Francesco Guccini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura /1: Asia ribelle 1900-1930 https://www.carmillaonline.com/2024/11/13/la-rivoluzione-come-avventura-1-asia-ribelle-1900-1930/ Wed, 13 Nov 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85272 di Sandro Moiso

Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro

Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui erano nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare [...]]]> di Sandro Moiso

Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro

Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui erano nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare il cambiamento sociale.

Così la serie di articoli che ha inizio con la presente recensione del bellissimo testo di Tim Harper, per i motivi suddetti ed altri ancora, vuole costituire per chi scrive, oltre che la ricostruzione di momenti storici particolarmente significativi e convulsi dal punto di vista socio-politico e militare, ancora una volta un omaggio sia al genio letterario di Emilio Salgari che a quello politico dell’amico e compagno di riflessione teorica Emilio Quadrelli, recentemente scomparso.

Il primo per la gran mole di libri avventurosi prodotti, in cui il tratto anticoloniale e antimperialista si accompagnava, sia che si trattasse dei romanzi del ciclo del Borneo e della Malesia che di quelli ambientati nelle Filippine durante la guerra ispano-americana del 1898 oppure di quelli dei fuggiaschi dalle prigioni siberiane dello zarismo o, ancora, ambientati sulle grandi pianure del West durante le guerre indiane, una ricca mole di osservazioni decisamente antirazziste che, nell’insieme, contribuirono a formare generazioni di futuri scrittori e rivoluzionari. Come lo stesso Che Guevara che, prima di diventare egli stesso un personaggio da avventure leggendarie a Cuba, in Africa e, infine, in Bolivia, aveva letto tutti i romanzi dell’autore italiano1, intendendoli sempre come parte fondamentale della sua formazione rivoluzionaria.

Il secondo per la concezione dell’audacia necessaria per i rivoluzionari nel momento in cui si pongano il problema dell’azione destinata a combattere e rovesciare l’esistente. Un’audacia nell’osare che deve costituire, nella riflessione di Quadrelli, la diretta conseguenza dell’espressione piena e cosciente della soggettività della classe, al di là ed oltre i limiti imposti da qualsiasi tipo di ortodossia comunista, socialista o d’altro genere ancora2.

E nel libro di Tim Harper di avventura, determinazione e audacia ce n’è davvero moltissima, come ben si adatta ad un progetto che, sorto sotto il tallone dell’imperialismo e colonialismo occidentale nel momento della sua massima espansione e forza militare, dovette sembrare ai più, soprattutto tra coloro che rappresentavano le potenze coloniali europee a cavavllo tra XIX e XX secolo, davvero incredibile e folle.

Tim Harper è, dal 2020, a capo della School of the Humanities and Social Sciences e Direttore del Centro per la Storia e l’Economia dell’Unversità di Cambridge, oltre che essere membro, da quest’anno, della Accademia Britannica. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla Storia del Moderno Sud-est asiatico e le connessioni globali di quella regione. Il suo primo libro, The End of Empire and the Making of Malaya (1999), costituiva uno studio sulla guerra, la ribellione comunista e il raggiungimento dell’indipendenza sia della Malesia che di Singapore.

Da allora ha pubblicato, insieme a Christopher Bayly, un resoconto storico in due volumi della Seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze nell’Asia meridionale e del Sud-est: Forgotten Armies (2004) e Forgotten Wars (2007). Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale (uscito originariamente come Underground Asia: Global Revolutionaries and the Assault on Empire nel 2020) costituisce il suo lavoro più recente. Oltre a ciò ha collaborato a svariate riviste, come «Modern Asian Studies», con una grande mole di articoli e contributi compresi in raccolte di saggi.

La ricerca appena pubblicata in Italia da add editore è stata accolta e segnalata come libro dell’anno sia dall’«Economist» che dal «Financial Times». E, sostanzialmente, prende avvio da una annotazione contenuta in un un pamphlet anonimo del 1913, di autore indiano, a metà fra il manuale bellico e l’esortazione alla rivolta: «Come può liberarsi dal terrore chi dal terrore è oppresso? Come possono gli schiavi ottenere la libertà? Ecco la risposta: con la “Bomba”».

A inizio Novecento l’Asia coloniale – l’immensa rete di località marittime, passi montani, piantagioni e vie d’acqua compresa tra l’oceano Indiano e le coste orientali cinesi – costituiva una polveriera pronta a mandare in frantumi gli imperi europei. Da Bombay a Shanghai, da Singapore a Manila, le banchine dei porti e i transatlantici che facevano la spola dall’Europa diventarono la via d’accesso di idee anarchiche e marxiste, oltre che il teatro di un continuo scambio di personalità, traduzioni, ricette politiche tanto varie quanto originali. I pellegrini di questo sottosuolo antimperiale – come il futuro Ho Chi Minh, Sun Yatsen, la nemesi di Gandhi M.N.Roy e Mao Zedong – hanno tutti un ruolo nelle vicende narrate, ma non sono necessariamente i protagonisti, anche se quasi tutti avrebbero finito col convergere verso una nuova Mecca, la Mosca dei primi anni Venti, per poi diffondere in Asia il verbo di un mondo che non sarebbe più stato lo stesso.

