Francesco Festa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dal letame nascono i fior: storie che fanno la Storia https://www.carmillaonline.com/2024/11/04/dal-letame-nascono-i-fior-storie-che-fanno-la-storia/ Mon, 04 Nov 2024 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85213 di Francesco Festa

Carlo Greppi, storie che non fanno la Storia, Laterza, Bari-Roma, 2024, pp. 116, € 14.00

Ha senso parlare di storia dal “basso” o di storia di persone comuni? I vinti, gli ultimi, i «dannati della terra», per dirla con Frantz Fanon, possono avere cenno in un libro di storia? Per meglio dire: i senza nome e i senza volto, gli uomini e le donne delle classi “inferiori” possono trovare menzione nei libri di storia alla pari dei protagonisti ufficiali della Storia? La Storia è una materia assai strana: le conversazioni pubbliche spesso tendono a trattare temi storici infarcendoli [...]]]> di Francesco Festa

Carlo Greppi, storie che non fanno la Storia, Laterza, Bari-Roma, 2024, pp. 116, € 14.00

Ha senso parlare di storia dal “basso” o di storia di persone comuni? I vinti, gli ultimi, i «dannati della terra», per dirla con Frantz Fanon, possono avere cenno in un libro di storia? Per meglio dire: i senza nome e i senza volto, gli uomini e le donne delle classi “inferiori” possono trovare menzione nei libri di storia alla pari dei protagonisti ufficiali della Storia?
La Storia è una materia assai strana: le conversazioni pubbliche spesso tendono a trattare temi storici infarcendoli di luoghi comuni, di miti popolari e giornalistici; ed è anche la materia con meno fondi di ricerca universitari proprio col fine di mantenerne i temi nell’incertezza e appannaggio delle vulgate – mentre nel mondo anglosassone proprio le discipline storiche sono tenute in grande considerazione, in particolare nei dipartimenti di italianistica. In questa ambivalenza è facile scivolare nell’uso pubblico di categorie e slogan pregni di immagini, stereotipi, metafore e messaggi che sono materia per la “cultura di destra”, come ha mostrato Furio Jesi, e che sono argomenti per i partiti, le formazioni di destra, di governo e neofascisti, così come, in una corsa al massacro, argomenti della sinistra social-democratica.

D’altronde la conoscenza storica si differenzia dalle scienze naturali per il suo orientamento verso l’individualità in luogo della generalità; in altri termini, lo storico coltiva la consapevolezza degli avvenimenti al fine di vivificarli e di azzerare la distanza tra la cronaca (historia rerum gestarum) e la Storia (historia res gestae), e rendendo quest’ultima sempre contemporanea. Ciò nonostante la Storia – con la maiuscola, e non è un vezzo ma un valore distintivo – viene narrata dai vincitori e scritta dagli intellettuali espressione delle classi dominanti, i “mediatori” come li definiva Gramsci fra le classi subalterne e la borghesia. E non a caso, la Storia divulgata dai programmi ministeriali, nei libri di scuola, oppure quella su cui vengono stampate pagine e pagine di libri per riempire vetrine natalizie o impilate agli ingressi degli Autogrill, fra un noir, un peluche e un dopobarba, sono saggi di storia politica e sociale su personaggi arcinoti, i “grandi uomini” che hanno fatto la Storia. In realtà non è proprio così.

I nomi sconosciuti, il “signor nessuno” o la “signora nessuno”, gli episodi marginali sono il tessuto connettivo sul quale si innestano i grandi avvenimenti. È la “gente comune”, di cui non se ne parla, che ha un ruolo fondamentale nella Storia. Certo, avverte Carlo Ginzburg in Il formaggio e i vermi, quando ci si proponga di studiare la cultura popolare, occorre mettere in conto che essa è una «cultura imposta alle classi popolari». Ciò nondimeno, come soddisfare la curiosità di conoscere non tanto la storia dei Mazzini, dei Garibaldi o dei nomi dei monumenti e delle strade famose, o le gesta dei re, ma le storie minori, rispondendo alla domanda del «lettore operaio» di Brecht, «Chi costruì le sette porte di Tebe?»

