Frank Sinatra – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:17:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali /7: Nikolaj Nikolaevič Suchanov https://www.carmillaonline.com/2023/07/31/esperienze-estetiche-fondamentali-7-nikolaj-nikolaevic-suchanov/ Mon, 31 Jul 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77950 di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library c’era una ventola a soffitto che girava a stento. I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino. Stavo su una nave fantasma con le vele alzate. Non si vedeva terra. Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio. (Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è [...]]]> di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library
c’era una ventola a soffitto che girava a stento.
I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino.
Stavo su una nave fantasma con le vele alzate.
Non si vedeva terra.
Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio
.
(Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è fuori per lavoro. Ciò a dimostrazione che i mariti sono sempre gli ultimi a sapere. Torni a casa una sera, Galina esclama «cielo, mio marito» ed eccoli tutti lì, Lenin, Trotsky, Kamenev, che stanno pianificando la presa del potere.

Nikolaj Nikolaevič Suchanov è redattore capo della Novaja Žizn’, «la nuova vita», il giornale che Maksim Gor’kij ha fondato a febbraio, deposto lo zar, nella presunzione di fare da ponte, con la sua autorità di scrittore proletarskiy, tra le diverse anime della socialdemocrazia. Pessimo romanziere, e se possibile politico anche peggiore, all’epoca Gor’kij non è ancora completamente impazzito e così osteggia l’«avventurismo» e l’«impazienza» dei bolscevichi, colpevoli di voler «saltare un’intera fase storica», come si dice in lingua di gesso, saltando con un oplà «dal feudalesimo al socialismo senza tappe intermedie».

Suchanov è d’accordo, naturalmente. Saltare le fasi? Mai! È stato il primo a definire «inaudito» e peggio ancora «ridicolo» il discorso col quale, in aprile, tornato a San Pietroburgo (divenuta nel frattempo Pietrogrado) sul treno piombato che gli è stato messo a disposizione dallo stato maggiore tedesco, Lenin ha squadernato urbi et orbi il suo programma e reclamato «tutto il potere». Tenta un primo colpo a luglio, e gli va male. Scatta il «wanted» del governo provvisorio, come a Tombstone, quando a Wyatt Earp girano le balle. Ul’janov circola imparruccato, via la barba, una camicia girocollo da mugicco. È a buon titolo ricercato dagli sbirri, e Galina lo riceve in casa a insaputa del marito menscevico (be’, non proprio menscevico, per la precisione, ma membro d’una cupola che vuol riunire le due ali del partito, roba che per noi, qui, ha scarsa importanza, e comunque è anch’essa, dati i tempi e i personaggi, inaudita e un po’ ridicola).

«Per intervenire alle riunioni segrete» di casa Suchanov «tutti prendono ogni precauzione», scrive nel suo Aleksandra Kollontay (Einaudi 2023) Hélène Carrère d’Encausse, madre d’Emmanuel Carrère (o piuttosto lui figlio suo, per stabilire la giusta gerarchia). «Lenin si mette una parrucca e si traveste da contadino. Lo affiancano Zinov’ev, Kamenev, Stalin, Trockij, Kollontaj, Sverdlov, Dzeržinskij, Sokol’nikov, Urickij, Bubnov e Lomov. Lenin esordisce dichiarando che l’ora della rivoluzione è giunta, che l’Europa intera è pronta a incendiarsi e che tocca alla Russia accendere la scintilla che avrebbe portato alla rivoluzione mondiale. Si deve prendere il potere senza indugio. Trockij lo sostiene energicamente. Zinovev e Kamenev, invece, invitano alla prudenza, suggerendo di tenere conto dell’esperienza di luglio. Inoltre, argomentano i due, le elezioni della Costituente avrebbero dato al Paese una maggioranza conforme ai desideri della società. E avanzano un quesito: “La rivoluzione, e poi?” Lenin risponde con le parole di Napoleone: “Cominciamo e poi vediamo” (On s’engage et puis on voit)».
Insomma Suchanov torna improvvidamente a casa. Dove si prendono decisioni «farneticanti», pensa lui non appena capisce come si stanno mettendo le cose, oltre che tra le sue mura domestiche, anche nelle assemblee dei soldati e degli operai.

Lenin e gli altri congiurati, interrotti sul più bello, smettono di parlare per fissare il coniuge menscevico oltraggiato. Cosa ci fai qui, Suchanov, hanno l’aria di pensare, infastiditi. Zitto, irritato, Suchanov ricambia lo sguardo e pensa: come cosa ci faccio, questa è casa mia, accidenti a Galina e a tutti voi. Pensa che il politburò bolscevico sta occupando il suo salotto, beve la sua vodka, mangia i suoi cetrioli e le sue salsicce, fuma i suoi sigari. Lenin sbuffa, Trotsky pulisce gli occhialetti col dorso della cravatta, Sverdlov sospira, Kamenev zufola La Marsigliese tra i denti, a occhi chiusi. Stalin non c’è. Inutile insinuare che potrebbe essere nascosto sotto il letto, o nell’armadio, con le scarpe in una mano e le mutande nell’altra. No, è che Džugašvili proprio non c’è, che nessuno sa (ancora) chi sia.

Dirà più tardi Suchanov, nelle sue formidabili Cronache della rivoluzione, un altro dei libri che ogni tanto torno a sfogliare, gran romanzo d’avventura, che «a proposito di Stalin c’è da restare perplessi. Il partito bolscevico, accanto a un’accozzaglia di gente ignorante, possiede tra i suoi “generali” una serie di grandissime figure, di capi degni. Ma Stalin, durante la sua modesta attività nel Comitato esecutivo, produsse e non su me solo l’impressione d’una macchia grigia che mandava talvolta una debole luce, ma non lasciava mai traccia. Di lui non c’è altro da dire».
Magari.

