Francesco Rosi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerra e rivoluzione nell’immaginario cinematografico contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2022/11/12/rivoluzione-e-controrivoluzione-nellimmaginario-tedesco-contemporaneo-note-a-proposito-di-un-recente-film/ Sat, 12 Nov 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74704 di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto [...]]]> di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto in 44 lingue. Mentre per il cinema ha visto realizzate tre versioni, uscite grosso modo a quarant’anni di distanza l’una dall’altra: «All’ovest niente di nuovo» (All Quiet on the Western Front) diretto da Lewis Milestone (1930); «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (All Quiet on the Western Front), film TV diretto da Delbert Mann (1979) e, per finire, «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (Im Westen nichts Neues) diretto da Edward Berger (2022) e attualmente disponibile su Netflix.

Ed è proprio su quest’ultimo che vale la pena di tornare a riflettere, dopo la recensione già pubblicata su Carmilla domenica 6 novembre. Unico dei tre ad essere di produzione tedesca, mentre i primi due erano di produzione americana e anglo-americana, porta con sé alcuni elementi di indubbio valore, insieme ad altri che ne limitano l’efficacia, indirizzandone i contenuti più su problematiche di battaglia politica interne alla Germania attuale che alla sottolineatura dell’originario antimilitarismo voluto da Remarque nel suo libro. Vediamo ora perché.

Il romanzo descriveva l’inumanità della guerra in ogni suo aspetto, attraverso la prospettiva di un soldato diciannovenne, Paul Bäumer e si basava, almeno in parte sull’esperienza di guerra dell’autore che, dopo il compimento dei 18 anni, fu chiamato alle armi nell’Esercito imperiale tedesco con la sua classe di leva, nel novembre 1916, ed inquadrato inizialmente nel 78º Reggimento di fanteria.

Nel giugno 1917 fu assegnato al 15º Reggimento di fanteria della riserva e inviato nelle trincee delle Fiandre Occidentali. Il 31 luglio 1917 rimase ferito abbastanza gravemente e dopo essere stato dimesso il 31 ottobre 1918, venne infine congedato il 5 gennaio 1919.
Nella sua opera più famosa, Im Westen nichts Neues, con un linguaggio semplice e toccante descrisse in modo realistico la vita durante la guerra. Nel 1933 i nazisti bruciarono e misero al bando le opere di Remarque, mentre la propaganda di regime faceva circolare la voce che discendesse da ebrei francesi e che il suo cognome fosse Kramer, cioè il suo vero nome al contrario.

Il film di Edward Berger rispetta in parte la trama del romanzo e, va detto subito, è certamente uno dei film più realistici, insieme a Uomini contro di Francesco Rosi (1970) e Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014), a sua volta tratto da un racconto di Federico De Roberto (La paura) del 1921, sulle condizioni in cui si svolse la guerra di trincea che caratterizzò il primo conflitto mondiale, soprattutto sui fronti europei.

Un film che gronda letteralmente sangue, fango, violenza, paura, fame, orrore e merda. Sia fisica, quest’ultima, che ideologica. Ma che non sa sottrarsi alla vita politica della Germania odierna. E alle sue menzogne. Così, mentre la parte realistica patisce a tratti un eccesso di effetti drammatici che allontanano la narrazione da quella più stringata e per questo più efficace del libro, quella storico-politica, ben poco presente nell’opera di Remarque, avanza giustificazioni sul comportamento della socialdemocrazia tedesca che possono forse far piacere all’attuale cancelliere Olaf Scholz, ma che sicuramente non rispettano gli eventi accaduti in Germani sul finire di quel conflitto. E anche al suo inizio, che segnò la catastrofe della Seconda Internazionale con il tradimento degli ideali internazionalisti e antimilitaristi che avrebbero dovuto caratterizzare il movimento operaio e i partiti socialisti.

Il troppo umanitarismo, soprattutto mostrato nella figura del ministro che firma l’armistizio con gli alleati, nasconde e ignora gli eventi, prossimi all’esplosione rivoluzionaria, che spinsero nel 1918 il governo tedesco (e probabilmente anche quelli alleati) a cercare una rapida, anche se costosa, soluzione del conflitto. Dimostrando così come nell’immaginario collettivo odierno, pilotato dagli interessi nazionali e dall’ordine costituito, ogni riferimento alla rivoluzione o all’azione dal basso in direzione di un governo dei consigli costituisca il vero, inviolabile tabù.

Come ha scritto lo storico Fritz Fischer, a proposito di quegli eventi:

Con la richiesta di inoltrare immediatamente domanda di armistizio, presentata dal Comando supremo dell’esercito al governo del Reich, la Germania doveva rinunciare alla lotta; non si poteva più parlare seriamente di mire belliche tedesche. La Germania ormai poteva considerarsi fortunata se fosse riuscita a salvare ancora almeno la sua posizione di grande potenz europea e semplicemente cavarsela liscia dall’inevitabile sconfitta […] Come via d’uscita [il ministro degli esteri Paul von Hintze il 29 settembre 1918] fissò la «fusione di tutte le energie della nazione per la battaglia difensiva finale» per mezzo della dittatura o della democratizzazione, della «rivoluzione dall’alto». Il Kaiser e i generali rifiutarono la «dittatura» – per poterla realizzare era necessaria la vittoria – e si dichiararono favorevoli a «incanalare» la democratizzazione secondo laproposta di Hintze. Questa mobilitazione delle ultime forze doveva servire a estorcere un armistizio ed una pace fondati sulle proposte del presidente americano Wilson […] Il Kaiser, il Comando supremo, il governo del Reich erano d’accordo sia con la «rivoluzione dall’alto», sia con i principi di Wilson.[…]
Da questo momento tutti gli sforzi tedeschi per la pace si concentrarono sugli Stati Uniti d’America. In conformità con gli accordi del 29 settembre, il nuovo governo tedesco presieduto dal principe Max del Baden pregò pertanto il presidente Wilson nelle prime de note del 3 ottobre 1918 «di prendere l’iniziativa per stabilire la pace» e per addivenire a un armistizio immediato, dichiarando la volontà della Germania di accettare una pace fondata sui 14 punti1.
Contemporaneamente procedeva la «democratizzazione». Ma nella Germania imperiale la vittoria delle istituzioni parlamentari e democratiche [era] il frutto di una premeditata «rivoluzione dall’alto», per prevenire la «rivoluzione dal basso» e porsi al tempo stesso in una posizione il più possibile favorevole ai fini delle trattative con le potenze vincitrici […] Per la prima volta nella storia tedesca l’ingresso nel governo di capi partito della fama di Erzberger [leader della sinistra del partito cattolico] e Scheidemann [principale esponente parlamentare della Socialdemocrazia tedesca] conferì al gabinetto carattere parlamentare. Il Reichstag sanzionò molto più tardi, il 27 ottobre, con l’approvazione accordata alle leggi di modifica costituzionale presentate dal governo, dietro pressioni di Wilson, la nuova evoluzione che doveva rendere il parlamento titolare della sovranità. Comunque, troppo tardi per arrestare la rivoluzione, che arrivò ancora a scoppiare per via degli indugi nelle trattative d’armistizio e del timore che la guerra avesse a continuare.
Al tempo stesso, la vittoria sulla rivoluzione conseguita grazie all’alleanza tra il capo della socialdemocrazia maggioritaria Ebert e Hindenburg, che era rimasto alla testa dell’esercito dopo l’abdicazione di Guglielmo II, doveva costituire agli occhi delle potenze occidentali la migliore raccomanzazione della giovane repubblica, che sperava di veder mitigare le condizioni di pace per via della sua qualifica di antesignana della lotta contro il bolscevismo. In effetti gli alleati, proprio per via della funzione stabilizzatrice che il governo Ebert- Noske esercitava nel cuore dell’Europa2, permisero con le loro condizioni di armistizio che la Germania continuasse a tenere le sue truppe all’Est contro la rivoluzione rossa, fino a quando non fossero sostituite da forze alleate3.

