François Truffaut – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Strategie di sparizione contro il potere https://www.carmillaonline.com/2024/07/09/strategie-di-sparizione-contro-il-potere/ Tue, 09 Jul 2024 20:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83402 di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Il diario delle mie sparizioni, Besa Muci, Nardò, 2024, pp.120, euro 14,00.

Deleuze e Guattari analizzano l’opera di Kafka come una  “deterritorializzazione” continua, strategicamente attraversata da un percorso di linee di fuga dirette verso dinamiche di assenza e di sottrazione. Una di queste strategie, per i due studiosi, è il “divenire animale”, come succede al protagonista di La metamorfosi (cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 56): “Noi diciamo che per Kafka l’essenza animale è la via d’uscita, la linea di fuga, anche senza spostarsi [...]]]> di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Il diario delle mie sparizioni, Besa Muci, Nardò, 2024, pp.120, euro 14,00.

Deleuze e Guattari analizzano l’opera di Kafka come una  “deterritorializzazione” continua, strategicamente attraversata da un percorso di linee di fuga dirette verso dinamiche di assenza e di sottrazione. Una di queste strategie, per i due studiosi, è il “divenire animale”, come succede al protagonista di La metamorfosi (cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 56): “Noi diciamo che per Kafka l’essenza animale è la via d’uscita, la linea di fuga, anche senza spostarsi dalla stanza, anche restando nella gabbia”. Linee di fuga, percorsi strategici di sottrazione a una ‘maggioranza’, vie d’uscita per sfuggire al controllo inesauribile di un oscuro potere sono assai presenti anche nella raccolta di racconti di Daniele Comberiati, Il diario delle mie sparizioni, recentemente pubblicata da Besa Muci, che si configura davvero come un piccolo gioiello di narrativa weird contemporanea. Le strategie di sottrazione al potere, nei racconti di Comberiati, non vengono però attuate mediante il “divenire animale”, come nell’opera di Kafka, ma attraverso veri e propri percorsi di “sparizione”, di assenza, di divenire minore e minoritario semplicemente sparendo.

Lo sfondo delle storie narrate è sempre costituito da una società greve e oppressiva, che spia e controlla, che incasella le esistenze degli individui in percorsi obbligati. Nel racconto che apre la raccolta, Sessantacinque anni, viene messa in scena una società del futuro in cui il capitalismo è caduto (nel 2035 che è già, sembra, un lontano passato nel momento della narrazione) e in cui vige un oscuro potere che – per risolvere il problema della sovrappopolazione e per garantire, apparentemente, una vita migliore – impone di non vivere oltre i sessantacinque anni d’età. In un universo distopico che ricorda quello allestito da Elias Canetti nel suo testo teatrale Vite a scadenza, in cui gli esseri umani hanno già impresso fin dalla nascita, in una capsula, il numero di anni che sono tenuti a vivere, c’è un personaggio che si ribella, il padre del cinico Emiliano, spinto unicamente dall’istinto vitale a vivere e sopravvivere:

Quante cazzate… sembra che la Los Angeles ricca e alternativa di inizio ventunesimo secolo – un frullato di finte filosofie orientali, biologico e prezzi esorbitanti e crudele gerarchia sociale – sia il modello che ha vinto. Per questo, però, dobbiamo essere pochi o, almeno, troppi. Per questo, a sessantacinque anni, andiamo tutti al Dépanneur. Per rigenerare il corpo sociale e collettivo di cui tutt* facciamo parte”. Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo. Io voglio vivere, e non m’importa come né a discapito di chi. Voglio ancora l’illusione di quando si viveva senza pensare alla morte. Come se non esistesse (p. 14).

Il personaggio ribelle, braccato dalla polizia segreta, il Sigurimi, si allontana dalla società rifugiandosi in una fantomatica comunità di ribelli chiamata “Veneranda” (che può ricordare la comunità segreta degli “uomini-libro” in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e nel film di Truffaut tratto dal romanzo) che si trova nel parco cittadino, dove si nascondono coloro che, raggiunti i sessantacinque anni, non hanno alcuna intenzione di morire. È con una fuga, con una sparizione, con un’assenza che il personaggio si allontana dalla crudele e greve realtà in cui persino i suoi familiari più stretti (il figlio e i nipoti) non intendono trasgredire le ciniche e disumane leggi dello stato.

Il tema dell’assenza e della sparizione è presente anche nel successivo racconto, 1993, in cui una comunità in Italia, vicino Roma, vive ed è autorganizzata secondo lo stile di vita, appunto, del 1993. Il protagonista, che vi si reca per intervistare il fondatore, cerca di scoprire i motivi di questa scelta: chissà – pensa – forse i membri della comunità volevano ricominciare da un anno simbolo in cui si poteva ancora svoltare per non incorrere in successivi errori. Non si può non ricordare infatti che, emblematicamente, il 1993 rappresenta l’ultimo anno prima della vittoria politica di Berlusconi che formerà il suo primo governo proprio nel 1994. Però, probabilmente, avrebbero dovuto scegliere un anno prima del 1980, data che simbolicamente segna l’avvento del disimpegno, dell’edonismo, della “Milano da bere”, in cui il berlusconismo (pur non essendo ancora palesemente legato alla politica) si insinuava in modo strisciante nelle coscienze degli individui. Infatti, nel 1993, come si evince anche dal racconto, è già assai presente una cultura edonistica all’insegna dell’individualismo che si intravede soprattutto nell’avvento di una grossa catena di noleggio di home video, la Blockbuster, presente anche nell’immagine di copertina del libro. Una grande catena, imposta dai meccanismi del capitale, deputata alla distribuzione di un piccolo cinema domestico, antenato delle piattaforme digitali di oggi, che ha contribuito a spopolare i cinema e a costringere gli individui nella solitudine dei propri salotti.

In Il luogo da cui tutte tornano, la sparizione è quella di diverse donne musulmane velate, che avviene a Montpellier: un avvenimento che insospettisce gli inquirenti che non esitano a tacciare le donne come “terroriste”. Si tratta di un racconto scopertamente autobiografico in quanto l’io narrante, italiano, insegna all’università (come l’autore, che è docente di letteratura e cultura italiana all’università di Montpellier) e osserva con crescente interesse e stupore gli avvenimenti relativi alle misteriose sparizioni. Nel racconto, la sparizione è anche quella che investe la donna nell’universo culturale islamico, costretta a portare il velo, diventando quasi invisibile all’interno della società, completamente sottoposta all’autorità maschile. D’altra parte, è la stessa comunità islamica a ‘sparire’ per lo sguardo occidentale, pronto ad egemonizzare e colonizzare qualsiasi altra cultura: soltanto perché portano il velo e, a un certo punto, scompaiono, le donne musulmane sono trattate come “terroriste”.

Sono invece gli asini a sparire, e a rimanere sottoterra, in Gli asini dell’Hospitalet, in cui si racconta di come la città di Barcellona, in una crisi mondiale, sia l’unica a mantenere una qualità della vita elevata grazie alla scoperta di un particolare fungo che cresce nei suoi sotterranei. Per poter estrarre il fungo sono necessari degli asini catalani, della grandezza giusta per potersi infilare nei tunnel, sui quali viene caricato il fungo per essere portato in superficie. In una società individualista, fondata su un cinico meccanismo di autosufficienza, gli asini vengono sfruttati e picchiati fino a quando… decidono di sparire. Come gli sfondi sociali presenti negli altri racconti, anche questo appare intriso di spietato individualismo e menefreghismo: “Mangiavamo carne, pesce, pasta e pane a base di fungo, ma i supermercati erano tornati a riempirsi e noi non avevamo risentito dei prezzi folli dell’inflazione mondiale. Che si uccidessero pure fra russi e ucraini, che si sciogliessero i Poli, che le estati non finissero mai per il riscaldamento climatico! Tanto noi avevamo il fungo” (pp. 72-73). L’esaltazione delle spietate libertà individuali viene messa in crisi dalla fuga verso una ‘tana’ sotterranea degli animali che, sfruttati fino alla morte, dovrebbero garantire la sopravvivenza di quelle stesse libertà. Gli asini tornano animali tout court e si ribellano, si sottraggono alla vista, entrano nelle tane kafkiane precluse agli inconsapevoli individui. Oltretutto, non ci sono solo gli asini nelle “fungaie” ma anche altri ‘invisibili’, che quotidianamente ‘spariscono’ in esse, e cioè i lavoratori che estraggono i funghi, la cui aspettativa di vita è di un terzo più bassa rispetto a coloro che lavorano in superficie: “I fungaroli, come si chiamano ormai, sono i minatori del ventunesimo secolo: senza di loro si blocca l’economia, ma vivono sottoterra, invisibili e nel mondo ‘normale’ non valgono niente” (p. 73).

L’ultimo racconto, Il diario delle mie sparizioni, è quello che conferisce il titolo alla raccolta e che appare come un vero suggello della stessa. Il personaggio io narrante, scrivendo il suo diario, dà il via libera alle sue “stranezze” raccontando le sue misteriose sparizioni che avvengono spesso durante il sonno. Naturalmente, fin da ragazzo, non è mai riuscito ad avere una vita normale, sempre soggetto a sparire per alcuni giorni, senza peraltro poterlo prevedere, come un vampiro che durante il giorno è costretto a sparire (tra l’altro vengono in mente i personaggi di Intervista col vampiro di Neil Jordan – tratto da un romanzo di Anne Rice – o di Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch). La scrittura diaristica appare come una rivincita nei confronti di un universo sociale che lo ha sempre considerato un po’ strano, emarginato e non integrato. Per opporsi a una società che gli chiude la porta in faccia, il personaggio scompare e ritorna, come ritornano alla fine della storia le donne musulmane in Il luogo da cui tutte tornano. Il personaggio, sparendo e anche scrivendo (una scrittura diaristica che diventa vampiresca e notturna, come la scrittura delle lettere di Kafka secondo Deleuze e Guattari), sviluppa la sua “legittima stranezza”, secondo quanto afferma il poeta surrealista René Char citato da Michel Foucault nella sua Storia della follia. Una “legittima stranezza” che si oppone alla rigida normalità su cui è impostato il vivere comune, una linea di fuga curva e serpentina che si scontra con la geometria dei percorsi obbligati. Sparizione è ribellione: viene allora in mente la silenziosa ribellione di Julian, in Porcile di Pasolini, che letteralmente sparirà divorato dai maiali. Perché il lato oscuro dell’esistenza è quello più interessante ma è anche quello che mai potrà essere raccontato. Nei vuoti della parola e dell’esistenza si insinuano magistralmente le narrazioni di Il diario delle mie sparizioni. Restano solo i segni, le allusioni, i non detti, le vie di fuga, le assenze e le sparizioni che si oppongono a qualsiasi forma di autorità e di potere.

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La “grazia sconosciuta” di Jean Vigo https://www.carmillaonline.com/2024/06/27/la-grazia-sconosciuta-di-jean-vigo/ Thu, 27 Jun 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83188 di Paolo Lago

Giovanni Cocco, Una grazia sconosciuta, Editoriale Scientifica, Napoli, 2024, pp. 204, euro 15,00.

È una forma ibrida fra biografia, autobiografia, romanzo, saggio di critica cinematografica Una grazia sconosciuta, il libro che Giovanni Cocco dedica alla vita e all’opera di Jean Vigo. Si tratta di uno scritto polimorfo che, proprio in virtù del suo habitus ibrido, non definito, esercita un fascino particolare sul lettore. Lo stesso oggetto libro, a vedersi, non sembra essere legato in nessun modo alla figura di Vigo (che non viene nominato nel titolo), nella sua elegante veste verdolina con una riproduzione di un’opera dell’artista giapponese [...]]]> di Paolo Lago

Giovanni Cocco, Una grazia sconosciuta, Editoriale Scientifica, Napoli, 2024, pp. 204, euro 15,00.