Confermando in tal modo come la Rivoluzione russa e la successiva fondazione dell’Internazionale Comunista all’interno del paese dei Soviet più che servire alla causa della liberazione del proletariato dell’Europa Occidentale, soprattutto dopo la fallita e disastrosa avanzata sulla Polonia del 1920 fermata alle porte di Varsavia, sia servita alla liberazione dell’Asia dal giogo imperiale e coloniale europeo.
Come afferma l’autore nella Premessa:

Ho scritto dalla prospettiva di attori diversi, molti dei quali oggi trascurati dalle storie nazionali, partendo da ciò che sapevano, vedevano o pensavano sarebbe stato possibile. Ricostruendo le loro vicende, ho cercato di non indulgere troppo nel giudizio postumo dello storico. Con il senno di poi, molti potrebbero sembrare degli sconfitti; invece, con i loro trionfi, i fallimenti e le avversità che hanno attraversato, hanno segnato a fondo il futuro dell’Asia.
Questo libro fornisce consapevolmente una visione eccentrica, nel senso più letterale del termine, della storia asiatica, traccia la geografia ribelle della rete clandestina dei rivoluzionari asiatici, descrivendone le traiettorie e illustrando come certi contesti abbiano contribuito alla nascita di nuove idee e strategie di lotta. Racconto di vite vissute negli interstizi degli imperi, di battaglie in cui lo Stato nazionale non era il fine ultimo e nemmeno l’ordine naturale del mondo futuro. Sebbene gran parte dei protagonisti del libro si trovassero su posizioni assai distanti, spesso in violento contrasto, in tutti era vivo l’impegno per una «nazione umana mondiale», secondo la definizione del giornalista, scrittore e militante indonesiano Mas Marco Kartodikromo. Questi intellettuali sottolineavano con particolare enfasi di vivere in un’epoca di transizione, in un tempo e in uno spazio tra l’impero e la nazione. O forse, per essere più precisi, accanto all’impero e alla nazione. Mas Marco Kartodikromo e i suoi contemporanei celebravano un «mondo in movimento» e un «mondo sottosopra». Parole che rimandavano a un’idea di Asia – e del mondo nel suo complesso – più aperta di quanto non fosse mai stata e forse non sarebbe stata mai più 3.

In un contesto in cui rivoluzione anticoloniale e rivoluzione proletaria si svilupparono inizialmente in un breve tempo, anteriore allo sviluppo di qualsiasi successivo dogmatismo, in cui si concretizzò in “un’onda inarrestabile di consapevolezza collettiva” volta a liberarsi dalla violenza, dai soprusi e dallo sfruttamento coloniale più implacabile. Un contesto, però, che ci rivela anche come tali istanze rivoluzionarie fossero ben distanti dalle successive affermazioni nazionalistiche espresse a rivoluzioni avvenute e, altrettanto, dalla attuale conflittualità antioccidentale espressa dai BRICS, sia ristretti che allargati.

Terroristi, ammutinati, femministe con i capelli a caschetto, doppiogiochisti, tipografi clandestini, facinorosi che s’imbarcarono come marinai: tra fonti d’archivio, stampa dell’epoca e documenti privati, Tim Harper ripercorre, in un affresco affascinante e magistrale, le traiettorie avventurose degli uomini e delle donne che, attraverso l’intero continente ma anche attraverso i mari e gli oceani, posero le basi del mondo di oggi. Le cui radici affondano forse più in quelle aree e in quelle rivolte che non in Occidente e nelle sue sempre parziali rivoluzioni.

E’ un racconto epico quello che attende il lettore in queste pagine, attraversato da decine di vicende individuali e collettive che sarebbe qui troppo lungo riassumere, ma di cui vale la pena di raccontare almeno alcuni episodi. Come quella di Pham Hon Thai, il giovane rivoluzionario vietnamita che nel giugno del 1924 aveva attentato alla vita di Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese recatosi in visita all’isola di Shamian, una delle più antiche enclave coloniali in terra cinese, posizionata di fronte a Canton, la più grande città autonoma del continente.

Città già attraversata da contraddizioni estreme di carattere nazionale, sindacale, militare, politico e sociale, che nel 1923 divenne sede del neonato governo nazionalista di Sun Yat-sen, che controllava tutte le sei province meridionali, mentre il resto della Cina era ancora suddiviso fra cricche militari capeggiate dai cosiddetti «signori della guerra», in continua lotta tra loro per succedere agli ultimi eredi della dinastia Qing.

Nei primi mesi del 1924 venne presa la fondamentale decisione di creare una base militare indipendente del governo nazionalista e di fondare l’accademia militare di Whampoa, a una ventina di chilometri da Canton. Una delle sue principali funzioni sarebbe stata la formazione politica, tanto che i giovani radicali cinesi, coreani e del Sudest asiatico sgomitavano per essere ammessi. Canton, ora il centro ideale della nuova nazione, era un luogo di intense sperimentazioni sociali in nome dell’unità e del progresso, ed esportava nuove idee e pratiche: un faro per l’Asia libera4.

Mentre l’isola di Shamian, era posta al di là di un canale largo appena trenta metri e unita alla terra ferma da due ponti sigillati all’ingresso da filo spinato e sorvegliati rispettivamente da soldati sikh e vietnamiti.

In quell’avamposto dell’Occidente, costruito su un banco di sabbia artificiale di circa ventidue ettari nel cuore della città cinese, risiedevano cinquecento cittadini britannici, un centinaio di francesi e una manciata di tedeschi, americani e giapponesi. In seguito all’intervento anglo-francese in Cina del 1860, il porto di Canton, soggetto ai trattati di pace, era stato suddiviso in due concessioni extraterritoriali: una, che occupava i quattro quinti dell’isola, era amministrata dagli inglesi; l’altra, dai francesi. […] I piroscafi e le cannoniere europee ormeggiati al Bund – la banchina nella zona meridionale di Shamian – navigavano lungo il fiume delle Perle, una delle vie d’acqua interne più trafficate del mondo, affollata di sampan cinesi, giunche, enormi battelli a ruota a propulsione umana, case sull’acqua e flower boats, i leggendari bordelli galleggianti. A nord e a est, i due ponti collegavano Shamian alla vecchia periferia occidentale di Canton, con il suo labirinto di mercati e botteghe, abitata da oltre un milione di cinesi. Per questi ultimi l’isola era un luogo «quasi proibito»: per accedervi era necessario il permesso del consiglio cittadino di Shamian, che ne limitava comunque l’ingresso a zone ben precise, mai dopo mezzanotte, e beninteso con il divieto di calpestare i prati. [Motivo per cui] All’epoca Shamian era al centro di forti tensioni patriottiche ed era sostanzialmente sotto assedio. Come scrisse un giornalista locale: «Chiunque, a parte i collaborazionisti cinesi, mettendo piede su quest’isola segnata dal marchio dell’infamia sentirebbe il cuore accendersi di rabbia e disprezzo»5.