Certo, anche nel testo di Remarque mancano queste riflessioni ma, in compenso, in maniera asciutta ed efficace, i veri mostri si dimostrano essere quelli del nazionalismo o della disciplina militare prussiana, e sono mostrati nella figura del docente liceale che convince gli studenti ad arruolarsi e negli ufficiali rigidi esecutori degli ordini. E ciò basta a delineare il clima in cui Paul, Albert, Haie, Müller e Kat recitano gli ultimi imponderabili atti delle loro esistenze, prima studentesche o proletarie. Mentre uno solo sarà destinato a salvarsi, Tjaden.

Ed è proprio il finale del libro a mostrare tutta la distanza, tra il film di oggi e la scrittura di allora, nel descrivere la morte, un mese prima della fine della guerra, di Paul che ha narrato le vicende in prima persona fino a poche righe prima.

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla sul terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così 4.

Ma se le differenze a livello di narrazione e drammatizzazione possono essere pienamente comprensibili e spesso condivisibili, soprattutto quando il film mette particolarmente in risalto la miseria della vita dei soldati nelle retrovie e al fronte, in special modo la fame5 e il desiderio di una donna, niente affatto comprensibile e ancor meno condivisibile è la scelta di “esaltare” la figura dei rappresentanti del nascente governo parlamentare e dei socialdemocratici.

Sia per la funzione avuta da questi ultimi, soprattutto all’inizio della guerra, nel votare i crediti governativi in appoggio al nazionalismo tedesco, sia per la funzione autenticamente controrivoluzionaria svolta da quel governo al momento della sua nascita, con la decapitazione del movimento spartachista anche per mezzo dei Freikorps6, l’instaurazione di una politica volta allo stesso tempo a garantire, per la borghesia tedesca, una “pacifica” transizione dall’Impero alla repubblica parlamentare e la sostituzione delle istanze di classe, avanzate dai consigli degli operai, dei soldati e dei marinai che si andavano formando nelle settimane a cavallo della fine della guerra, con le richieste di stabilità e continuità avanzate dalla borghesia industriale, dal comando dell’esercito e dai rappresentanti degli junker e della aristocrazia terriera e militare.

Come il nascente nazismo abbia poi ripagato i rappresentati di quell’esperienza governativa è stata la storia degli anni successivi, fino dall’elezione a cancelliere di Hitler nel 1933, a dimostrarlo. Quello che infastidisce, perciò, ancor di più nel film è il maldestro tentativo di separare con una improbabile linea netta le responsabilità politiche, militari e, perché no, morali della socialdemocrazia tedesca da quelle dell’esercito e dei governi precedenti, creando una figura di riferimento “ideale” dal punto di vista del “male” nella figura del generale che invia a poche ore dalla fine della guerra i propri soldati al massacro, In un’azione insensata, così come si vorrebbe sostenere da sempre che il nazismo non affondasse le sue radici nel nazionalismo, negli interessi economici e militari della borghesia e dell’aristocrazia tedesca, ma soltanto in una distorta e malata concezione del mondo.

Ecco allora che anche i soldati devono essere dipinti come pecoroni, ancor più che pecore, disposti ad obbedire a qualsiasi ordine, anche il più assurdo. Dimenticando, però, che proprio nei giorni finali del conflitto, durante i quali si svolge la maggior parte degli avvenimenti della seconda parte del film, i soldati e i marinai stavano insorgendo, ribellandosi proprio contro quegli ordini, quei generali e quello Stato che la socialdemocrazia fu chiamata a difendere, giuste le considerazioni svolte prima da Fischer. Ancor più, e soprattutto, dopo l’abdicazione del Kaiser e la proclamazione della Repubblica il 9 novembre 1918.

Proiettato sul momento attuale, quel fraintendimento non appare affatto casuale o non voluto. Da una parte la socialdemocrazia odierna, guidata da Olaf Scholz, dall’altra i cattivi dell’AFL, in mezzo la Germania con tutte le sue difficoltà (economiche, energetiche, militari…) che, per senso del dovere e della patria i socialdemocratici di oggi, come quelli di ieri, devono affrontare e risolvere. A costo di far precipitare ancora una volta il paese in una guerra (se a fianco della Nato o meno è ancora da decidere) indiscutibilmente “mondiale” oltre che europea.

Ecco perché allora l’opera di Berger appare non solo ambigua, ma anche servile nei confronti di interessi che sono ancora gli stessi di quelli che contribuirono a scatenare il primo e, anche, il secondo conflitto mondiale. Autentiche lacrime di coccodrillo che coprono, cercando di annebbiare lo sguardo dello spettatore, quell’atto di eroismo collettivo che andò dalle prime rivolte dei soldati e dei marinai del novembre 1918, che costrinsero governo e comandi militari ad accelerare i tempi dell’armistizio, all’insurrezione di Berlino tra il 5 e il 12 gennaio 19197. Unico, autentico barbaglio di luce in un tempo che oggi, per opportunismo intellettuale o per semplice ignoranza della Storia, si vorrebbe rappresentare soltanto come nero e oscuro.


  1. Si veda qui per i 14 punti di Wilson – NdR.  

  2. Reprimendo l’insurrezione spartachista del gennaio 1919 e ordinando l’eliminazione fisica, poi avvenuta in quei giorni, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht- NdR.  

  3. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965, pp. 813-815  

  4. E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori, novembre 1965, p. 237  

  5. Ad esempio, nel romanzo di Remarque, Kat muore per una scheggia di shrapnel nel cervello invece che per aver rubato delle uova in una cascina.  