È una forma ibrida fra biografia, autobiografia, romanzo, saggio di critica cinematografica Una grazia sconosciuta, il libro che Giovanni Cocco dedica alla vita e all’opera di Jean Vigo. Si tratta di uno scritto polimorfo che, proprio in virtù del suo habitus ibrido, non definito, esercita un fascino particolare sul lettore. Lo stesso oggetto libro, a vedersi, non sembra essere legato in nessun modo alla figura di Vigo (che non viene nominato nel titolo), nella sua elegante veste verdolina con una riproduzione di un’opera dell’artista giapponese Furuya Korin. Incontrarci Vigo, e scoprirlo gradatamente, sarà una ulteriore affascinante sorpresa. Le vicende ambientate nei primi anni Trenta, che vedono Vigo alle prese con la realizzazione dei suoi film, si riflettono come in uno specchio nella contemporaneità, nelle vicende successe negli ultimi anni. A loro volta, i luoghi e le vicende contemporanee si riflettono in quelle a cavallo fra anni Venti e Trenta. Il focus narrativo si concentra soprattutto su Nizza, Parigi e i suoi dintorni, luoghi dove Vigo ha vissuto e ha girato i suoi film. Ad esempio, il libro si apre con un prologo in cui l’autore ricorda l’attentato del 14 luglio del 2016 che provocò ottantasei morti e trecento feriti sul lungomare di Nizza. Su quello stesso lungomare, ottantasette anni prima, il giovane regista anarchico Jean Vigo iniziava le riprese del suo primo cortometraggio, À propos de Nice (1929), in una Francia che di lì a non molti anni avrebbe conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale. Il gioco di rispecchiamenti e di intrecci investe anche la biografia di Vigo e l’autobiografia di Cocco: lo scrittore, infatti, attua una continua rifrazione delle proprie vicende personali e familiari in quelle di Vigo, e viceversa. Quasi senza soluzione di continuità si passa dalle situazioni personali dell’autore a quelle di Vigo, fino al momento in cui Costanza, la compagna dello scrittore, gli chiede, riferendosi al regista: “Intendi dire che si sentiva oppresso come quando mi parli del tuo lavoro?”. Ma c’è di più: le rifrazioni non riguardano soltanto le vicende biografiche del regista a cavallo fra anni Venti e Trenta del Novecento e dello scrittore a cavallo fra anni Dieci e Venti del nuovo millennio. Il tutto sembra poi rinfrangersi nella finzione cinematografica messa in scena da Vigo: ad esempio, il non sempre facile rapporto di coppia fra Jean e Lydou, la sua compagna, si riflette in quello fra Giovanni e Costanza ed anche in quello fra Jean e Juliette, che il regista ci racconta in L’Atalante (1934). Le storie e le vicende si intersecano, si aggrovigliano per poi sdipanarsi all’interno di una scrittura che avvolge ed attrae. Insomma, con Una grazia sconosciuta non ci troviamo davvero davanti ad un oggetto letterario convenzionale e scontato.

Per introdurci dentro la realizzazione del primo corto di Vigo, il già ricordato À propos de Nice, Cocco utilizza la strategia della forma elenco: una serie di parole e di frasi che evocano le immagini del film e che si succedono senza un ordine apparente, davvero, con una grazia tutta surrealista. La parola scritta tende quindi a mimare l’immagine, le sequenze del film che mostrano Nizza sotto vari aspetti, dai luoghi più eleganti a quelli più popolari (di gran lunga più amati dal regista). Vigo (del quale è stato tratteggiato un ottimo profilo qui su “Carmilla”), figlio dell’anarchico Miguel Almereyda (pseudonimo di Eugéne Bonavenure de Vigo), morto nella prigione di Fresnes, è un regista libero e ribelle, che ha lottato duramente contro i meccanismi della nascente industria cinematografica che già allora imponevano condizioni ciniche e spietate. Vigo ha sempre seguito il suo istinto e la sua vocazione contro le crudeli “logiche di mercato” che avrebbero voluto farlo essere ed agire secondo il loro diktat anche se, in alcuni momenti, ha dovuto comunque piegarsi ad esse per poter realizzare materialmente le proprie opere. Nel finale del libro, Cocco, dopo una visita alla tomba del regista, ci racconta di aver ritrovato una nuova capacità di guardare al futuro proprio grazie a ciò che gli ha insegnato Jean Vigo: “Jean Vigo mi aveva insegnato che era possibile vivere in un modo diverso, e amare ogni singolo istante della vita per ciò che era: un regalo inaspettato, una fortuna, una maledizione; e che era possibile accettare qualunque sorte, a patto di avere il coraggio di seguire il proprio istinto e la propria vocazione; senza sconti, a qualunque prezzo, con passione, qualunque fosse il risultato”.

Dopo un capitolo dedicato ad un altro corto di Vigo, Taris, roi de l’eau (1931), sul campione di nuoto Jean Taris, uno dei primi film in cui incontriamo riprese subacquee, lo sguardo di Cocco si focalizza su Zéro de conduite (1933), un film che racconta la rivolta degli studenti di un collegio contro le autorità scolastiche. Come osserva l’autore, con quest’opera il regista intendeva offrire “una visione del mondo precisa: quella dell’infanzia oltraggiata che, di fronte alla solitudine e alla sofferenza, prima si ribella, nella straordinaria scena della battaglia dei cuscini, per poi sforzarsi di ricavare un posto al sole, quando i ragazzini si impossessano del collegio e mettono alla berlina i carcerieri”. Anche in questo caso si può intravedere una rifrazione delle vicende personali dell’autore relativamente al suo lavoro di insegnante di scuola media: a un certo punto lo scrittore racconta della sua esperienza di insegnamento in una nuova scuola, nella quale non si è trovato bene: “La ferrea disciplina e il clima di quella scuola mi terrorizzavano”. Forse si tratta di un istituto epigono di quello in cui si svolge la vicenda raccontata da Vigo, fra grotteschi, crudeli e ambigui istitutori e uno, invece, dalle qualità umane, Huguet, che viene prontamente allontanato. Quattro studenti, puniti con lo “zero in condotta”, capeggeranno una rivolta durante la festa della scuola, issando sul tetto della scuola una bandiera con un teschio (al posto della bandiera francese) trasformandosi così quasi in pirati durante un’incursione. Pirati che però assomigliano di più all’immagine ‘romantica’ e immaginaria (poco corrispondente alla realtà) che abbiamo di essi: liberi e anarchici guerrieri che lottano contro tutte le ingiustizie. Oltre alla denuncia sociale, nel film è molto presente anche una dimensione magica, onirica e poetica: un aspetto che – rileva Cocco – non è stato colto dai contemporanei ma è stato riscoperto nel dopoguerra e, successivamente, soprattutto grazie ai teorici e ai registi della Nouvelle Vague (basti pensare solo ai Quattrocento colpi – 1959 – di François Truffaut, che deve non poco al cinema di Vigo). I ragazzi si ribellano all’autorità gretta e meschina di un’istituzione rigida e antiquata che però – come possiamo evincere dalle notazioni dello scrittore – sembra sopravvivere ancora adesso nelle plaghe delle varie riforme della scuola.

Infine, l’ultimo capitolo è dedicato al film più celebre di Vigo, realizzato nell’anno stesso della sua morte, avvenuta a soli 29 anni per tubercolosi. Si sta parlando di L’Atalante (1934), di cui alcune sequenze sono note al pubblico italiano come sigla di Fuori orario, con lo sfondo sonoro di Because the night di Patty Smith. È una storia d’amore che si srotola lungo i fiumi francesi, fino alla Senna e a Parigi, a bordo dell’“Atalante”, un barcone fluviale. La giovane Juliette (Dita Parlo), sposatasi con Jean (Jean Dasté, che già aveva interpretato l’istitutore Huguet, benvoluto dai ragazzi, in Zéro de conduite), comandante della barca, intraprende con lui, con il marinaio Père Jules (Jean Simon) e il mozzo di bordo (Louis Lèfebvre), un viaggio fino a Parigi. Qui la ragazza, attratta dalla città e dalle sue vetrine scintillanti, si perderà, facendo ingelosire il marito Jean, per poi fare ritorno sull’“Atalante”. Anche nel capitolo dedicato a L’Atalante, lo scrittore inserisce delle notazioni personali che, come già osservato, si rifrangono nella storia raccontata nonché nella vita personale di Vigo: “Mi capitava di pensare a me, a quello che stavo vivendo in quel frangente, a Costanza e ai miei figli: novant’anni prima Jean Vigo aveva messo in scena le stesse cose che stavo vivendo, il raffreddamento del rapporto di coppia, i primi malumori, il distacco progressivo che mi stava allontanando dalla mia compagna”. D’altra parte, come negli altri capitoli, incontriamo anche notizie sulla realizzazione del film, dall’analisi dei vari rimaneggiamenti cui è stato sottoposto senza il beneplacito di Vigo fino alle notizie che riguardano la sfera personale del regista, sull’aggravamento della sua malattia causato dalle riprese effettuate in inverno nell’umidità dei canali parigini.

Perciò, ricollegandoci a quanto detto all’inizio, sarebbe riduttivo considerare Una grazia sconosciuta una semplice biografia di Jean Vigo o uno studio sulla sua opera cinematografica. È una narrazione polimorfa, che mette in gioco il regista francese e i suoi film in una dimensione più ampia, in cui si intensificano le rifrazioni fra la sua epoca e quella di oggi, fra la sua vita e quella dell’autore. Per chi già conosce il regista francese e, a maggior ragione, per chi non lo conosce, sarà un percorso, intriso di una sinuosa e avvolgente scrittura, capace di creare una magica e poetica dimensione, un immaginario ‘altro’ rispetto a tutta la banalità che ci circonda.

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Quando i luoghi raccontano le storie, fra Livorno e New York https://www.carmillaonline.com/2021/06/10/quando-i-luoghi-raccontano-le-storie-fra-livorno-e-new-york/ Thu, 10 Jun 2021 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66694 di Paolo Lago

Emiliano Dominici, Gli anni incerti. Canzone di fine millennio, effequ, Firenze, 2020, pp. 364, € 18,00.

Nel recente romanzo di Emiliano Dominici, Gli anni incerti, molto probabilmente, è lo spazio a divenire protagonista e narratore, un vero e proprio “spazio temporalizzato, in cui si percepiscono la storia pubblica, le storie individuali, i conflitti: un paesaggio urbano fortemente polifonico”1. Lo spazio, quindi, diviene una sorta di interlocutore privilegiato per noi lettori, si espande e si racconta, sotto la lente [...]]]> di Paolo Lago

Emiliano Dominici, Gli anni incerti. Canzone di fine millennio, effequ, Firenze, 2020, pp. 364, € 18,00.

Nel recente romanzo di Emiliano Dominici, Gli anni incerti, molto probabilmente, è lo spazio a divenire protagonista e narratore, un vero e proprio “spazio temporalizzato, in cui si percepiscono la storia pubblica, le storie individuali, i conflitti: un paesaggio urbano fortemente polifonico”1. Lo spazio, quindi, diviene una sorta di interlocutore privilegiato per noi lettori, si espande e si racconta, sotto la lente della stratificazione temporale che ne mostra i cambiamenti, come bene ha dimostrato, riguardo alla letteratura, Silvia Albertazzi con il suo saggio dal titolo In questo mondo, ovvero quando i luoghi raccontano le storie. La letteratura, del resto, ha trasformato molto spesso lo spazio in cui le storie vengono ambientate in vero e proprio protagonista: si potrebbe pensare alla Londra di Dickens, alla San Pietroburgo di Dostoevskij o alla Brooklin di Auster, oppure, in ambito italiano, alla Ferrara di Bassani, alla Roma di Pasolini e, relativamente alla narrativa contemporanea, alla Milano di Alessandro Bertante, oggetto di un vero e proprio esperimento di “geopoetica”, ovvero di “riscrittura creativa dei fenomeni naturali e del territorio”2.

Emiliano Dominici punta la sua lente narrativa su Livorno, sua città d’origine. Ne Gli anni incerti, a maggior ragione, si può affermare che sia lo spazio a narrare la storia perché, appunto, questa comincia prima della nascita dei protagonisti, dal loro concepimento, secondo una strategia narrativa adottata, in forma sperimentale, già da Laurence Sterne col suo Tristram Shandy, che inizia infatti dal concepimento del protagonista. Jerry, Giulia e Guido, all’inizio non sono ancora nati: e se il primo nasce a New York e la seconda ad Assisi (a Livorno nascerà solo Guido), sarà proprio Livorno la città che li vedrà riuniti, come un vero e proprio luogo ‘prenatale’, in quanto le loro famiglie sono tutte originarie della città toscana. Significativo è poi il fatto che tutti e tre nascano lo stesso giorno, il 22 giugno 1969, a rimarcare un sottile legame astrale che li unirà tutta la vita. La città può essere considerata come un “luogo prenatale” nel quale vigeva la logica simmetrica di unione col ventre materno, simmetria poi perduta, secondo le teorie di Ignacio Matte Blanco, uno psicanalista cileno, interessante continuatore di Freud. Del resto, il desiderio di simmetria perduta, fin dal mito platonico narrato da Aristofane nel Simposio (in principio gli esseri umani erano androgini poi tagliati in due da Zeus), ha sempre caratterizzato sia il linguaggio erotico che quello mistico: dalla coppia di innamorati divisa e poi ricostituita dei romanzi greci fino a Juan de La Cruz e John Donne3.