Ma fu proprio in quel contesto, ultra-sorvegliato e protetto, che il giovane Pham Hon Thai osò applicare il metodo indicato dall’anonimo libello indiano del 1913 citato in apertura di questa recensione.

Il 19 giugno 1924 sua eccellenza Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese, fece il suo ingresso in quella polveriera. Arrivò in serata da Hong Kong, dove aveva fatto tappa rientrando da una visita in Giappone e nel Nord della Cina, in tempo per partecipare a una cena nella concessione britannica di Shamian. Merlin apparteneva alla prima generazione di funzionari civili coloniali e aveva raggiunto l’attuale posizione dopo un turbolento periodo di servizio nei nuovi possedimenti francesi in Africa. Se all’inizio della carriera aveva sostenuto la politica di «associazione» con le élite native, i cosiddetti évolués, nel corso dell’ultimo incarico in Senegal aveva adottato la posizione opposta: gli évolués, ammoniva, erano déracinés («sradicati») ed era compito della Francia ripristinare la coesione sociale di fronte agli «appelli individualistici e alle promesse fallaci degli agitatori di professione». […] La cena, per una cinquantina di invitati, si tenne nel salone principale, con le grandi finestre aperte sulla strada. In occasione della visita, il governo di Canton aveva disposto un rigido sistema di sicurezza su entrambe le rive del canale. I due ponti di pietra che collegavano l’isola alla città erano chiusi e presidiati. Agenti di polizia, seppure non armati, pattugliavano le strade. Gli ospiti si sedettero a tavola alle 20:30; dieci minuti dopo, mentre veniva servita la minestra, un uomo «molto ben vestito» si affacciò a uno dei finestroni. Secondo un testimone oculare, si mise a osservare la tavolata «come farebbe chiunque, gentiluomo o coolie». Poi, tutto a un tratto, lanciò all’interno una ventiquattrore che finì dritta sul tavolo, mandando in frantumi piatti e bicchieri. Dopo qualche secondo la valigetta esplose. Il boato rimbombò per tutta l’isola6.

L’esplosione fece diversi morti e numerosi feriti tra i commensali, anche se non raggiunse l’obiettivo principale, ma con il suo fragore esplose nella via illuminando l’aria, proprio come la «bomba proletaria» cantata da Francesco Guccini quasi cinquant’anni dopo7. Innescando una serie di eventi che, nonostante la morte del giovane attentatore, inseguito e ferito dagli agenti e successivamente morto suicida, avrebbero scosso il continente dalla Cina all’Indocina francese.

Ma era stato già prima, al momento del coinvolgimento delle truppe coloniali nel primo conflitto mondiale, che l’antagonismo tra colonizzati e colonizzatori si era acuito. Come in quel lunedì 15 febbraio 1915, festa del Capodanno cinese, quando il 5º Fanteria Leggera indiano si ammutinò alla caserma Alexandra di Singapore. Il reggimento, composto interamente da truppe musulmane, era il pilastro della guarnigione dell’isola. Intorno alle 15:00 erano stati sparati dei colpi, quando i soldati avevano tagliato le linee telefoniche militari. Gli ufficiali britannici del reggimento erano fuori servizio, riposavano a casa o sulla spiaggia, e la notizia della rivolta tardò a diffondersi. Nessuno, a quanto pare, pensò di dirlo alla polizia. Così un gruppo di ribelli si diresse verso la Chinatown di Singapore, uccidendo i britannici incontrati lungo la strada. Altri si diressero verso una batteria vicina, presidiata da Sikh reclutati localmente dalle Guide degli Stati Malesi: uccisero l’ufficiale britannico e lanciarono le armi contro le Guide, ma la maggior parte di loro fuggì nella giungla vicina. La più numerosa e risoluta banda di ribelli si diresse a ovest verso il campo di Tanglin, dove erano detenuti 307 internati e prigionieri di guerra tedeschi, e offrì loro armi e libertà. Ma le gerarchie coloniali tennero: nelle parole riportate da un tenente di marina, “un ufficiale tedesco non combatte senza la sua uniforme o nelle file degli ammutinati”. Alcuni militari e alcuni uomini d’affari, tuttavia, colsero l’occasione per fuggire. Nei confusi combattimenti in tutta l’isola, 47 soldati e civili furono uccisi: cinque cinesi e malesi morirono, ma la maggior parte erano britannici, presi di mira sui campi da golf, in auto e in carrozze. Le loro donne e i loro bambini si ritirarono – “come le immagini cinematografiche dei profughi belgi” – sui piroscafi nel porto, provocando una brutta rissa razziale quando le donne eurasiatiche e altre donne asiatiche tentarono di unirsi a loro. Gli inglesi persero il controllo della loro fortezza sull’isola per due giorni e la fragilità di fondo della società coloniale fu messa a nudo8.

Ma non solo, poiché ancora una volta la rivolta contro la guerra e l’occupazione coloniale era partita proprio da coloro che avrebbero dovuto ubbidire agli ufficiali. Anticipazione non soltanto delle successive rivoluzioni asiatiche, ma anche delle insurrezioni nelle trincee europee del 1916 e 1917 che portarono in Russia alla Rivoluzione di Febbraio prima e a quell di Ottobre poi. E successivamente alla capitolazione tedesca dopo l’insurrezione dei soldati, dei marinai e degli operai nel 1918. Chiudendo idealmente un cerchio che ancora oggi ha qualcosa di importante da ricordarci e suggerirci. Come lo splendido testo di Harper riesce ancora a fare con qualsiasi lettore appassionato di rivoluzione e di avventura.


  1. Si vedano in proposito: P. I. Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024 e S. Moiso, Il Magister e il Capitano. Sogno e immaginario guerrigliero in S. Moiso, A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 119-138.  

  2. Per cogliere tutta la riflessione sul tema da parte di Emilio Quadrelli, si vedano: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa, in corso di pubblicazione su «Carmillaonline» e, ancora, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024 e, infine, sempre dello stesso, Cronache marsigliesi capitoli 7 e 8: la guerra civile in Francia, «Carmilaonline», 6 e 13 luglio 2023.  