Fu alla Libreria Popolare di Via Saluzzo, un pomeriggio d’inverno del remoto 1969, le strade intasate dalla neve, l’automobile che sbandava, il Natale in arrivo, che comprai le Cronache della rivoluzione di Nikolaj Nikolaevič Suchanov. Due grossi volumi in cofanetto, un chilo buono di carta porosa e di storie impagabili. Non si capiva perché gli Editori Riuniti, la casa editrice comunista, culo e camicia con gli eredi dei rovinafamiglie e scassanazioni che il povero Sachanov, cinquant’anni prima, s’era ritrovato per casa in strettissima intimità politica con la sua signora, avessero pubblicato il racconto antibolscevico di Suchanov, che trascorse dieci anni nel Gulag prima d’essere fucilato a Omsk nel 1940 (forse Galina la scampò, o forse no, ma di sicuro Stalin lesse il passo della Cronache che lo riguardava, e se lo legò al dito). Tradotte nel 1967, nessuno che ne avesse mai parlato a me o anche soltanto ne avesse parlato in generale, le Cronache spiccavano tra altri libri di dimensioni più modeste in uno degli scaffali d’angolo della libreria. Estratto un volume dalla custodia, poi l’altro, sfogliati entrambi, e benché non capitassi proprio subito e lì dov’ero nella pagina in cui Suchanov liquidava (ahinoi, troppo in fretta) il futuro Padre dei Popoli, egualmente non ebbi dubbi: dovevo comprarlo, per costoso che fosse, e lo era, a costo di svenarmi.

Fuori nevicava, dicevo, ma in realtà non è che semplicemente nevicasse, come quando Frank Sinatra, accompagnato da un’orchestra swing, canta Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow! e dice che «il fuoco è così piacevole / ho portato del pop corn / non dobbiamo andare da nessuna parte». Quel giorno, su Torino, s’era abbattuta una vera e propria tempesta di neve, l’unica che abbia visto nella mia vita, strade impraticabili, auto che slittavano, freddo cane, sei o sette centimetri di neve su tutti i marciapiedi, sirene dei pompieri, la fiocca così fitta da impedire la vista dei tetti delle case. Sa il cielo perché avessi lasciato casa mia per avventurarmi nella tormenta, per di più in auto, la 500 spetazzante che avevo allora, gomme lisce, ruggine, avviamento a spinta. Eppure eccomi lì, in Via Saluzzo, alle cinque del pomeriggio, sciarpa, un giaccone imbottito, guanti di lana, bardato insomma come un cercatore d’oro di Jack London che anela a farsi un fuoco nel Klondike, però consolato dall’aver trovato, setacciando gli scaffali, una pepita bella grossa: le Cronache, appunto, di Suchanov.

Nevicava, verosimilmente, anche in Russia, sia a febbraio, quando la dinastia Romanov venne finalmente deposta (come da un secolo si prefiggeva, ripetutamente provandoci, sempre invano, l’intellighenzia russa) sia a ottobre, quando i demoni dostoevskiani, con una mossa che sorprese anche loro, allungarono le mani sull’intero paese e deposero la democrazia per reinstaurare lo zarismo sotto nuove e peggiorate spoglie. In quattro e quattr’otto democrazia e zarismo old style furono liquidati insieme da un identico colpo alla nuca, sparato tra capo e collo.

A premere il grilletto della Mauser totalitaria fu Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, capo della Čeka, in futuro KGB, la polizia politica, uno che somigliava straordinariamente (cercate una sua foto su Google se non ci credete) a Lee Van Cleef, il «cattivo» di Sergio Leone, e che quel giorno, quando Suchanov era tornato inaspettatamente a casa figurava tra i presenti, il pizzetto, il cappellino con visiera, l’aria di uno che non ha passato per caso tutti quegli anni, prima della grande guerra, nelle cliniche psichiatriche polacche. Al comando d’un onnipotente apparato terroristico, Dzeržinskij decretò il repulisti anche degli «intelligent» – base sociale della rivoluzione, «il ceto medio riflessivo» di tutte le Russie – qualunque fosse la loro competenza, e a qualsivoglia partito aderissero.

Non si salvarono, tempo al tempo, oggi a te domani a me, nemmeno gli stessi bolscevichi, compresi quelli antemarcia, che avevano abbracciato la causa del Che fare? molti anni prima, allo scoppio del conflitto con la Germania, alcuni addirittura nel 1905 e persino prima, quando la socialdemocrazia russa si era spaccata in due come una noce. Cronache della rivoluzione era il prequel, diciamo così, della catastrofe novecentesca. Altro che la mia tempesta di neve. Quanto fioccava su San Pietroburgo (anche senza Stalin, ancora nell’ombra) in quel 1917.

Posai il cofanetto sul bancone per pagarlo, scambiai le solite due chiacchiere con i proprietari della libreria, due anziani bottegai, che al solito mi guardarono con sospetto. Non che disapprovassero il mio acquisto, o forse lo disapprovavano, non so, ma non è questo il punto, il punto è che guardare con sospetto era ciò che facevano sempre e con tutti. Marito e moglie come i Suchanov a San Pietroburgo, però entrambi bolscevichi, e il menscevismo quanto di più lontano da loro, erano stalinisti irriducibili (altro, ahinoi, che «di lui non c’è altro da dire») e la loro libreria era popolare nel senso delle repubbliche popolari, in primis quella cinese, l’albanese in secundis. Jean-Luc Godard l’avrebbe preferita a Disneyland.

C’erano pile così di Libretti rossi con la copertina di plastica e il titolo stampigliato in caratteri d’oro come sui libretti della cresima nelle chiese e negli oratori degli anni quaranta e cinquanta. C’era Leggere il Capitale di Louis Althusser (una lettura pazzotica dell’opera di Marx, e che l’autore fosse pazzo anche di suo, non soltanto a causa del libro che spiegava come leggere, lo dimostrò qualche anno dopo, quando in un raptus strangolò la moglie). Conoscevo tizi che a leggere il Capitale si scocciavano a morte (io tra gli altri) ma che avevano letto Leggere il Capitale (non io). C’erano, incorniciati e appesi qua e là alle pareti della Libreria Popolare, manifesti con la faccia da topo allegro ma infingardo di Lin Piao. Mao Zedong (all’epoca Tse-tung) era dappertutto. C’erano suoi ritratti, piccoli e grandi, in ogni spazio libero, persino in bagno (dove non si negava a chi doveva fare pipì il permesso d’appartarsi): Mao giovane e atletico, Mao vecchio ma sempre in gamba, Mao di mezz’età con l’aria sciupaticcia del tombeur de femmes e, se non ricordo male, persino Mao bambino: tutt’e quattro in posa per il ritrattista di regime (lo sguardo perso nell’infinito, gli abiti perfettamente stirati).

