Franco Bertolucci – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Essere militanti comunisti, libertari e rivoluzionari nell’Italia della guerra fredda https://www.carmillaonline.com/2019/11/27/essere-militanti-comunisti-libertari-e-rivoluzionari-nellitalia-della-guerra-fredda/ Wed, 27 Nov 2019 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56322 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.3 I militanti: le biografie, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 9/2019, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 456, € 40,00

Con questo terzo ed ultimo volume giunge a conclusione la monumentale opera di ricostruzione, curata da Franco Bertolucci, dedicata all’esperienza dei GAAP svoltasi interamente nel periodo compreso tra gli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale e la tragica rivolta dei consigli operai ungheresi del 1956. Dopo l’attenta ricostruzione delle vicende, dei congressi e dei dibattiti intervenuti all’interno della ristretta cerchia di [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.3 I militanti: le biografie, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 9/2019, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 456, € 40,00

Con questo terzo ed ultimo volume giunge a conclusione la monumentale opera di ricostruzione, curata da Franco Bertolucci, dedicata all’esperienza dei GAAP svoltasi interamente nel periodo compreso tra gli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale e la tragica rivolta dei consigli operai ungheresi del 1956.
Dopo l’attenta ricostruzione delle vicende, dei congressi e dei dibattiti intervenuti all’interno della ristretta cerchia di militanti, spesso operai, che l’animarono e dei giornali che ne costituirono il filo rosso organizzativo, condotta nei primi due volumi (qui e qui), questo terzo tomo è dedicato principalmente alla ricostruzione delle biografie dei singoli militanti.

Militanti noti poi anche in seguito, come Pier Carlo Masini oppure Arrigo Cervetto, oppure scomparsi dalla memoria pubblica o anche solo della cerchia ristretta di coloro che mai hanno voluto assuefarsi alla via segnata dal modo di produzione capitalistico né, tanto meno, ai tradimenti e alle baggianate politiche diffuse dallo stalinismo sempre imperante, sia apertamente che sotterraneamente, all’interno di quello che per anni si è vantato di essere il più grande partito comunista dell’Occidente: il PCI.

Biografie che l’espertissimo Bertolucci, che già aveva coordinato il Dizionario biografico degli anarchici italiani sempre per la Biblioteca Franco Serantini1di cui è anche direttore, ha ricostruito insieme ai suoi collaboratori con grande precisione e partecipazione. Con un’attenzione che si manifesta sia nella scelta, operata nella stesura di tutti e tre i volumi, di lavorare sempre su materiali di prima mano e su carteggi e documenti precedentemente inediti o quasi sconosciuti, sia nel rispetto, ci sarebbe da dire nell’umiltà, dimostrato in ogni riga del testo nei confronti di quei coraggiosi militanti libertari e della Sinistra Comunista che in quegli anni difficili cercarono di giungere ad una ricomposizione di classe tutt’altro che sociologica e libera dalle infingardaggini della precedente partecipazione al conflitto imperialista che aveva contribuito a cancellare, quanto il regime fascista precedente, dalla memoria del proletariato italiano l’idea di una lotta di classe finalizzata alla rivoluzione e non alla democrazia partecipativa di cui tanti dirigenti del Partito Comunista, con Togliatti in testa, erano andati ragliando in giro.

Anni che videro non soltanto una dura azione repressiva messa in atto dai governi democristiani dopo il 1948 nei confronti dei lavoratori più attivi sul piano sindacale e politico, ma anche la manifestazione di quale fosse il vero volto del socialismo sovietico una volta applicato ai lavoratori dei paesi dell’Europa Orientale conquistati dalla armate “rosse”. Un volto che si rivelò appieno durante la feroce repressione della rivolta di Berlino Est nel 1953 e di quella ungheresi del 1956.

Si è pertanto scelto di presentare qui una lunga citazione dalla lettera di dimissioni dal PCI vicentino da parte di Bruno Tealdo2 del 30 giugno 1953, tratta dall’enorme mole di lettere e documenti privati o dalle relazioni interne delle/alle varie componenti dei GAAP tutte contenute nella seconda parte di questo terzo tomo, che sembra riassumere in poco spazio tutta l’amarezza, la delusione e allo stesso tempo la determinazione che animò nelle loro scelte questi militanti della rivoluzione futura e del mondo a venire.

“Dopo aver a lungo riflettuto, sono venuto nella determinazione di dare le mie dimissioni dal Partito Comunista Italiano.
[…] La mia iscrizione al PCI avvenne all’indomani della guerra di liberazione, e da allora ho dato al Partito tutta la mia attività, prima come Segretario di cellula, poi come Segretario di Sezione, membro del Comitato Federale e della Commissione Organizzatrice […].
Ricordo bene le riunioni del Comitato Federale, alle quali durante il periodo della mia attività avevo partecipato. Ogni volta ricevevo la netta sensazione che non si trattava di elaborare tutti insieme un programma di lavoro, ma soltanto di approvare ciò che alcuni piccoli dittatori avevano precedentemente stabilito.
Sono essi che tracciano la linea politica del partito, linea politica che è sempre meno rivoluzionaria, sempre più legalitaria e parlamentare. Molti compagni dissentono da questa linea politica, ma le loro opinioni non vengono tenute in nessun conto.
Dal ’45 ad oggi, le cellule e le Sezioni del Partito non hanno fatto altro che dell’ordinaria amministrazione. Non vi è stato, e non vi è tuttora, quello spirito di lotta che, anche in un momento come questo affatto rivoluzionario, dovrebbe animare un Partito che si dice comunista e che non perde invece occasione per riaffermare, con le parole e con i fatti, il proprio ossequio ed assoluto rispetto della legalità democratica. I dirigenti del Partito hanno più volte soffocato iniziative di lotta partite dalla base e sentite dalla base.
[…] Nella nostra Provincia, quante lotte non prtate a termine, quante lotte abbandonate! Ricordo la ex-Caproni, l’Isotta Fraschini. Ricordo la serrata dell’ILESA, la quale riassunse poi le operaie, ma non quelle iscritte al PCI. Ricordo i mezzadri ei piccoli fittavoli, che non hanno ancor avuto quanto stabilito per legge. Ricordo la mancata lotta contro un governo che puniva i ferrovieri con 10 giorni di sospensione, per avere il 30 marzo scioperato contro la legge truffa. Ci si è limitati a piccole proteste, e tutto è finito in una bolla di sapone. Ricordo l’abbandono della lotta per la bonifica di S. Agostino, nella quale molti giovani avrebbero trovato un po’ di lavoro, molti padri la possibilità di dare del pane ai propri figli. Eppure questa agitazione aveva l’appoggio di esercenti di piccoli commercianti, in quanto la bonifica, oltre a dare lavoro a molti disoccupati, avrebbe arrecato anche un beneficio alle campagne circostanti.
I compagni hanno atteso e attendono una prova che il PCI è il loro Partito rivoluzionario; continuano a dare la loro opera incessantemente; continuano ad avere fiducia nei loro dirigenti; ma io oggi non credo più che una tale prova possa venire da questo Partito.
Non lo credo più, perché gli ultimi avvenimenti della Germania-Est mi hanno aperto gli occhi. Ciò che non mi era chiaro mi è diventato chiaro: oggi io ho capito la vera natura di questo Partito.
Se il Partito Comunista fosse veramente il partito della classe operaia non avrebbe lanciato i carri armati sulla popolazione inerme che chiedeva condizioni più umane di lavoro; non avrebbe fatto fucilare decine di operai; non ne avrebbe incarcerati migliaia. Se il Partito Comunista fosse veramente il Partito della classe operaia, non avrebbe represso nel sangue una protesta legittima e sacrosanta, proprio come fanno i governi borghesi; non sarebbe ricorso alla vile menzogna di qualificare come agenti provocatori e fascisti intere masse di operai in sciopero. […] (Vedi L’Unità del 26/6/1953).
Anche i governi borghesi reprimono le agitazioni operaie con la scusa che sono sobillate da Mosca e che fanno il gioco di Mosca: il governo sedicente comunista si comporta nello stesso modo, dunque è anch’esso un nemico degli operai; ormai no ho più dubbi e per questo abbandono il Partito.”3

Un’opera che si rivela dunque, anche in quest’ultimo volume, essere imprescindibile per chiunque si interessi con serietà, impegno e passione alle vicende della lotta di classe in Italia e alle sue forma di autonoma espressione ed organizzazione.