  3. T. Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 21-22.  

  4. T. Harper. op. cit., p. 29.  

  5. Ibidem, pp. 27-28.  

  6. Ivi, pp. 30-31.  

  7. F. Guccini, La locomotiva, nell’album Radici del 1972.  

  8. Si veda in proposito proprio il capitolo 7, Navi fantasma (1915) in T. Harper, op. cit.  

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Uno spazio mitico antifascista e resistente https://www.carmillaonline.com/2023/12/19/uno-spazio-mitico-antifascista-e-resistente/ Tue, 19 Dec 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80452 di Paolo Lago

Marco Marmeggi, Il respiro del dinosauro. Fuga da Lipari, Giunti, Milano, 2023, pp. 252, euro 16,00.

L’isola, in letteratura, ha spesso assunto connotazioni utopistiche e fantastiche, anche in virtù di essere uno spazio nettamente separato dal resto del mondo: basti pensare all’isola di Circe del racconto omerico o a quella volante di Laputa, dove si reca il protagonista dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, episodio che ispirerà Hayao Miyazaki per un suo lungometraggio del 1986. Più di un secolo dopo, Guido Gozzano, in una poesia che a sua volta ispirerà Guccini per un suo album del 1970, [...]]]> di Paolo Lago

Marco Marmeggi, Il respiro del dinosauro. Fuga da Lipari, Giunti, Milano, 2023, pp. 252, euro 16,00.

L’isola, in letteratura, ha spesso assunto connotazioni utopistiche e fantastiche, anche in virtù di essere uno spazio nettamente separato dal resto del mondo: basti pensare all’isola di Circe del racconto omerico o a quella volante di Laputa, dove si reca il protagonista dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, episodio che ispirerà Hayao Miyazaki per un suo lungometraggio del 1986. Più di un secolo dopo, Guido Gozzano, in una poesia che a sua volta ispirerà Guccini per un suo album del 1970, canterà “l’Isola non trovata” che “si annuncia col profumo, come una cortigiana” e che “rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro, color di lontananza”. L’isola è però sia un’utopia che un’eterotopia, per usare un termine coniato da Michel Foucault: come già accennato, si tratta di uno spazio completamente separato da ciò che lo circonda, che vive di per sé, con regole proprie, regolato da un tempo che è diverso da quello ‘normale’ e quotidiano. Uno spazio circondato dal mare, un’azzurra distesa solcata dalle navi che, secondo il filosofo francese, sono altri esempi perfetti di eterotopie, scrigni di sogni e d’avventura che fanno varcare inesplorati confini all’immaginazione. Il mare affascina ma, fin dai tempi antichi, inquieta anche, e terribilmente, poiché è simbolo di perdita del sé e perfino di follia: è il “liquido grondante” – per citare ancora Foucault – che si oppone alla “rocciosa ragione”.

L’isola come eterotopia e come spazio utopico nonché il mare come “un territorio ingannevole e meraviglioso” li incontriamo nel recente romanzo di Marco Marmeggi, Il respiro del dinosauro. Fuga da Lipari. Negli ultimi momenti narrativi, il protagonista Michele, un bambino di dieci anni che vive a Lipari, riflette sulla spazialità dell’isola:

L’isola era una condizione geografica su cui non aveva mai riflettuto, ma, si accorse, aveva caratteristiche uniche che la rendevano qualcosa di diverso dai paesi della costa. Cercò la sintesi di quel pensiero e stabilì che il centro della questione fosse determinato proprio dal mare che lui amava tanto.
Un territorio ingannevole e meraviglioso. Definiva i confini con precisione, ma quella linea era così grande ed estesa da ingannare chiunque. Il mare illudeva di poter vedere lontano, ma in realtà costringeva la gente dell’isola a guardarsi le spalle, verso la terra, l’unica in grado di promettere qualcosa che loro potevano realizzare davvero.

Ma nel romanzo di Marmeggi c’è molto di più: lo spazio eterotopico dell’isola di Lipari si riveste di connotazioni resistenti perché la storia è ritagliata all’interno di un tempo storico ben preciso. Siamo nel 1929 e a Lipari si trovano confinati molti oppositori del regime fascista. Fra di essi c’è anche Emilio Lussu, chiamato nel romanzo “l’onorevole” o, dall’ottica di Michele, “il signor Emilio”, che sta progettando la sua rocambolesca fuga insieme ad altri antifascisti di spicco come Carlo Rosselli e Francesco Nitti. L’incontro con Lussu segnerà per sempre l’esistenza del piccolo protagonista che maturerà idee di libertà in netta opposizione con gli ideali e le violenze fasciste.

Se la figura del politico e intellettuale antifascista al confino ci può far venire in mente diverse opere della letteratura italiana del Dopoguerra (ricordiamo soltanto Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi), il romanzo di Marmeggi, come il mare che circonda l’isola, si apre però verso i liberi territori dell’immaginazione per cui l’Emilio Lussu che ci viene raccontato è sì il personaggio storico ma appare rivestito di connotazioni quasi fantastiche. Lussu e gli altri antifascisti confinati diventano il simbolo di un immaginario resistente che attraversa qualsiasi epoca storicamente definita. Si potrebbe pensare, allora, agli antifascisti confinati a Ventotene che ci racconta Wu Ming 1 in La macchina del vento (2019), in cui la spazialità dell’isola si trasforma in una vera e propria fantastica eterotopia di resistenza. La figura di Lussu, guardata dal piccolo Michele, assume quasi le connotazioni di un antico eroe, un coraggioso cavaliere che si batte per la libertà. E allora non può che trasformarsi in un esempio da seguire, tenace, saggio e coraggioso maestro di libertà. Infatti, il romanzo mette in scena una vera e propria formazione: Michele, grazie al “signor Emilio” e a Bruna, una ragazzina di Parma che si trova a Lipari perché figlia di un altro oppositore del regime, raggiunge una sua autonoma presa di coscienza chiaramente antifascista. Il respiro del dinosauro è perciò anche un romanzo da far leggere nelle scuole, capace di liberare un immaginario resistente più che mai necessario in questa contingenza sociale e politica in cui, dagli stessi detentori del potere, viene attaccata e stigmatizzata qualsiasi esistente e viva ‘diversità’ non conforme ad una presunta ed inesistente ‘italianità’.