Gli scaffali abbondavano d’edizioni Samonà e Savelli, De Donato, Bertani, Sapere, Feltrinelli, Programma comunista. Ma a farla da padrone era soprattutto il gruppo editoriale «Ciclostilato in proprio» che pubblicava opuscoli che reclamizzano le bizzarre e talvolta vaneggianti teorie di gruppuscoli marxleninisti, operaisti, operaiostudentisti, trotskisti, guevaristi, bordighisti. Credenze, speculazioni, tesi e opinioni che stavano a una qualsivoglia analisi sociale con la testa sul collo come le macchine per il moto perpetuo alla fisica dei gravi. Era sempre lì, in Via Saluzzo, che avevo comprato i non so più quanti volumi delle Opere scelte di Peppone, anch’esse edite e benedette dal partito comunista italiano (o «picì», come si diceva) quando gli Editori Riuniti si chiamavano Edizioni Rinascita (volumi che non ho più per casa, chissà che fine hanno fatto, ma almeno di quelli non c’è davvero «altro da dire» mentre del loro autore, ribadisco, magari… scomparso da settant’anni, ancora se ne parla).

Era su tutto questo, sui libri e sui ciclostilati, sui manifesti, sulle Edizioni in Lingue Estere di Pechino e Tirana, che vigilavano sospettando di tutti i due della Libreria Popolare, con quella loro aria da cekisti in pensione, lui un operaio Fiat «licenziato per rappresaglia padronale dieci anni prima», lei non so. Avevano puntato tutto, gli affetti, e la vita intera, su una cosa che chiamavano «comunismo» o «rivoluzione» senza avere idea di cosa fossero l’uno e l’altra. Se invece di vendermi Cronache della rivoluzione, che adesso stavo strapagando mentre fuori nevicava a grandi fiocchi, l’avessero letto, be’, forse una mezza idea della rivoluzione e del comunismo se la sarebbero fatta.

C’erano dentro, raccontati in presa diretta da un testimone, non soltanto gli eventi del 1917: le burrascose sedute del parlamento, le riunioni degli organi dirigenti di tutti i partiti di sinistra, le assemblee dei soviet eletti nelle fabbriche della città e nelle trincee, al fronte. C’erano aneddoti, e c’erano appunti ora severi, ora ironici. Ogni cosa, ogni singolo passaggio politico, la manifestazione dei marinai, il discorso del leader cadetto, menscevico o socialrivoluzionario, lo sciopero dell’officina x o ipsilon, tutto era accuratamente descritto, annotato, messo a fuoco. A Suchanov non sfuggiva nulla, era sempre sul posto, sempre presente, il lapis, il taccuino. Suchanov conosceva tutti, e tutti gli passavano notizie (quelli che non le passavano a lui, le passavano a Galina, sua moglie).

Nato nel 1882, nel 1917 poco più che trentenne, era da vent’anni un rispettato militante socialdemocratico, in buoni rapporti con l’ala destra e quella sinistra del partito. Gli articoli che pubblicava su Novaja Žizn’, informati e sobri, erano letti da tutti, immagino più di quelli moralisti e sciropposi che firmava Gor’kij (date un’occhiata a M. Gor’kij, Pensieri intempestivi 1917-1918, Jaca Book 1978, e datemi torto). Tutti parlavano con Suchanov, deputati e ministri, capataz di partito, ex terroristi, ex deportati. Era in buoni rapporti anche con lo stesso Kerenskij, primo ministro e un po’ «dictator» della giovane repubblica russa da febbraio a ottobre. Erano tutti vecchi conoscenti, tutti amici, fin dai tempi dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, quando l’intellighenzia doveva badare a come si muoveva, pena brutte sorprese (non così brutte, si capisce, e neppure così mortali come quelle che riservò agl’«intelligent», spingendoli ad autodivorarsi, il trionfo dell’intellighenzia rivoluzionaria sull’autocrazia).

Osservazioni, incontri, riflessioni, dispute, confronti: Cronache della rivoluzione è un libro mastro. Insegna a leggere gli eventi storici (altro che Althusser e la sua lettura frou-frou/ollallà del Capitale) senza bellurie storiciste e spiega, anche suo malgrado, che rivoluzione russa e comunismo sono stati capricci della storia, riffe, tiri di dadi, lotterie.

Nulla, insomma, che somigliasse nemmeno remotamente a ciò cui avevano votato l’esistenza, francamente sprecandola, le due anziane guardie rosse di vedetta sul bastione della Libreria Popolare come tra i merli d’un castello medievale, o meglio come sugli spalti d’una speciale Fortezza Bastiani, con la differenza mica da poco che loro due, moglie e marito, non temevano l’arrivo dei tartari, invisibili oltre il deserto dei soprusi e delle ingiustizie sociali, ma al contrario lo invocavano.

Detto ciò, va aggiunto che lì in Via Saluzzo, se soltanto si badava – per educazione oltre che per prudenza, allo scopo cioè di essere gentili e di evitare le discussioni troppo accese – a non dare mai torto (qualunque cosa dicessero, e ne dicevano di madornali) ai due librai, si trascorrevano delle mezz’ore non dico simpatiche, che questa sarebbe un’esagerazione, ma divertenti, questo sì, specie se come me non si ha mai avuto niente contro l’orrido (anzi) e questo spiega tre quarti (e forse più) delle persone che mi si sono appiccicate negli anni. Quel giorno, poi, il giorno in cui scoprii Suchanov, questo cucu politique, l’uomo che sorprese sua moglie in compagnia dell’intero ufficio politico bolscevico, mentre Lenin e tovarish preparavano niente meno che una spallata al governo provvisorio, cioè l’evento che avrebbe provocato la valanga: D’Annunzio e Mussolini Dux, Baffone e Baffino, col tempo e le disgrazie anche Putin, il capitalismo cinese maò-maò, Evita e Juan Perón, l’eredità inestirpabile dei Castro Brothers, Beppe Grillo, gli ayatollah, l’11 settembre… ecco, quel giorno, come ho detto, oltre le vetrine della Fortezza Bastiani di Via Saluzzo, c’era questa gran tempesta di neve e pertanto non avevo fretta d’uscire.

Forse Arcibaldoff e Petronnilova, sempre guardandomi con sospetto, com’era loro costume, educati così nei ranghi del «picì» dei tempi eroici, mi offrirono un caffè. A volte lo facevano. Avevano nel retro, oltre al bagno, anche una piccola cucina. Nel caso, sono certo che lo gradii. Se ancora non l’ho detto, lo dico adesso: avevo freddo, ero bagnato e, se al posto del caffè, sempre che me l’abbiano offerto, m’avessero servito un grog bollente, o almeno un cognac, sarei stato anche più grato.