  6. Corpi franchi o milizie volontarie irregolari in cui erano arruolati ex- militari e combattenti dall’indirizzo decisamente anti-bolscevico e nazionalista  

  7. Per il susseguirsi degli eventi rivoluzionari in Germania fino al 1923, si consultino: Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino 1977; P. Frolich-R.Lindau-A. Schreiner-J. Walcher, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania 1918-1920, Edizioni Pantarei, Milano 2001; P. Frolich, Guerra e politica in Germania 1914-1918, Edizioni Pantarei, Milano 1995; A. Rosemberg, Origini della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze 1972; D. Authier-J. Barrot, La Sinistra Comunista in Germania, La Salamandra, Milano 1981; E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in Occidente, Dedalo Libri, Bari 1974; V. Serge, Germania 1923. La mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003  

]]>
Estetiche del potere. Visibilità televisiva ed invisibilità cinematografica del potere politico italiano https://www.carmillaonline.com/2017/03/07/31133/ Mon, 06 Mar 2017 23:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31133 di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre [...]]]> di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) esplicita come la forza del Re Sole risieda nelle immagini che lo rappresentano; egli è il polo di attrazione dello sguardo della sua corte. Il film mostra come il potere del re risieda nella suo essere visibile sempre ed ovunque, anche grazie alla sua effige sulle monete. Nell’opera rosselliniana il potere non si esplica per via impositiva ma rendendo desiderabile ai sottoposti l’essere ammessi al suo cospetto ed il far parte del suo cerimoniale.

Un’ottima riflessione circa le modalità con cui la cinematografia nazionale ha affrontato i potenti la si ritrova all’interno del monumentale saggio Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano), Volume II (Mimesis, 2015) [su Carmilla]  grazie allo studioso Gianni Canova che, nell’occuparsi proprio della voce “Potere” riferita al cinema italiano, indica nel film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio una delle più lungimiranti riflessioni su di esso realizzate in Italia all’inizio del nuovo millennio.

In questo film i politici italiani sembrano totalmente delocalizzati; vagano «fra l’etere e il nulla» e, secondo lo studioso, soltanto nella scena in cui si mettono in posa per la foto istituzionale davanti ad uno schermo che mostra immagini di manifestazioni della loro formazione politica e del loro leader, «essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si concretizzano» (p. 429).

Secondo Canova questa sequenza «ci dice come i corpi “veri” non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono» (p. 429). Il film suggerisce come il potere sembri ormai risiedere «nell’ibrido generato dal connubio fra corpi e immagini, e come proprio lì, e solo lì, si materializzi la possibilità di incontrare e di vedere ciò che il potere è diventato, e di riconoscere le maschere con cui si nasconde, e di capire il gioco con cui colonizza i corpi per far vivere se stesso nelle immagini che lo costituiscono e, al tempo stesso, lo inverano» (p. 430).

Il cinema italiano sembrerebbe aver affrontato il potere politico a partire da un’idea negativa; esso viene tratteggiato come qualcosa che ha a che fare con l’inganno, l’intrigo, il complotto ed i suoi uomini tendono ad essere rappresentati come maschere grottesche e/o dispotiche. Nel corso del Ventennio fascista, Mussolini è riuscito ad occupare la scena tanto nel “paesaggio reale” che nell’immaginario degli italiani «non solo e non tanto esercitando il potere, quanto piuttosto recitandolo» (p. 435), ed il cinema in tutto ciò ha avuto un ruolo fondamentale. L’arma cinematografica lo ha spesso presentato come figura monumentale circondata da gerarchi o dalla folla. Se per il Re Sole di Rossellini «la conquista del potere coincide con la conquista dell’immagine», dunque si rende necessaria l’espulsione dei sudditi dall’inquadratura, nel caso di Mussolini, invece, è necessario il bagno di folla; «Il duce si fa ritrarre fra la gente. Vuole che il cinema mostri il popolo che lo guarda. L’atto del guardare il duce (e dell’ammirarlo, adorarlo, apprezzarlo) fa parte dello spettacolo» (p. 437). Canova propone alcuni esempi di come il registro della visibilità non rappresenti però l’unica strategia di raffigurazione del potere da parte del fascismo; nel film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, ad esempio, l’immagine di Mussolini è soltanto evocata, la sua presenza è avvertita, anche grazie al sonoro, ma non si vede.

Nel dopoguerra il confronto del cinema italiano con il potere politico diviene difficile, per certi versi è come se i registi non trovassero il modo di rappresentarlo in un sistema democratico. «Per il cinema italiano del dopoguerra – quanto meno, per la maggior parte di esso – il potere reale è quasi sempre osceno: agisce cioè – letteralmente – fuori scena, si esercita al di là della sfera del visibile […] Si preferisce inseguire una visione del potere come Leviatano nascosto, come Moloch crudele, come rete invisibile di interessi e di complicità […] Il potere è opaco. Resiste allo sguardo. Non si lascia osservare» (pp. 441-442).

pot_001Nella cinematografia nazionale non di rado il potere è stato messo in scena attraverso i luoghi in cui si manifesta e, non di rado, maggiore è la visibilità dei luoghi, minore è la sua visibilità. Canova porta come esempio di totale identificazione tra potere e luogo in cui risiede L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. In questo caso «la Città Proibita suggella un’idea di potere come dispositivo separato e distaccato dal luogo in cui si esercita: il potere dell’imperatore infatti risiede nel palazzo, ma si esercita fuori da esso, in un “fuori” di cui l’imperatore non solo non ha accesso, ma non ha neppure conoscenza e visione: quando l’avrà, ciò implicherà automaticamente anche la perdita del potere» (p. 443). Nella Città Proibita di Bertolucci non è il potere ad essere spettacolo per la corte, come avveniva nel Re Sole di Rossellini, ne L’ultimo imperatore il potere diviene spettatore dello spettacolo organizzato dalla corte per lui.

Marco Ferreri nel film L’udienza (1972) tratta la questione dell’invisibilità del potere attraverso la storia di un individuo ossessionato dal voler parlare col pontefice che, in tutto il film, non si vede mai se non attraverso immagini televisive. In lungometraggi come questo è ai palazzi del potere che spetta il compito di surrogare l’invisibilità del potere.

Anche le scenografie giocano un ruolo importante nel cinema italiano che intende rappresentare il potere; sono diversi i film in cui esso si esprime attraverso la scenografia, si esprime mettendosi in scena, allestendo la propria visibilità, come avviene ad esempio in Galileo (1968) di Liliana Cavani ed In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni.

In diverse opere, ricorda lo studioso, al potere si allude ricorrendo a figure allegoriche. Nel film Il potere (1972) di Augusto Tretti il potere, nelle sue diverse articolazioni, si nasconde dietro le maschere di belva indossate da tre personaggi, in Prova d’orchestra (1979) di Federico Fellini il compito allegorico è affidato ad un grande maglio che entra in scena sul finale distruggendo tutto, mentre, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, è la villa degli orrori a funzionare da ambientazione in cui si muovono i quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana. In questo ultimo caso il film suggerisce come il potere politico prenda forma e si strutturi nel rituale e nelle relazioni «che i quattro potenti inscenano nella villa con l’aiuto delle loro vittime, ma anche dei collaborazionisti, dei servi e delle meretrici da bordello che fungono da narratrici» (p. 452).

Nel suo contributo a Lessico del cinema italiano, Canova traccia una “mappa tipologica” dei potenti messi inscena nel cinema nazionale. La prima tipologia individuata è quella “dell’affarista cinico” ed a tal proposito viene citato il lungmetraggio Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi come opera che mostra come il fine ultimo del potente sia la conservazione e la perpetuazione del proprio potere.