La Lipari raccontata da Marmeggi assume perciò anche connotazioni utopistiche, come un territorio incantato. È lo spazio di sogno in cui un ragazzino compie le sue prime scoperte e comincia il suo difficile percorso di formazione. Ma se Arturo, il protagonista de L’isola di Arturo (1957) di Elsa Morante, vive in un mondo incantato dominato dalla figura di un padre che, in maniera deludente, non rispecchia le mitiche aspettative del suo sguardo fanciullo, Michele (forse allora più simile al Pin del Sentiero dei nidi di ragno di Calvino) è segnato dalla lontananza del padre, anch’egli antifascista, emigrato in Australia e, soprattutto, dalle figure del “signor Emilio” e di Bruna, nei confronti della quale prova un’attrazione alla quale cerca di dare il nome di amicizia. Sullo sfondo, Lipari è uno spazio al contempo ‘mitico’ e realistico: è mitico, perché nella magia dei suoi tramonti, nel freddo pungente di un inverno segnato addirittura da una nevicata, nelle sere d’estate sul mare e nel brullo entroterra, è reso appunto magico dallo sguardo sognante del protagonista, immerso in un’infanzia che si sta mutando in adolescenza; è realistico perché attraversato dalla violenza tangibile del regime, coi miliziani che fanno la guardia ai confinati che non sono poi tanto diversi dai detenuti (non dimentichiamo che lo stesso spazio isolano si configura allora anche come un carcere a cielo aperto), le violenze feroci e gratuite (come l’uccisione di un cane e il pestaggio del detenuto che di esso si prendeva cura), gli slogan urlati di una roboante e prepotente ideologia che trovano una sintesi perfetta nel personaggio di “Testa di Legno”, un bambino figlio di un personaggio di spicco del regime, raffigurazione del perfetto fascista in erba (un personaggio che inevitabilmente assume anche connotazioni buffe e ridicole).

Comunque, rispetto alle crude connotazioni realistiche, la Lipari del romanzo sembra attraversata da un alone di magia e di mistero, tanto più se pensiamo che nell’immaginazione di Michele assume le connotazioni di un gigantesco essere vivente, un enorme dinosauro appunto, di cui il personaggio riesce a percepire il “respiro”. L’isola, nel travestimento sognante attuato dallo sguardo di Michele, è anche il territorio fantastico dell’avventura poiché su di esso, forse, è nascosto il “tesoro della Bella Diana” che cercherà insieme a “Testa di Legno” e a un “bambino dalla maglietta bianca” il quale, proprio grazie a Michele, maturerà anch’egli un ideale antifascista. Lo sguardo dell’autore, allora, pare rivolto a un filone avventuroso che definire semplicemente ‘per ragazzi’ sarebbe un errore: mi riferisco in particolare all’Isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson.

Però, in fin dei conti, Michele si rende conto che “il tesoro della Bella Diana” è soltanto un inganno ben architettato nel quale può cascare solo un sempliciotto ottuso come “Testa di Legno”. Piuttosto che cercare il tesoro, allora, è ben più importante correre al porto, nella notte estiva, per aiutare il “signor Emilio” nel suo piano di fuga (i cui dettagli certamente qui non intendo svelare). Rispetto alla pura e fantasiosa utopia del tesoro, Michele sceglie un’altra utopia che ha radici ben solide e reali: la lotta e la resistenza al fascismo. Ed è così che matura e cresce la sua progressiva presa di coscienza: la Storia penetra nell’universo incantato del mito. Anche se Michele continuerà a vivere nello spazio utopistico e mitico dell’isola, sarà una vita segnata dalla consapevolezza e da un irrefrenabile desiderio di capire sé stesso e la realtà sociale e politica che lo circonda. Insieme ad un altrettanto irrefrenabile desiderio di libertà.

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Hard Rock Cafone #4 https://www.carmillaonline.com/2016/01/14/hard-rock-cafone-4/ Thu, 14 Jan 2016 20:00:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27782 di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo [...]]]> di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda
Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo in croce. Avevo anche difficoltà a considerarlo un grande poeta, James Douglas, specie se mi capitava di leggere versi come “Non si può camminare attraverso specchi o nuotare attraverso finestre” o di incappare in rifritture liriche da liceale in fregola con la tragedia greca. Ma vabbeh, problemi miei. Salvo che i Doors continuavano e continuano – in un eterno presente – a riproporsi come una volgare peperonata all’aglio per perseguitarmi senza tregua. Del resto abbiamo i Queen senza Freddie Mercury, i Lynyrd Skynyrd senza Ronnie Van Zant e, l’anno scorso, i Faces senza Rod Stewart (che è un po’ come se fosse morto). L’utilizzo redditizio del brand e la fame di nostalgia non hanno stoppato i componenti della band rimasti, gli eredi e i discografici, nonostante l’identificazione univoca del gruppo con il suo estinto membro (non uso il termine “membro” a caso). I Doors morrisonless decisero di continuare fin da subito, sfornando due dischi sicuramente sinceri ma francamente imbarazzanti. Non indecentissimi, sia chiaro, pure con qualche ideuzza, però schiacciati dal confronto monumentale coi precedenti in quartetto, peraltro non tutti eccelsi (penso a The Soft Parade, per dire), ma al Mito non si comanda. Passo indietro: il panzuto e barbuto Jim era a Parigi in fase bohème, stanco di rock e incapricciato come un quindicenne di scapigliatura a base di droga. Forse fatale, chissà. Frequentava Agnes Varda e da lontano Bernardo Bertolucci che stava colà concependo un ultimo tango. L’ultimo per Morrison fu il 3 luglio 1971: da 40 anni circolano diverse ipotesi, tra cui quella più probabile della “fine dell’aragosta”, per la quale il collasso decisivo in vasca fu dovuto a temperatura eccessiva dell’acqua. In USA si stava già lavoricchiando a un nuovo disco ma il poetastro, comprensibilmente, a quel punto non si fa più vivo e i superstiti attoniti reagiscono registrando furiosamente, tanto che a neanche tre mesi dalla morte dell’enfio bardo, nell’ottobre 1971, pubblicano Other Voices. Voci che però non beneficiano del classico “effetto salma fresca” che renderà felici gli eredi di Hendrix, Marley e Mercury: l’album si vende poco ma gli orfani dello sciamano hanno le idee chiare come Bersani quando parla a più di cinque persone e danno sfogo a ulteriori voglie canterine con Full Circle. L’ulteriore prova discografica bordeggia prog e jazz rock ed esce nell’estate ’72: è una fetecchia ma se ne accorgono di nuovo in pochi. Sinché nel 1978, pensa che ti ripensa, i tre non azzeccano la giusta trovata, “47 morto che parla”: si suona infatti musica soffusa intorno alla voce registrata di Jim che recita tronfie poesiuole. Ne viene fuori An American Prayer, questo sì vendutissimo e ispiratore di altre operazioni extracorporee, tipo il duetto di Natalie Cole col papà secco o i Beatles che accompagnano la voce effettata del trapassato Lennon in Free As A Bird. Bene, gli avanzi dei Doors si mettono finalmente il cuore e il portafogli in pace? Macché: nel 2002 Ray Manzarek, all’organetto Bontempi, e Robbie Krieger, alla chitarra, tornano in concerto coll’ex cantante dei tamarrissimi Cult, Ian Astbury. Il batterista John Densmore, offeso, li diffida e la faccenda finisce in tribunale. Ma anche se non possono usare più il nome Doors, Manzarek, Krieger e Astbury sono ancora in tour per la gioia dei necrofili. Tiè. (Dicembre 2011)