  1. M. Antoniolo, S. Fedele, G. Berti, P. Iuso, (coordinatore F. Bertolucci) Dizionario biografico degli anarchici italiani, 2 voll, BFS 2003-2004  

  2. Bruno Tealdo (1912-1999) subito dopo le sue dimissioni dalla federazione del PCI di Vicenza fu additato come provocatore e “espulso” per indegnità politica per avere calunniato “il glorioso paese di Lenin e di Stalin” ed essersi rifugiato in uno sparuto gruppetto di anarchici senza seguito (così come recitava l’ Amico del popolo, organo della federazione provinciale vicentina del PCI, nel numero speciale pubblicato proprio per infangarne il nome e le scelte)  

  3. Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.3 I militanti: le biografie, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 9/2019, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 267-268  

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Dall’organizzazione libertaria al partito di classe https://www.carmillaonline.com/2018/11/21/dallorganizzazione-libertaria-al-partito-di-classe/ Wed, 21 Nov 2018 20:31:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49530 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), Gruppi anarchici d’azione proletaria. Le idee, i militanti, l’organizzazione. Vol. 2 Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest: dall’organizzazione libertaria al partito di classe, Quaderni della rivista storica dell’anarchismo 8/2018, BFS, Pisa 2018 – Pantarei, Milano 2018, pp. 784, euro 40,00

Con questo secondo volume, di fatto, si conclude la monumentale opera, curata da Franco Bertolucci, dedicata alla ricostruzione della breve ma intensa esperienza dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) che, tra il 1949 e il 1956, vide alcuni importanti esponenti dell’anarchismo e del comunismo estraneo alla tradizione stalinista e togliattiana [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), Gruppi anarchici d’azione proletaria. Le idee, i militanti, l’organizzazione. Vol. 2 Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest: dall’organizzazione libertaria al partito di classe, Quaderni della rivista storica dell’anarchismo 8/2018, BFS, Pisa 2018 – Pantarei, Milano 2018, pp. 784, euro 40,00

Con questo secondo volume, di fatto, si conclude la monumentale opera, curata da Franco Bertolucci, dedicata alla ricostruzione della breve ma intensa esperienza dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) che, tra il 1949 e il 1956, vide alcuni importanti esponenti dell’anarchismo e del comunismo estraneo alla tradizione stalinista e togliattiana impegnati nel tentativo di dare vita ad un’organizzazione politica di classe che convogliasse tra le propria fila e nel proprio programma gli aspetti migliori di una militanza proletaria e di una teoria che fossero avulse dall’ormai evidente tradimento della causa rivoluzionaria messo in atto da formazioni ed organizzazioni che formalmente si richiamavano ancora al marxismo e agli interessi del proletariato in quanto classe ben distinta, sia a livello nazionale che internazionale, tanto da quella imprenditoriale legata al capitale privato che da quella che, ammantandosi di socialismo farlocco, rappresentava ormai soltanto più gli interessi di un capitalismo di Stato travestito da patria del proletariato.

Una stagione durissima per la militanza proletaria, che seguiva una stagione in cui le dittature dell’Occidente (nazionalsocialismo e fascismo) e quella che reggeva l’U.R.S.S. avevano in egual modo contribuito alla distruzione delle autonome organizzazioni di classe, riuscendo a coinvolgere il proletariato mondiale in uno scontro militare che aveva avuto come unico esito quello di dar vita a due super potenze che si erano spartite il pianeta e le sue risorse in nome di posizioni ideologiche apparentemente divergenti, ma in realtà convergenti nel ristabilimento di un ordine gerarchico e politico destinato a tarpare le ali a qualsiasi tentativo di rivolgimento proletario nei territori da esse direttamente occupati militarmente oppure amministrati da partiti “fratelli” o amministrazioni fedeli alle alleanze militari (NATO e Patto di Varsavia) create ad hoc. Più per controllare le insorgenze dal basso che per far fronte a reali conflitti militari tra le stesse.

Autentiche sante alleanze che in nome della libertà capitalistica oppure del socialismo nazionale di Stato contribuirono a mantenere l’ordine non solo a Berlino, come era avvenuto nel 1953 durante l’insurrezione operaia della parte orientale della città, ma anche là dove ancora l’insorgenza di classe tardava a venire a causa del controllo esercitato sulla forza lavoro dai sindacati, ereditati dalla tradizione di concertazione degli interessi nazionali di stampo fascista, e dai partiti sedicenti di sinistra ma già pienamente inseriti nel gioco delle parti del parlamentarismo autoritario dietro il quale si trinceravano gli interessi della borghesia e del capitale, sia industriale che finanziario.

L’attuale volume sulla storia dei GAAP, che giungerà a conclusione con un terzo volume già pronto per la stampa dedicato alle biografie dei militanti anarchici e comunisti che parteciparono a quell’esperienza, riparte proprio da dove si era concluso il primo ovvero da quel 1953 che si era dimostrato foriero di tempeste proprio per quei regimi che nell’Europa dell’Est rappresentavano la presenza e l’esistenza di un imperialismo sovietico che più che appoggiarsi su piani di sostegno economico e promesse di sviluppo dei consumi, come era avvenuto all’Ovest con il Piano Marshall, si appoggiavano sulla presenza militare diretta delle truppe sovietiche sui territori compresi tra la Germania dell’Est e i confini dell’U.R.S.S.

In entrambi i casi i due imperialismi avevano fatto affidamento, oltre che sul denaro o sulle armi e se necessario su tutti e due gli elementi contemporaneamente, alla presenza negli stati interessati di partiti strettamente legati a Washington o a Mosca, oppure, come era successo in Italia, a un partito che pur rivendicando la fedeltà alla Moscovia avrebbe continuato a servire fedelmente gli interessi della patria e della Chiesa, teorizzando attraverso il suo leader Togliatti una sorta di via italiana al socialismo che tutto ammetteva tranne l’uso del sovvertimento rivoluzionario delle strutture di classe.

L’esperienza dei GAAP si trovò così affiancata ad altre esperienze maturate nell’ambiente anti-stalinista, bordighista e trotzchista che cercavano di riesumare l’internazionalismo proletario in nome di una rivoluzione mondiale destinata a rovesciare il modo di produzione dominante, sia all’Ovest che all’Est, basato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, sul salario, sui profitti e sul consumo di merci. Che poi questo fosse giustificato attraverso la ‘ricostruzione’ in Italia oppure la costruzione del socialismo negli stati dell’Est poco cambiava nella sostanza.

Per comprendere appieno l’importanza dell’opera di ricostruzione storica della vicenda di un’organizzazione sviluppatasi grazie alla forte e determinata personalità di Pier Carlo Masini e di altri militanti, tra i quali un giovane Arrigo Cervetto, occorre ascoltare ciò che ha avuto modo di affermare lo stesso curatore:

questo secondo volume mi è costato molta fatica e sacrifici anche perché la storia che racconto in gran parte è totalmente inedita e riguarda la sinistra, soprattutto quella rivoluzionaria, in un periodo storico difficilissimo. Il messaggio che vorrei che passasse anche con aspetti critici è quello del recupero di quella parte della memoria e cultura politica, radicale, antistatalista, antiburocratica, antistalinista, diffidente verso ogni potere costituito che la sinistra “ufficiale” per tanti anni ha disprezzato ed emarginato. Oggi di questa cultura politica “antagonista” seria se ne sente molto la mancanza, in questi ultimi trent’anni con l’acqua sporca la “sinistra” ha buttato anche il “bambino” cioè l’utopia e l’ideale di una società egualitaria e libertaria!!
Inoltre, questa ricerca è stata portata avanti dalla nostra biblioteca in totale autonomia dall’accademia, anzi possiamo dire con una punta di orgoglio che siamo fieri della nostra ricerca – nonostante errori, refusi e qualche dimenticanza – proprio perché indipendente dalle logiche del “profitto culturale e carrieristico” di cui purtroppo oggi è piena una parte della nuova “gioventù” di storici che hanno un solo obiettivo quello di affermarsi nella gerarchia baronale delle università e nessuna “passione politica”.

Questa passione politica portò i militanti di allora ad essere tra i primi a comprendere l’evoluzione anti-imperialista delle lotte di liberazione dei paesi definiti all’epoca del “Terzo Mondo”. Territori in cui la cacciata dei vecchi imperialismi europei dai continenti extra-europei seguita alla Seconda Guerra Mondiale, più che aprire immediatamente le porte al dominio dei nuovi signori del pianeta, russi o americani che fossero, aveva spalancato orizzonti di indipendenza e libertà anche per le classi meno abbienti (contadini, proletari e sottoproletari) che si erano letteralmente lanciate a capofitto in un processo rivoluzionario assolutamente inaspettato.

La rivoluzione algerina, successiva alla sconfitta indocinese delle armate e del colonialismo francesi, che prese l’avvio negli anni di esistenza dei GAAP fu uno dei primi momenti di confronto/scontro tra le posizioni degli anarchici, degli anarco-comunisti e dei comunisti e quelle dei partiti che pur dichiarandosi di sinistra la osteggiavano, soprattutto in Francia, in nome degli interessi della Nazione. Così i rigurgiti di razzismo e di sovranismo dei nostri giorni dovrebbero essere rivisti e studiati anche alla luce delle esperienze e della formulazioni politiche dell’epoca, non sempre collocabili a “destra”.
Ma accanto alle nuove insorgenze proletarie e contadine provenienti dal Sud del mondo, andavano prendendo forma nuove problematiche inerenti alla crisi di un marxismo ridotto a mero feticcio e alla scoperta tardiva, e tutto fuorché disinteressata, dei “crimini di Stalin” nella stessa patria del socialismo reale, avvenuta nel corso del XX Congresso del PCUS nel febbraio del 1956 ad opera dell’allora segretario del partito Nikita Chruščëv.

A proposito della prima, il Comitato nazionale dei Gruppi anarchici di azione proletaria, in un commento all’Indirizzo stilato nell’ottobre del 1953 dai membri del Partito comunista internazionalista dopo un incontro tenutosi a Genova-Sestri, aveva sostenuto che:

Oggi il «marxismo» come corpo di dottrina che è storicamente inscindibile da tutte le sue incrostazioni, da tutti i suoi sottoprodotti, da tutte le sue stesse contraffazioni, ha dato luogo ad una estenuante produzione di interpretazioni e di dispute dottrinarie, che in alcuni casi hanno rappresentato un contributo positivo alla formazione del pensiero rivoluzionario, ma molte altre volte hanno rappresentato una causa di sterilità, di dispersione, qualche volta di pieno e provato tradimento. Il «marxismo» nella sua più larga ed ormai irrestringibile accezione, si perde in illazioni di ordine politico, che i gruppi superstiti del proletariato rivoluzionario non possono accettare singolarmente prese e respingono nel loro stesso contraddittorio sviluppo, come un fenomeno di crisi.