Livorno è perciò il luogo in cui vigeva l’unità perduta e nel quale i tre personaggi, mossi reciprocamente da attrazione non solo affettiva ma anche erotica, cercheranno di ricrearla. Quello livornese si configura come un vero e proprio “spazio temporalizzato” che si muove attraverso il tempo. La storia prende infatti avvio nel 1969 e si dipana fino al 2001, realizzando un affresco di storia italiana. I personaggi sono lambiti, direttamente o indirettamente, da momenti significativi degli ultimi decenni del novecento: l’autunno caldo del 1969 (che Vittorio, padre di Guido, da operaio vive in prima persona partecipando a diverse manifestazioni a Pisa), la bomba di Piazza Fontana, lo sbarco sulla Luna, l’omicidio di Pasolini (la cui notizia, ascoltata in televisione, provoca il pianto di Alberta, madre di Jerry), gli anni di piombo, il ‘riflusso’ e il disimpegno degli anni Ottanta, le manifestazioni studentesche degli anni Novanta (il movimento della Pantera, vissuto dai tre ragazzi studenti all’università di Pisa) fino soltanto a intravedere la contestazione di Genova 2001.

Gli spazi ‘temporalizzati’ sono fondamentalmente due: Livorno e New York. Jerry nasce nella metropoli americana (a Central Park, durante un concerto dei Grateful Dead) e questa assume una rilevante importanza narrativa già nei momenti iniziali, in cui la madre Alberta la percorre in lungo e in largo insieme al bambino. Livorno è il luogo in cui i tre si incontrano e stipuleranno la loro eterna amicizia. Allora, nella prima parte del romanzo ci scorre sotto gli occhi una Livorno fine anni Sessanta e inizio anni Settanta. La sapiente scrittura di Dominici sembra dipanare sotto i nostri occhi un vero e proprio “film dell’impossibile”, secondo una definizione offerta da Carlo Cassola: la trasposizione narrativa di un quadro o di una stampa popolare ma anche, si potrebbe aggiungere, di una fotografia dell’epoca. Le vie, le piazze e le case di Livorno sembrano animarsi di vita propria come se, plasticamente, emergessero da una foto a colori di quegli anni, insieme alle persone che le popolano, insieme ai loro abiti, alle loro abitudini e alle loro automobili. Però – si badi bene – la narrazione dell’autore non appare semplicemente cronachistica, come se fosse la pura e semplice trasposizione letteraria di un quadro (come nell’antica ekfrasis), ma si presenta intrisa di vita, della vita quotidiana che sempre uguale si ripete, dei problemi e degli affanni della gente comune, dei dolori ma anche delle gioie e delle felicità che possono scaturire da un semplice sguardo. È soprattutto l’anima più popolare di Livorno che emerge dalle pagine di Dominici, dei quartieri più schietti e genuini che egli stesso ama di più.

La storia si espande fin quasi ad affrescare una saga familiare, di quella grande famiglia allargata costituita da genitori, parenti e amici dei tre protagonisti (e, nel corso della narrazione, vedremo una tipologia di famiglia ben lontana da quella ‘tradizionale’ perché una famiglia è costituita da chiunque si voglia bene), rappresentata graficamente come tante piccole stelle in una pagina iniziale del libro, a adornare il triangolo i cui vertici sono costituiti da Jerry, Giulia e Guido (il numero tre, come immagine di unione perfetta, ricorre infatti spesso nel corso della storia). Fra quelle piccole stelle incontriamo anche Capitalismo, il coniglio domestico della famiglia di Guido. Vittorio, da buon comunista, non ha esitato un attimo a scegliere il nome del piccolo animale:

Quando è stato il momento di scegliere il nome, a Vittorio è venuta un’idea: «È brutto? È cattivo? Mangia tutto? Allora lo chiamiamo Capitalismo». Così, quando il coniglio fa le sue cacatine nel soggiorno, Antonella lo apostrofa con «Brutto, Capitalismo!». O quando mangia l’insalata dell’orto, gli urla «Capitalismo, ingordo!». Quando lo sorprende nel letto dei bambini, lo scaccia con uno scappellotto e un «Capitalismo, sparisci!». Ogni volta che sente la moglie gridare contro il coniglio, Vittorio sorride, pensando di avere avuto una buona idea (pp. 47-48).

La narrazione, però, non mette solamente in scena una saga di tipo familiare ma anche, come già accennato, uno spaccato di vita italiana, rispecchiata nel microcosmo livornese. Questo aspetto, probabilmente, è evidente nel sottotitolo del romanzo, Canzone di fine millennio che, rimandando alla musica (un po’ sullo stile di un grande modello come la Pastorale americana di Philip Roth, il cui titolo rimanda a una composizione musicale), vuole trasmettere l’idea di composizione, di lungo canto poetico che appare come un omaggio alla propria terra.

Bisogna anche dire, comunque, che la musica è assai presente nell’intero racconto: dalle canzoni ascoltate dai personaggi fino, a livello formale, agli stessi titoli delle parti in cui è diviso il libro, ripresi, ad esempio, da frasi di canzoni di Nada, De Gregori, Battiato, dei Nirvana e dei R.E.M. L’impianto polifonico del libro (a creare, appunto, un “paesaggio polifonico”) è dato anche dai numerosi riferimenti all’arte, alla letteratura e al cinema. Quest’ultimo emerge soprattutto nel momento in cui Guido, all’università, seguendo il corso di Storia del cinema, si appassiona a molti registi contemporanei. Durante l’occupazione dell’università, nel Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo viene allestita una rassegna sulla Nouvelle Vague e i protagonisti sono attratti, non a caso, da Jules e Jim (1962) di François Truffaut. Guido, Giulia e Jerry si identificano nei personaggi del film e nelle loro incessanti scorribande all’insegna del triangolo erotico che li unisce. E, a tale proposito, si potrebbero ricordare anche i protagonisti di Bande à part (1964) di Jean-Luc Godard che, fra le loro scorribande attraverso Parigi, compiono anche una corsa nelle sale del Louvre, sequenza citata da Bernardo Bertolucci in The Dreamers (2003).

Perché, alla fine, anche Guido, Giulia e Jerry sono tre sognatori che non si sono fermati di fronte alla realizzazione dei propri sogni, accettando di essere se stessi fino in fondo: la pittura per Guido, lo studio della letteratura per Giulia, le Scienze per Jerry. Fino al sogno più difficile e probabilmente più importante, quello di mantenere intatta un’amicizia che è molto di più, che di volta in volta si trasforma in fraternità, eros, amore, affetto, attrazione sessuale. E, per capire davvero se, alla fine, sono riusciti a realizzare questo sogno, non resta altro da fare che inerpicarsi attraverso l’avvolgente e intrigante narrazione de Gli anni incerti.


  1. M. Fusillo, Estetica della letteratura, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 184. 

  2. Ivi, p. 184. 

  3. Cfr. I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino, 2000, pp. 118-119 e pp. 345-346. 

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Il corpo e lo sguardo nel cinema della modernità https://www.carmillaonline.com/2020/09/24/il-corpo-e-lo-sguardo-nel-cinema-della-modernita/ Thu, 24 Sep 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62892 di Paolo Lago

Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 211, € 12, 50.

È il corpo il protagonista del recente, interessante saggio di Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, uscito per Marsilio. Il corpo degli attori più significativi e indimenticabili che hanno attraversato il cinema della modernità. Quest’ultimo, secondo Serge Daney, ha dei precisi confini cronologici: “Il cinema moderno è nato nell’Europa martoriata dalla guerra, con Rossellini, e sarebbe morto trent’anni dopo con Pasolini”. Nel cinema moderno, [...]]]> di Paolo Lago

Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 211, € 12, 50.

È il corpo il protagonista del recente, interessante saggio di Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, uscito per Marsilio. Il corpo degli attori più significativi e indimenticabili che hanno attraversato il cinema della modernità. Quest’ultimo, secondo Serge Daney, ha dei precisi confini cronologici: “Il cinema moderno è nato nell’Europa martoriata dalla guerra, con Rossellini, e sarebbe morto trent’anni dopo con Pasolini”. Nel cinema moderno, quindi, “i personaggi non sono più entità astratte” ma “corpi di carne”, spesso indolenti e stanchi come gli attori (e i non attori) chiamati a portare la loro verità a queste finzioni”. I corpi degli attori del cinema della modernità, perciò, come scrive Scandola in modo suggestivo, “desiderano vivere la propria vita e non quella del personaggio”. È questa l’idea di fondo del saggio, il quale, analizzando soprattutto le figure degli attori, ci offre un vero e proprio viaggio – probabilmente un viaggio mai percorso così in profondità da altri studiosi – attraverso lo stile e la poetica di tanti registi che fanno in modo che le storie raccontate “risultino la secrezione dei personaggi e non il contrario”.


L’analisi è svolta seguendo un rigoroso ordine cronologico: si parte dagli anni quaranta del Neorealismo per approdare agli anni ottanta. Una delle interpreti più significative del Neorealismo è sicuramente Anna Magnani. Icona del cinema neorealista – basti ricordare l’interpretazione della popolana Pina in Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini – in Bellissima (1951) di Luchino Visconti ella diviene il fulcro di numerosi rimandi metacinematografici. È la stessa Maddalena, personaggio del film interpretato dalla Magnani, a attuare diverse allusioni alle precedenti interpretazioni dell’attrice fino a trasformarsi in una comédienne dell’Ottocento durante la scena della toilette davanti allo specchio (“In fondo che è recità?” si chiede Maddalena ed ecco il personaggio che si finge attrice: “due colpi di pettine sui capelli scarmigliati, la mano destra sul petto come una comédienne dell’Ottocento, e una fortissima key light puntata sul viso”). L’analisi, passando attraverso la figura di una altro grande attore di questi anni, Massimo Girotti (emblema, nelle sue prime interpretazioni, della “maschilità latina forte e sana” e traghettato al Neorealismo da Luchino Visconti con Ossessione), ci conduce fino a una caratteristica stilistica del Neorealismo, e cioè la scelta di attori non professionisti (una pratica, del resto, prescritta già da importanti registi e teorici come Vertov, Bazin e Ejzenstejn) e di attori bambini. L’analisi si incentra allora sull’interpretazione di Edmund offerta da Edmund Meschke in Germania anno zero (1948) di Rossellini. “Non sappiamo se questo attore bambino – scrive Scandola – scoperto in una famiglia di circensi, sul set faccia davvero, come sostiene il regista, solo ciò che è abituato a fare. Di certo, a più di settant’anni di distanza, il suo corpo gracile e nervoso resta forse l’emblema più alto del sogno neorealista, che era quello di catturare il reale senza le mediazioni dell’attore e del personaggio”.

Secondo lo studioso, l’attore della modernità gravita sostanzialmente fra due stati: “L’immobilità, grado estremo dell’inazione potenziato” (in autori come Ferreri, Pasolini, Straub o Fassbinder) e “una sorta di movimento perpetuo, il quale si configura come camminata, vagabondaggio o viaggio. Un vero e proprio viaggio, come già accennato, è anche quello che facciamo noi lettori nella modernità cinematografica grazie al saggio di Scandola: proseguendo, incontriamo così il secondo capitolo, dedicato soprattutto al cinema francese degli anni sessanta e alla Nouvelle vague. Secondo Robert Bresson, “l’attore ideale è la persona che non esprime nulla” ed è così che egli chiede ai suoi attori di essere semplicemente se stessi, di non compiere gesti intenzionali ma automatici, di essere, in sostanza degli “automi” che si muovono in un racconto filmico messo in scena non per imitare il vero ma per mostrare l’infinito mistero racchiuso in esso. Alain Resnais, invece, in L’anno scorso a Marienbad (L’Année dernière a Marienbad, 1961) chiede a Delphine Seyrig, altra importante attrice di questo periodo, di lasciar trasparire la letterarietà e, quindi, il lato più fantastico e irreale, dal suo personaggio (addirittura denominato solo con una lettera, A). Lo stesso corpo dell’attrice, come gli “oggetti desueti” (per dirla con Francesco Orlando) che formano l’arredamento dell’albergo e gli elementi decorativi del parco, subisce un vero e proprio processo di frammentazione (basti ricordare anche l’incipit di Hiroshima mon amour, dello stesso Resnais, “dove a stento si riesce a distinguere una parte del corpo da un’altra”).