hrc402Crimini galattici: i Rockets
Erano anni strani, quelli sul finire dei Settanta: ricordo un sedicente Actarus cantare Ufo Robot (quella dove Goldrake si ciba di insalata di matematica, per intenderci) a Superclassifica Show, tra il Telegattone e Maurizio Seymandi. Quest’Actarus era vestito proprio come il cartone animato, con la faccia celata dall’elmetto, modo geniale per fare il playback senza neanche la fatica del lip synch. E la canzone era suonata da Ares Tavolazzi (ex Area, poi con Guccini e tanti altri) e il grande Vince Tempera, mica cazzetti… Anni strani che premiavano in classifica cose così. O come i Rockets, un gruppo di zarri francesi che, visto il successo planetario dei Kiss, si dovevano essere detti: e noi chi siamo, i figli della serva? Per il look si affidarono a costumi spaziali, make up argenteo, inquietanti pelate mussoliniane e chitarre dal design futuristico. La musica invece abbondava di voci filtrate su ritmiche sintetiche; ma c’era pure qualche retaggio space rock e pinkfloydiano. Risultato? Personalmente abominevole, ma di grande successo: pezzi ipnotici lunghissimi, nonché ottimi tappeti da remixare in discoteca. E del resto i Kiss stavano giungendo alle stesse conclusioni con I Was Made For Lovin’ You. Il tutto era venduto in album con immagini e lettering degne di un Urania d’accatto. Il gruppo fece il botto e sfido a trovare qualcuno della mia generazione che non abbia ballato Galactica mimando le movenze di un robot. Il fenomeno poi sfumò malinconicamente e cominciò a circolare l’inverificabile ma suggestiva notizia che i Rockets fossero scomparsi dalle scene vittime del make up tossico, storia che faceva il paio con quella di Daniela Goggi ferita dall’esplosione in faccia dall’enorme bolla rosa di un Big Bubble (che – sempre per rimanere in ambito di leggende – si diceva fossero prodotti con grasso di coda di topo). Comunque la memoria è una brutta bestia e i Rockets hanno continuato ad avere accesissimi fan anche qui da noi e basta vedere in Rete i siti meticolosi che gli sono dedicati. E per omaggiare questi strampalati eroi, Elio e le Storie Tese nel 1996 hanno pure vinto il Festival di Sanremo (vinto eccome, c’è una sentenza) presentandosi sul palco conciati come loro. Beh, se avete nostalgia anche voi, gratificatevi con l’oggetto volante non identificato arrivato nei negozi di dischi questo inverno: un lussuoso cofanettone con l’opera omnia di ‘sti pazzi, assolutamente galattico. (Ottobre 2008)

hrc403Lucio Battisti: Amore e non amore
Comodo parlare di Battisti solo nelle feste comandate, attingendo alle stesse bio e dicendo sempre le stesse cose. Voglio vedere chi ricorderà questo mese i quarant’anni di Amore e non amore, un album oscurato da ciò che Lucio avrebbe prodotto dopo, col genio cantautorale pop dei Settanta e l’ermetismo gelido e avantissimo degli Ottanta. Ma senza quel Battisti lì, no Vasco, no Liga, no Zucchero e potrei andare avanti, includendo tantissimi altri, dai vari finto-indie fino a Marco Mengoni. Perché lui, Lucio, in fondo all’animo, era uno hippie di Poggio Bustone che in tivù cantava a squarciagola Let the Sunshine In da Hair (e di cui qualcosa avrebbe ripreso in Due mondi, su Anima latina) o Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, e che nel piano quinquennale 69/74, assieme a Mogol, ha fatto tanto rock, anche hard, pure cafone, sempre bellissimo. Psichedelico con tocchi di Doors e Led Zeppelin (il triangolo alla Rashomon de Le tre verità), hendrixiano (Insieme a te sto bene), jammato con la futura PFM (Dio mio no, Supermarket), bluesato (Il tempo di morire) o metropolitano (la misconosciuta e bellissima Elena no). E al fido Alberto Radius ha prodotto pure un disco di session unico in questo paese poco ritmico e molto melodico. In Amore e non amore ci sono quattro brani più o meno canonici (oltre alle storte Dio mio no e Supermarket, il rock alla Little Richard di Se la mia pelle vuoi e il r&b di Una) e poi quattro composizioni di musica pura, orchestrale ed intrigante, cui Mogol ha messo il marchio con titoli narrativi, tipo Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore. 35 morti ai confini di Israele e Giordania. Sulla copertina agreste (cavallo e donna gnuda sullo sfondo) Lucio sfodera una tuba, dieci anni prima di Rino Gaetano e trenta prima di Capossela, ma è nella musica che trovate la modernità di questo capolavoro dimenticato. Comunque: gli hanno scassato la minchia perché era tirchio, per una foto negata o un autografo non firmato. E perché era sempre primo in classifica e perché lo volevano fascista, per quanto amico di Demetrio Stratos e di tutta l’Area musicale milanese sinistrorsa. Invece era un genio, magari burino e scontroso, ma un genio. Ho troppo poco spazio per dimostrarvelo, ma i dischi son lì, basta ascoltarli. Qualche critico, anni fa, non l’ha fatto e oggi lo dà per assodato, senza però sbattersi a capire perché o per ricordarvelo. Sciocco. (Luglio 2011)