Fu quel giorno, in ogni modo, che scoprii qualcosa di nuovo a proposito della storia del XX secolo, anzi della storia in generale, ma per il momento restiamo pure alla storia recente e contemporanea. Scoprii che la storia del Novecento, e in particolare la storia del comunismo, che m’intrigava già da un po’, era possibile leggerla come si legge un romanzo, metti Salgari o Dumas, metti Assurdo Universo, metti Moby Dick e Doctor Sax, metti Johnny Liddel e Kickaha, l’eroe tarzaniano di Philip Josè Farmer, e metti pure volendo lo Spirito assoluto di Hegel, che sta alla storia della filosofia come Batman alla DC Comics.

Scoprii, anzi, che in realtà non c’è altro modo d’occuparsi con vantaggio di storia. Scoprii che il peggio, con la storia, subito dopo lo studio rigoroso (tra sbuffi, sbadigli e stronfiamenti di naso) di tomi e tomoni pomposi e inesatti, è prenderla sul serio e proclamarla maestra di vita, ma che peggio di tutto è viverla, come a San Pietroburgo sotto la commissariocrazia, a Berlino sotto i cleptocrati antisemiti, a Dresda sotto i bombardamenti alleati raccontati in Mattatoio n.5 da Kurt Vonnegut o a Hiroshima dopo che Robert Oppenheimer e gli altri scienziati atomici hanno «liberato Shiva, il distruttore di mondi» e oggi a Kiev sotto le bombe o a Bucha e Mariupol nelle mani del Gruppo Wagner.

Ispirato dalle Cronache di Nikolaj Suchanov – un capolavoro giornalistico e storiografico col quale osò polemizzare Trotsky nella sua Storia della rivoluzione russa, dove il commissario del popolo alla guerra, dietro le spalle vent’anni di bohème socialista, nel futuro Alain Delon armato di picozza come nel film del 1972 di Joseph Losey, parla di se stesso in terza persona, tipo Giulio Cesare e Silvio Berlusconi buonanima– cominciai a leggere, collezionare e schedare biografie, historiae e memoir sulla rivoluzione russa e sulla storia del comunismo, cominciando dai più noti, Victor Serge, Isaac Deutscher, John Reed, Edgar Snow, Boris Savinkov e via così (non esagero) per migliaia di titoli. Qualche anno fa ne feci, per così dire, una spremitura generale distillandoli in due grossi volumoni (Mangia ananas, mastica fagiani, 2 voll., WriteUp 2020-2021, libri che so soltanto io e tutti giustamente ignorano 1 ). Dopo di che, passat’a nuttata d’una vita, ho ceduto l’intera sezione salgarian-comunista della mia biblioteca all’archivio d’una fondazione tardobordighista amica. Faccia buon pro, d’ora in avanti, a qualcun altro. Adieu.

Ma cosa cederò e a chi la prossima volta? Intere collezioni di fumetti? Tutta la sezione rock’n’roll? La filosofia crucca per intero? Tutte le ucronie e tutta la fantascienza? Anche il Ringworld di Larry Niven?
Come fiocca.


  1. Il primo dei due volumi è stato recensito qui  

]]>
Bob Dylan e il mistero della condizione umana https://www.carmillaonline.com/2023/03/14/bob-dylan-e-il-mistero-della-condizione-umana/ Tue, 14 Mar 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76159 di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta [...]]]> di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta né incisa una volta per tutte su una frittella di vinile o su un’impalpabile traccia mp3. Un autore, come fa lo stesso Dylan con i suoi vecchi hit, può decidere di rivisitare le sue composizioni più leggendarie, da “Maggie’s Farm” a “Like a Rolling Stone”, fino a renderle irriconoscibili. Versioni ritenute perfette di canzoni classiche possono essere riverniciate dalle cover, come ha fatto sempre Dylan con gli evergreen di Frank Sinatra (da Young at Heart a On a Little Street in Singapore, in uno dei suoi ultimi album, Fallen Angels, del 2016) e come hanno fatto con i suoi hit innumerevoli musicisti e band. E mica soltanto Ricky Nelson, i Byrds, Jimi Hendrix, Johnny Cash, Elvis Presley, Manfred Mann, The Band e Brian Ferry, ma anche De Gregori, i Nomadi, De Andrè, i Dik Dik, gli Articolo 31 e persino Adriano Pappalardo, Bobby Solo, Don Backy, Ricky Gianco. Dylan riconfigura, con le sue canzoni, l’intera scena musicale, da un punto cardinale all’altro, come poi dirà Robbie Robertson, il leader della Band, il gruppo con il quale Dylan incide nel 1967 i Basement Tapes, 100 incisioni senza eguali, l’equivalente rock’n’roll della Recherche proustiana.

Brada – senza mordacchia né fissa dimora, «no direction home» – la canzonetta è stata la colonna sonora del Novecento, da un capo all’altro. Prima, nella storia universale, non era mai successo niente di paragonabile. Salvo forse Omero, quando cantò la guerra dei dieci anni sotto le mura d’Ilio accompagnandosi con la lira e il tamburello, mai nessuno aveva messo la storia in musica, giorno per giorno, come nel secolo breve.

Oltre che uno di questi menestrelli, autore e interprete di canzoni immortali, Dylan è anche l’archivista di questo immane repertorio musicale, come dimostrano questo libro, il primo dopo Chronicles, del 2005, e la sua passione per le cover (che nel 1970, quando fece uscire Self Portrait, il suo primo album di canzonette per lo più altrui, destò scandalo tra i fan). Filosofia della canzone moderna è il catalogo ragionato degli Zip-A-Dee-Doo-Dah del Novecento. Ogni scheda è un’orecchia nelle pagine delle guerre mondiali, della guerra fredda, dei rari periodi di pace. Mancano le canzoni fuori gara, che non hanno bisogno d’essere richiamate alla memoria, o d’essere spiegate: le canzoni di Dylan, di Lennon-McCartney. Ma per il resto c’è dentro l’essenziale: il pop, il country, il folk, il rock’n’roll. Ogni scheda è un pezzo di bravura: una cover per l’occhio e non per l’orecchio.

C’è Volare di Domenico Modugno, per esempio, «una canzone che s’avvicina, sfreccia, continua per la sua strada procedendo a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere dritta nel Paese delle meraviglie. È singolare e resta sospesa a mezz’aria». Modugno: «Già il suono del suo nome crea la sua propria canzone. […] È una seduzione in lingua italiana che comincia con una piccola, sognante introduzione pianistica seguita dalla voce di Domenico avvolta dall’organo prima che il ben noto inciso del titolo faccia irruzione». Cantare oh oh. / Volare oh oh oh. Se la canti, «passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo ma non sei un imbecille».