La Nouvelle vague offre poi un nuovo processo di immedesimazione fra attore e personaggio: sul set l’attore non interpreta più un altro da sé, ma semplicemente se stesso. E questi nuovi attori vengono filmati in pose e modalità molto diverse: dall’inazione più totale fino all’erranza e al movimento quasi incessante. Un importante punto di riferimento, in questo senso, può essere sicuramente uno dei vertici del cinema di Orson Welles, e cioè Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1955), in cui il movimento incessante del protagonista Guy van Stratten (Robert Arden) assume la dilatazione di un vero e proprio viaggio ludico e ipertrofico sulla scacchiera di un’Europa uscita da poco dal secondo conflitto mondiale. L’erranza, il viaggio e la fuga diventano infatti delle vere e proprie cifre stilistiche del cinema moderno, anzi delle vere e proprie figure. Errano e si muovono i personaggi di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, ma anche quelli di Fellini (La dolce vita, 1959), Pasolini (Accattone, 1961, Mamma Roma, 1962), Bertolucci (Strategia del ragno, 1972).

Altre importanti figure di attori analizzate dal saggio sono Brigitte Bardot (soprattutto nell’interpretazione di Il disprezzo, 1963, di Jean-Luc Godard) Claudia Cardinale (musa, fra gli altri, di Visconti e Zurlini) e Jean-Pierre Léaud, il quale si configura non solo come uno degli attori prediletti da François Truffaut ma anche come “il corpo del Sessantotto”, basti pensare all’interpretazione di La cinese (La chinoise, 1967) di Jean-Luc Godard ma anche a quella di Porcile (1969) di Pasolini.

E dal moderno il viaggio continua, fino a “oltre il moderno”. Incontriamo così altri attori significativi come Marcello Mastroianni, Chaterine Deneuve, Gérard Depardieu e Isabelle Huppert. Se il Mastroianni di Fellini si configura come un indolente homo deambulans, perduto nella sua erranza, “mediatore tra l’occhio dell’artista e l’orrore del mondo” (8 ½, La dolce vita), quello di Ferreri diviene corpo sofferente e morente, segnato nel profondo dalla “sfera rabelaisiana” individuata da Michail Bachtin e attraversata dai “vicinati” cibo-sesso-morte (La grande abbuffata, 1973). E, per quanto riguarda Chaterine Deneuve, fra le tante, doveroso è ricordare la sua interpretazione in Bella di giorno (Belle de jour, 1967) di Luis Buñuel. Secondo Scandola, “nessuno meglio di Buñuel ha saputo sfruttare in senso espressivo la soglia, sottile, che in Deneuve separa la carne dalla porcellana, restituendoci proprio il momento in cui la donna diventa bambola o più semplicemente potiche (e viceversa)”. Un altro attore capace di abitare il personaggio anziché lasciarsi abitare da lui è Depardieu, il quale ci regala appunto dei personaggi caratterizzati da instabilità caratteriale e ipersensibilità emotiva, inclini a muoversi, a errare, a vagabondare, senza mai perdere la propria, originaria “identità agricola e proletaria”. Infine, Isabelle Huppert o “il desiderio come enigma”: icona di un femminino, intravisto probabilmente per la prima volta da Claude Chabrol, “attratto dalle zone oscure del piacere”, sia esso libertino, extraconiugale, incestuoso. Nelle interpretazioni della Huppert, inoltre, si possono rintracciare elementi riconducibili a una ferinità quasi animale: una ferinità che diviene anche e soprattutto felinità. Proprio come un gatto, la Huppert sembra guardare gli “altri”, cioè noi spettatori solo “per vedere”: secondo Derrida, infatti, il gatto è l’incarnazione di un senso dell’alterità da cui ha origine il pensiero stesso. E, con Isabelle Huppert, l’intrigante e avventuroso viaggio allestito dallo studioso si chiude, dopo aver incontrato corpi e sguardi dai quali nascono storie, dalla cui inazione o vagabondaggio erratico si dischiudono nuovi percorsi di liberazione del nostro immaginario.

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Realtà, desiderio e ribellione. La lezione dell’eterno Jean Vigo https://www.carmillaonline.com/2019/08/07/realta-desiderio-e-ribellione-la-lezione-delleterno-jean-vigo/ Tue, 06 Aug 2019 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53062 di Gioacchino Toni

«Completamente estraneo al mercantilismo e al condizionamento commerciale, il metodo di lavoro di Vigo esprime un’innocenza e una purezza nei confronti dell’opera filmica e della sua filiera economica, che sembra anticipare idealmente forme alternative di produzione e distribuzione cinematografica prolifiche nella nostra contemporaneità, e basate su piattaforme telematiche di finanziamento partecipato come il crowdfunding» Giacomo Ravesi

«Jean Vigo è l’autore che ha saputo incarnare, interpretare ed esprimere come pochi altri una concezione del cinema in cui far convivere l’elemento passionale, l’attenzione politica, la dimensione del sogno con uno sguardo da eterno amateur, trasformando il proprio cinema in una [...]]]> di Gioacchino Toni

«Completamente estraneo al mercantilismo e al condizionamento commerciale, il metodo di lavoro di Vigo esprime un’innocenza e una purezza nei confronti dell’opera filmica e della sua filiera economica, che sembra anticipare idealmente forme alternative di produzione e distribuzione cinematografica prolifiche nella nostra contemporaneità, e basate su piattaforme telematiche di finanziamento partecipato come il crowdfunding» Giacomo Ravesi

«Jean Vigo è l’autore che ha saputo incarnare, interpretare ed esprimere come pochi altri una concezione del cinema in cui far convivere l’elemento passionale, l’attenzione politica, la dimensione del sogno con uno sguardo da eterno amateur, trasformando il proprio cinema in una costante invenzione, in una continua fase di inizio». Denis Brotto

Nonostante Jean Vigo sia riuscito a portare a termine soltanto quattro film realizzati nel corso di pochi anni, la sua opera occupa un ruolo fondamentale all’interno del cinema francese degli anni Venti e Trenta. È in questo periodo che registi come Louis Delluc, Jean Epstein, Abel Gance e Marcel L’Herbier lavorano sulla specificità filmica rispetto alle altre arti e ad introdurre Vigo al cinema, come ricorda Giacomo Ravesi1 è Germaine Dulac (pseudonimo di Germaine Saisset-Schneider), una delle prime registe e teoriche francesi d’avanguardia. Anche la figura di Dziga Vertov influenza Vigo nel suo proposito di applicare le ricerche sperimentali degli anni Venti in chiave sociale.
Oltre ad occupare un ruolo importante nella cinematografia francese del suo tempo, le opere di Vigo, come dimostra lo studio di Denis Brotto2, si mostreranno capaci di influenzare le future “nuove ondate” che, a partire dagli anni Cinquanta, scuoteranno il cinema europeo.

La breve vita di Jean Vigo non è stata facile. Da bambino si è trovato costretto a vivere in collegio dopo essere stato allontanato dalla famiglia quando il padre, Eugène Bonaventure de Vigo, noto con lo pseudonimo di Miguel Almereyda – collaboratore e fondatore di testate anarchiche come «Le Libertarie», «La Guerre Sociale» e «Le Bonnet Rouge» – è stato rinchiuso in carcere, ove muore in circostanze poco chiare, nel corso della Prima guerra mondiale, con l’accusa di essere un collaborazionista della Germania. L’accusa di collaborare col nemico è stata frequentemente adoperata da tutti i paesi nei confronti dei “nemici interni” rei, in realtà, il più delle volte, di antimilitarismo.

Scrive di lui Brotto: «Vigo non è solo un autore di immagini, di icone, bensì rappresenta egli stesso la figura dell’autore divenuto icona. È lui, con la sua effige, a rivelare la concezione di un cinema del possibile, di un cinema desideroso di mostrare il proprio volto più coraggioso e lirico, di un cinema pronto a liberarsi dai pesi produttivi, per lasciare trapelare le forme del desiderio e della fantasia» (p. 27). Per il francese «è dal dato visibile, dalla sua propensione a interrogare l’immaginario, il fuori campo, l’invisibile, che si instaura una forma di moto circolare tra quanto rientra nella sfera della conoscenza e l’inconscio medesimo» (p. 21).

Riferendosi all’intento complessivo dell’opera di Vigo, sostiene Giacomo Ravesi, «si tratta di un cinema cosiddetto d’avanguardia, che si pone in opposizione alle forme narrative, rappresentative e industriali egemoniche. È l’utopia di un cinema alternativo, poiché depurato dalle logiche economiche del mercato e dalle pratiche discorsive delle altre arti, nell’ipotesi di realizzare le specificità del cinema come arte autonoma» (p. 24). Sempre Ravesi sottolinea come in Francia il cinema d’avanguardia raccolga l’eredità delle Avanguardie storiche; si tratta infatti in buona parte di un cinema di poeti, pittori, artisti e fotografi che intendono applicare le loro ricerche estetiche al mezzo cinematografico.

Nel decennio successivo il panorama cinematografico francese muta decisamente, tanto che la stagione delle sperimentazioni sembra ormai terminata: «il cinema d’avanguardia», continua Ravesi, «gravato dalla crisi economica mondiale ed esautorato dalla sua dimensione di forma alternativa di mercato, viene riassorbito in un nuovo assetto ideologico ed estetico legato alle trasformazione politiche, sociali e culturali della nazione. L’intensificarsi delle contraddizioni interne, il crollo generale dei prezzi, l’aumento della disoccupazione e del malessere collettivo, congiuntamente all’avanzata dei totalitarismi in diversi stati europei, conducono artisti, registi e intellettuali a unirsi in nome della democrazia e a riscoprire un’urgenza di denuncia sociale che confluisce nell’esperienza del Fronte Popolare, costituito nel luglio del 1934 da socialisti, comunisti e democratici» (pp. 29-30).

Il cinema francese degli anni Trenta, in linea con la tradizione del romanzo naturalista ottocentesco, è attraversato da storie sociali che vedono come protagonisti i ceti popolari, gli emarginati ed i fuorilegge. Il cinema di Vigo, pur restando sostanzialmente “altro” rispetto a tutto ciò, è comunque ben radicato in tale clima di interrelazione tra cinema e società. Guido Oldrini scrive a tal proposito che Vigo, nei suoi film, «concretizza sempre più le sue virulenze e intemperanze anarchiche in direzione storico-sociale, fino a interpretarle come un momento organico del concepimento della lotta democratica dal basso».3

Il regista francese appartiene insomma a quella eterogenea generazione di autori destinata a segnare la storia della cinematografia nazionale che annovera tra le sue fila personalità del calibro di: René Clair, Jean Epstein, Marcel L’Herbier, Jean Renoir, Marcel Pagnol, Claude Autant-Lara, Jean Grémillon, Julien Duvivier, Henri Decoin e Marcel Carné.

A cavallo tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, Vigo realizza À propos de Nice (A proposito di Nizza, 1930), la sua prima opera cinematografica in cui miscela documentarismo e sperimentazione linguistica sul solco delle “sinfonie urbane”, opere cinematografiche particolarmente diffuse nella seconda metà degli anni Venti, votate a dare immagine alla vita quotidiana delle grandi metropoli, come nel caso di Berlin – Die Sinfonie der Groβstadt (Berlino – Sinfonia di una grande città, 1927) di Walter Ruttmann.

La seconda opera dell’autore francese, Taris ou La natation (Taris o del nuoto, 1931), è un breve documentario sul nuotatore francese Jean Taris. Anche in questo caso Vigo non manca di cimentarsi con svariate sperimentazioni linguistiche: sovrimpressioni, inversioni, ralenti, riprese subacquee ecc.
Poi è la volta di Zéro de conduite (Zero in condotta, 1933), mediometraggio di finzione con evidenti riferimenti autobiografici. Scrive a tal proposito Giacomo Ravesi: «Il film inaugura una personale rappresentazione dell’infanzia al cinema, interpretata attraverso la lente deformante del grottesco e del lirismo memoriale, che restituisce una visione partecipe dell’universo infantile come stato della condizione umana libera e lontana da ogni condizionamento. Irriducibilmente estranea al mondo degli adulti, l’infanzia è ritratta nei suoi aspetti occulti e sconosciuti, rispettandone l’indole più autentica in un quadro stilistico ostinato e dirompente, sospeso tra gioiosa e commovente rivolta, che diventerà un prototipo anche per il cinema successivo». (p. 22). Zéro de conduite viene faticosamente ultimato nel 1933 dopo mille traversie produttive ma resta testardamente bloccato dalla censura fino al 1945.