Le sette sembravano infatti trionfare in assenza di una ripresa della lotta e di un’autonomia di classe in grado di determinare da sé quali fossero le proposizioni e le modalità di conduzione della lotta in grado di far fronte ad un capitalismo proteiforme e allo stesso tempo sempre uguale a se stesso. Il problema rimaneva sempre quello del che fare e di come indirizzare ed orientare le lotte future.

In un contesto in cui, poi, la denuncia dei “crimini di Stalin” e del culto della personalità era servita soprattutto a diffondere l’idea di una coesistenza pacifica tra sistemi diversi (socialismo e capitalismo) e che le forze del socialismo potessero affermarsi senza rivoluzioni, senza guerre civili, mediante processi parlamentari. Idee che se da un lato aggiornavano a livello internazionale le proposte già suggerite da Togliatti per il PCI e l’Italia, dall’altro non impedirono agli operai e ai giovani studenti e proletari ungheresi di impugnare le armi per dar vita nel 1956 a una repubblica dei consigli operai e a una rivolta di Budapest di breve durata, ma estremamente significativa e rivelatoria della vera essenza del socialismo che si prospettava all’Est.

Una rivolta per l’indipendenza dall’imperialismo sovietico, in seguito repressa nel sangue dal ‘pacifista’ Chruščëv e dalle truppe corazzate dell’U.R.S.S. destalinizzata, che riportava nel cuore dell’Europa i temi dell’anti-imperialismo solitamente usati per i paesi in via di decolonizzazione. Mentre gli USA, la Nato e le democrazie europee, fedeli ai trattati di spartizione del globo, stavano a guardare senza colpo ferire, come già avevano fatto con la rivolta di Berlino Est, e mentre Togliatti e il PCI condannavano come fascisti e sabotatori gli insorti. Come avrebbero poi fatto ancora in seguito i rappresentanti del “più grande partito comunista d’Occidente” negli anni Sessanta e Settanta nei confronti di qualsiasi insorgenza di classe e di qualunque manifestazione di autonomia dell’antagonismo sociale.

In tale magmatico contesto l’esperienza dei GAAP si concluse, senza riuscire a dar vita a quell’organizzazione politica così ambita dai suoi militanti e promotori. Anzi dall’iniziale prospettato incontro tra forze anarchiche e comuniste eretiche sarebbe poi emersa una formazione destinata trasformarsi da lì a poco in una delle più rigide formazioni basate sull’ortodossia leninista del partito. Ma tutto ciò, a distanza di più di sessant’anni, non ha più alcun valore se messo a confronto con l’immensa mole di scritti, pubblicazioni e riflessioni che l’opera, curata con impegno, passione e perseveranza da Franco Bertolucci e dalle compagne e dai compagni della Biblioteca F.Serantini, mette oggi a disposizione non solo degli studiosi, ma anche di coloro che ancora vogliano comprendere gli errori e le conclusioni, sempre e solo di valenza momentanea, di un percorso rivoluzionario che per vie pubbliche o clandestine, in situazioni di massa o di piccoli gruppi ristretti non ha mai cessato di esistere. E che non cesserà mai di esistere fino a quando esisterà lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente e la specie intera in nome del profitto e della barbarie capitalistica.

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Errico Malatesta tra crisi dello Stato liberale e crisi del movimento operaio https://www.carmillaonline.com/2018/05/23/errico-malatesta-tra-crisi-dello-stato-liberale-e-crisi-del-movimento-operaio/ Wed, 23 May 2018 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45822 di Sandro Moiso

F. Bertolucci, R.Carocci, V. Gentili, G.Sacchetti, Errico Malatesta. Un anarchico nella Roma liberale e fascista, (a cura di R. Carocci) BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 176, € 18,00

Quelli appena pubblicati dalla BFS Edizioni sono gli atti del convegno Malatesta un rivoluzionario a Roma, organizzato dall’Associazione di Idee “I Refrattari” a Roma il 28 maggio 2016. Atti la cui la pubblicazione risulta particolarmente importante poiché non soltanto riguardano uno dei principali esponenti dell’anarchismo italiano ed internazionale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma anche perché coincide con un periodo particolarmente travagliato e complesso della [...]]]> di Sandro Moiso

F. Bertolucci, R.Carocci, V. Gentili, G.Sacchetti, Errico Malatesta. Un anarchico nella Roma liberale e fascista, (a cura di R. Carocci) BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 176, € 18,00

Quelli appena pubblicati dalla BFS Edizioni sono gli atti del convegno Malatesta un rivoluzionario a Roma, organizzato dall’Associazione di Idee “I Refrattari” a Roma il 28 maggio 2016.
Atti la cui la pubblicazione risulta particolarmente importante poiché non soltanto riguardano uno dei principali esponenti dell’anarchismo italiano ed internazionale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma anche perché coincide con un periodo particolarmente travagliato e complesso della vita politica e sociale italiana del XXI secolo.

Nato nel 1853 e morto nel 1932 Errico Malatesta ebbe modo di seguire da protagonista, quasi indiscusso, i travagli del movimento operaio e rivoluzionario negli anni compresi tra lo sviluppo e il fallimento della Prima internazionale, la crisi e le lotte di classe di fine secolo, lo sviluppo del terrorismo di stampo anarchico, la rinascita e il tragico fallimento della Seconda internazionale, il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa e il successivo avvento del fascismo e dei totalitarismi.

“Il primo arresto a 17 anni, a 23 conosce Bakunin, nel 1877 organizza con Cafiero un moto rivoluzionario nel Matese; a 29 anni va in Egitto, poi fugge in Argentina dove per un periodo prova a fare il cercatore d’oro in Patagonia con alcuni compagni; viene accusato di falsificare monete e fa ritorno in Europa; gira l’Europa tra Spagna e Inghilterra vivendo poi da esule a Londra dove svolge il lavoro di elettricista fino a quando, nel 1919, fa ritorno definitivamente in Italia”.1

Poche righe per descrivere una vita politicamente e umanamente avventurosa, che proprio negli anni dell’avvento del fascismo ritroverà la strada di casa. In un momento di crisi e spaesamento del movimento operaio internazionale, diviso tra la vittoria del bolscevismo in Russia e l’affermazione di un movimento reazionario di tipo nuovo quale quello di Benito Mussolini in Italia.
Crisi e spaesamento che avrebbero spinto l’anarchico non più giovane, a cercare nuove risposte e nuove spiegazioni per un fenomeno destinato, poi, a reiterarsi più volte nel tempo fino ai giorni nostri con significativa ridondanza proprio tra quegli oppressi che avrebbero dovuto cambiare la Storia e rinnovare la società dalle fondamenta.

I testi di Bertolucci, Carocci, Gentili e Sacchetti affrontano i temi rispettivamente dell’azione e rivolta morale contro il fascismo tra il 1922 e il 1932; dei rapporti tra Errico Malatesta e il movimento operaio e le sue attività a Roma tra il 1874 e l’anno della sua morte; del suo rapporto con gli Arditi del Popolo e, infine, del rapporto tra anarchia e violenza nella biografia politica dello stesso Malatesta.
A questi si aggiunge una storia, curata da Franco Bertolucci e accompagnata dagli indici analitici, della rivista “Pensiero e volontà” uscita sotto la guida di Malatesta tra il 1° gennaio 1924 e l’agosto del 1926 (quando le leggi fascistissime avrebbero posto fine ad ogni libertà di stampa e di opinione).

Per sottolinearne l’attualità si è scelto di pubblicare qui, quasi integralmente, l’appello di Malatesta alla ristretta cerchia di amici e compagni che avrebbero poi collaborato alla rivista stessa: Luigi Fabbri, Camillo Berneri, Carlo Molaschi, Luigi Bertoni, Francesco Saverio Merlino, Giuseppe Turci, Max Nettlau ed Emma Goldman. Appello che sembra riproporre, anticipandoli, temi che torneranno obbligatoriamente alla ribalta nei mesi a venire.