Una seconda tipologia viene indicata nel “corrotto corruttore” ed in questo caso lo studioso porta come esempio Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, film che sottolinea come il potere sia tale anche grazie a chi ne è privo.

Come terza tipologia Canova indica quella “dell’astuto naïf” facendo riferimento a film come Benvenuto Presidente! (2013) di Riccardo Milani, Viva la libertà (2013) di Roberto Andò e Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno che suggeriscono come soltanto i personaggi ingenui siano oggi in grado di conferire al potere credibilità.

La quarta categoria individuata dallo studioso è quella del “mellifluo untuoso” ed il film Todo modo (1976) di Elio Petri viene segnalato come uno dei pochi esempi in cui, in un sistema democratico, il popolo (lo spettatore) venga indicato come sostanzialmente responsabile del potere che ha contribuito a creare.

Come quinta tipologia viene indicato “l’insabbiatore mimetico”, figura esemplarmente interpretata da Ugo Tognazzi in uno degli episodi de I mostri (1963) di Dino Risi, in cui, dietro alla maschera di devota rispettabilità del potere, si cela la capacità di farla franca sempre e comunque.

“Il pharmakon grottesco” rappresenta una sesta tipologia e qua Canova, oltre ai classici Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli ed Il federale (1961) di Luciano Salce, si sofferma sulla figura interpretata da Antonio Albanese nei film diretti da Giulio Manfredonia Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012). A proposito di tale personaggio lo studioso afferma che «Nella sua opulenza cafona, Cetto La Qualunque non è solo un monumento alla volgarità italiana. È un pharmakon, o un parafulmine. Scarichiamo su di lui tutta la negatività che ci insidia e ci assedia. Ce ne liberiamo. Forse, nel vuoto sospeso del raccapriccio che ci si insinua sotto la pelle, quando ridiamo compiamo un esorcismo. E ci assolviamo dal timore di essere anche noi come lui» (p. 465).

La settima categoria indicata è quella del “fantoccio ridicolo” e, secondo Canova, un film come Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza finisce con l’applicare ai politici «quelle categorie della derisione e dello scherno che sono da sempre al centro dell’atavica propensione degli italiani a ridere di tutto e di tutti […] che alla fine tutto assolve e tutto dimentica, e rende tollerabile o tollerato nella realtà quel medesimo potere che viene carnevalescamente irriso nello spazio dello spettacolo e della finzione» (p. 466). Inoltre, sostiene lo studioso, «Da un film come Forza Italia! alla satira televisiva del nuovo millennio, un filone importante della cultura italiana si è ostinata a fare dell’uomo di potere, al tempo stesso, un mostro e un pagliaccio. Col risultato paradossale di assolverlo: perché il mostro annulla il pagliaccio, e il pagliaccio neutralizza il mostro» (p. 467).

Il saggio di Canova sottolinea, inoltre, come tra le patologie del potere, il cinema italiano abbia scelto di concentrarsi sul tradimento, il trasformismo, l’arbitrio e alla presunzione di impunibilità. Per quanto riguarda il trasformismo ed il tradimento lo studioso, oltre che su Senso (1954) ed Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, si sofferma su Noi credevamo (2010) di Mario Martone, individuando in tale opera «un film imprescindibile per rintracciare la retorica e l’ideologia del potere nel cinema italiano perché […] drammatizza uno scontro di poteri: da un lato il vecchio potere che muore, dall’altro un nuovo potere che nasce e che ambisce a scalzare e a sostituire in fretta il vecchio. Il punto di vista di Martone sposa e adotta […] il punto di vista di chi non ha il potere e ambisce a conquistarlo: quel “noi credevamo” non solo insiste sulla dimensione collettiva dell’adesione a un progetto di conquista del potere, ma sottolinea anche – con forza – la dimensione fortemente fideistica che anima l’azione dei giovani rivoluzionari […] Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul ruolo talora fondamentale della passione nell’agone politico, e il film di Martone ha il merito di conferirle una centralità precedentemente impensabile» (p. 473).

Per quanto riguarda l’arbitrio Canova cita In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi e Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy come esempi di film in cui la giustizia viene esercitata arbitrariamente ed in maniera vessatoria nei confronti del cittadino. In questi film, come in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio e Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, il potere si esprime col medesimo volto: «Arcigno, severo, vessatorio, feroce. Un potere che non si esercita quasi mai nella legalità ma quasi sempre nell’arbitrarietà e nell’impunità» (p. 478).

Circa l’impunibilità, lo studioso non poteva che soffermarsi su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, film che «Ribadisce la teatralità del potere e fa della maschera il linguaggio necessario ad affermare se stesso in quanto forma del dominio» (p. 480). Canova, ragionando sul doppio finale dell’opera, si concentra sul fatto che le tende vengono ad un certo punto chiuse celando all’osservatore il contenuto della stanza in cui convergono i diversi interpreti del potere: «Non è dato di sapere cosa accadrà realmente nella stanza in cui il potere si è riunito. Abbiamo visto cosa è accaduto nella camera da letto (che non è più da tempo luogo proibito allo sguardo), ma l’interdetto a vedere si è spostato e trasferito nella camera del potere. Che ancora una volta celebra se stesso, e perpetua la propria fantasia di immunità e di impunibilità, in un regime di fatale e impenetrabile invisibilità» (p. 482).

pot_002Nel cinema degli ultimi decenni film come Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Il divo (2008) di Paolo Sorrentino ed Il caimano (2006) di Nanni Moretti, hanno fatto ricorso a maschere su un registro espressivo allegorico-grottesco al fine di mettere in scena, rispettivamente, Mussolini, Andreotti e Berlusconi.

Il film di Bellocchio, secondo Canova, è un «atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione – antropologica prima ancora che psicologica, ideologica o sociale – fatta di ribellismo anarcoide e di succube servilismo, di velleitarismo arrogante e di tracotante narcisismo […] di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgiti collettivi che portano buona parte dei maschi italiani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o chi si illude ci siano altri, possibili modi di amare» (pp. 490-491). Il regista in questo caso mette in scena «lo scompenso che si crea fra una donna che è e resta corpo (fremente, piangente, ferito) e un maschio che – grazie al potere che incarna – da corpo si trasforma in fantasma di pietra, perennemente assente e al tempo stesso sempre incombente, pesante, castigante, oppressivo. Vincere rilegge il fascismo come pratica di annientamento dei corpi e come colonizzazione fraudolenta delle menti» (p. 491).

L’opera di Sorrentino mette invece in scena i meccanismi del potere e la sua immortalità. Il regista qui «predilige una maschera in bilico fra il folclorico e il cinefilo: quella del vampiro. […] gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere» (p. 487). L’Andreotti di Sorrentino è dunque la quintessenza della segretezza e dell’inaccessibilità.

Infine, il film di Moretti affronta «l’inafferrabilità di Berlusconi in quanto ipostasi del potere e, al contempo, la difficoltà di rappresentare l’Italia contemporanea» (p. 484). Canova sottolinea come il film trasmetta la sensazione della disgregazione, gli stessi diversi Berlusconi che compaiono risultano scollegati l’uno all’altro.