Nonostante le difficoltà incontrate in Zéro de conduite, il regista decide di cimentarsi con la realizzazione del suo primo ed unico lungometraggio di finzione, destinato a lasciare una traccia indelebile nella storia del cinema: L’Atalante (Id., 1934). Il film nasce da un soggetto di Robert de Guichen firmato con lo pseudonimo Jean Guinée, rielaborato da Vigo che vi toglie gli intenti moralistici presenti.

La sinossi del film è presto detta. Jean, conducente della chiatta Atalante lungo i canali della Francia del Nord, sposa Juliette, una giovane di origini contadine che entra così a far parte dell’equipaggio composto, oltre che da Jean, da un vecchio marinaio, père Jules, e da un giovane mozzo. La vita a bordo per la giovane si rivela presto noiosa e gli spazi angusti non lasciano grandi occasioni di intimità alla coppia di sposi. Durante una sosta a Parigi la donna resta affascinata dalla città suscitando la gelosia di Jean che finisce col malmenare un venditore ambulante che invita la moglie a ballare.
I rapporti all’interno della coppia si fanno burrascosi tanto che Juliette decide di fuggire dall’imbarcazione e di raggiungere autonomamente la città tentacolare per poi accorgersi, al ritorno, che il marito se ne è andato abbandonandola. Improvvisamente la metropoli si svela a Juliette nei suoi lati meno scintillanti fatti di file di disoccupati ed atti criminali. La lontananza dall’amata riduce Jean alla disperazione e, ricordando che Juliette gli aveva raccontato della possibilità di vedere sott’acqua la persona amata, decide di tuffarsi nella Senna ove ha modo di vedere la moglie in abito da sposa. Toccherà a père Jules cercare e recuperare la giovane per poi ricondurla a bordo ove i due sposi si ricongiungono.

Ravesi, nell’analizzare la modalità narrativa del film, segnala come questa proceda con sequenze autosufficienti accostante in cui le situazioni appaiono autonome ed auto-concluse nell’unità di spazio, di tempo ed azione. Gli spazi si presentano come contenitori narrativi che «delineano una linea drammatica sostanzialmente statica e involuta che ritorna ciclicamente su se stessa. Gli avvenimenti assumono un carattere episodico, lasciando numerose zone d’ombra e sviluppi scarsamente motivati […] Considerando come personaggio principale Juliette, l’evoluzione drammaturgica complessiva si riduce a uno schema di Privazione-Allontanamento-Ritorno» (p. 39).

Il film si dipana lungo un percorso circolare determinato dall’opposizione dialettica tra universo terrestre ed universo acquatico. L’ambito terrestre è rappresentato dalla metropoli, «luogo dello smarrimento del soggetto nella moltitudine e nell’anonimato, nell’esaltazione delle antinomie e degli scompensi tra individuo e società» (p. 40), mentre l’ambito acquatico è rappresentato dal mondo dell’imbarcazione, «un’isola felice, fatta di relazioni spontanee e naturali, dove le suggestioni e i magnetismi della società borghese e del mondo esterno giungono solo come feticci e proiezioni immaginarie» (p. 40).

Circa i diversi personaggi Ravesi individua il motore drammaturgico dell’opera di Vigo nel percorso psicologico e comportamentale di Juliette, personaggio che vive un difficile equilibrio tra infanzia ed età adulta, dunque tra due due diversi tempi/modi di vivere la vita. Jean pare invece vivere la schizofrenia del doppio ruolo capitano/sposo, scisso tra piacere/dovere, desiderio/obbligo amore/lavoro. Sul finale del film Jean perde le sue rigidezze e riesce, grazie al ricongiungimento con l’amata, ad accettare lo straordinario e l’inconsueto.

Oltre che sui personaggi di père Jules, il vecchio marinaio, e del giovane mozzo, prevalentemente spettatore passivo degli eventi, nel saggio ci si sofferma anche sulla figura dell’ambulante parigino malmenato da Jean in preda alla gelosia indicando in esso l’espressione dell’opposizione dialettica alle relazioni costruite sull’imbarcazione di cui tale personaggio ne prospetta un’alternativa. «Centro catalizzatore del ribaltamento narrativo del film, l’ambulante tratteggia una figura super-attiva perennemente in movimento, dai modi socievoli e affascinanti e dai comportamenti bizzarri e trasformisti. Personaggio magico e letteralmente venuto dal nulla (la sua apparizione è improvvisa, da dietro una collina in sella a una bici), il venditore ambulante è un uomo di spettacolo, più che un semplice commerciante: infatti, sa cantare, danzare, rimare, fare giochi di prestigio e acrobazie. È in lui che Vigo convoglia quelle fantasie e suggestioni legate al circo e all’illusionismo dello spettacolo viaggiante che caratterizzano tutta la sua opera» (p. 44).

Ravesi sottolinea anche come, nonostante sia strutturato da una successione di sequenze autosufficienti, il film risulti attraversato da una tensione dinamica derivante «dalle relazioni di seduzione e repulsione fisica, perdita e ritrovamento, che connettono i vari personaggi» (p. 45). Si pensi a come il rapporto amoroso tra i due sposi si manifesti continuamente nel corso del film come celebrazione dell’attrazione che lega/divide i due corpi e le rispettive pulsioni.

Rifacendosi agli studi di Mario Verdone4 e Patrice Rollet e Stéphane du Mesnildot5, Giacomo Ravesi scrive che la «“suggestione della carne” e “la verità della pelle” sviluppano nel film un’“erotica del contatto” basata su “corpi conduttori” che “materializzano il desiderio conducendo da un corpo all’altro l’elettricità della pulsione, il calore dell’amore, la luce sorda del cinema”» (p. 48).
«Nel film i corpi vivono d’altronde di una ostentata nudità che ne accentua la connotazione erotica e sensuale: i torsi nudi di Jean, la sottoveste di Juliette, il corpo tatuato di père Jules. Anche i segni sulla pelle (tagli, graffi, tatuaggi, linee delle mani) muovono una feticistica e sadica pratica di seduzione fondata sulla rilevanza dei dettagli anatomici e sullo smembramento dei corpi attraverso la scala dei piani (i particolari delle mani, i dettagli degli oggetti, i primi piani di Juliette) e i processi di messa in quadro mediante la duplicazione degli specchi e delle porte (la cabina di père Jules, i riflessi delle vetrine)» (p. 47).

Nel saggio di Ravesi vengono analizzati i rapporti tra i corpi dei diversi personaggi ed i rapporti tra corpi e spazi, dunque si confrontano gli spazi angusti, promiscui ed opprimenti dell’imbarcazione e gli spazi aperti, illimitati e dispersivi degli esterni. «L’artificialità e inumanità degli automi e dei manichini delle vetrine si prolungano nell’indifferenza e nell’anonimato della folla urbana, costretta in un paesaggio portuale e industriale desolato e astratto. Si instaura tra personaggio e ambiente una dialettica disumanizzante, espressa da campi lunghi e fissi in cui domina il rigore asettico e geometrico delle impalcature che assorbono la figura umana, fino a farla scomparire» (pp. 50-51).

Le scelte fotografiche operate da Vigo accentuano il carattere espressionista dell’ambiente. «La Parigi del film definisce una mostruosità architettonica (le infrastrutture dei cantieri portuali), sociale (le file di disoccupati davanti ai cancelli del porto) e morale (il linciaggio del ladro che ha derubato Juliette, da parte di una folla famelica che rivendica un iniquo bisogno di giustizia), totalmente aliena alla visione organica, unitaria e comunitaria con la quale viene caratterizzata l’immagine della città nel cinema francese degli anni Trenta» (p. 52).

Una parte del saggio è dedicata al “motivo dell’acqua” come elemento caratterizzante L’Atalante. A proposito del ruolo giocato dall’acqua nei film francesi dell’epoca vengono passate in rassegna le riflessioni di studiosi come Gilles Deleuze,6 Dominique Païni7 ed Antonio Costa.8

L’Atalante è un film incentrato sul mondo popolare e proletario e secondo Ravesi, che riprende l’analisi di Émile Breton9 «l’analisi sociale del film è di natura dialettica, incentrata sulla rappresentazione di una nazione oppressa dalla crisi economica e impreparata a uno sviluppo industriale repentino, poiché ancora legata a una cultura rurale e a un’economia contadina. Il dissidio tra innovazione e tradizione configura la natura simbolica della stessa imbarcazione, mediante la doppia conformazione di cellula separata e inserita nelle dinamiche sociali. L’Atalante costituisce un nucleo in sé autonomo e autosufficiente, alternativo agli stili di vita ordinari, che viene continuamente alimentato dalle suggestioni che provengono dall’esterno» (p. 58).

Circa i motivi stilistici e iconografici che caratterizzano il film, Ravesi si sofferma sulla scena in cui Jean con gli occhi aperti sott’acqua guarda in macchina alla ricerca di Juliette. Lo studioso individua in tale scena il simbolo della volontà di spingersi «fino al fondo ultimo delle immagini per trovare uno stato di “veggenza” e un’avanguardia dello sguardo. All’iconoclastia Vigo sembra opporre l’iconofilia del vedere tutto ovunque e comunque […] Vigo riporta il cinema alla sua elementarità e funzionalità ottica di lente attraverso la quale osservare il mondo, amplificandone ed esasperandone i contorni e le sfumature […] Servendosi della forma acquario come metafora dello schermo cinematografico, l’inquadratura assume una duplice funzionalità rappresentativa: limite costrittivo e soglia trasparente. Gli sguardi in macchina – quello di Jean nella sequenza subacquea e quelli degli sposi separati durante la notte insonne – ostentano il paradosso di un’inquadratura concepita come bordo terminale della visione (i personaggi che sembrano sporgersi, guardare verso di noi spettatori) e portale d’accesso per nuovi stati di percezione (il carattere lirico e onirico delle apparizioni subacquee). Allo stesso modo, l’uso diffuso dell’inquadratura in plongée estende a livello della messa in quadro il carattere claustrofobico degli ambienti interni dell’imbarcazione e sottolinea la dimensione soggettiva della ripresa, legata a una sottomissione compositiva dello spazio che viene come controllato da uno sguardo a distanza» (pp. 64-65).

Ravesi sottolinea anche come il paesaggio eserciti una pressione iconografica nei confronti dei protagonisti resa attraverso campi medi e lunghi, perlopiù in profondità di campo, in maniera da assecondare una diagonale prospettica duplicante i rapporti di forza e di scala tra personaggi e sfondo. Negli interni il regista ricorre ad inquadrature ravvicinate realizzate con macchina da presa a mano ed in movimento. Alla maniera del cinema d’avanguardia sovietico Vigo ricorre frequentemente ad inquadrature angolate dal basso che mostrano gli attori nell’atto di avanzare attraversando diagonalmente l’inquadratura dal campo lungo al particolare, quasi a suggerire un “desiderio di contatto” della macchina da presa con i corpi.

Nonostante la produzione di Vigo risulti così esigua, sono stati numerosi gli scritti su di lui e sul suo cinema. Tra gli studiosi e critici di cinema che se ne sono occupati Brotto ricorda: Siegfried Kracauer, Edgar Morin, Lotte Eisner, Henri Agel, Henri Langlois, Jean Gili, Gilles Deleuze, Dudley Andrew, Michael Temple, Maurizio Grande, Glauco Viazzi, Corrado Terzi, Bruno Voglino e Fernaldo Di Giammatteo. Sull’opera di Vigo hanno avuto modo di scrivere anche diversi registi: John Grierson, Alberto Cavalcanti, Henri Storck, Claude Autant-Lara, Jean Painlevé, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Éric Rohmer, Manoel de Oliveira, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Andrej Tarkovskij ed Aleksandr Sokurov. Richiami e riferimenti, più o meno espliciti, all’opera del regista francese sono visibili, sostiene Brotto, in opere di: Lindsay Anderson, François Truffaut, Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard, Manoel de Oliveira, Julien Temple, Jean-Charles Tacchella, Leos Carax, Emir Kusturica, Michel Gondry e Jem Cohen.

Brotto, nel suo volume, contenente anche un prezioso DVD video contenente le quattro opere di Vigo, oltre ad esaminare i film dell’autore francese, indaga il rapporto di scambio che la produzione del regista ha avuto con la storia del cinema tanto del suo tempo, quanto di quello successivo alla scomparsa del regista.

Un primo momento importante per il cinema di Vigo, dopo la sua scomparsa, si ha sul finire degli anni Quaranta quando, in seguito alla presentazione al Festival du film maudit di Biarritz del 1949 di Zéro de conduite e L’Atalante, anche André Bazin si accorge della portata innova e anticonformista dell’opera del regista. L’Atalante viene proiettato anche al Festival du film de demain di Antibes del 1950 riscuotendo un importante successo.