C’è Blue Moon nella straordinaria versione di Dean Martin (ma al confronto, la versione di Dylan in Self Portrait non sfigura). Blue Moon: «Il suo fascino sta nel suo mistero. È una melodia che sembra uscita da Debussy. Dal nulla, una forma ti appare davanti. Ti volti, la luna ha cambiato colore, e adesso è d’oro. Quand’è stata l’ultima volta che hai visto una luna dorata? È una canzone che non ha senso, la bellezza sta nella melodia». Cantate da Dino, «le canzoni – anche Blue Moon – iniziano e dopo il ritornello vanno alla deriva, interrotte da barzellette e battute. “A Frank non piacciono quelli che parlano durante gli spettacoli. A me non importa se parlate durante il mio spettacolo. Per quello che mi riguarda potete anche giocare a bowling”. Dino è divertente, tenero, e sbronzo». «Frank», naturalmente, è Frank Sinatra. Di lui «è stato detto», scrive Dylan, «che era un teppista che quando cantava si trasformava in poeta».

Strangers in the Night: «Vagabondi e anticonformisti, oggetti di affetto reciproco, rapiti l’uno dall’altro e stretti in un’alleanza da loro stessi creata, ignari di tutte le età dell’uomo, l’età dell’oro, l’età elettronica, l’età dell’angoscia, l’età del jazz». E «Frank», che la cantò, era «qui per raccontare una storia diversa, il suo piumaggio diverso da quello degli altri uccelli». Un fatto incredibile: «La classifica delle prime cento canzoni, pubblicata il 2 luglio 1966 su “Billboard”, era dominata da quella piccola pop song. Pazzesco: nel bel mezzo dell’invasione britannica, Strangers in the Night dell’uomo venuto da Hoboken batteva Paperback Writer dei Beatles e Paint It Black degli Stones. Frank doveva far vedere a tutti chi era il padrone, anche se Strangers era una canzone che odiava e regolarmente liquidava come “un pezzo di merda”. Del resto, non dimentichiamo che Howlin’ Wolf una volta disse la stessa cosa della sua prima chitarra elettrica e che i fratelli Chess misero quelle parole a caratteri cubitali su una delle copertine dei loro album».

Ci sono le canzoni western, come El Paso e Jesse James, quest’ultima un classico pezzo folk americano inciso cent’anni fa da Harry McClintock (attore e poeta, nonché vicesceriffo a San Francisco e attivista sindacale nei ranghi degli IWW, gl’Industrial Workers of the World). Jesse James è stata rilanciata in tempi recenti da Bruce Springsteen: Jesse James era un ragazzo / che uccise molti uomini. / Rapinò il treno di Glendale./Rubava ai ricchi e dava ai poveri. «Ai tempi in cui Jesse s’aggirava per le campagne», scrive Dylan, «essere un fuorilegge era pericoloso. Voleva dire che qualunque cittadino poteva spararti legalmente, ucciderti a bruciapelo e riscuotere la taglia. Un fuorilegge doveva rendersi irriconoscibile, imparare a nascondersi in pieno giorno perché chiunque poteva sparargli, per strada. In effetti, è quello che accadde a Jesse James». Una storia, quella dei fuorilegge prodighi, che «si è estesa fino agli anni trenta con Pretty Boy Floyd, Bonnie e Clyde, la banda di Ma Barker. In quei giorni, se la tua faccia era esposta in un manifesto che diceva Wanted o in un ufficio postale, chiunque poteva spararti. Bisognava stare molto attenti». Fuorilegge e galeotti popolano anche le canzoni di Dylan: l’album John Wesley Harding, e poi (citandone solo alcune) Hurricane, Romance in Durango, George Jackson e la colonna sonora di Pat Garrett & Billy the Kid, il western di Sam Peckinpah, del 1973, dove Dylan figura anche come attore nella parte di Alias, uno dei bandidos di Fort Sumner.

C’è qualcosa del fuorilegge, qualcosa di borderline in ogni icona rock. Prendete Elvis Presley, che «quando ha inciso Blue Moon of Kentucky ha fatto quello che aveva già fatto con Mystery Train. L’ha truccata come un motore. Ha preso canzoni dal ritmo moderato come Blue Moon of Kentucky, Mystery Train e perfino Good Rockin’ Tonight e le ha ridotte all’osso per poi accelerarle. Che è la ragione per cui è stato chiamato “il cantante a propulsione nucleare”. L’energia nucleare stava venendo di moda ed Elvis navigava sulla cresta dell’onda». C’è qualcosa del fuorilegge, nei rockers e negli eroi americani. E qualcosa, anche, che c’entra con l’ingordigia, l’avidità, con la brama di ricchezze: «Vorrei avere cinque centesimi per ogni canzone che conosco e che parla di denaro, da Sarah Vaughan che canta di penny che cadono dal cielo a Buddy Guy che grida il suo blues per un biglietto da cento dollari. Se ti piace il verde delle banconote, Ray Charles ha una canzone e i New Lost City Ramblers ne hanno un’altra. Berry Gordy ha costruito la Motown sul denaro, i Louvin Brothers volevano contanti sull’unghia e Diddy sapeva che era tutta una questione di centoni. Charlie Rich cantava Easy Money, Eddy Money cantava Million Dollar Girl e Johnny Cash poteva cantare qualunque cosa».

C’è una speciale, impassibile filosofia pratica nelle canzonette, spiega Dylan quando canta e quando scrive o parla di musica pop: «Dischi di musica soul, come lo hillbilly, il blues, il calipso, Cajun, polka, salsa e altre forme di musica indigena, contengono spesso la stessa saggezza che le classi superiori ricevono all’università. La cosiddetta “scuola della strada” è una cosa che esiste davvero e non serve soltanto a imparare a stare alla larga da arraffoni e ciarlatani». Qualcosa s’impara sempre da quel che s’ascolta con lo smartphone o che si canticchia, pensierosi, sotto la doccia: «Mentre i laureati della Ivy League parlano d’amore in una sfilza di quartine soffuse di qualità astratte e attributi impalpabili, la gente – che abiti a Trinidad o ad Atlanta – canta dei vantaggi di avere per moglie una donna poco attraente e delle altre pure e semplici verità della vita».