L’accumularsi in questo paese di quelli che, non senza ipocrisia, vengono definiti “misteri irrisolti”, ha contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che «dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di “dietrologia” ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un “burattinaio” non identificabile […] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei “misteri” irrisolti» (p. 493).

Un caso esemplare di incidenza del complottismo nella rappresentazione del potere riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; si pensi ad esempio, a lungometraggi come Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli. La teoria del complotto si è venuta costruendo su effettive pagine oscure della storia italiana ma, osserva Canova, «l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori […] tanto la ricognizione sul passato […] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un “sentimento” del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare» (p. 495).

Come esempi di film che invece evitano di ricorrere al complottismo, Canova segnala Diaz – Non pulire questo sangue (2012) di Daniele Vicari e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. Nel primo caso il lungometraggio «si stacca dalla cronaca, o dall’idea di film-requisitoria, per costruire una scena del crimine che è tanto più sconvolgente quanto più addossa le responsabilità del massacro non a questo o qual funzionario-carogna, ma a un sistema che può permettersi impunemente la sospensione delle garanzie democratiche come forma perversa di controllo e di repressione violenta del dissenso sociale […] Vicari non cade nell’errore di confondere la sala cinematografica con un’aula di tribunale, né pretende di affidare al suo film una sentenza giudiziaria. Piuttosto cerca di mettere in scena i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie, i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di diritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare a usare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo di dominio» (p. 497).

Buongiorno, notte affronta invece il “caso Moro” evitando il registro del realismo ed il regista «non insegue il “feticismo del documento” caro al cinema complottista, né sbandiera dossier esclusivi su cui edificare improbabili controinchieste. Il suo film sceglie piuttosto la strada dell’apologo e dell’immaginazione poetica, fin dal titolo» (pp. 498-499). Nell’opera di Bellocchio, che evita dietrologie, la narrazione adotta il punto di vista di una brigatista che sogna un finale diverso per la vicenda ed il racconto è confinato all’interno dell’appartamento-prigione mentre alla televisione spetta il compito di far entrare tra le mura gli eventi esterni. Così facendo, «riducendo la realtà storico-politica a una sorta di fuori campo, Bellocchio si concentra cioè sui gesti, gli sguardi e le relazioni chiasmiche che si intrecciano all’interno dell’appartamento fra il prigioniero (il dominante divenuto dominato) e i suoi sequestratori (i dominati che aspirano a essere dominanti)» (p. 499). Il registro del doppio, suggerisce lo studioso, attraversa l’intero film; il potere ed il contropotere che prende il suo posto, la protagonista che conduce una doppia vita, il mondo tra le mura dell’appartamento ed il mondo esterno che appare sullo schermo televisivo, il registro del reale ed il registro onirico e visionario.

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volCome Luigi XIV nel film di Rossellini, «anche il potere democratico contemporaneo vuole che la sua vita si svolga tutta sempre sotto gli occhi dei cittadini/sudditi: ed è la Tv a inverare questa volontà. Come Re Sole, la Tv è sempre lì, perennemente accesa, e incessantemente pronta a mostrare i riti e le cerimonie del potere. A renderle autorevoli e desiderabili. Il potere sa di essere lì, nelle immagini che lo presentificano e lo diffondono, lo espandono e lo celebrano. E lì, spudoratamente, si mette in scena» (p. 503). Canova individua alcuni film che prendono atto del ruolo televisivo e, dopo decenni di invisibilità ed irrapresentabilità del potere sul grande schermo, «da qualche anno a questa parte il cinema italiano ha constatato la propria ontologica impossibilità di competere con la Tv nel rendere visibile in tempo reale la quotidianità del potere (e, in fondo, anche la sua ordinaria banalità) e ha deciso – con lungimirante saggezza – di ripartire da qui. Dalla comprensione che il potere è ormai prima di tutto nelle immagini che quotidianamente lo visualizzano. Così il cinema ha iniziato, sempre più intensamente e convintamente, a lavorare su queste immagini. A riesumarle. A rimontarle» (p. 503).

L’archivio televisivo diviene una fonte da cui attingere ed a tal proposito Canova indica film come La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif – Pierfrancesco Diliberto e Belluscone. Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.

Nel primo caso l’autore «non è ossessionato dalla necessità di mostrare il volto del potere: l’ha già fatto la Tv. Il suo film si limita a usare le immagini già prodotte e a risemantizzarle grazie a un ready made che le porta ad esprimere “altro” rispetto a quello che avrebbero dovuto esprimere quando furono realizzate. In questo modo il cinema, scalzato dalla televisione (e ora anche dagli altri media digitali) nella capacità di dare un volto al potere, recupera il proprio ruolo centrale nel sistema dei media rivendicando la capacità di rivedere e risignificare le immagini che altri media hanno prodotto» (p. 503).

Nell’opera di Maresco il potente Silvio Berlusconi, evocato e deformato sin dal titolo, è presente nel film solo a livello catodico, come fantasma dell’etere. «Una storia siciliana è un racconto di ascesa e caduta: comincia con la caduta (Berlusconi annuncia in Tv le sue dimissioni da Presidente del Consiglio […] e finisce con il ricordo sbiadito dell’ascesa (con un Berlusconi di 20 anni più giovane che pronuncia il celebre discorso della “discesa in campo”)» (p. 505). Alle immagini di repertorio è affidato il compito di riflettere sul fantasma di Berlusconi e sugli effetti del berlusconismo. Per certi versi è davvero come se Berlusconi vivesse soltanto all’interno delle immagini televisive che ne hanno costruito il mito e dal film, sostiene Canova, si evince come siano le immagini ad aver preso il potere tanto che l’immaginario berlusconiano continua ad influenzare l’immaginario collettivo anche dopo Berlusconi. «È a queste immagini che bisogna ricorrere, ed è su di esse che bisogna lavorare, per cercare di capire qualcosa di quel potere che esse disincarnano e, al contempo, rendono immortale» (p. 505).

A conclusione del suo scritto, Gianni Canova, si chiede se «il cinema italiano non ha saputo rappresentare la democrazia perché non è mai riuscito a capirla o – al contrario – perché ha capito fin troppo bene la sua essenza, e ne è rimasto traumatizzato?» (p. 505). Nel complesso, probabilmente, ciò è avvenuto per entrambi i motivi ma, da parte nostra, siamo portati a credere che, nonostante alcune e significative eccezioni, nella maggioranza dei casi, il cinema italiano, al pari del resto della cultura nazionale, si è accontentato di raccontarci dell’opacità del potere e di oscuri ed innominabili burattinai. Forse, se da una parte il sonno della politica – il non voler vedere e parlarne – negli intellettuali italiani ha contribuito a generare mostri (di comodo), dall’altra, la televisione ha talmente sovraesposto i politici nazionali da renderli poco appetibili al grande schermo. E forse lo stesso pubblico cinematografico non è stato, e non è, così desideroso di vederseli spuntare, oltre che in casa, quotidianamente ed a tutte le ore, anche nel buio di una sala su schermi monumentali che i politici nostrani oggettivamente faticano a riempire.