Nel 1953 la rivista «Positif» dedica all’autore un numero monografico e nel 1957 Sales Gómes pubblica una monografia dedicata a Vigo. Sempre nel corso degli anni Cinquanta l’importanza dell’autore francese è perfettamente colta dalla Nouvelle vague. «Quella convergenza tra elemento immaginativo e dato concreto che Vigo fa propria da Georges Méliès, Émile Cohl, Ferdinand Zecca, diviene per François Truffaut, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, Éric Rohmer, Agnès Varda, Jacques Demy, seppur con modalità e forme di interesse differenti, un punto di riferimento permanente, un principio estetico a cui rifarsi costantemente» (p. 194).

Anche l’ambiente del cinema britannico più effervescente – gravitante attorno alle riviste «Sequence» e «Sight and Sound» legate al Free Cinema inglese – comprende la portata innovativa dell’opera di Vigo. Nell’ambito delle iniziative del nascente Free Cinema, al National Film Theatre londinese vengono presentati alcuni cortometraggi che riprendono la lezione di Vigo. In particolare a richiamare palesemente l’opera d’esordio del francese À propos de Nice è il film O Dreamland (1956) di Lindsay Anderson, ambientato in un lunapark di Margate, sulla Manica. «Come per il Carnevale di Nizza, anche qui le attrazioni del lunapark vengono mostrate quale esempio di cattivo gusto, tortura inflitta dalla società dei consumi, isolata forma di svago imposta alla working class. Il punto di vista sociale adottato in À propos de Nice sembra trovare una sua ideale continuazione nell’allegorico ritratto dell’universo britannico durante l’esperienza del tempo libero. I pupazzi meccanici, le marionette, la presenza dei manichini al posto delle autorità mostrano un ulteriore richiamo alle figure immortalate quasi trent’anni prima da Vigo e Kaufman» (pp. 198-199).

Successivamente, sempre nell’ambito delle iniziative dell’innovativo Free Cinema, viene presentato Nice Time (1957) degli svizzeri Alain Tanner e Claude Goretta, che sin dal titolo richiama À propos de Nice di Vigo. «Nella ricostruzione della vita notturna nella Piccadilly Circus londinese, Tanner e Goretta fanno ricorso ad un uso ritmico del montaggio che appare come una mutuazione diretta del film ambientato a Nizza, così come non dissimile è il carattere a-narattivo che contraddistingue entrambe le opere» (p. 199). Dopo aver assistito alla proiezione John Berger individua un tratto di comunanza tra i due film: «quel carattere di protesta che soggiace alla struttura di Nice Time e che emerge con vigore attraverso i personaggi immortalati da Tanner e Goretta. Una “protesta […] non distaccata, o amministrativa”, bensì empatica, messa in atto attraverso una condivisione di sguardo nei confronti della folla notturna che anima il cuore di Londra» (p. 199).

Anche le successive opere di Tony Richardson, Karel Reisz e Lindsay Anderson, segnala Brotto, sembrano riprendere «l’anarchia utopica e graffiante del regista francese. The Loneliness of the Long Distance Runner (Gioventù, amore e rabbia, 1962) di Richardson, Morgan: A Suitable Case for Treatment (Morgan matto da legare, 1966) di Reisz e ancor più If… (1968) di Anderson non solo riacutizzano un immaginario in cui la giovinezza è vissuta come una forma di sopruso a cui contrapporre il sogno e la libertà, ma ricreano al loro interno evidenti omaggi al cinema di Vigo» (p. 199).

If… è probabilmente il film che più si avvicina a Zéro de conduite. «Realizzato nel 1968, If… trasporta la tensione di Vigo nelle strutture classiste della società inglese degli anni Sessanta. La vita interna al collegio sembra ripercorrere le medesime condizioni di subordinazione vissute dagli adolescenti di Vigo. Qui tuttavia l’utopia trascendentale sembra venir meno in luogo di un’atmosfera ancor più repressiva e pessimistica. Nella sequenza conclusiva, in cui la realtà si confonde con il sogno, assistiamo ad una nuova ribellione dei giovani studenti, ancora una volta sui tetti del collegio. Ad essere usati contro l’autorità rappresentata da presidi e docenti non sono più libri e cartelle da lanciare, bensì pistole e mitraglie da imbracciare » (p. 199).

Tracce di Vigo si possono trovare anche in «quel cinéma vérité che nel 1960 fa propria la definizione con cui Edgar Morin esalta le qualità del cinema documentaristico di Dziga Vertov e la capacità di quest’ultimo di riprodurre l’autenticità del reale. In Verso un cinema sociale, in Telle est la vie e in Responsabilité de l’auteur è evidente non solo la convergenza tra Vigo e il cineasta russo, ma anche il desiderio di rivelare per mezzo del cinema il volto più autentico del reale, sino ad arrivare ai suoi aspetti di invisibilità» (p. 200).

Tra gli anni Cinquanta e Settanta, Vigo lo si trova, eccome, continua lo studioso, anche in realizzazioni di autori come: Jean Rouch, Joris Ivens, Jacques Rozier, Agnès Varda, Georges Rouquier, Mario Ruspoli, Chris Marker, Robert Drew, Richard Leacock, Robert Frank, Robert Kramer ed Edgar Morin. «Opere quali Moi, un noir (1958) di Jean Rouch, Primary (1960) di Richard Leacock, Le Joli mai (1962) di Marker e Lhomme, Crisis: Behind a Presidential Commitment (1963) di Robert Drew, nonché il lirico La Seine a rencontré Paris (1957) di Joris Ivens, con le immagini della Senna contrappuntate non a caso dai versi di Jacques Prévert, e quel Du côté de la côte (1958) di Agnès Varda, in cui l’autrice torna lungo la Riviera già osservata in À propos de Nice, sono permeate dall’idea vigoliana secondo cui: “Andare verso il “cinema sociale” vuol dire questo: esser d’accordo, pretendere, permettere che il cinema sfrutti una miniera di soggetti continuamente rinnovata dall’attualità» (p. 201).

Lo “sguardo sociale” con cui Vigo osserva la realtà è presente in Hôtel des Invalides (1952) di Georges Franju, opera «in cui viene a ricostituirsi quel sentimento di stigmatizzazione nei confronti di una società superficiale e distratta. Durante una visita turistica all’Hôtel des Invalides, lo storico edificio della capitale francese, alcune guide sono chiamate a illustrare ad un gruppo di invalidi di guerra la storia di Napoleone […] Attraverso un montaggio alternato prossimo a quello strutturato da Vigo, viene tuttavia a crearsi un progressivo ribaltamento dei significati, evidenziando lo stridente effetto di parole e immagini ormai vuote di senso al cospetto di uomini paralizzati e menomati proprio a causa della guerra. Seppur realizzato su incarico del governo francese, il film di Franju ricrea una condizione di profonda critica sociale divenendo una chiara “condanna al militarismo”. Infine, già Henri Storck con il suo Symphonie paysanne (1942-44) aveva guardato in modo diretto all’amico Vigo, in particolare a L’Atalante e a quella sua relazione amorosa ambientata all’interno di un luogo in cui sono le mansioni lavorative a scandire orari e ruoli. Anche in Storck l’amore e il lavoro sono chiamati a convivere e a condividere tempi e spazi, con l’acqua della Senna e l’imbarcazione che lasciano ora il posto alla campagna e ad un vecchio casolare. Nella sequenza del matrimonio, Storck crea una nuova sovrimpressione, del tutto affine a quella acquatica de L’Atalante. Qui tuttavia i volti degli sposi sono chiamati non più a fluttuare sulle immagini dell’acqua, bensì a ballare in dissolvenza su quelle di un mulino a vento. Nel ritornare alle icone vigoliane, Storck osserva come labor e gestus abbiano preso il sopravvento su sogno e utopia» (p. 202).

Il cinema ed il pensiero di Jean Vigo sono sopravvissuti alla prematura scomparsa del giovane regista francese, ed oltre ad essere, da tempo, indagati dagli studiosi di cinema, hanno continuato ad ispirare registi molto diversi tra di loro.


Denis Brotto, Jean Vigo. Opera completa. Dialogo con Marco Bellocchio, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 260 + DVD video: À propos de Nice (1930); Taris ou la natation (1931), Zéro de conduite (1933), L’Atalante (Id., 1934), € 19,90

Giacomo Ravesi, L’Atalante (Jean Vigo, 1934). Immagini del desiderio, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2016, pp. 112, € 10,00


  1. G. Ravesi, L’Atalante (Jean Vigo, 1934). Immagini del desiderio, Mimesis, 2016 

  2. D. Brotto, Jean Vigo. Opera completa. Dialogo con Marco Bellocchio, Mimesis, 2018 

  3. G. Oldrini, “Il cinema francese e il fronte popolare”, in «Cinema Nuovo», n. 168, 1964, p. 102 

  4. M. Verdone, “I libri. Jean Vigo”, in «Filmcritica», n. 95, 1960 

  5. P. Rollet e S. du Mesnildot in N. Bourgeois, B. Benoliel, S. de Loppinot (a cura di), L’Atalante: un film de Jean Vigo, Cinémathèque française et Pôle Méditerranéen d’Éducation Cinématographique, 2000 

  6. G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri 1984 

  7. D. Païni “Au film de l’eau”, in N. Bourgeois, B. Benoliel, S. de Loppinot (a cura di), L’Atalante: un film de Jean Vigo. Op. cit. 

  8. A. Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film, Einuaidi, 2014 

  9. É. Breton, “Le repérable et le reste. L’ancrage social de L’Atalante”, in N. Bourgeois, B. Benoliel, S. de Loppinot (a cura di), L’Atalante: un film de Jean Vigo, Op. cit. 

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Un fantasma dal passato in una guerra presente https://www.carmillaonline.com/2017/06/03/un-fantasma-dal-passato-in-una-guerra-presente/ Fri, 02 Jun 2017 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38628 di Paolo Lago

boileau_narcejac_coverBoileau-Narcejac, La donna che visse due volte, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2016, pp. 196, € 18,00

Il romanzo noir D’entre les morts (1954) di Pierre Boileau e Thomas Narcejac (definiti come «i Fruttero e Lucentini francesi»), dal quale Alfred Hitchcock nel 1958 trasse il suo film Vertigo, è stato recentemente riproposto da Adelphi in una nuova, bella traduzione realizzata da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. Il titolo, come nelle precedenti edizioni, è stato tradotto con La donna che visse due volte, lo stesso della versione italiana del film [...]]]> di Paolo Lago

boileau_narcejac_coverBoileau-Narcejac, La donna che visse due volte, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2016, pp. 196, € 18,00

Il romanzo noir D’entre les morts (1954) di Pierre Boileau e Thomas Narcejac (definiti come «i Fruttero e Lucentini francesi»), dal quale Alfred Hitchcock nel 1958 trasse il suo film Vertigo, è stato recentemente riproposto da Adelphi in una nuova, bella traduzione realizzata da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. Il titolo, come nelle precedenti edizioni, è stato tradotto con La donna che visse due volte, lo stesso della versione italiana del film di Hitchcock. Se in un importante indizio paratestuale come il titolo è quindi evidente il rimando al noto film, bisogna comunque fare una precisazione: chi ha visto la pellicola hitchcockiana, per predisporsi alla lettura, deve sbarazzarsi del suo bagaglio visivo cinematografico. Infatti, i protagonisti, Flavières e Madeleine/Renée non sono davvero James Stewart e Kim Novak: il primo è descritto come invecchiato e ingobbito, un uomo insicuro di sé e dedito all’alcol, mentre la seconda è sì una bella donna ma non possiede certo il fascino prorompente dell’attrice americana. Inoltre, se la storia trasposta sullo schermo dal regista inglese si ambienta in una solare San Francisco della fine degli anni Cinquanta e nei suoi dintorni, quella letteraria, invece, in una cupa Parigi durante la seconda guerra mondiale e, successivamente, in una altrettanto cupa Marsiglia. La vicenda, nel romanzo e nel film, è più o meno la stessa: il protagonista è un ex poliziotto che viene ingaggiato da un suo vecchio compagno di università per indagare sullo strano comportamento della moglie, ossessionata dalla figura di un’antenata morta suicida. L’ingenuo personaggio si scoprirà quindi vittima di un raggiro, utilizzato dal finto amico per uccidere la vera moglie. A questo punto, è comunque meglio non rivelare nulla di più sulla trama anche se chi ha visto il film potrebbe obiettare di conoscerla di già. Ma qui si sbaglierebbe, in quanto la seconda parte del libro, ambientata a Marsiglia, non è stata trasposta sullo schermo in modo così fedele come la prima parte.