Schede, appunti, note a margine, riletture (e rifischiettature) tra accademia e poesia, da Perry Como a Jerry Garcia, dai Clash a Ricky Nelson, dai Who ai Platters, da Bobby Darin a Vic Damone, da Bing Crosby a Roy Orbison… ma in Filosofia della canzone moderna (che è il libro d’un Nobel, e si vede) non c’è in ballo una sola Musa, quella della musica. C’è dentro tutto il pop: cinema, fumetti, serie tv, mode, droghe, beat generation, buoni e cattivi maestri. Dylan spazia da Mezzogiorno di fuoco a Mack The Knife dell’Opera da tre soldi, da Nick Mano Fredda a Leigh Brackett, sceneggiatrice del Grande sonno e di Rio Bravo, oltre che grande scrittrice di fantascienza (La danzatrice di Ganimede, La spada di Rhiannon). Tutto si tiene, tutto s’intreccia, e il mistero è che, da quest’amalgama riccamente illustrato di pulp, film e canzonette, non salta fuori una pagina chic della cultura ma una mappa fedele – zero bellurie, nessuna caramellosità – della condizione umana.

N. B.
Qui una recensione di opposto parere sul testo di Dylan, apparsa su Carmillaonline il 1°gennaio 2023, a cura di Walter Catalano,

]]>
Dylan il trasfigurato https://www.carmillaonline.com/2018/02/01/dylan-il-trasfigurato/ Wed, 31 Jan 2018 23:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43025 di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato [...]]]> di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato agli anni compresi tra il 1988 e il 2012, che si intitolerà “Un nuovo inizio e la maturità” e comprenderà al suo interno gli indici delle canzoni, degli autori citati, dei temi, dei simboli e dei personaggi oltre a quelli delle Scritture citate in tutti e tre i volumi.

Più ancora che di fronte a un testo sulla presenza della Bibbia nell’opera del premio Nobel per la letteratura, ci troviamo davanti ad un’autentica Bibbia sull’opera di Bob Dylan, poiché per portarla a termine Giovannoli, ricercatore indipendente nel campo dei cultural studies ed autore di numerosi studi sul rapporto tra cultura popolare e cultura “alta”, ha osato fare ciò che nessun altro studioso aveva osato fare: analizzare l’intero corpus dylaniano sia mettendolo in rapporto con le sue radici popolari e dotte, sia andando ad identificare ogni possibile riferimento (frasi, canzoni, testi sacri) da cui il menestrello di Duluth ha tratto spunto per i suoi testi.

Una simile operazione era stata svolta in maniera sistematica soltanto da Greil Marcus nel suo Invisible Republic –Bob Dylan’s Basement Tapes nel 1997,1 che però si occupava esclusivamente delle circa 130 canzoni, scritte o rielaborate da Dylan e dai membri della Band durante il primo allontanamento dalle scene nel 1967, da cui sarebbero state poi tratte quelle che avrebbero dato vita nel 1975 all’omonimo album: The Basement Tapes.

Sempre Greil Marcus aveva scavato a fondo in una singola canzone di Dylan, Like a Rolling Stone, in un altro suo testo,2 ma nonostante le numerose opere dedicate all’autore americano, in Italia e all’estero, nessuno aveva mai osato spingersi così lontano e così in profondità nell’esegesi dell’opera dylaniana.

Come afferma Alessandro Carrera, un altro importantissimo studioso dell’opera di Dylan, 3

“Questo libro di Renato Giovannoli […] è una cosmologia di riferimenti, agganci, colpi di sonda, esplorazioni, ipotesi e dimostrazioni che stringono l’intera opera di Dylan in un solo covone, legato troppo bene per essere portato via da qualunque colpo di vento. Tante introduzioni sono possibili a Dylan; musicali, poetiche, sociologiche, politiche. Ma la Bibbia è l’accesso privilegiato, e questa mia premessa alla più generale introduzione articolata da Giovannoli non ha altro scopo se non inquadrare la religione secondo Dylan nel contesto dell’immaginazione spirituale della sua terra, in relazione ai tempi e al clima culturale che lo hanno formato come artista. Per l’esplorazione vera e propria, avrete a disposizione la mappa/territorio che Giovannoli ha approntato – un’opera unica, mai tentata finora in nessun’altra lingua, e che sarà molto difficile, se non impossibile, eguagliare.”4

Non a caso Carrera incrocia immaginario americano e religione, poiché se vi è una cultura che fin dalle sue origini, nel bene e nel male, sia a livello popolare che “colto”, è stata influenzata dalla narrazione biblica questa è stata sicuramente quella dell’America Settentrionale. In cui la data più appropriata per indicare simbolicamente il tempo dell’arrivo delle Sacre Scritture sembra essere quella dell’11 novembre del 1620, quando i Padri Pellegrini imbarcati sulla Mayflower, una nave partita da Plymouth in Inghilterra due mesi prima, sbarcarono erroneamente sulle coste del Massachusetts, essendo in realtà diretti verso la prima colonia del Nord America, Jamestown in Virginia fondata nel 1607.

Si trattava di rigidi puritani che si proponevano di purificare il culto della chiesa ed erano del parere che non bastasse separarsi dalla Chiesa di Roma, ma che si dovesse eliminare ogni traccia del cattolicesimo romano.
Perseguitati sia sotto il regno di Giacomo I Stuart che, successivamente, in Olanda, dove inizialmente avevano trovato rifugio, decisero di lasciare l’Europa e di iniziare una nuova vita in Nord America. Da qui è facile comprendere come il discorso biblico della Terra Promessa, e successivamente del Popolo eletto, avrebbe finito con l’influenzare le comunità che andarono istituendosi lungo le coste dell’Atlantico.

Anche se tale discorso finì troppo spesso col costituire una giustificazione per le prevaricazioni e le violenze nei confronti dei nativi americani, delle donne, degli schiavi africani là deportati e di tutti i rappresentanti delle ondate migratorie successive non appartenenti al gruppo WASP (White-AngloSaxon-Protestant), va però compreso come tale promessa di realizzazione collettiva ed individuale in una terra libera dalle catene dell’Ancien Régime finisse col tracimare all’esterno della cultura “bianca” e benestante dei commercianti e dei possidenti terrieri ispirati dal calvinismo, per cui l’accrescimento delle ricchezze collimava con il progetto divino di premiare i migliori, e riversarsi anche nell’immaginario degli strati più umili e non solo bianchi della popolazione.