]]>
Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 56 https://www.carmillaonline.com/2013/11/29/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-56/ Thu, 28 Nov 2013 23:01:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10730 di Dziga Cacace

Mi sembra che abbiamo chiarito tutto e io, allora, me ne andrei… (Fantozzi)

ddv5601547 – Il capolavoro Divorzio all’italiana di Pietro Germi, Italia 1962 Quanta magnificenza. È una mattinata luminosa a Champoluc. Barbara allatta Sofia e commette l’errore di chiedermi di accendere la tivù, per passare il tempo. RaiTre. Fuochi d’artificio su sfondo nero, la scritta Lux e la prima scena del film di Germi. Siamo catturati, prigionieri, mani in alto, e non proviamo a fuggire, macché: Divorzio all’italiana è un masterpiece ineludibile: ritmatissimo, trascinante, zeppo di battute e situazioni, con interpretazioni memorabili e una regia sempre [...]]]> di Dziga Cacace

Mi sembra che abbiamo chiarito tutto e io, allora, me ne andrei… (Fantozzi)

ddv5601547 – Il capolavoro Divorzio all’italiana di Pietro Germi, Italia 1962
Quanta magnificenza. È una mattinata luminosa a Champoluc. Barbara allatta Sofia e commette l’errore di chiedermi di accendere la tivù, per passare il tempo. RaiTre. Fuochi d’artificio su sfondo nero, la scritta Lux e la prima scena del film di Germi. Siamo catturati, prigionieri, mani in alto, e non proviamo a fuggire, macché: Divorzio all’italiana è un masterpiece ineludibile: ritmatissimo, trascinante, zeppo di battute e situazioni, con interpretazioni memorabili e una regia sempre in movimento, avvolgente come il caldo del sud che rende abulico il magnifico don Fefè Cefalù di Marcello Mastroianni. Girato a Ragusa, fotografato e musicato magistralmente, è uno di quei film in stato di grazia, dove nulla sembra fuori posto. Don Fefé vive nella solatìa Agramonte, da nobile spiantato in lento ma inesorabile declino. È sposato all’ignorante e soffocante Rosalia, ma ama la nipote Angela, una Stefania Sandrelli appena sbocciata. Per liberarsi della moglie c’è un solo modo: approfittare della vergognosa legge italiana che trova per il delitto d’onore bastevole giustificazione nelle corna dell’assassino. Il piano di Fefé è perfetto, tanto che il suo architettare e complottare è già commentato dalla stentorea voce dell’avvocato che – quando a processo – saprà toccare le giuste corde della corte: Rosalia finisce nella braccia dell’ingenuo Carmelo Patané. Il tradimento si consuma e la gente di Agramonte pretende che Fefé difenda il suo onore. Si beccherà tre anni e, uscito, sposerà finalmente Angela. Che però… Grandissimo film dal primo all’ultimo minuto, dove si misura tutta la distanza tra il cinema nostrano di ieri e quello sfiatato di oggi: la scrittura è raffinata e colta ma non rinuncia mai al divertimento, ricordandosi che un film è un’opera d’arte che può intrattenere. Capolavoro unico. (Diretta su RaiTre; 2/8/05)

???????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????548 – Un altro capolavoro: Hannah and Her Sisters di Woody Allen, USA 1986
Forse sbaglio, ma questo mi pare l’ultimo grandissimo film di Woody Allen. Dopo non sono mancati i film molto riusciti (Crimini e misfatti o Mariti e mogli), quelli non all’altezza dell’intuizione (Harry a pezzi) e quelli decisamente brutti (non li elenco, sono tanti, troppi). Qui, invece, Allen raggiunge l’equilibrio estremo tra commedia e dramma, sapendo essere leggerissimo e intensamente esistenziale. I personaggi di Hannah e le sue sorelle sono tra quelli tratteggiati meglio nella sua carriera, psicologicamente definiti con pochi essenziali colpi di pennino. L’uso magistrale delle diverse voci off ci porta in un’austera New York autunnale (i punti cardine sono tre Thanksgiving) in cui Hannah e le sue due sorelle vivono le loro storie d’amore, intrecciandosi e senza saperlo, ma aiutandosi e ferendosi. Perché si campa così, la vita è questa, e Woody lo racconta senza grandi proclami ma con sublime sommessità e la risposta al mistero del nostro passaggio sulla terra è in un film dei fratelli Marx. Film amaro più di quanto sembri, ma con una luce immensa in fondo. Cinematografia composta, pulita, tanto montaggio interno, una certa classe nella fotografia di Carlo Di Palma, musiche struggenti e grandissime interpretazioni che valsero l’Oscar a Dianne Wiest e Michael Caine. Nessuno premiò Barbara Hershey, ma idealmente lo abbiamo fatto Pier Paolo e io. Hannah e le sue sorelle lo vidi tre volte al cinema, all’uscita. Me ne innamorai e non m’è ancora passata. Ottimo. (Dvd; 2/8/05)

ddv5603549 – Il terzo capolavoro di fila: Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, Italia 1961
A giudicare dalla programmazione mattutina di RaiTre sarà un agosto interessante. Barbara non è tanto d’accordo, ma io conosco i miei polli e, anche se è una delle più belle giornate di tutti i tempi, con un cielo azzurrissimo sul Monte Rosa, basta farle vedere l’incipit del film e anche lei rimane stregata e condannata a seguirlo sino alla fine, con la piccola Sofia ignara e poppante. L’opera di Rosi è un capolavoro di equilibrio: perfetto come documento di controinformazione e come oggetto cinematografico, dove l’intersecarsi dei piani temporali è una scelta artistica impegnativa e felice. Il bandito Salvatore Giuliano, prima combattente per l’indipendenza siciliana, poi capobanda probabilmente al soldo della mafia, non viene mai fatto vedere in faccia, se non da morto. C’è una distanza, un’oggettività, per un personaggio sul quale anche la regia (e la sceneggiatura) pone più dubbi che certezze. Il vero protagonista emerge nella seconda parte ed è Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, con antagonista Salvo Randone nella parte del giudice che tenta di dipanare una matassa ingarbugliata ancora oggi. Da buon film-inchiesta, Salvatore Giuliano talvolta soffre di didascalismo e la voce narrante risulta un po’ didattica, ma la visione non ne risente. Messa in onda perfetta, come ieri per Divorzio all’italiana, con pieno rispetto del formato originale. Si apprezza il clamoroso lavoro di De Venanzo sulla fotografia di volti e paesaggi (il film è stato girato on location), una ricerca cromatica e compositiva che credo – ed è brutto dirlo – oggi non sfiori neanche la minima parte dei direttori della fotografia italiani. (Diretta su RaiTre; 3/8/05)