A quelli che studiano e che lavorano
La rivista che annunziamo, e che vedrà la luce coi primi del prossimo anno, intende rispondere ad un bisogno largamente sentito, quello cioè di studiare i numerosi problemi politico-economici che si affacciano con carattere di urgenza in questo periodo di intensa ed universale commozione sociale e dalla cui soluzione, in un senso o nell’altro, dipenderanno per lungo decorrere di tempo le sorti dell’umanità.
Non ci dilungheremo ora sulle condizioni in cui si trova oggi l’Europa e per essa il mondo intero.
È uno stato di convulsione generale. Tutti gl’interessi, tutti i bisogni, tutte le aspirazioni che hanno in ogni tempo divisi gli uomini tra loro, acuiti fino al parossismo dello squilibrio materiale e morale prodotto dalla grande guerra, si trovano in violento contrasto. E dove non vi è guerra aperta, vi è una compressione eccessiva che mentre impedisce lo scoppio, lo prepara e lo provoca più formidabile che mai.
Da una parte disordine, misera crescente, conati rivoluzionari; dall’altra reazione, militarismo, oppressione. Ed intanto la produzione e gli scambi si disorganizzano e si arrestano e lo spettro della fame si affaccia minaccioso all’orizzonte: già larghe plaghe d’Europa e numerosi strati della popolazione stanno in preda alla fame effettiva e, naturalmente, a tutti i ciechi eccessi che la fame provoca e giustifica.
Tutti sentono, tutti sanno che così non può durare, perché così si dissolve la vita sociale e diventa impossibile la stessa vita materiale. Le classi oppresse, animate da una crescente coscienza, sospinte da bisogni urgenti e sempre meno soddisfatti, non si rassegnano, o non si rassegneranno a lungo, ad uno stato di sofferenze e di umiliazioni che sembrava ormai sorpassato; e le classi sinora dominanti, minacciate esse stesse, oltre che dalla rivolta popolare, dal prepotere di una ristretta oligarchia capitalistica e militarista, cercano e non trovano un ordinamento che dia loro la possibilità e la sicurezza di un tranquillo sfruttamento del lavoro altrui. Che cosa avverrà?
Certo non mancano né la possibilità di produrre abbastanza per soddisfare largamente i bisogni di tutti, né il desiderio nelle masse di lavoro e di pace.
Ma in tutti i paesi la borghesia, o piuttosto quella parte di essa che ancora detiene il comando effettivo, divisa dalle rivalità che producono l’ingordigia ed il cieco egoismo, si mostra incapace di ristabilire un qualsiasi ordine di cose che possa vivere e durare. Ed è bene che sia così perché l’ordine quale potrebbe ristabilirlo una meno malvagia e più intelligente borghesia non sarebbe poi che il ritorno alle condizioni anteriori alla guerra, il ritorno cioè ad uno stato di oppressione temperata, duraturo perché sopportabile, e non farebbe insomma che ristabilire delle condizioni che poi, attraverso nuove guerre e nuove convulsioni, riprodurrebbe la catastrofe attuale.
È la massa degli oppressi e degli sfruttati che deve salvare sé stessa e che salvando sé stessa, assicurerà l’avvenire di tutta quanta l’umanità.
Si va verso un cataclisma generale. Saranno forse nuove guerre internazionali; sarà certamente nell’interno di ciascun paese un alternarsi di rivoluzioni e di repressioni; ma si dovrà poi finire con un assetto qualunque, determinato, se non da altro, dal bisogno generale di riposo.
E questo assetto potrebbe essere l’inizio di una civiltà superiore, ma potrebbe anche essere il naufragio di quella qualsiasi civiltà che, attraverso lavoro, lotte e sacrifizi secolari, l’umanità aveva raggiunto.
La natura del nuovo assetto sociale, che seguirà le convulsioni attuali, e il nuovo corso in cui s’incamminerà la storia umana, dipendono dall’opera degli uomini che prendono parte cosciente ed attiva alle lotte sociali.
Anarchici, noi vogliamo la fratellanza fra tutti gli esseri umani, vogliamo per tutti la libertà, la giustizia ed il massimo sviluppo possibile, morale, intellettuale e materiale. E perciò ci sforzeremo d’indirizzare il pensiero e la volontà dei nostri lettori verso gli scopi nostri. E siccome sappiamo che le idee astratte e le aspirazioni teoriche restano purtroppo dei pii desideri se non si attuano nei fatti nel nodo che le circostanze lo permettono, noi cercheremo le soluzioni pratiche e contingenti dei problemi che prevedibilmente si presenteranno nelle varie fasi delle rivoluzioni che stanno per venire […]

Roma, novembre 1923.

Per la Redazione: Errico Malatesta.


  1. Premessa, pag. 9  

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Orgogliosamente rivoluzionari: per una storia dei GAAP https://www.carmillaonline.com/2018/03/08/orgogliosamente-rivoluzionari-storia-dei-gaap/ Wed, 07 Mar 2018 23:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44080 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia italiana e il dibattito politico-ideologico, che ha nutrito e di cui si è nutrita, avevano drasticamente rimosso. Una ricerca di tal fatta, motivata e libera da impicci ideologici, potrebbe poi servire a rimuovere quell’idea, falsamente moderna, che gli appelli rivoluzionari alla lotta di classe e all’anticapitalismo radicale possano appartenere soltanto a un folklore e a una tradizione ormai superati.

Soprattutto in questo cinquantenario del ’68 diventa perciò utile e necessario far riscoprire ai giovani, ma anche a coloro che non lo sono più, l’immensa mole di esperienze e riflessioni che accompagnarono le numerose aggregazioni politiche che, tra la caduta del fascismo e la ripresa delle iniziative di classe degli anni sessanta, si svilupparono a sinistra del PCI e in netta polemica con lo stalinismo e la conduzione togliattiana del “più grande partito comunista dell’Occidente”.1

Ancora una volta è stato Franco Bertolucci, intrepido ricercatore, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa e responsabile editoriale della stessa casa editrice BFS, a curare un’opera che scava negli anni compresi il 1945 e la fine degli anni Cinquanta e costituisce la conseguenza del fatto che, nell’aprile del 1998, Pier Carlo Masini avesse fatto dono alla Biblioteca Serantini dell’archivio politico dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) e delle sue carte personali. L’impegno era che alla sua scomparsa, dopo un periodo di dieci anni, quei materiali fossero riordinati e resi disponibili per le attività di studio e di ricostruzione storica.

Così questo volume, il primo di tre, testimonia il rispetto di quell’impegno e di vent’anni di lavoro, per riportare letteralmente alla luce, come un reperto sconosciuto ai più, la ricerca portata avanti da un ristretto ma deciso e significativo nucleo di compagni, prevalentemente di estrazione anarchica, di un comunismo consigliarista e libertario che superasse le disgraziate scelte messe in atto dai partiti e dalla Terza Internazionale stalinizzati e allo stesso tempo l’impasse in cui sembravano essere precipitati l’anarchismo e le opposizioni di Sinistra dopo le esperienze devastanti della guerra di Spagna, dei totalitarismi e del secondo conflitto mondiale. Come afferma G. Berti, citato da Bertolucci:

“La tragedia della rivoluzione spagnola fu veramente la tragedia e la fine del movimento anarchico nato a Saint-Imier. Questo infatti si trasformerà lentamente ma inesorabilmente in un corpo ideologico immobile e in questa scia obbligata, ma sterile, affronterà i devastanti effetti della seconda guerra mondiale. Gli anni che seguirono non portarono sostanziali mutamenti alla irrimediabile situazione emersa con la sconfitta della rivoluzione spagnola. L’anarchismo non ebbe un vero ricambio generazionale perché la condizione creatasi dopo il 1945 lo mise, in modo ancora maggiore, in una posizione di assoluto isolamento che lo poneva di fatto fuori dalla realtà”.2

Nel settembre del 1939 avrebbe poi avuto inizio

“il più grande conflitto armato della storia dell’umanità, nel quale vennero usate nuove armi di distruzione di massa mai utilizzate fino a quel momento. […] Il movimento operaio internazionale rimase, ancor più che nella Prima guerra mondiale, lacerato e immobilizzato. La guerra imperialista fra gli Stati ebbe il sopravvento e quasi tutti i partiti di sinistra si dichiararono favorevoli al conflitto con le potenze dell’Asse”.3

Gli stessi esponenti anarchici, in alcuni casi, finirono con l’appoggiare l’intervento bellico degli alleati interpretandolo in chiave esclusivamente antifascista, mentre le opposizioni di Sinistra, schiacciate tra nazi-fascismo e stalinismo, si ritrovarono a tacere oppure ad avere un’influenza quasi nulla sulle masse ormai diversamente nazionalizzate. Mentre gli agenti dell’Ovra, della Ghepeù e dei nazisti davano loro la caccia per eliminarli fisicamente o per internarli nelle carceri o nei lager o nei gulag, oppure ancora mentre gli stati “liberali” concorrevano ad internare nei campi di prigionia militanti anarchici e comunisti di sinistra insieme a filo-fascisti e filo-nazisti.
Qualche anno dopo le prime prese di posizione degli anarchici a favore della guerra, che lasciarono uno strascico di polemiche e di lacerazioni interne al movimento,

“un convegno organizzato a New York dai gruppi anarchici riuniti del Nord America (24 dicembre 1943) elaborò un lungo documento, pubblicato l’anno seguente, dal titolo Rivoluzione e controrivoluzione. Nel documento, uno dei pochi prodotti in questo periodo di guerra dal movimento libertario di lingua italiana, si fa una lunga disamina delle radici del conflitto, partendo da quello precedente e analizzando la nascita delle dittature, lo sviluppo del capitalismo, il ruolo della Russia sovietica e la politica contraddittoria delle democrazie occidentali di fronte al nazifascismo e alla sua politica aggressiva. La conclusione del documento ribadisce, con le parole usate a suo tempo da Luigi Galleani, l’atteggiamento degli anarchici: «contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale»”.4

Questa posizione può costituire, per certi versi, il canto del cigno dell’opposizione anarchica al conflitto imperialista in atto e, allo stesso tempo, la base di quell’elaborazione politica e teorica che nel secondo dopoguerra, in un clima di controrivoluzione imperante, avrebbe portato al tentativo di riorganizzare tra di loro i militanti anarchici e della Sinistra Comunista che avevano tenuta ferma la barra nella direzione della lotta al capitalismo e all’imperialismo, qualsiasi fossero le forme sotto cui si presentavano le due idre.
Occorre qui ricordare