hrc05Zio Ted
Ted Nugent, quale fantastico cialtrone! Chi vent’anni fa aveva vent’anni, se lo filò poco: in anni di cantautori impegnati e punk rockers nichilisti come dar retta all’istrionico chitarrista che si presentava a torso nudo sul palco, indossando pantacollant di lurex e coda di procione tra le chiappe? La sua chitarra macinava riff granitici urlacchiando dal Marshall a palla e l’ironia del Motor City Madman non era neanche vagamente considerata: per i giovani impegnati italiani quello era un’autentica bestemmia, un dannato yankee che professava il ritorno allo stato di natura, arrivava sul palco pendendo da una liana e predicando l’arte venatoria. Inoltre il nostro esibiva una capigliatura leonina, rifiutava droghe e alcol, si esibiva in pose machistiche trattando le donne (nelle canzoni e sulle copertine degli album) come minus habens in estatica adorazione e sfidava altri chitarristi in duelli che si concludevano immancabilmente con la sua vittoria. Il circo, né più né meno, e Nugent era il nuovo Buffalo Bill. Beh: passano gli anni, cadono gli steccati tra generi musicali, il metal si coniuga con il rap, si rimescola tutto, istanze poetiche e anche politiche: vuoi vedere che anche Nugent, con la maturità, è diventato potabile? Il recentissimo (e tutto sommato godibile) DVD Full Bluntal Nugity Live fuga ogni dubbio e speranza: il vecchio zio Ted non è cambiato per niente, anzi. Lo show parte con il nostro eroe a cavalcioni di un pacifico bisonte. Dopo aver liberato la scena dal ruminante bestione, Ted aizza la folla coi suoi proclami sulla natura virile del vero uomo nordamericano e si scatena massacrando il suo repertorio storico. Ma non è tutto: la mazzata finale arriva dal satellite. Su VH1 è in onda il reality show Surviving Nugent: sette partecipanti (apostrofati affettuosamente “monkey”) devono sopravvivere nel micidiale ranch Nugent vicino Detroit. Partecipano anche un vegetariano, un gay e una animalista, vittime predestinate dell’incorreggibile guitar man. Se però poi uno pensa ad Adriano Pappalardo sull’Isola dei famosi, conclude che, sì: in fondo il momento della rivalutazione di Ted Nugent è effettivamente arrivato, alla faccia del Guccini dei nostri vent’anni. Amen. (Gennaio 2004)

hrc04Lunga vita ai New Trolls
Non date retta a chi vi spaccia per dischi della vita quelli con protagonisti che hanno il solo merito di essersi accoppiati con una top model ed essere finiti in overdose, senza neanche il buon gusto di levarsi definitivamente di torno (siete voi che avete pensato a Pete Doherty, io non ho detto nulla). Il rock, quello buono, non ha età e capita che uno dei migliori dischi dell’anno venga da un gruppo con 40 anni di storia alle spalle, i New Trolls. L’impresa sembrava impossibile, ma i due leader storici Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi hanno messo da parte vecchie ruggini e battaglie giudiziarie risibili per l’utilizzo del nome del gruppo e si sono impegnati a scrivere il definitivo Concerto grosso, erede dei primi due usciti negli anni Settanta. The Seven Season è il perfetto connubio di sapori antichi e sonorità moderne, con l’orchestra barocca diretta dal violoncellista hard Stefano Cabrera che accompagna, contrasta o risponde a un esuberante sestetto rock. Il risultato finale è una goduria e si sente che hanno lavorato “con lentezza” e grazie all’amore certosino dei produttori Iaia De Capitani e Franz Di Cioccio (instancabile, appena festeggiati i 35 anni della PFM ha anche licenziato un album degli Slow Feet, proprio con De Scalzi). Certo, io sarò parziale, ma non posso farci niente: se cresci ascoltando sul paterno vinile originale Nella sala vuota, improvvisazioni dei New Trolls registrate in diretta rimani indelebilmente segnato (era l’intero secondo lato del primo storico Concerto Grosso, scritto e diretto da Luis Enriquéz Bacalov). E poteva anche andarmi peggio perché mio padre aveva pure un Lp di Stephen Schlacks (a sua discolpa, era un regalo). Comunque oggi Vittorio e Nico sono in gran forma: li incontro e mi ricordano quando al Vigorelli nel 1971, prima che coi Led Zeppelin andasse tutto in vacca, presero i complimenti di Jimmy Page. E non solo: hanno suonato coi Rolling Stones, Nina Simone, Stevie Wonder e Fabrizio De André, hanno scritto pezzi commoventi come Una miniera, hanno sperimentato tempi dispari e voci alla Bee Gees, partecipando pure al film Terzo canale, un misconosciuto gioiello cinematografico flower-pop italiano: sono la nostra storia, insomma, e se quest’estate ve li siete persi dal vivo, è in uscita un Dvd registrato con orchestra a Trieste che documenta il tour che li ha portati in Messico, Giappone e Corea, con scene di tripudio imbarazzanti. Che dire d’altro? Questi ragazzacci che non vogliono smettere hanno un solo difetto: sono genovesi e tifano per una squadra di Sampierdarena. Ma tutto tutto non si può pretendere, no? (Dicembre 2007)