Il gigantesco serbatoio mitopoietico della narrazione biblica, costituito da eroi, profeti, re, fughe dalla schiavitù, malvagi, guerre, traditori, donne dissolute, popoli in cammino nel deserto, vendette, punizioni divine, sacrifici, fede, promesse di salvezza, demoni, sepolcri, cadute dal Paradiso terrestre, redenzioni, diluvi e visioni apocalittiche ed ultramondane fornì quindi un materiale immenso per le narrazioni, le poesie, le canzoni, le ballate e gli insegnamenti per un popolo ancora disperso lungo le pianure del Midwest o della Valle del Missouri. Dalle Montagne Rocciose al Mississippi e alle piantagioni del Sud dove, spesso, padroni e schiavi, privati della loro iniziale identità culturale, finivano con l’attingere ispirazione dalla stessa fonte. Motivo per cui ancora oggi i membri del Tea Party e gli afroamericani appartenenti alle differenti congregazioni religiose possono far riferimento, da sponde opposte e con obiettive diversi, agli stessi inossidabili versetti.

Così mentre i contenuti illuministici della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione americana sembrarono rimanere relegati alla Costa orientale, lungo la quale si erano diffusi tra i nuovi ceti borghesi, la Bibbia accompagnò gli spostamenti verso Ovest in un contesto in cui la cultura era ancora prevalentemente orale e le forme giuridiche della società traevano ancora spunto dalla consuetudine più che dal diritto scritto. In un contesto naturale e geografico in cui l’uomo bianco cristiano sarebbe andato incontro ai suoi demoni e a quelli suscitati in lui dalle poche letture che si sarebbe portato dietro.

Che poi, di volta in volta, il testo delle Scritture e il significato stesso delle parole potesse essere piegato o storpiato per motivi di interesse o di scarsa comprensione (talvolta anche e banalmente linguistica) non impedì al testo biblico di liberarsi dall’esegesi di carattere religioso per farsi carne e sangue di una cultura umile, rigida e condivisa in cui, probabilmente, a trionfare fu spesso il dio vendicativo del Vecchio Testamento più che quello della salvezza dei vangeli. Motivo per il quale, nella stessa, rimase costante la presenza della morte, del castigo e della lontananza, forse dell’impossibilità, del perdono e della salvezza se non per i pochi predestinati. Una visione drammatica del destino individuale di cui molte canzoni popolari statunitensi costituiscono ancora la testimonianza.

Forse anche per questo, come ebbe a dire D.H. Lawrence: “Nella sua essenza, l’anima americana è dura, solitaria, stoica e assassina. Finora non si è mai ammorbidita”. Lo prova tutta la grande letteratura statunitense. Dal capitano Achab di Melville ai fantasmi di Edgar Allan Poe (rispetto ai quali i fantasmi europei di Horace Walpole sembrano i personaggi di un innocuo racconto per ragazzi), fino alle inquietanti storie di Nathaniel Hawthorne e ai mostri di H.P. Lovecraft oppure al vitalismo impregnato di morte di Hemingway e alle violente, e prive di speranza, storie western di Cormac McCarthy.

Ma anche nella popular music, da Hank Williams a Elvis Presley, dagli spiritual a Johnny Cash, dal gospel e dal blues a Bob Dylan, dalla musica soul alle murder ballads dell’Ottocento e del Novecento, non vi è ambito che non sia stato in qualche modo investito da quella tradizione. Motivo per cui Dylan, come autorevole rappresentante della cultura americana del ‘900, non ha potuto né tanto meno si è mai sognato di sfuggire a quel pressante imperativo della cultura popolare.

Bob Dylan, vero nome Robert Allen Zimmerman, è come tutti sanno di origini ebraiche ed è chiaro che per molti versi la narrazione biblica del Vecchio Testamento appartiene forse più a quella cultura che non a quella cristiana, ma più che questa supposta, e mai chiarita, vicenda dell’influenza religiosa sulla famiglia Zimmerman,5 certo è che fin dai suoi primi anni il giovane futuro poeta e cantore è stato immerso nella cultura proletaria e provinciale della piccola città del Minnesota che gli ha dato i natali, dove ancora nel 1920 erano stati linciati tre afroamericani accusati dello stupro di una donna bianca (con successiva e relativa vendita della cartolina ricordo dell’evento qui riprodotta). L’incontro non ancora ventenne con la musica di Leadbelly e successivamente dei neri americani e dei folk singer bianchi ha poi fatto il resto. Di cui il lettore potrà trovare tutti i percorsi e le tracce nella dettagliatissima ricerca e ricostruzione filologica condotta da Giovannoli.

Se questa costituisce la parte più copiosa e rimarchevole del testo, ce n’è un’altra, che si sviluppa proprio a partire dalla sua “conversione” dichiarata al cristianesimo evangelico, altrettanto utile per comprendere ed inquadrare quella che è e rimane una delle figura più contraddittorie e sfuggenti della musica e della cultura, non più soltanto popular, americana.
Ed è ancora una volta Carrera ad introdurla quando, ricordando le stesse parole di Dylan a proposito della sua repentina, conversione alla fede cristiana, parla di trasfigurazione ovvero di rinnovamento totale, spirituale e fisico, del neo-convertito. Che dopo essere stato battezzato nel gennaio del 1979, si iscrisse ad un corso trimestrale di lettura biblica in una chiesa di Reseda, in California. “Avevo sempre letto la Bibbia, ma per me era letteratura. Non ero mai stato istruito in maniera tale che per me divenisse significato”, avrebbe ancora affermato in seguito.6

La trasfigurazione nel discorso biblico ha direttamente a che fare che la rivelazione del carattere divino di Gesù agli Apostoli, ma serve anche benissimo a chiarire, credo sinceramente e una volta per tutte, il vero segreto del peregrinare musicale e personale di Dylan. Dal suo incontro col rock’n’roll di Buddy Holly quando non è ancora diciottenne ai dischi di Leadbelly che lo condurranno verso Woody Guthrie e gli altri eroi del folk americano; dalla scoperta del comunismo attraverso la famiglia militante di Suze Rotolo (la ragazza fotografata insieme a lui sulla copertina del suo secondo album Freewheelin’ Bob Dylan) alla rinuncia al suono acustico a favore di quello elettrico che lo farà andare incontro alle ire di Pete Seeger e dei suoi fan tra il 1965 e il 1966. Dalla riscoperta della country music di Nashville attraverso l’amicizia con Johhny Cash alla zingaresca carovana della Rolling Thunder Review che lo vedrà andare ancora in tour con Joan Baez, Ramblin’Jack Elliott, Allen Ginsberg e Sam Shepard (solo per citare alcuni dei comprimari di quella storia) in una sorta di riscoperta dei Medicine Show dell’Ottocento e del vagabondare dei Beat degli anni cinquanta. Dalla riscoperta della musica nera, in tutte le sue forme o quasi, all’attuale passione per il grande American Songbook degli anni Trenta e Quaranta e la senile passione per l’interpretazione delle canzoni di Frank Sinatra.