“che il numero dei militanti (anarchici – N.d.R.) sopravvissuti a vent’anni di regime, che non si erano piegati e non avevano accettato compromessi, si aggirava nell’estate del 1943 intorno ai 2/3.000 individui, nella stragrande maggioranza nati tra il 1880 e i primi del Novecento e formatisi politicamente prima dell’avvento al potere del fascismo. Praticamente sono pochi i ventenni, cioè la generazione di giovani nati sotto il fascismo e che possono rappresentare il futuro del movimento. Questa cesura, o vuoto, generazionale peserà fortemente nello sviluppo del movimento e soprattutto nella sua incapacità di riallacciare le file della propria presenza tra le classi subalterne. […] Altro dato importante è il fatto che il nucleo più consistente di militanti, circa 200/300, che si trovava assegnato nelle diverse carceri o in località di confino, in particolare a Ventotene, non viene immediatamente liberato come gli altri prigionieri politici al momento della caduta del fascismo. Ad esempio, su iniziativa del capo della colonia di Ventotene, Marcello Guida – nome che ritornerà prepotentemente nella storia del movimento libertario nell’autunno del 1969 quando, come questore di Milano, si troverà a gestire la «Strage di Piazza Fontana» e il caso di suicidio/omicidio del ferroviere anarchico ed ex partigiano Giuseppe Pinelli –, gli anarchici confinati vengono destinati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari in provincia di Arezzo insieme con alcune migliaia di slavi. Solo dopo l’8 settembre riusciranno a fuggire dal campo di prigionia prima dell’arrivo dei tedeschi”.5

L’euforia post-resistenziale e la fine della guerra oltre che del fascismo non avrebbero sviato l’attenzione di questi compagni da quello che era il reale fuoco e il reale motore dei drammi appena trascorsi. L’abbuffata democraticistica, in cui apparentemente Truman e Stalin, borghesi e proletari, nazioni e classi, capitalismo e sfruttati potevano darsi felicemente la mano, non li aveva minimamente toccati. Anche se nel frattempo la situazione politica internazionale e nazionale, la composizione di classe e la cultura che le accompagnava si era, per forza di cose, significativamente modificata.

Fu in questa situazione e in questo iato culturale venutosi a creare tra le avanguardie militanti più radicali e la società circostante che ebbe inizio l’avventura dei Gruppi anarchici di azione proletaria (GAAP). Il cui principale animatore si può individuare nella figura di Pier Carlo Masini (1923 -1998), straordinaria figura di intellettuale, ricercatore, storico del movimento anarchico ed operaio, che proprio nel 1949, su Volontà, aveva scritto: «A mio giudizio non è esatto affermare che nella storia tutti i moti di libertà o di giustizia o di umana affermazione, ieri o domani, possano avere una relazione di consanguineità con l’anarchismo». Affermazione in cui era evidente l’intenzione di Masini

“di contestare tutte quelle correnti e/o tendenze del movimento anarchico che interpretano l’anarchismo come un’idea generica di ribellismo o, viceversa, ogni forma di ribellismo sociale che si senta in qualche modo autorizzata a essere inclusa nell’alveo della grande famiglia libertaria. Questa posizione nasce, appunto, dalla considerazione di come il movimento anarchico nell’immediato Secondo dopoguerra, sull’onda della riconquistata libertà, abbia accolto nelle sue file militanti di ogni genere, che spesso hanno creato confusioni e contraddizioni. […] «La storia di ogni società esistita fino ad oggi è storia di lotte di classe», la lapidaria sentenza si trova, come è risaputo, nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e secondo Masini non è necessario esser convinti adepti del materialismo storico per accettare l’essenza di verità racchiusa nella frase testé citata. Sebbene la storia umana non possa esser tutta spiegata con l’azione della lotta di classe, non si può negare che i conflitti sociali più o meno violenti ne siano stati uno dei motori principali.[…] Dell’elaborazione marxiana sulle classi, Masini condivideva l’individuazione nel proletariato e nella borghesia delle due classi emergenti, ma antagoniste, di quella fase storica – il secolo decimonono – e da ciò ne conseguiva la considerazione che nel momento in cui il proletariato avesse portato avanti i propri interessi all’interno del sistema capitalistico, essendone in quanto forza-lavoro prodotto e componente prima, ne avrebbe determinato la totale distruzione; e poiché alla proprietà dei mezzi di produzione avrebbe sostituito la proprietà comune, avrebbe conseguentemente eliminato anche le classi che sono a quella connesse. Era quindi evidente che le condizioni necessarie per la formazione della classe, riprendendo la riflessione del filosofo ed economista di Treviri, erano principalmente di ordine economico; esse potevano però soltanto delimitare quella che veniva definita dagli economisti e dai sociologi una «situazione di classe». Questa risulta dalla trasformazione della maggior parte dei membri della società in lavoratori, per i quali il capitalismo aveva creato una situazione comune”.6

Inoltre Masini scriveva ancora sulla classe e il proletariato

“che, illuso o tradito, non può mai venir meno a se stesso perché è sempre e ferreamente presupposto dalla classe nemica, dallo stato nemico: resta un conflitto di classe, sia pure deviato dai liquidatori o sfruttato dai demagoghi, una lotta implacabile di «quelli che stanno sotto» contro «quelli che stanno sopra»; resta soprattutto l’esigenza di dare a questo movimento di classe una ideologia che esso non esprime mitologicamente dal suo seno come un tempo sognarono i pontefici massimi dell’operaiolatria, ma che un secolo di lotte ci propone oggi come il prodotto delle sue dirette esperienze”.7

A fronte di un movimento anarchico che rivendicava, attraverso la redazione della stessa rivista Volontà, un ruolo più di testimonianza che di direzione politica, Masini opponeva l’idea che

“gli anarchici devono organizzarsi e attrezzarsi con un’ideologia che rivendichi la piena autonomia dei lavoratori nel definire e realizzare il proprio percorso di emancipazione, e questa è una condizione sine qua non per l’acquisizione di una coscienza politica che può condurre verso la conquista e l’avvento di una società liberata”.8

“Per Masini, come per il gruppo formatosi nel frattempo intorno a lui, non può esistere una rivoluzione senza un movimento rivoluzionario, di conseguenza è fondamentale per gli anarchici uscire dal loro isolamento e darsi una funzione di «avanguardia», proprio per insinuare nelle lotte sociali il germe dell’insurrezione: «È per questo che noi vogliamo agganciare al movimento della classe lavoratrice una rivendicazione di libertà che completa e trascende le limitate richieste a fondo politico ed economico». E la funzione dei gruppi anarchici specifici per Masini nel divenire sociale è ben precisa: «Allora non bisogna dimenticare che i gruppi anarchici nei luoghi di lavoro operano oggi in una situazione controrivoluzionaria e non possono avere che uno scopo: quello di illustrare, documentare, descrivere la crisi, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria»”. 9

Su queste basi, che sottendono una situazione controrivoluzionaria che solo successivamente potrà essere superata e un confronto serrato con molte delle federazioni anarchiche diffuse sul territorio nazionale, Masini contribuirà a dare vita al periodico L’Impulso, che vedrà raccogliersi intorno alla sua redazione (composta nel primo anno e mezzo di vita quasi esclusivamente dal solo Masini) Augusto Boccone, fornaio e militante di vecchia e provata fede; due giovani della classe 1920 entrambi amici personali di Masini: Luciano Arrighetti operaio della Galilei e Sirio Del Nista impiegato ai Cantieri Orlando di Livorno. I liguri Arrigo Cervetto, Lorenzo Parodi, Agostino Sessarego e Aldo Vinazza – classi 1925-1927 – tutti di estrazione proletaria con esperienze nella Resistenza. I piemontesi, che rappresentano forse il gruppo più omogeneo dal punto di vista sociale essendo tutti di estrazione proletaria e inseriti nei principali stabilimenti industriali del capoluogo regionale con una grande esperienza sindacale alle spalle e anche internazionalista visto che tra loro ci sono volontari che hanno combattuto in Spagna come Aldo Demi – classe 1918 –, o che hanno un lungo excursus nel movimento, come Paolo Lico – classe 1903 –, tutti o quasi facenti parte di un gruppo storico dell’anarchismo torinese, quello del quartiere popolare di Barriera di Milano, insieme a numerosi altri provenienti da diverse regioni. I militanti che ruotano intorno al periodico hanno una prevalente estrazione proletaria, ma con una significativa presenza di giovani intellettuali, studenti e insegnanti, che poi svolgeranno una discreta influenza sullo sviluppo dell’organizzazione.

“Il primo obiettivo di questo nuovo impegno del gruppo è quello di iniziare alla base un paziente lavoro di restaurazione teorica allo scopo di rianimare i compagni disorientati o ideologicamente deboli; di qui la necessità di riassestare consolidare potenziare, sul piano locale, il tessuto associativo minacciato da un avanzato processo di lacerazione. Va altresì ricordato che questo gruppo, soprattutto i più giovani, è attraversato da un sentimento di inquietudine, di voglia di essere in qualche modo protagonista del proprio avvenire, ma nel contempo è incerto nelle scelte soprattutto teoriche. Masini li sprona allo studio, invia loro continuamente lettere nelle quali suggerisce letture di classici, sia politici che economici. Tra di loro c’è chi non ha una formazione prettamente anarchica, ma spesso è mutuata da elementi spuri derivati dalla cultura social-comunista, o repubblicana; Masini ne è ben cosciente e cerca con tutte le sue forze di costruire un cammino comune, ma l’impresa come vedremo non sarà priva di ostacoli e anche di delusioni. Tra i nomi dei giovani che sono tra i più irrequieti e in qualche maniera “problematici” c’è Cervetto”10

Che nell’immediato Secondo dopoguerra vive un’evoluzione politica e teorica che lo porterà ad essere da antifascista ribelle e comunista irregolare ad anarchico, come reazione alla svolta del «partito nuovo» di Togliatti.
E proprio in una lettera a Cervetto del 16 novembre 1949 che Masini delineerà in parte il programma dell’attività di quelli che diverranno i GAAP:

“Mi sembra che sul piano ideologico si possa andare d’accordo dichiarando il fallimento di socialdemocrazia-bolscevismo-sindacalismo-anarchismo tradizionale. […] Ora ecco la prospettiva che si disegna
a) dichiarare il fallimento di tutto il passato (anche nostro);
b) procedere alla formazione di un movimento (anarchico) nuovo.
Fin qui la prospettiva politica, di anni. Poi la prospettiva storica, di decenni.
c) Formare il movimento di classe.
Natura non facit saltus.
Sul terreno ideologico le nostre posizioni coincidono.
Sull’astensionismo siamo d’accordo.
Sul «partito» nessuno vuole il partito tradizionale della classe operaia, né l’azienda elettorale dei socialdemocratici né la superassociazione di amicizia italo-sovietica degli stalinisti, ma qualcosa di superiore di metapartitico.[…] se un presupposto della dissoluzione dello stato nella fase rivoluzionaria è la formazione particolare dei quadri rivoluzionari, risulta anti-pedagogico, controproducente parlare a questi quadri il linguaggio della «dittatura», della «egemonia», della «conquista del potere». Significa capitolare innanzi tempo di fronte all’ipotesi dello stato, ripiegare passivamente su posizioni di rinuncia, di pigrizia, di controrivoluzione preventiva.
Bisogna decisamente puntare sul non-stato, concentrare tutte le forze nel periodo rivoluzionario senza deroghe, senza proroghe dei problemi. Ci siamo?”11

Sarà sostanzialmente su queste basi, oltre che su una più vasta riflessione di carattere geo-politco sull’imperialismo e sull’opposizione alla guerra, che sarà formulato il documento politico della Conferenza nazionale convocata dal Gruppo d’iniziativa per un movimento «orientato e federato» svoltosi a Pontedecimo, in provincia di Genova, dal 24 al 25 febbraio 1951da cui avranno ufficialmente origine i GAAP. Le cui tesi principali saranno elaborate da Masini e da Cervetto.
Con il secondo ormai più orientato verso ipotesi di stampo leninista.

“Tra gli osservatori che partecipano alla Conferenza di Genova-Pontedecimo vanno segnalati Bruno Maffi, rappresentante del Partito comunista internazionalista; Livio Maitan e Sergio Guerrieri dei Gruppi comunisti rivoluzionari IV Internazionale. La presenza di queste organizzazioni a una riunione di anarchici rappresenta una novità. […] I bordighisti all’epoca rappresentano una delle «dissidenze» storiche del comunismo italiano, nel loro costituirsi in formazione politica distinta durante gli anni del Secondo conflitto mondiale, avevano sempre cercato di rivendicare la continuità con l’esperienza del Partito comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921. Questo richiamo alle radici non era casuale, e non riguardava solo anagraficamente la storia di alcuni dei principali militanti e teorici – tra cui lo stesso Amadeo Bordiga, primo segretario e fondatore del PCd’I –, ma soprattutto era di natura politico ideologica. La scelta nella propria denominazione dell’aggettivo «internazionalista», testimoniava la rivendicazione della vera essenza del comunismo rivoluzionario in contrapposizione al modello staliniano e togliattiano del partito, che faceva del nazionalismo la propria bandiera. La loro presenza alla Conferenza nazionale del gruppo de «L’Impulso» era dettata soprattutto dai buoni rapporti personali che negli anni Masini aveva mantenuto con quest’area politica e dalla quale traeva alcune riflessioni teoriche, specialmente quelle riguardanti l’analisi di Bordiga sullo Stato e la scelta internazionalista che l’intellettuale toscano stesso aveva condiviso durante l’ultima guerra”.12

La preoccupazione maggiore di Masini non fu però soltanto quella di costruire un’organizzazione che in una situazione controrivoluzionaria non avesse altro scopo che quello di illustrare, documentare e descrivere la crisi, non solo economica ma soprattutto politica del movimento proletario, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria. Ma anche quella di chiarire che nel momento in cui il lavoro politico fosse venuto

“a combaciare con la realtà rivoluzionaria, in questa si dissolve e scompare come movimento. Guai se l’organizzazione politica sopravvivesse di un attimo! Guai se anche i gruppi anarchici di fabbrica non si bruciassero ipso facto nel nuovo spazio umano delle assemblee. Avremmo allora una mostruosa dittatura, chiusa e tirannica quanto altre mai. L’alba della rivoluzione deve coincidere col tramonto dei suoi annunziatori”13

Quell’avventura politica sarebbe durata fino al 1957, in uno dei periodi più burrascosi e difficili per il movimento operaio non soltanto italiano; segnato dalla fine apparente dello stalinismo, dalla rivolta operaia “rimossa” di Berlino Est del 1953 e dalla repressione sovietica dell’insurrezione dei consigli ungheresi del 1956. Nel mentre quei compagni sarebbero stati sempre attenti ai nuovi sviluppi della lotta di classe e all’evolversi della situazione internazionale e dei conflitti interimperialistici.

L’organizzazione sarebbe stata attraversata anche dolorosamente dalle contraddizioni esplosive che si manifesteranno nella seconda metà del decennio post-bellico, ma sempre quei compagni avrebbero cercato di non perdere la rotta e di mantenere un punto di vista adeguato sia alla situazione ancora ritenuta controrivoluzionaria che alle possibili evoluzioni future della lotta di classe e della rivoluzione.
Come esempio di tale attenzione e lucidità basti qui ricordare una risoluzione del Comitato nazionale dei GAAP sui moti di Berlino del giugno 1953:

“Il giorno 17 giugno le strade di Berlino, quelle stesse strade che nel primo dopoguerra rosso furono teatro della estrema resistenza spartachiana contro le truppe del traditore Noske, sono state invase da prorompenti turbe di lavoratori e di lavoratrici che dopo anni di silenzio, di reazione croce-uncinata, di guerra imperialista, di occupazione militare hanno levato la voce fremente ed angosciosa di una classe di schiavi in rivolta. Come anarchici e come rivoluzionari noi consideriamo questo avvenimento, insieme alle eroiche sollevazioni dei popoli coloniali, insieme alle dure lotte dei lavoratori europei contro l’imperialismo americano, come uno dei fatti più importanti e più significativi degli ultimi anni.
Il 17 giugno l’imperialismo sovietico ha rivelato le debolezze e le contraddizioni del suo sistema non più attraverso oscuri conflitti tra alti gerarchi di partito e di governo, facilmente risolvibili con l’impiccagione dei vinti, non più attraverso processi, sensazionali e clamorosi quanto privi di ogni significato sociale, di fronte ai quali le masse assistevano passive e attonite. No, questa volta le masse sono entrate nel processo come accusatrici ed hanno impostato la causa su chiari motivi di classe: di là lo Stato burocratico e poliziesco, l’esercito straniero, il partito di governo; di qua noi, popolo lavoratore, armato dei nostri diritti al pane ed alla libertà. Ancora una volta è stato dimostrato che né il peso opprimente di una dittatura, né l’illusione di un «socialismo» statalista e burocratico. Né il violento annientamento fisico di ogni qualificata opposizione rivoluzionaria sono sufficienti a garantire la classe egemone dall’incontenibile insurrezione delle forze di classe che sgorgano alla base della sua stessa egemonia e le si avventano contro”.14

L’enorme mole di documentazione e di testi riportati in questo primo volume andrebbe esaminata ancora più approfonditamente, cosa che lo spazio di una recensione non può permettere, ma sicuramente le pagine della coraggiosa e ampia opera di ricostruzione curata da Bertolucci, insieme a quelle dei due volumi che seguiranno15 e che ancora qui su Carmilla saranno recensiti, richiamano tutti allo studio della Storia e ci ricordano che il processo di formazione dei partiti e dei movimenti reali non è semplice né casuale né, tanto meno, volontaristico. Sorge invece da lunghe riflessioni sulle sconfitte passate e dalla dura esperienza delle lotte reali, condivise (non soltanto sulla base ideologica) e diffuse sui territori, non da un’urna elettorale e nemmeno dall’aggregazione di rappresentanti di formazioni politiche ormai defunte che come fantasmi si rifiutano semplicemente di accettare l’idea di esser già scadute da tempo.


  1. Come spesso si ricordava orgogliosamente, senza allo stesso tempo ricordare quale incredibile baluardo della restaurazione borghese questo avesse finito col rappresentare fin dalla svolta di Salerno e quale ostacolo avesse sempre costituito per la riorganizzazione di classe dal basso e per l’autonomia politica della stessa  

  2. G. Berti, Il pensiero anarchico: dal Settecento al Novecento, Lacaita, 1998, pp. 47-48 cit. in F.Berolucci, Per una storia dei Gaap, in GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1, pag. 56  

  3. F. Bertolucci, op.cit. pag. 56  

  4. Bertolucci, op.cit. pp.57-58  

  5. Bertolucci, pag. 61  

  6. op.cit. pp. 94-95  

  7. pag.96  

  8. pag.96  

  9. pag. 97  

  10. pag. 110  

  11. pag. 114  

  12. pp. 153-154  

  13. Cit. in Bertolucci, pag. 97  

  14. Le rosse giornate di Berlino est, Genova 15 luglio 1953, op.cit. pag. 475  

  15. Il secondo intitolato: Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest. Dall’organizzazione libertaria al partito di classe; mentre il terzo sarà dedicato alle biografie dei vari militanti  

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Rivoluzione e disillusione https://www.carmillaonline.com/2017/11/15/rivoluzione-e-disillusione/ Wed, 15 Nov 2017 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41462 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900. Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900.
Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero trasformato definitivamente le concezioni ottocentesche del socialismo e, allo stesso tempo, la concezione borghese della funzione dei partiti.