hrc06Il blues cacirro di Eric Sardinas
Pistoia Blues 2004. Metà pomeriggio della seconda giornata; sale sul palco tale Eric Sardinas e sembra un incrocio tra uno zombie, un cowboy e Slash. Primi mugugni nel selezionato pubblico di puristi cagacazzo che ricordano ancora la prima volta che hanno visto Mayall e sembrano non essersi ripresi, tanto da non tollerare alcuna innovazione. Dopo qualche minuto – in cui il suddetto Eric maltratta un dobro ricavandone note lancinanti e urla ferine, autentiche coltellate nella carne viva del blues – i cagacazzo cominciano ad interessarsi sinché si arriva in un amen alla chitarra flambée, trovata scenica sempre apprezzata, specie se la chitarra viene spenta e suonata ancora (è in metallo, non brucia. Scotta però) in un finale in tutti sensi incandescente. Pubblico conquistato. Bene, questo bel figuro lo incontro in una seratina gelida di marzo a Trezzo sull’Adda, nel nuovo locale Live che se ancora non l’avete visitato, merita: è una splendida roadhouse pensata per la musica da gente che la musica la ama e lotta in questo paese di caproni dove se dici “melodia” la gente pensa alla suoneria del telefonino. Con Eric chiacchiero amabilmente di blues, genere dato sempre per morto, relegato a bettole fumose eppure sempre pronto a rinascere. Negli ultimi anni lo han rivitalizzato il debordante Popa Chubby, i crudissimi Black Keys e anche i nostrani adorabili Bud Spencer Blues Explosion si son dati da fare. Sardinas, con stivale a punta, cappellaccio, boccoli neri e pizzetto luciferino, rinverdisce il mito dell’indimenticato John Campbell ed è l’ultimo erede della nobile arte dello scorticamento chitarristico tramite slide. Nei camerini il giovane è tranquillo, pacioso, sorridente, ma sul palco si trasforma in una belva e soggioga il pubblico dopo poche note, con un boogie blues urlato, demoniaco nell’inneggiare ad alcol e donne: un invito al deboscio generalizzato, col ghigno perverso e l’esagerazione istrionica di uno Screamin’ Jay Hawkins. Sponsorizzato da Steve Vai, Sardinas ricorda proprio il guitar hero come appariva nella fetenzia di film che era Crossroads, con l’incedere da sbulaccone e la chitarra puntata come un mitra. Torna da ‘ste parti a fine giugno al Torrita Blues festival e a Treviso e non me lo lascerei scappare: quando il blues torna alla sua verità nuda e cruda e viene giù come la grandine, ci fa dimenticare bluff come John Mayer – per dirne uno, presto scomparso – annebbiato da troppi soldi e showbiz. (Maggio 2010)

UNSPECIFIED - MARCH 01: Photo of DEEP PURPLE and Ritchie BLACKMORE; Guitarist with Deep Purple, smashing guitar against speakers on US tour, (Photo by Fin Costello/Redferns)Fumo sull’acqua e altre storie
Montreux è una ridente località elvetica, sul lago di Ginevra. Ha 22mila abitanti, è chiaramente ordinata e pulita e sulla passeggiata del lungolago è esposta una mostruosa statua di Freddie Mercury nano con a contorno una cafonissima scritta in metallo sbalzato lunga dieci metri: “Smoke on the Water”. Infatti nel dicembre 1971 i Deep Purple erano lì per registrare l’album capolavoro Machine Head, ma un petardo lanciato durante un concerto al casinò delle Mothers di Frank Zappa ridusse il locale in cenere. Smoke on the Water racconta con asciutto lirismo i fatti pari pari e venne inserita nell’album senza convinzione. Nessuno prevedeva il futuro da riff universale per qualunque aspirante chitarrista. Né, tantomeno, che sarebbe diventata la sigla di Lucignolo, il buco del culo di Italia1. Montreux, comunque, ospita da quarant’anni un jazz festival molto rock & roll e recentemente il patron Claude Nobs (il “funky Claude” citato nella suddetta Smoke) ha cominciato a licenziare in Dvd i concerti che hanno fatto la storia di questa manifestazione. Come quello appena uscito in cui i Deep Purple festeggiano i 25 anni del loro inno. Un Dvd splendido che fa finalmente giustizia, giacché i nostri hanno sempre avuto un rapporto bestiale con le immagini: hanno cominciato nel 1968, in tour in USA, finendo a esibirsi al Gioco delle coppie, giuro. In Rete una volta ho trovato poi un’altra apparizione televisiva incredibile, con Blackmore che, in playback, fingeva ostentatamente di suonare la chitarra sul legno, tenendola al contrario, con le corde sulla pancia. Ma la migliore Ritchie se l’era tenuta per la California Jam del 1974, concerto con mezzo milione di presenti e un cameraman un po’ invasivo. L’uomo in nero decise di saggiare la resistenza della telecamera e voi – in immagini ormai storiche – potete vedere in soggettiva l’effetto che fa il manico di una Strato dentro un obbiettivo. Poi anni di videoclip che facevano letteralmente cagare hanno portato i Deep Purple alla drastica decisione di affidarsi solo a riprese live e non sapere se l’imprevedibile Blackmore avrebbe tirato un gavettone o fatto un assolo rendeva ogni ripresa più saporita. L’ultimo scazzo con un cameraman è del 1993, quando il chitarrista lanciò bicchierate di birra e abbandonò il palco imbufalito. Da allora la frattura col gruppo è diventata insanabile: Blackmore si è felicemente smarrito in una fiaba dei fratelli Grimm e ha preteso che i superstiti non usassero la sua immagine nel merchandising. Fino alla prossima reunion, si spera. (Agosto 2007)

(Continua – 4)

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