Tutto questo per sottolineare che il romanzo degli scrittori francesi è un’opera assolutamente godibile anche senza avere in testa il film di Hitchcock: perciò, anche se siamo degli incalliti cinefili, adesso dovremo lasciarlo un po’ da parte. Il personaggio di Flavières appare molto curato dal punto di vista psicologico: progressivamente, egli si innamora di Madeleine ma si tratta di un sentimento costantemente turbato dall’ombra del mistero e di un passato che incombe come un inquietante spettro. Il protagonista sembra precipitare lentamente in un gorgo psicologico dal quale non riuscirà più a riemergere. Insieme al sentimento del personaggio – prima lieto poi progressivamente più cupo fino al ‘suicidio’ della donna – muta anche il paesaggio: nei momenti iniziali del libro Parigi è ancora descritta come una città allegra e vitale mentre progressivamente, con l’avanzare della guerra, si incupisce fino a trasformarsi in un triste regno della solitudine. Carri armati e mezzi militari solcano le sue strade ormai deserte mentre i locali e i bistrot sono quasi esclusivamente frequentati da soldati e ufficiali. Flavières si ritroverà allora solo e incupito, dedito all’alcol e quasi preda della follia, in una città essa stessa solitaria e cupa, rapita dalla follia collettiva della guerra. Su consiglio di uno psichiatra, dovrà recarsi nel sud, al mare, abbandonando così le brume parigine. Ma durante il viaggio, a Marsiglia, incontrerà di nuovo la ‘morta’ Madeleine, sotto le (vere) spoglie di Renée. Il lettore viene sapientemente condotto per mano dagli autori fino, quasi, a identificarsi con la mente stravolta del protagonista e a guardarsi intorno attraverso il suo punto di vista. Quando rivede la donna e intreccia con lei una relazione, Flavières penserà davvero, in alcuni momenti, di avere a che fare con un fantasma, per cui la narrazione assume diverse tonalità horror fino a sfiorare la categoria del soprannaturale. È soltanto frutto della fantasia alterata del personaggio ma anche noi lettori, a un certo momento, arriviamo a dubitare insieme a lui della identità e della reale esistenza di Renée. Lo scenario è adesso quello di una affollata ma non meno spettrale Marsiglia. Emblematico, in questo senso, è il momento in cui Flavières segue la ragazza fino al porto e, nell’oscurità della sera che sta scendendo, entrambi si ritrovano immersi in un’atmosfera spettrale, fra cupe ombre che potrebbero essere quelle di malfattori e tagliagole in agguato, ma forse anche quelle degli sconosciuti fantasmi che vivono nella mente del protagonista obnubilata dall’alcol. All’ambientazione ‘esterna’ della città si alternano gli ‘interni’ prima della stanza d’albergo, poi della camera ammobiliata che i due affittano in una squallida pensione: entrambi spazi soffocanti e asfittici dove il delirio personale del protagonista si mescola a quello di una crisi di coppia in cui i personaggi, in una sorta di danse macabre, appaiono l’uno prigioniero dell’altra e viceversa.

boileau_narcejac_Tutti elementi che si perdono nel film di Hitchcock anche se, come afferma François Truffaut in una conversazione-intervista col regista inglese, molto probabilmente i due autori francesi hanno scritto il loro romanzo con l’intenzione di offrirgli uno spunto da portare sul grande schermo: «F.T. La donna che visse due volte (Vertigo) è tratto da un romanzo di Boileau-Narcejac che si intitola D’entre les morts, e che è stato scritto apposta per lei, perché ne facesse un film. A.H. Ma era già un libro prima che ne acquistassero i diritti per me. F.T. Sì, ma questo libro è stato scritto apposta per lei. A. H. Lei crede? E se non l’avessi comprato? F.T. Sarebbe stato acquistato in Francia a causa del successo dei Diaboliques. Boileau e Narcejac hanno scritto quattro o cinque romanzi costruiti sullo stesso principio e, quando hanno saputo che lei voleva comprare i diritti dei Diaboliques, si sono messi al lavoro e hanno scritto D’entre les morts che la Paramount ha subito acquistato per lei» (F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Net, Milano, 2002, p. 201).

Adesso, grazie a questa nuova traduzione, possiamo riassaporare con più gusto le innumerevoli finezze psicologiche messe in atto dai due scrittori, maestri indiscussi del noir, fino alla fine della storia, una fine che – molto più che nel film – ci prende alle spalle come uno spietato assassino, come un fantasma che riemerge dal passato fra le inquietanti brume di una guerra fin troppo presente.

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Un uomo fortunato: intervista a Morando Morandini https://www.carmillaonline.com/2014/07/17/uomo-fortunato-intervista-morando-morandini/ Thu, 17 Jul 2014 21:10:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15601 di Filippo Casaccia

Intervista MorandiniLunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.

Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film? Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: [...]]]> di Filippo Casaccia

Intervista MorandiniLunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.

Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film?
Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: possiamo chiamarlo “critico”? Meravigliavo le signore, amiche di mia madre, snocciolando i nomi di attori e attrici, e a poco a poco cominciai a distinguere un regista dall’altro. Da molti anni ho un sogno che non realizzerò mai: un saggio sulla critica italiana di cinema, suddivisa in generazioni. Sono convinto che in ciascun critico conti la sua infanzia cinematografica, cioè i film con cui “è nato al cinema”, quelli che cominciato a vedere in un certo modo. Parlo di film, ma il discorso si potrebbe estendere ad altri settori: libri, quadri, musica. C’è anzitutto una generazione, ormai quasi scomparsa, che nacque al cinema negli ultimi anni del muto, a cavallo tra gli anni ‘20 e ‘30. Venne poi quella degli anni ’30 sonori, quando, poiché il cinema italiano contava poco, si nutriva di film americani e francesi. Clair, Carné, Duvivier e un po’ meno Renoir che per ragioni politiche era poco importato. Seguirono la generazione del neorealismo, che scoprì il cinema a partire dal ’45 con Rossellini, De Sica, Visconti e quella della Nouvelle Vague a cavallo tra i ’50 e i ’60. In termini anagrafici dovrei appartenere a questa generazione, ma, essendo stato un precoce (ride), faccio parte della precedente. Venne poi la squadra degli anni ’70, quella che rivalutò Matarazzo, Mattoli, Totò e gli altri, insomma quel cinema commerciale, artigianale, non d’autore che le generazioni precedenti avevano ignorato, snobbato, spregiato. L’ultima generazione è quella che ha tettato il cinema sul televisore, ha l’inconscio colonizzato dai film hollywoodiani e scrive saggi pensosi e interminabili sul trash e sul gore. Ma per dirla secca, sono nato al cinema con i film francesi degli ultimi anni ’30. I miei idoli erano Jean Gabin, Arletty, Michèle Morgan. E Gary Cooper tra gli attori americani. Tra le attrici la Davis, la Hepburn, Carole Lombard. E Dorothy Lamour di cui mi innamorai col tramite di John Ford in Uragano (1937). Ford e Hawks erano i miei director preferiti, ma ricordo che mi lasciai incantare da Winterset (Sotto i ponti di New York, 1936) di Al Santell e rimasi sconvolto da Delitto senza passione (1934) di Ben Hecht. Riuscivo già ad andare fuori dai sentieri battuti. A dodici anni, come ho già detto, leggevo Filippo Sacchi, poi passai al settimanale “Film” di Doletti (era un lenzuolo, come il primo “Espresso”) e, infine, al liceo approdai alla rivista “Cinema” e a qualche numero di “Bianco e nero”.

Morandini 1E quand’è che questa passione diventa un mestiere?
C’è un intervallo bellico, diciamo il biennio 1944-45, in cui ho visto pochissimi film. Un buco nero. A guerra finita mi trovai iscritto al quarto anno di Lettere alla Statale di Milano senza aver dato nemmeno un esame. Qui comincio a fare il giornalista in un quotidiano cattolico di Como. Si chiamava “L’Ordine”. Sono un milanese che ha passato vent’anni, tra i 5 e i 25, sulle rive del Lario, dunque in provincia, il sale d’Italia. Il I° luglio del ’47 ero già giornalista professionista. Nella primavera di quest’anno una medaglietta dell’ordine per i 50 anni di professionismo, e ti assicuro che tra gli altri colleghi medagliati e cinquantenari ero tra i più arzilli. Non capitava spesso nemmeno allora di entrare in giornalismo a ventun anni. All’“Ordine” eravamo in quattro, e facevo un po’ di tutto, ovviamente, soprattutto cronaca nera e bianca. Anche un po’ di recensioni di film, ogni tanto. Recensì Paisà, parlandone bene (ride). Succede che nel ’49 mi licenziano. Passo nove mesi da disoccupato o, meglio, senza stipendio poiché collaboravo all’altro quotidiano comasco, “La Provincia”: teatro, cinema, libri, mostre d’arte, qualche articolo di cronaca locale. Nel ’50 trovo un posto a Milano, in un altro quotidiano cattolico: “L’Italia”, dove lavoro per due anni come redattore alle pagine provinciali. Raramente, approfittando delle vacanze o delle distrazioni del titolare della critica cinematografica, riesco a fare anche qualche recensione: Cronaca di un amore (1950) dell’esordiente Antonioni, per esempio. Finché alla fine del ’52 esce un nuovo quotidiano del pomeriggio, “La Notte”: fui promosso sul campo, sin dal primo giorno, critico del teatro di rivista. Si giocava a tutto campo, allora. A fare il successo della “Notte” contribuirono molto la pagina degli spettacoli e quella complementare del “Dove andiamo stasera?” dove per la prima volta su un quotidiano apparvero le famigerate “stellette” della critica, presto accompagnate dai “pallini” del successo di pubblico. Per nove mesi feci anche il vice di Biagi (e così mi firmavo) per il cinema. Recensivo più film io come vice che lui come titolare, ma in quel momento Enzo Biagi aveva il suo daffare come redattore capo del settimanale “Epoca”, appena uscito. Al festival di Venezia 1953 andai io, e da quel momento divenni titolare. Da ragazzo avevo due passioni: la letteratura e il cinema. Se mi guardo indietro, posso dire di essere un uomo fortunato: ho fatto coincidere presto uno di quei due amori col lavoro.

Morandini 2Il piacere della visione: doversi porre davanti a un film con un atteggiamento critico l’ha mai privata di qualcosa?
Sono cresciuto in provincia, a Como, città che non è mai stata culturalmente vivace come Bergamo, Pavia, Parma. Nel ’49 a Como fondai un Circolo del cinema. C’erano molte ragioni per farlo, non ultima quella che volevo vedere i film del passato. Il piacere della visione… è un discorso complesso. Parto da un esempio. Negli anni ’50 a Milano ci si incontrava spesso, tra colleghi, alla prima proiezione pomeridiana dei film nuovi. Incontravo Ugo Casiraghi dell’“Unità”, amico carissimo con cui poi lavorai nella supervisione del primo cinema d’essai italiano. Mi capitava di vedere con lui un film di Jerry Lewis o con Jerry Lewis (il suo primo film di regia è del 1960). A certe gag Ugo rideva come un matto, mentre io rimanevo in silenzio. Non che non mi divertissi anch’io, ma è una questione fisiologica: posso divertirmi moltissimo, ma non rido. Mi capita raramente. Poi, però, leggevo la sua recensione del film con Jerry Lewis, e non si capiva che s’era divertito. È soltanto un esempio, s’intende, ma fin d’allora mi ero posto il problema: come superare i filtri ideologici? Fino a che punto un critico ha il dovere di controllare la propria soggettività? È giusto rimuovere il piacere della visione? D’accordo: Casiraghi era comunista, un marxista di quelli veri, mentre io non lo ero. Di sinistra, è vero, ma di difficile collocazione. Qualche volta penso di essere un liberalsocialista un po’ anarchico: oggi, che si sposta tutto a destra, faccio figura di estremista perché non mi sono mosso! Ebbene, come critico, almeno nella misura in cui ne ero consapevole, mi sono sempre posto il problemi dei filtri ideologici. Facciamo un altro esempio: Samuel Fuller. Da quando alla mostra di Venezia del ’53 arrivò Mano pericolosa, Fuller era stato presentato come un regista di destra, reazionario, muscolare e un po’ fascista. Nel 1961 lascio “La Notte” per “Stasera”, altro quotidiano del pomeriggio, ma di sinistra, pendant del romano “Paese Sera”. Esce a Milano quel che per me ancor oggi rimane uno dei film migliori di Fuller: L’urlo della battaglia (1962). Lo recensisco in modo molto, molto positivo. E su “Cinema nuovo” di Aristarco, baluardo della critica marxista, si scandalizzarono. Già non avevano probabilmente digerito il fatto che su un quotidiano di sinistra avessero preso me, critico di “La Notte”. Per giunta elogiavo apertamente un film di Fuller. Uno scandalo. Mi bacchettarono con un corsivo anonimo al quale risposi con una letterina troppo ironica perché potessero capirla. L’umorismo non era il loro forte.

