre la Manica. Percy stesso, più avanti, si soffermerà sul tema in On the Medusa of Leonardo da Vinci, in the Florentine Gallery, 1819. Ravvisando dunque nella Creatura un volto – per metafora – gorgonico, l’autrice evoca sottotesto un fortissimo brivido d’epoca.
Ma non ci si ferma al viso: quell’essere, già brutto quando incompiuto – ecco che Victor se ne rende conto, l’aveva già notato ma come senza riuscire a portarlo alla coscienza – una volta messa in moto l’assurda macchina anatomica di muscoli e giunture “era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire”. Le suggestioni dantesche sono al tempo note anche al di là dei giri di intellettuali, e in questo caso il pensiero va alle epopee di nudità contorte e devastate dei dannati: le riletture delle anatomie classiche in autori d’epoca come Füssli e Blake (entrambi illustratori di Dante) mostrano anche un nuovo modo di porsi rispetto al corpo, sì statuario ma energizzato fino alla teatralità o alla ritualità più plastica. La creatura però, nel suo innaturale muoversi, sembra andar oltre tutto questo.
Il golem di Victor 7E Victor fugge. E il suo orrore è proprio quello manifesto in certe espressioni sconvolte dei dipinti di Füssli, von Holst o nel Caino di Blake (The Body of Abel Found by Adam and Eve, circa 1826): un terrore allucinato fino alla follia e alla demenza. Fugge all’aperto in cortile, passa una notte terribile: “In certi momenti il mio polso batteva così rapido e forte che sentivo palpitare ogni arteria”, quasi a sentire per proiezione la propria macchina anatomica di nervi, vene, pompa cardiaca; “in altri momenti quasi mi accasciavo a terra per il languore e l’estrema debolezza”, come un corpo non più animato o un burattino di carne. E irrompe con tutta la violenza di due anni di sogni abortiti la delusione più nera.
Ma in questa fuga di Victor – una fuga duplice, prima dal laboratorio e poi nuovamente dalla camera da letto – è stato visto dell’altro. Durante la gravidanza per la prima figlia, Mary si è trovata molto sola mentre Percy continuava a vedersi con la birichina Claire, sorellastra di lei; e anche nelle due difficili settimane di vita della piccola, nata prematura, Mary ha avuto netta la sensazione che Percy non si curasse granché della piccola. L’irresponsabilità di Victor verso la Creatura che l’ha cercato come un bambino potrebbe fare con un genitore, può in fondo essere intesa come la stessa irresponsabilità e poca cura di Percy verso la sua prima figlia. E verso la stessa Mary, che non a caso alla morte della bimba chiama sul posto il pacato e responsabile amico Hogg, mentre Percy ha perso un po’ la testa come Victor (“Will you come—you are so calm a creature & Shelley is afraid of a fever from the milk—for I am no longer a mother now”: lettera 6 marzo 1815). Mary cade in quel periodo in preda alla depressione, innescata certo da quella post partum, ma non migliorata dalla sensazione di un disinteresse continuato di Percy per la creaturina e la sua tragedia – una situazione generale che può ben proiettarsi nella scelta di abbandono della Creatura da parte di Victor. E del resto quello della responsabilità è uno dei temi-chiave del Frankenstein.

 

 

la-notte-di-villa-diodati-2011-copertina[NOTA. I testi principali frutto della sfida del giugno 1816 – cioè il Frankenstein di Mary Shelley (nella versione ‘31), The Vampyre di John William Polidori e The Burial: A Fragment di Lord Byron sono stati riuniti in traduzione qualche anno fa nel bel volume La notte di villa Diodati, per i tipi Nova Delphi (2011, pp. 388), cui senz’altro si rimanda. Tanto più che a coronarli è un grande saggio di Danilo Arona, Villa Diodati Horror Show (Prometeo, Edipo ed Ecate contro il Vampiro), dove l’autore affronta da par suo i grovigli relazionali tra i protagonisti, con un po’ di ghiotti retroscena e un’analisi dei meccanismi mitopoietici in gioco. Un breve estratto del saggio è già apparso qui.
Si rammenta che lo stesso editore romano – il cui ricco catalogo comprende collane sul pensiero libertario (compreso un intero progetto dedicato a Sacco e Vanzetti), sull’America Latina e sul passato italiano più recente – ha offerto alle stampe anche una traduzione di Fantasmagoriana, il testo letto dagli ospiti di Villa Diodati, con l’ottimo commento di Fabio Camilletti, 2015, cfr. qui.]

 

 

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