All’interno di questa storia di continue, vertiginose e inaspettate mutazioni, la vicenda della conversione religiosa tra il 1978 e il 1981 è sicuramente centrale. Da questo punto di vista il cofanetto di 8 cd recentemente pubblicato dalla Sony nella Bootleg Series, di cui costituisce il tredicesimo volume, è particolarmente utile per comprendere l’impeto, la passione, la forza creativa con cui Dylan affrontò questa ennesima e centrale trasformazione. Poiché è proprio attraverso le riprese dei concerti dal vivo tenuti in quel periodo, contenute nel film-documentario Trouble No More che accompagna il cofanetto dallo stesso titolo, è possibile vedere, sentire , comprendere quella autentica energetica e vitale trasfigurazione che accompagnò quel momento.

“Dylan ha attraversato una fase di attivismo predicatorio nel biennio 1979-1980, quando i suoi spettacoli erano diventati una successione di canzoni, prediche e invettive nella più pura tradizione dei preacher afro-americani degli Stati del Sud, che sono pastori e performer allo steso tempo.[…] Il quietismo non è mai stato parte di ciò che Dylan è, qualunque cosa Dylan sia, ma molte altre fasi sono seguite, caratterizzate da un uso a volte confuso ma sul lungo periodo sempre più consapevole, sottile, spesso poeticamente e teologicamente polivalente, delle fonti bibliche e del loro uso nella tradizione musicale americana. E’ qui che abbiamo bisogno dell’aiuto di Renato Giovannoli” 7

Giovannoli ci guida infatti in un’autentica Biblioteca di Babele folk-rock-blues-gospel in cui il fraseggio biblico si accompagna alle voce delle coriste afro-americane che accompagnarono Dylan durante le tournée di quegli anni e al fraseggio delle chitarre elettriche che sottolineavano brani come Solid Rock oppure al suono dell’organo Hammond che sottolinea i versi di Slow Train o Gotta Serve Somebody.

E allora si comprende che tutto il percorso di Dylan è il frutto di una continua trasfigurazione, in cui tutto cambia: le canzoni, la voce, l’aspetto fisico dell’ex-menestrello. Non per calcolo, ma per autentico cambiamento, in cui il protagonista è trascinato da una forza più grande, che di volta in volta si manifesta sotto forma di autentica passione: per il rock’n’roll, la musica nera, il folk, la spiritualità del gospel e del soul, la voce di Sinatra o le parole di Woody Guthrie, ma che ogni volta Dylan deve fare completamente sua per poi esaurirla e passare ad altro. Like a Rolling Stone, come una pietra che rotola.

Ecco allora anche la spiegazione del suo rifiuto di interpretare sempre le stesse canzoni e allo stesso modo (magari quello desiderato dai fan), la sua noia nei confronti dei giornalisti, dei critici e di tutti coloro che lo vorrebbero inquadrato una volta per tutte in un clichè. Da cui rifugge da sempre non come poseur, per snobismo o per amore della trasgressione, ma per semplice desiderio di ricerca e di cambiamento. Mai sazio. Mai finito. Mai definitivamente soddisfatto.

Conscio, come si coglie ancora dal testo in questione, di avere un destino da compiere. Come Dylan stesso ha affermato in un’intervista rilasciata a Ed Bradley della CBS, il 5 dicembre 2004: “E’ la sensazione si sapere di sé stessi che nessun altro sa, di sapere che quell’immagine di te che hai mente si realizzerà. E’ una cosa da tenere per sé, perché è una sensazione fragile, Se la si mette in mostra, qualcuno la ucciderà”8

Verrebbe da dire di Dylan ciò che Glenn Gould, altro genio sfuggente, ebbe a dire di Richard Strauss: “un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene e che parla per ogni generazione perché non si identifica con nessuna”.9 Mentre questa sua inafferrabilità lo avvicina ai personaggi del Mito, che lui stesso ha per così tanto tempo impiegato e rimaneggiato nelle sue canzoni, sempre inavvicinabili e mai completamente comprensibili se non per un simbolo forte e sempre riconoscibile: nel suo caso la canzone popolare in tutte le sue possibili declinazioni.

Vorrei, alla fine di questo excursus, ringraziare sinceramente non soltanto l’autore ma anche la casa editrice Àncora per la coraggiosa scelta di pubblicare un’opera fino ad oggi impensabile, mettendo a disposizione del pubblico una ricerca utilissima per tutti coloro che non solo vogliano avvicinarsi al “mistero” Dylan, ma più in generale ad una migliore, meno superficiale e meno scontata conoscenza della cultura americana. Popolare e non.


  1. Tradotto in Italiano come Bob Dylan. La repubblica invisibile, Arcana Editrice 1997  

  2. Greil Marcus, Like a Rolling Stone. Bob Dylan at the Crossroad, 2005, tradotto in Italia come Like a Rolling Stone, Donzelli 2005  

  3. Alessandro Carrera è professore di Italian Studies e di World Cultures and Literatures all’Università di Houston, in Texas, e ha tradotto per Feltrineli tutte le canzoni di Dylan nel monumentale Lyrics in tre volumi (2004 – 2016 – 2017), il primo volume delle Chronicles (2004) e revisionato la traduzione di Tarantula (2007) sempre di Dylan, pubblicati dalla stessa casa editrice, oltre ad aver pubblicato, sempre per Feltrinelli, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America (2001). Ha inoltre curato un’antologia di articoli e saggi, Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, pubblicato da Interlinea Edizioni nel 2008 e l’edizione italiana della Nobel Lecture di Dylan ancora per Feltrinelli nel 2017  

  4. Alessandro Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, saggio introduttivo a Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan, Volume I, pp. 7- 8  

  5. Lo stesso Dylan avrebbe affermato in un’intervista rilasciata nel 1978: “Non mi considero né ebreo né non ebreo. Non ho una formazione ebraica. Non prendo partito per nessun atto di fede. Credo in tutti e in nessuno”. Cit. in A.Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, pag. 10  

  6. Cit. in A. Carrera, op. cit. pp. 11-12  

  7. Alessandro Carrera, op. cit. pag.19  

  8. Citata in A. Carrera, op. cit. pag. 8  

  9. cit. in Mario Bortolotto, Equivalenze puritane, prefazione a Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Adelphi 1988 (ottava edizione 2013), pag. XXII  

]]>