È possibile giudicare serenamente un cinema ideologicizzato? O semplicemente distinguere destra da sinistra?
Forse per ragioni d’età, ma, nonostante la confusione che regna oggi, so ancora distinguere tra destra e sinistra, almeno in certi campi. Dipende dai livelli, però. Sopra un certo livello mi rifiuto di discutere in termini di destra e sinistra. Nel cinema hollywoodiano che conta, per esempio: che m’importa di stabilire se Ford o Hawks siano o no di destra? È di destra o di sinistra Kubrick? E Altman, Coppola, Abel Ferrara, Scorsese dove li mettiamo? Passiamo in Francia. Resnais è sempre stato un uomo di sinistra: Notte e nebbia (1956), Hiroshima mon amour (1959), La guerra è finita (1966). Ma ha diretto anche L’anno scorso a Marienbad (1961) e Smokin – No smoking (1993). Sono film di sinistra? Godard cominciò con film anarchici di destra (Le petit soldat, 1960, per esempio) e dieci anni dopo diventò maoista. Come la mettiamo con Truffaut? L’alternativa destra-sinistra si riferisce ai contenuti o anche alla forma? Comunque credo nella distanza critica, non ideologica.

Morandini 3Va al cinema con amici? Discute con loro dei film visti?
Al cinema vado solo o in coppia, quasi sempre con mia moglie, raramente in gruppo. Certo che discuto con gli amici, ma quasi sempre a botta fredda. Non ho mai fatto presse parlé, anche perché non sono tanto bravo a parlare. Anche ai festival raramente scambio opinioni con i miei colleghi all’uscita da un film. Non voglio farmi influenzare né influenzare gli altri, soprattutto quando si esce da un film che mi ha intrigato, colpito, sorpreso. In quei casi ho bisogno di una fase di riflessione, e voglio farla in solitudine prima di scrivere. Negli altri casi posso limitarmi a un sí o un no, mi piace o non mi piace. Per quel che ricordo, una volta sola sentii il bisogno di scambiare impressioni e idee, e trovai la persona adatta come interlocutore. Fu nel 1959 quando a Cannes si vide Hiroshima mon amour. E l’interlocutore era Casiraghi. Un critico di una generazione successiva non può immaginare l’impressione che a molti fece quel Resnais che, dieci anni dopo, rivedendolo per la terza o quarta volta, mi sembrò di una semplicità straordinaria. Non in quel giorno di maggio del ’59. Non fui sconvolto da À bout de souffle, ma da Hiroshima mon amour che mi sembrò un film libero come può esserlo un romanzo. Dieci anni dopo era un film trasparente, ma in mezzo c’erano stati gli incontri con i film nuovi degli anni ’60.

Guardando a ritroso, riconosce errori di valutazione su certi registi e sui loro film?
Secondo me sono più gravi le sottovalutazioni che le sopravvalutazioni. Ritengo più grave – nel mio mestiere ma anche nella vita di ogni giorno – sbagliare per difetto che per eccesso, per avarizia che per generosità. Ovviamente anch’io ho commesso errori di questo tipo. Qui bisognerebbe parlare dei rapporti tra espressione e comunicazione. Forse dipende dal fatto che, tirate le somme, sono un giornalista prima di essere un critico. Il primo dovere di un giornalista è saper comunicare, no? Se poi riesce a esprimersi, tanto meglio. In termini diversi, il problema si pone anche per l’artista. Il suo primo dovere è esprimersi, ma non può trascurare la comunicazione, ossia il rapporto col pubblico, con lo spettatore. Diffido dei film che sono “contro” il pubblico, per principio. O forse sono soltanto più esigente. Fossi costretto al gioco della torre, tra Truffaut e Godard, butterei giù Godard. Estremizzo, è chiaro, ma , secondo me, il problema critico dell’ultimo decennio è la svalutazione eccessiva dei film ben costruiti. So anch’io che è una vecchia storia, si ripete in letteratura da duecento anni: classici contro romantici. Se si va contro il pubblico, o si è a un livello molto alto – come Tarkovskij, per esempio – o è meglio lasciar perdere. So benissimo che Lo specchio (1974) è un film per pochi, e io faccio parte di quei felici pochi! Il mio compito di critico è di far aumentare il numero di quei pochi.

Avrà delle antipatie…
Ne ho tante, e non le nascondo. Tinto Brass o Zeffirelli, tanto per fare dei nomi, per non scendere al livello dei Vanzina. Anche in questi casi, però, seguivo un criterio etico: mi astenevo. Dopo due o tre stroncature consecutive, lasciavo il compito di recensire il nuovo film al mio socio Silvio Danese. Insomma, evitavo quel che poteva sembrare un accanimento critico. E risparmiavo il mio tempo. Oltre alle antipatie esistono le ottusità. C’è un regista che ho amato subito, sin dall’inizio: Marco Ferreri. Eppure, di fronte al suo Diario di un vizio (1993), io, ferreriano della prima ora, sono rimasto chiuso. Non mi è piaciuto, non l’ho capito. Le chiamo ottusità provvisorie. Vai a vedere un film e per ragioni tue private (fisiologiche?), lo vedi “male”. Magari sei costretto a scriverne subito, non hai il tempo di rivederlo, ma sai che l’hai visto male. Il guaio è quando non lo sai.

Morandini 6Come si comporta con i film degli amici o dei registi che conosce?
Occorre fare una distinzione tra i critici romani (intesi come critici che abitano a Roma) e gli altri. Io sono un critico di frontiera, per esempio. Abito a 50 km. da Chiasso, (ride), dunque ho meno occasione di frequentare la gente del cinema: produttori, sceneggiatori, registi, attori ecc. Detto questo, considero l’ambiente del cinema italiano romanocentrico un cortile di merda. Puoi scriverlo: un cortile di merda, per intrallazzi, ruberie, omertà mafiosa, raccomandazioni di partito o di corrente, meschinità, gelosie, invidie, politica per bande. È di una corruzione almeno pari a quella di tutto il resto dell’Italia. Il guaio è che, pur vivendo a Milano, questa corruzione mi è più evidente. Sono pochi, pochissimi i registi che posso definire come amici: Bertolucci (tutti e due), Luigi Faccini, Nichetti a Milano, Olmi, Vincenzo Cerami tra gli sceneggiatori. Potrei aggiungere Valerio Zurlini e Gianni Amico, ma se ne sono andati. Per altri può esserci stima e una certa confidenza. Per Gianni Amelio, per esempio, ho una stima grandissima, anche a livello personale, come per De Seta, così come ho stima e confidenza con Marco Tullio Giordana, Emidio Greco, lo stesso Benigni, Bellocchio. Nel 1997 a Venezia diedero a Bertolucci il premio Pietro Bianchi. Poiché di Bianchi sono il successore sul “Giorno” e di Bernardo sono amico, il Sindacato Giornalisti Cinematografici mi chiese di fare un discorsino prima della consegna del premio. Parlai anche del problema che si pone al critico quando deve giudicare il film di un autore amico. Può capitare che si scrivano sul film riserve, qualche dissenso. I casi sono due: se i due sono veramente amici, continuano a esserlo, magari dopo un periodo di silenzio da parte del ferito; se rompono i rapporti, non erano veri amici. Nel primo caso, però, può rimanere un’ombra, paragonabile a quella di un tradimento tra marito e moglie. Appartiene al passato, può essere stata metabolizzato, il tradimento, ma l’ombra resta. Non è un gran problema, comunque. Se ho riserve da fare sul lavoro di un amico, cerco di scriverle in maniera più gentile. Tutto qui. C’è un altro rischio, invece. Se si conosce bene un regista, e gli si vuol bene, il rischio, per il critico è di scambiare le intenzioni per risultati.

Questi erano gli amici. E, invece, le polemiche con occasionali “nemici”?
Polemiche? Le ho avute più a voce che per iscritto, ma molte le ho dimenticate. Magari non so perdonare, ma dimentico spesso. Ebbi una polemica scritta con Alberto Bevilacqua, strascico di un duro attacco che gli feci da Venezia nel 1985 quando fu messo in concorso La donna delle meraviglie. Non replicò subito. Aspettò un’altra occasione per mandarmi una lettera oltraggiosa. Non aveva tutti i torti, però: la mia era stata un’invettiva. Ebbi una polemichetta in pubblico con Tinto Brass. A proposito di un suo film scrissi sul “Giorno” che mi aveva fatto venire la tentazione – come si ha voglia ogni tanto di fare con certi bambini – di mettere il regista nella condizione di non nuocere. Apriti cielo! Brass mandò una lettera al giornale accusandomi di voler limitare la sua libertà d’espressione e di avere auspicato la sua messa al bando. Gli risposi che avevo commesso uno sbaglio nel ricorrere all’ironia sebbene mi meravigliasse il fatto che non fosse stata capita da chi, come Brass, si dava tante arie di trasgressivo, ironico, caustico. Eppure conoscevo la regola: non usare mai l’ironia quando si scrive sui giornali perché c’è il rischio che un lettore su due prenda alla lettera quanto hai scritto. Se scrivessi per iperbole antifrastica e ironica, che Pieraccioni è più grande di Chaplin, sicuramente qualche lettore si scandalizzerebbe.

Morandini 4Ha scritto che le piace essere invaso dai film, non evadere grazie ai film… cosa rende buono un film?
Al più alto grado, come per certi libri, un film dovrebbe cambiare lo spettatore. Uno vede un film e ne esce cambiato nel senso che ha ricevuto tanto che non è più la stessa persona. È un po’ un paradosso letterario, ma ha un suo fondo di verità. Sai, mi tengo sempre sul paragone con la letteratura o con la poesia: i film per il 99% sono in prosa però ci sono anche quelli di poesia. Per cui un film ti può emozionare, ti può dar da pensare, porti delle domande, anche perché credo che l’arte in generale ponga delle domande, non dia delle risposte. Anzi, sono i film che danno delle risposte che sono discutibili. Significa che sono “a tesi”, in fondo in funzione di un programma, politico, civile… o un programma pornografico (ride). Insomma, film che subordinano la loro autonomia di prodotto artistico a qualche cosa d’altro.

Non ha mai provato la tentazione di passare dall’altra parte della barricata?
La questione va divisa in due parti, una autobiografica ed una più generale. Il primo libro di cinema che ho posseduto, mi fu regalato da mia madre quando avevo quattordici quindici anni e purtroppo è un libro che è andato perso negli anni di guerra. Un libro pubblicato da Bompiani, l’autore era Seton Margrave, ma non ricordo più il titolo. Fu un regalo di compleanno di mia madre e mi ricordo ancora la dedica: “a Morando che vuole diventare regista”. C’è stato anche un momento a guerra finita, credo nel ’47, in cui andai a sostenere un esame di iscrizione al Centro Sperimentale – facevo già il giornalista – e non fui ammesso. Ho avuto l’occasione di collaborare alla sceneggiatura di un altro, ma sono sfumate. Una volta è stato quando il mio amico Gianfranco Bettetini m’invitò ad andare ad Alba per conoscere Beppe Fenoglio perché c’era in ballo il progetto di un film su soggetto suo, tra l’altro non sulla guerra partigiana, ma ambientato nelle Langhe del dopoguerra. Andai due volte almeno ad Alba e conobbi Fenoglio. Passammo delle bellissime ore assieme. Si parlò pochissimo del film da fare (ride). Si parlò molto delle Langhe, del vino e poi sei mesi dopo Fenoglio s’ammalo.

E ci sono film che avrebbe comunque voluto fare?
Ogni tanto, una volta ogni due o tre anni, mi succede o di leggere un libro o di vedere un film che mi piace tanto e mi piace in un modo particolare che mi dico che questo è un film che avrei voluto fare io. Non chiedermi titoli perché non me li ricordo più! È un pensiero che hanno in molti, credo. Non è molto profondo!
(Milano, 24/7/98 e Levanto, 4/8/98)

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