Franco Bertolucci, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, storico militante e ricercatore attento a tutte le manifestazioni del pensiero espresso tra Otto e Novecento dal movimento operaio e anarchico italiano ed internazionale, ha condensato in un agile e documentato volumetto, edito dalle edizioni BFS, le contraddittorie posizioni manifestate dal movimento anarchico italiano nei confronti di quella rivoluzione.

Posizioni la cui contraddittorietà non derivava dalla più generale concezione anarchica della trasformazione sociale, quanto piuttosto da quella che fondava la rivoluzione stessa.
Un moto enorme di soldati, operai, donne e contadini che nel giro di pochi giorni, nel febbraio del 1917, aveva di fatto cancellato dalla Storia un’autocrazia che da cinque secoli governava il territorio più grande al mondo: quei 24 milioni di km quadrati che costituivano l’impero zarista.

Un moto rivoluzionario, che avrebbe costituito, ad un primo giudizio storico e politico, l’evento più importante della guerra (la prima mondiale) come ebbe a dire Rosa Luxemburg nel suo scritto dedicato all’evento e scritto a caldo nel 1918 mentre si trovava in carcere.1
Il fatto più importante di un evento che a sua volta avrebbe contribuito in maniera decisiva a fondare le premesse e i percorsi politici e sociali del XX secolo.

Un moto che sembrava smentire le concezioni gradualistiche della socialdemocrazia, sia europea che russa, che fondava le proprie idee di trasformazione sociale su una concezione distorta del pensiero di Marx.2 Un processo rivoluzionario che partiva dalle masse esaurite da anni di guerra, morte, fame e miseria, in un contesto socio-economico e politico che poteva ben considerarsi come il più arretrato d’Europa, ma che si esprimeva in un contesto rappresentativo, i soviet, in cui era ancora forte la funzione dei partiti. Non sempre all’altezza del compito e non sempre, anzi quasi mai, in sintonia con le richieste provenienti dal basso.

Basti qui citare un estratto da una lettera al soviet di Pietrogrado proveniente da un gruppo di soldati al fronte alla fine di luglio del 1917 (quando il governo provvisorio era in carica già da cinque mesi):

Al congresso3
E’ l’ultima volta che vi chiamiamo compagni.
Noi credevamo che il congresso avrebbe portato, o se non altro avvicinato la pace, invece i discorsi vertono su tutt’altro: sugli arresti degli anarchici, sulla disputa con i bolscevichi a proposito dell’allontanamento degli anarchici dalla dacia di Durnovo, sull’esistenza della Duma di Stato, sugli ossequi a Rodzjanko e così via. Ricordate signori ministri e principali dirigenti: noi i partiti li capiamo poco, sappiamo solo che non è lontano nè il futuro nè il passato, lo zar vi ha confinati in Siberia e imprigionati, ma noi vi trafiggeremo con le baionette.
Perché voi menate la lingua come le vacche menano la coda.
A noi non servono le belle parole, a noi serve la pace.4

Testimonianza esplicita di una rivendicazione all’azione diretta ed efficace contro la guerra e le inutili cianfrusaglie ideologiche ed opportunistiche espresse dall’assemblea che avrebbe dovuto innanzitutto dare voce e corpo alle istanze di chi le aveva permesso di esistere e sopravvivere.
Voci e moti che fin da febbraio avevano costituito per il movimento anarchico, italiano e internazionale, un più che valido motivo di speranza nell’avvicinarsi di un più vasto sommovimento di classe internazionale.

Voci e moti che trovavano corrispondenza anche in Italia e sul fronte italiano. Bertolucci non dimentica infatti di ricordare che le speranze degli anarchici italiani si fondavano non soltanto sulla resistenza alla guerra manifestatasi nelle campagne e città italiane già nel 1914, ma anche nei moti insurrezionali di Torino nel corso del mese di agosto del 1917 e, soprattutto, nell’elevato numero di diserzioni e procedimenti contro i renitenti alla leva (circa 470.000). In una situazione in cui in una regione come la Sicilia il numero dei renitenti corrispose al 50% dei chiamati o richiamati al fronte.

«Fare come in Russia» diventa in breve il leitmotiv dei giornali sovversivi e libertari. Gli anarchici e i propri organi tra i quali «L’Avvenire anarchico» e «Guerra di classe», periodico dell’Unione Sindacale Italiana, seguono con trepidazione e crescente simpatia l’evolversi della situazione.
Ragioni politiche e storiche – considerando l’influenza esercitata dal movimento rivoluzionario russo in Italia – determinano questa spontanea ed entusiasta attenzione verso la Rivoluzione russa da parte degli anarchici italiani, che con una visione messianica attendono la rivoluzione sociale come risposta alla guerra imperialista. Le prime notizie dalla Russia confermano le loro attese e le loro previsioni. Gli anarchici, nel marzo-aprile 1917, sperano che l’affermazione di quella rivoluzione sia il prodromo dell’espandersi del moto agli altri paesi coinvolti nel conflitto mondiale.5

Tali speranze e previsioni erano poi ulteriormente alimentate dalla stampa borghese che, come nel caso del quotidiano «La Stampa» di Torino in un articolo del 21 aprile di quello stesso anno, definiva Lenin come un «anarchico russo». Ignorando completamente le differenze che correvano tra le concezioni politiche del leader bolscevico e quelle libertarie. E che di lì a poco si sarebbero pesantemente manifestate in entrambe le direzioni di marcia.

Paradossalmente l’ultima manifestazione pubblica degli anarchici in Russia corrispose ai funerali, nei primi giorni di febbraio del 1921, del vecchio nobile e anarchico Kropotkin che, sebbene criticato dal movimento libertario, sia in Russia che in Italia, per aver scritto e firmato, il 21 febbraio 1916 ma pubblicato sul quotidiano «La Bataille» soltanto il 14 aprile di quello stesso anno, il Manifesto dei sedici in cui si inneggiava alla guerra a fianco dell’Intesa contro l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui centinaia di migliaia di soldati russi avevano cominciato a disertare,6 costituiva pur sempre un simbolo di continuità tra le vecchie e nuove generazioni del movimento libertario.

Di lì a poco, nel marzo del 1921, la distruzione e la dispersione, ad opera dell’Armata rossa diretta da Trockij e dal generale Michail Nikolaevič Tuchačevskij, della comune dei marinai, dei soldati e degli operai di Kronštadt, che aveva costituito una delle anime più generose e determinate della rivoluzione del ’17, avrebbe determinato la definitiva cesura tra movimento libertario e bolscevismo. Come ebbe ad osservare l’anarchica americana Emma Goldman all’epoca ancora presente sul territorio russo.

Cesura, tra movimento rivoluzionario autentico e politiche bolsceviche, che gli anarchici avevano già iniziato a denunciare precedentemente e che la convocazione del I Congresso della Terza Internazionale nel marzo del 1919, dopo un primo momento di partecipazione ideale e di positivo accoglimento dell’iniziativa, aveva portato, per esempio, ad affermare sulle pagine del giornale «Il Risveglio» di Ginevra:

Lenin ci ha fatto intendere chiaramente che non vuole di noi nella Terza Internazionale, a meno che fossimo disposti ad ammettere la conquista dei poteri pubblici e la dittatura cosiddetta del proletariato, ossia cessare d’essere anarchici.7

Dittatura del proletariato in cui gli anarchici non intravedevano altro che una sorta di dittatura di una minoranza di operai specializzati dell’industria, insieme agli intellettuali rivoluzionari e socialisti e ai nuovi proprietari terrieri, come scrivevano sulle pagine di «Umanità nova» nel novembre del 1920.

Delle tragiche conseguenze di quella rottura legata alla progressiva presa del potere da parte del partito bolscevico scrive ancora Bertolucci nel suo testo, così come altri hanno già fatto.
Ciò che occorre, però, qui individuare non sono soltanto le illusioni e le disillusioni che accompagnarono i movimenti reali e quelli sovversivi di quegli anni, ma anche il fatto che le difficili informazioni provenienti dalla Russia e le distorte interpretazioni ideologiche di quegli avvenimenti nascosero, allora come troppo spesso ancora oggi, il fatto che nel 1917 giunsero ad un fatale incrocio quattro treni lanciati in corsa: 1) quello del movimento reale dei soldati, degli operai, delle donne e dei contadini; 2) quello delle aspirazioni anarchiche e populiste attive in Russia fin dalla seconda metà dell’Ottocento; 3) quello dei partiti socialdemocratici, liberali e borghesi che intendevano approfittare di un rinnovamento in chiave capitalistica dell’assetto economico e sociale della Russia zarista e 4) quello della minoranza socialista bolscevica, sospesa tra marxismo ortodosso e rivoluzione. Il tutto in un contesto in cui l’imperialismo internazionale da subito fece di tutto per impedire e distruggere l’esperimento «sovietico» fin dai suoi primi e incerti passi.

Da quel cozzo di forze gigantesche emersero vincitori, ma soltanto per un breve periodo, i bolscevichi. Illusi essi stessi di poter guidare quel magma dopo averlo correttamente interpretato nei giorni di Ottobre. Illusi di essere in grado di rappresentare sempre e comunque le reali esigenze del proletariato, fino ad arrivare a distruggerne le avanguardie insieme agli avversari politici, anarchici e socialisti rivoluzionari. Prima di essere essi stessi divorati dallo stesso infernale e cieco meccanismo partitico e dittatoriale. Come dalle belle e pacate pagine scritte da Bertolucci è possibile correttamente intravedere.