ddv5604550 – Il tersicoreo Saturday Night Fever di John Badham, USA 1977
Il passare del tempo aveva idealizzato nella mia memoria il valore di questo astuto filmetto che seppe agganciare la declinante moda delle discoteche di New York e dintorni e rilanciarla, rendendola un fenomeno globale. La storia è nota: Tony Manero, bravo ragazzo (ma anche omofobico, razzista e maschilista) che di giorno fa il commesso e il sabato sera domina la pista della discoteca Oddissey 2001 (sic, c’è il giochino di parole), sogna di attraversare il ponte di Brooklyn e guadagnarsi una nuova vita “dove accadono le cose”, a Manhattan. Il desiderio si avvererà nell’immondo Stayin’ Alive, commesso da Stallone anni dopo: per ora Tony trova solo un instabile equilibrio tra amici rissosi, sesso facile, un posto di lavoro che sembra una condanna e una famiglia normalmente anormale. La regia è professionale ed anonima (Badham fu convocato al posto di John G. Avildsen – già Oscar con Rocky – a due settimane dall’inizio delle riprese) e se si fa notare è per qualche bestiale primo piano flou o per dei rallenti incongrui. La vera cifra stilistica la danno le tante scene di ballo, tecnicamente teatrali e semplicissime, ma coinvolgenti grazie a un montaggio dinamico. La sceneggiatura ha invece il pregio di restituire una dimensione urbana – quella al di là del ponte – per niente glamour. Il linguaggio e le situazioni sono crude, improntate a un realismo che non sembra di maniera. Dove lo script vacilla è nella definizione del rapporto tra Tony e la stronzetta snob Stephanie, ma tutto non si può avere, dài. Il film fece faville in tutto il mondo, lanciò il travoltismo e condannò una generazione al ballo, facendo dimenticare la dimensione live della musica. A posteriori un disastro, ma non voglio fare il moralista, anche perché la colonna sonora del film è oggettivamente clamorosa: impossibile resistere all’impulso irrefrenabile di agitare il bacino. E vi lascio immaginare le mie doti danzerecce, tipo ippopotamo in acido. Travolta è bravo: regge il film sulle sue spalle e ha la faccia giusta, tra innocenza, speranza e cattiveria. Il resto del cast è funzionale, a parte l’inespressiva Karen Lynn Gorney, la Stephanie compagna di ballo di Manero. A corredo del film un ottimo documentario di VH1: Travolta ricorda come salvò alcune scene di ballo (dando precise indicazioni al montatore) e come difese il suo personaggio, facendo allontanare Avildsen che tendeva a edulcorarlo. I comprimari sono invecchiati bene mentre la Gorney, che non ha mai più fatto un belino, ha anche la spocchia di comportarsi da diva. Poverina. (Dvd; 6/8/05)

ddv5605551 – L’andinistico (si dirà così?) La morte sospesa di Kevin McDonald, Gran Bretagna 2004
Complice nonna Mariella, ci concediamo una serata di cinema analogico, nella storica sala di Champoluc ospitata dalla vecchia chiesa. Qui ho esordito con Anche gli angeli mangiano fagioli nel 1979, e da lì in poi ho visto tanti altri filmoni e filmini, anche il mio primo Fantozzi con mia sorella che piangeva inconsolabile nella scena della Bianchina schiantata da una lavatrice la notte di Capodanno… Vabbeh. La morte sospesa è un bel documentario britannico che racconta, attraverso le testimonianze dei protagonisti e la ricostruzione della loro impresa, una delle più famose storie di alpinismo: quando Simon Yates dovette tagliare esattamente la corda, abbandonando l’amico Joe Simpson sulla cordillera andina. Com’è evidente, Joe è riuscito a tornare indietro per raccontarci la sua lotta per la sopravvivenza, ma sapere già com’è andata non toglie alcuna tensione a un racconto tesissimo, ben scandito, forse sfilacciato un po’ nel finale quando il calvario del protagonista angoscia lo spettatore. Ma non dubito che non sia una precisa scelta registica. Premiatissimo in giro per il mondo, non è un film solo per appassionati di montagna, anzi. Peraltro, l’alpinismo è pieno di queste storie: in questi giorni sono state riconosciute le spoglie di Günther Messner, fratello di Reinhold, scomparso sotto una valanga nel 1970, mentre i due tornavano dalla conquista del Nanga Parbat. Dopo 35 anni, il ritrovamento scagiona Reinhold dalle accuse di abbandono del fratellino. (Cinema Sant’Anna; 10/8/05)

ddv5606553 – La gradevole melassa di Orizzonte perduto di Frank Capra, USA 1937
“Non è possibile che voi rinneghiate la verità del vostro sogno migliore”. In questa frase è racchiuso il segreto del successo di un film che, giudicato con gli standard odierni, non può che risultare un pappone fiabesco molto infantile. E che di fiaba si tratti è subito evidente quando entra in scena un personaggio che si chiama Perrault, un vecchio decrepito che regna bonariamente su Shangri-La da qualcosa come trecento anni. Ma andiamo con calma: la Cina è sconvolta dalla guerra civile e dall’invasione giapponese. Robert Conway mette in salvo alcuni occidentali fuggendo da Shangai in aereo, ma viene dirottato in una edenica vallata tra le cime dell’Himalaya. A dispetto di ogni razionalità geografica, il clima è temperato e la gente vive benissimo. E soprattutto a lungo. Vien fuori che Robert – scrittore e avventuriero – è stato prescelto per succedere al morente Lama, il Perrault che si diceva. All’inizio i compagni di viaggio sono negativi, poi vengono conquistati dall’idilliaca condizione. Il pedante paleontologo Lovett, il furfante in fuga Barney e la zoccola malata e redenta (e guarita dalle acque miracolose di Shangri-La) Gloria sono ben felici di lasciarsi alle spalle guerre, disperazione e i problemi della vita quotidiana. Un po’ meno il fratello minore del protagonista, George Conway. Depressissimo, vuole tornare in USA e alla fine convince Robert che, a malincuore, abbandona l’indigena Sondra di cui s’è innamorato. Ma fuori dalla vallata George impazzisce e Robert torna alla civiltà solo dopo immani difficoltà. Resisterà poco e, nonostante lo diano tutti per morto, noi sappiamo che coronerà il suo sogno: tornerà infine alla Terra Promessa. Una favolona dove si mescolano esotismo, melò, avventura, paesaggi straordinari, un pizzico di erotismo e un tranquillizzante messaggio di pace. Non fosse per l’ambientazione, non siamo poi così lontani dal Capra degli eroi borghesi e democratici: in un’America sconvolta dalla Depressione e dalle poco rassicuranti notizie provenienti dall’Europa in fiamme, Orizzonte perduto invita a cercarci la nostra Shangri-La (termine che poi diverrà di uso comune), terra di moderazione, pace e armonia. È un sogno e tutto il film è pervaso da una statica atmosfera onirica. Fu un successo mostruoso, adatto a un pubblico sempliciotto, dove ogni svolta narrativa è abbondantemente anticipata e poi spiegata più volte. Però piacevole, anche se le due ore e mezza del rimontaggio filologico ci sono parse esagerate. Pier e io abbiamo fatto una velocissima introduzione al numeroso pubblico accorso al precario palatenda di Antagnod. Temperatura presunta, circa 6 gradi sopra lo zero: le condizioni meteorologiche ideali per presentare un film ambientato in Tibet. Durante la proiezione c’è stata un’emorragia di pubblico e alla fine ho accomiatato gli spettatori in fuga (era mezzanotte passata) con un patetico: “il dibattito lo faremo la prossima volta”, accolto da educati applausi, but thanks, no, thanks. Poi siamo andati al pub Valhalla a bere della birra. Musica a volume insopportabile, giovinastri esagitati, noi muti testimoni del passare del tempo. L’ultima volta qui sarà stata dieci anni fa e il gggiovane ero io, mannaggia. Orizzonte perduto, tratto da un romanzone di successo, si ispirava alle vicende di George Mallory, l’avventuriero e alpinista che scomparve nel 1924 tentando di conquistare la vetta del mondo. Nel 1999 il ghiacciaio dell’Everest, ritirandosi, ha rilasciato il suo corpo. Nessuno saprà mai se fosse arrivato in cima prima di Hillary e Tensing. (Palatenda, Antagnod; 15/8/05)

ddv5607554 – Il drammatico Citizen Berlusconi di Susan Gray, USA 2003
Trattasi di lacerante documentario trasmesso dalla tivù pubblica americana PBS nell’agosto 2003 e mai ripreso da alcun network italiano, chissà poi perché! L’unico modo per vederselo è comprarsi il Dvd: detto fatto. Non c’è niente che un italiano di media cultura e che legga ogni giorno i quotidiani già non conosca. Solo che i suddetti sono un campione esiguo della popolazione votante e le note vicende qui sono compresse in 55 minuti di narrazione stringata ed essenziale. E fa paura, perché è solo leggendo la sequenzialità delle azioni di Berlusconi nei confronti dei giornalisti non condiscendenti che ci si rende conto del continuo attacco alla libertà di stampa (e di opinione) in atto in questo paese delle banane. Il documentario – secondo anche l’ottica un po’ ipocrita statunitense, per cui quello è il problema più grave – si concentra sull’idiosincrasia di SB verso la stampa non asservita e fa una certa impressione vedere il film adesso, mentre un banchiere vicino al Cavaliere guida l’attacco di una gang di riccastri al Corriere della Sera. Riccastri della cui fortuna si sa poco (esattamente come di quella del Presidente del consiglio) e che, come nel caso di Ricucci, hanno entusiasticamente aderito ai provvidenziali condoni tombali proposti da questo governo. Un documentario come questo, ben montato e frizzante, ci mostra il perpetuo sfondamento di culo che come cittadini subiamo da una decina di anni, ormai dolorosamente abituati tanto da non accorgercene più. Certo, manca una visione più ampia, come una seppur minima riflessione sul ruolo della cosiddetta opposizione che è più spesso entusiastica acquiescenza, tanto la faccia è salva con qualche strilletto e amen. Ma gli yankee volevano il reale Citizen Kane, se no sarebbe diventato un film diverso, girato in tempo reale. E che non mi sarebbe interessato per niente: sono troppo stanco della politica o del suo simulacro dialettico. Io ho perso sempre, anche l’unica volta che credevo di aver vinto. (Dvd; 16/8/05)

ddv5608Titoli di coda
L’estate sta finendo ed è stata una stagione peculiare, punteggiata dagli aerei caduti. Non sarà di sollievo per le vittime, ma gli eventi – statisticamente – si concentrano. Il Genoa è finito in C1 ed è morto un mio idolo di gioventù, Ambrogio Fogar: adesso sui giornali è un tripudio di attestati di stima e amicizia, ma qualche anno fa mancava che si dicesse che gli stava bene, essere rimasto paralizzato. E in questa malinconia di fine agosto, decido di mollare il mio cinediario. Era cominciato tutto per caso, quando Hilda catalogava i film in vista della tesi e io, un po’ per imitazione e un po’ per necessità, avevo cominciato a segnarmi tutto ciò che vedevamo. Lei ha mollato dopo pochi titoli, io ho continuato e a modo mio. Erano noterelle, pareri, curiosità, svolazzi, citazioni e cose che dovevo tenere a mente, e poco a poco s’è trasformato in un diario pubblico e privato, sui film che vedevo e su come li vedevo, in quale situazione storica e personale. Non so se sono guarito dalla cinefilia, ma la passione è stata divorante e la curiosità inesauribile. Nottate in bianco aspettando Fuori Orario, cassette scambiate con gente sconosciuta, riviste illeggibili e raid verso cineforum improbabili. E con la scoperta della Rete altri titoli, altri nomi, altre cinematografie. Un delirio ubriacante.
In questo zibaldone ritrovo le illusioni e le delusioni di dieci anni, gli entusiasmi infantili, le storture collezionistiche, l’ansia cinefila di assaggiare tutto e di giudicare ogni cosa, confrontandomi, imparando, dimenticando, digerendo male quello che bulimicamente ingurgitavo.
Riguardo indietro e mi rivedo con indulgente tenerezza: è la stessa generosa mancanza di severità che mi ha fatto partorire ‘sta roba, che concludo però con qualche rimpianto. Non sono riuscito a vedere tutti i film che mi interessavano e di cui avrei voluto blaterare lasciandone testimonianza scritta: gli archeologi che troveranno queste recensioni non sapranno cosa ho magicamente elaborato sui Kurosawa, Leone, Fellini, Truffaut, Buñuel e Welles che ho visto prima del 1995. Poi, tra queste sciagurate pagine, mancano tanti cult personali, magari banali, ma che per un ragazzo degli anni Ottanta, nella suprema e beata ignoranza dell’innocenza, hanno rappresentato il Cinema. Penso ad Alien, Platoon, Il grande freddo, Fandango, Fuga per la vittoria, Fuga di mezzanotte: titoli cui sono legati un sacco di ricordi. E dove mettiamo tutte quelle pellicole bislacche, cui si vuole bene perché il ricordo rende tutto più dolce? Chi vi metterà in guardia da una sublime stronzata come Ufficiale e gentiluomo? E tutti i fantastici film di Pozzetto, come Ecco, noi per esempio, La patata bollente e Agenzia Riccardo Finzi praticamente detective? E l’intramontabile Top Secret?
Ho cominciato a scrivere non appena ho messo le mani su un PC. Pesavo 15 chili di meno, avevo i capelli molto lunghi e fumavo un pacchetto di sigarette al giorno. Studiavo, vedevo film, leggevo a più non posso e soffrivo per tutte le cose che ancora non conoscevo. Ed ero felice.
In dieci anni ho smesso di fumare, ho continuato a dedicarmi il più possibile a film, libri e musica e anche un po’ a lavorare. Ho continuato a conoscere gente, a parlare, a incazzarmi, a capire come riparare il mondo e a non riuscirci.
Oggi lavoro tanto, fumo di nuovo e ogni giorno cerco nuovi inutili progetti creativi che non porterò mai a termine. Convivo con Barbara, che ancora mi sopporta, e la piccola Sofia, che già mi ama. Sono felice, molto.
Ma anche un po’ inquieto.

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Fine – 56) 

]]>