  1. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), BFS Edizioni 2017  

  2. Si confrontino Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e la sua recensione su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

  3. dei Soviet  

  4. cit. in Alessandra Santin, Lettere di soldati russi al Soviet di Pietrogrado (marzo-novembre 1917) raccolte in Paolo Giovannini (a cura di ), Di fronte alla grande guerra. Militari e civili tra coercizione e rivolta, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1997, pp.168-169  

  5. Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE, pag. 38  

  6. Si calcola che nel solo 1916 siano state un milione e mezzo le diserzioni nell’esercito zarista  

  7. Bertolucci, pag. 77  

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Istantanea di gruppo con lager: gli anarchici italiani deportati https://www.carmillaonline.com/2017/05/04/istantanea-un-gruppo-gli-anarchici-italiani-nei-lager/ Wed, 03 May 2017 22:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37997 di Sandro Moiso

RA415 Franco Bertolucci (a cura di), Gli anarchici italiani deportati in Germania durante il Secondo conflitto mondiale, in Rivista Anarchica n° 415, aprile 2017, pp.130, € 4,00

Anche se oggi un perverso gioco di rimozione e occupazione della Memoria storica sembra averlo fatto dimenticare, i campi di concentramento, prigionia ed annientamento messi in funzione dal regime nazionalsocialista nacquero, fin dal momento dell’ instaurazione di Hitler al potere, come luoghi destinati alla reclusione dei suoi avversari politici. Il primo di questi fu quello di Dachau, aperto il 22 marzo 1933, in [...]]]> di Sandro Moiso

RA415 Franco Bertolucci (a cura di), Gli anarchici italiani deportati in Germania durante il Secondo conflitto mondiale, in Rivista Anarchica n° 415, aprile 2017, pp.130, € 4,00

Anche se oggi un perverso gioco di rimozione e occupazione della Memoria storica sembra averlo fatto dimenticare, i campi di concentramento, prigionia ed annientamento messi in funzione dal regime nazionalsocialista nacquero, fin dal momento dell’ instaurazione di Hitler al potere, come luoghi destinati alla reclusione dei suoi avversari politici.
Il primo di questi fu quello di Dachau, aperto il 22 marzo 1933, in cui furono inizialmente raccolti gli oppositori di sinistra al III Reich: comunisti, sindacalisti, socialdemocratici, sovversivi in genere e anarchici.

Si calcola che, negli anni successivi e soprattutto nel biennio 1943-1945, siano stati circa 40.000 gli italiani trasferiti e reclusi in quei campi che, nel corso della costruzione del Nuovo Ordine Europeo voluto dai gerarchi tedeschi, assommarono complessivamente a 20.000. Campi di lavoro e di sterminio che, in realtà, non rappresentarono una novità assoluta per il XX secolo, che si era aperto con i campi di concentramento per i contadini cubani ribelli ideati nel 1896 dal generale e governatore spagnolo dell’isola Valeriano Weyler y Nicolau, di origine prussiana e con quelli in cui gli inglesi trasferirono dai 120.000 ai 160.000 afrikaaner – uomini, donne e bambini – per piegarne la resistenza.

Campi di prigionia e, troppo spesso, annientamento fisico che, come ben ricorda in una sintetica introduzione al suo saggio Franco Bertolucci, hanno costellato la storia del ‘900: da quelli per i cittadini di origine giapponese imprigionati dal governo degli Stati Uniti dopo Pearl Harbour al Gulag sovietico dove, non dimentichiamolo, furono racchiusi almeno 18 milioni di cittadini russi e in prevalenza oppositori del regime staliniano. Oppure, ma poi ci fermiamo perché l’elenco si rivelerebbe troppo lungo, da quelli, creati dal colonialismo italiano, in Libia e in Etiopia destinati alle popolazioni locali a quelli dei regimi autoritari e golpisti dell’America Latina degli anni settanta fino a Guantanamo e agli attuali campi, nati sulle coste del Mediterraneo, per la raccolta e identificazione dei profughi.

Nati da un sistema coloniale razzista ed esclusivo, si pensi alle riserve indiane già create negli Stati Uniti nel corso della seconda metà dell’Ottocento, avrebbero poi ripetuto il loro modello sul continente in cui il colonialismo e il razzismo avevano avuto origine. Applicandolo a milioni di persone. Modello e sistema concentrazionario che, con meticolosità ed efficienza prettamente germaniche, i lager avrebbero portato alle estreme conseguenze.

La meticolosa catalogazione dei prigionieri “andava di pari passo con la regolazione del loro tempo e delle loro mansioni nei diversi campi, fino alla loro sistematica eliminazione, fu di fattom l’estremizzazione di quell’idea di «disciplina industriale»1 introdotta fin dall’avvento della prima rivoluzione industriale e delle norme giuridiche relative ai sistemi di punizione e controllo sociale elaborate a partire, guarda caso, dal XVIII secolo.

Un gigantesco sistema di lavoro coatto, affittato alle diverse aziende tedesche che producevano per il Reich, dove la forza lavoro schiavizzata era sfruttata fino al totale esaurimento delle forze e dove i corpi potevano essere oggetto di tutte le sperimentazioni e violenze possibili. In cui il lavoro estraniato, inteso come violenza dell’uomo sull’uomo, assumeva il suo significato definitivo.
Un sistema che portò alla morte circa dieci milioni di persone tra ebrei, prigionieri di guerra sovietici, oppositori politici, omosessuali, zingari, disabili, diversi e disadattati di ogni genere, categoria e provenienza nazionale.

Dei 40.000 italiani deportati nei lager, ben 23.826 furono considerati politici, di cui 10.129 destinati a non fare ritorno a casa e a morire nei lager. “Dachau, con 9.311 persone, detiene il primato per il maggiore numero di deportati politici italiani; a seguire, oltre il già tristemente noto Mauthausen (6.615), Buchenwald (2.123), Flossenbürg (1.798), Auschwitz e Ravensbrück con lo stesso numero (847), Dora Mittelbau (794) e poi gli altri campi”.2

Tra questi detenuti politici la scrupolosa e meticolosa ricerca di Bertolucci, direttore della benemerita Biblioteca Franco Serantini di Pisa (forse il maggior centro italiano di documentazione sulla storia del movimento operaio in tutte le sue possibili declinazioni), è riuscita ad individuare 102 militanti anarchici di cui il dossier presenta le schede individuali che ne ripercorrono, sinteticamente, la vita, le scelte politiche, le condizioni lavorative, l’arresto o, ancor più spesso, gli arresti e la morte, talvolta sopraggiunta ancora a seguito delle cattive condizioni di salute ereditate dai lager, pur essendo magari riusciti a sopravvivere agli stessi.

Quasi tutti erano nati entro i primi dieci anni del secolo, a testimonianza di una crisi in cui il movimento anarchico era stato spinto dal trionfo dei regimi dittatoriali e dalla guerra mondiale, oltre che dalla crisi delle lotte proletarie seguite alle sconfitta in Spagna, Italia, Germania e Russia soprattutto. E quasi tutti erano operai di umili condizioni che pure avevano spesso scelto di far parte sia di formazioni combattenti nel corso della guerra civile spagnola che, fin dai primi giorni successivi alla caduta di Mussolini nel 1943, delle prime bande partigiane.

Tutti, arrestati in Italia o, spesso, in Francia, dove avevano trovato un precario rifugio dopo l’ascesa del fascismo oppure dopo la sconfitta della Repubblica spagnola, dalla Gestapo o dalle milizie fasciste, furono meticolosamente individuati come sovversivi e pericolosi avversari dei regimi fascisti. Fin dalla prima ora della loro comparsa. Ma, il curatore ce lo ricorda, se, già per i ««politici» “l’elenco è parziale, mancando molta documentazione, e soprattutto si riferisce in particolare agli ultimi anni di guerra (1943-45)”,3 per gli anarchici, i loro percorsi e l’esatta quantificazione di quelli che finirono nelle maglie del sistema concentrazionario gemanico molto lavoro di indagine e ricerca deve essere ancora fatto.

Ad arricchimento di questa prima inchiesta storiografica è stato inserito, nel dossier curato da Franco Bertolucci, un ampio ed interessante estratto dal diario di uno dei sopravvissuti, Antonio Dettori, il cui percorso di pubblicazione nel corso degli anni sessanta rivela come la storiografia e la “memoria” della deportazione e della lotta antifascista sia stata spesso inficiata4 da resistenze culturali, politiche, ideologiche e, talvolta, molto più semplicemente dalla superficialità dei ricercatori e degli “specialisti”. Il diario,5 di prossima pubblicazione nella sua versione integrale per le Edizioni BFS, costituisce un ‘importante testimonianza non solo per la ricostruzione delle vicende di vita di un militante antifascista libertario, ma anche dell’organizzazione del lavoro dei campi e delle sofferenze che lo accompagnavano.

Occorre infine segnalare che, nello stesso numero della Rivista Anarchica, è presente, insieme a numerosi altri articoli, anche un intervento sull’ormai inevitabile dibattito sul business delle emergenze umanitarie legate ai profughi che attraversano il Mediterraneo e alle colpe del militarismo.6


  1. pag. 71  

  2. pag. 71  

  3. pag. 70  

  4. Basterebbe ricordare ancora una volta le traversie occorse alla pubblicazione di “Se questo è un uomo “ di Primo Levi  

  5. Diario del deportato Antonio Dettori, triangolo rosso, n. 94450, pp. 99-124  

  6. Renzo Sabatini, Una finestra aperta, pp. 7-10  

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