Con queste domande, apparentemente insondabili, eppure profondamente affascinanti e più diffuse di quanto si immagini, che vale la pena di leggere il libro di Carlo Greppi, storie che non fanno la Storia. Il titolo è un ribaltamento delle intenzioni dell’autore: leggere i molteplici modi tramite i quali lo storico distante dalle vulgate ufficiali e accademiche, con uno sguardo critico, cerchi di umanizzare la Storia, ossia, di parlare delle storie vive, di persone ordinarie che hanno fatto la Storia.
Il libro si presenta come una sorta di manuale di metodologia storica, introducendo il lettore nello studio dello storico, fra carte, libri, fonti, mappe concettuali, tutto ciò che vada vagliato per ricostruire percorsi e gesta di gente comune – anche Greppi ha così titolato un libro del 2016, Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile – nel rapporto con le più generali e note vicende storiche, ossia, nel tentativo di spostare di lato i personaggi ingombranti che oscurano la vista alle persone comuni che hanno realmente prodotto quelle storie, eppure non sono menzionati, né riconosciuti come gli artefici.

La ricerca storica scava, indaga, spolvera, interroga; ripropone a chi è vivo oggi storie di chi ha vissuto ieri: vecchie conoscenze sedimentate e inediti percorsi, di norma anche grazie alla scoperta di nuove fonti, su vicende che qualcuno, per forza di cose, in passato deve avere conosciuto. Fosse anche solo la comunità umana di riferimento – la famiglia, il quartiere, il paese – del “signor nessuno” o della “signora nessuno.” (p. 16)

A dir il vero la storiografia italiana è ancora ostaggio dello storicismo di scuola crociana e gentiliana, nell’accademia in particolar modo e, di riflesso, negli apparati ministeriali ed istituzionali, così come nella redazione dei libri di testo e nei programmi d’insegnamento. È dunque impensabile che una «storia dal basso» possa avere cittadinanza in tale contesto storico-politico; d’altro canto le discipline storiche sono un termometro dello stato di salute di un paese: riflettono i rapporti di forza nella società, la composizione di classe e dei rapporti di produzione, delle posizioni politiche e delle idee maggiormente diffuse. Il modo in cui viene narrata la storia passata al presente è la cifra della condizione di una società. Ciò detto la gente comune non può avere spazio, oggi come oggi, nei programmi e nella pubblicistica a patto che non se ne faccia battaglia culturale e politica.

Vi è poi un aspetto ermeneutico da considerare: la storia della gente comune non rientra nei piani teleologici di una Storia volta verso il progresso, come una freccia proiettata verso l’alto, verso il miglioramento continuo. A ben vedere è il contrario. Il Novecento o anche gli avvenimenti a noi più prossimi mostrano come la Storia sia frammentaria, discontinua, per dirla con Walter Benjamin, composta di rotture radicali, e le civiltà non siano affatto proiettate verso il miglioramento: il progresso è un mito. Questa, in realtà, è la biografia del capitalismo: la Storia volta verso il regresso e l’estinzione. Altro che Storia giunta alla fine, com’ebbe a dire il politologo neoliberista Francis Fukuyama, quale vittoria del capitalismo sul comunismo, dell’individualismo sulla società, con la celebrazione del self-made man, della proprietà privata, del modello statunitense e della democrazia neoliberista. Forse quella di Fukuyama è stata la previsione della fine, il capolinea del sistema-mondo capitalistico.

L’incubo sociale è la guerra mondiale ormai imminente, ma invero la guerra permanente non ha mai abbandonato la storia contemporanea: le Twin Towers, l’invasione dell’Afghanistan sono state il superamento della soglia, anche se la soglia è stata violata ripetutamente con le guerre in Iraq e la guerra latente all’“orientalismo”, come denunciato alla fine degli anni Settanta da Edward Said, mostrandone il dispositivo alla base delle persecuzioni contro il popolo palestinese e, complessivamente, contro la diversità e la differenza. Certo va anche detto che tali avvenimenti sono narrati attraverso l’uso di svariati mezzi di comunicazione: in particolare, con la diffusione delle serie televisive si sono moltiplicate le fiction su personaggi storici, più o meno noti, ma quasi sempre integrabili nel mainstream e mai fuori l’ordine del discorso. Così le storie ricostruite nelle serie della Rai sono edulcorate, annacquate, biografie di personaggi popolari, di “grandi” politici il cui effetto è una sorta di distrazione se non di detournement o di straniamento dalla realtà. Un po’ meno, va detto, nelle fiction di Netflix e di altre Pay Tv, dove ad esempio avvenimenti degli anni Settanta e Ottanta su organizzazioni extraparlamentari, casi giudiziari, e tanto altro ancora, sono narrati dal “basso”; il che è anche l’esito della diffusione di romanzi e racconti definiti da Wu Ming 1 New Italian Epic, ossia, quel particolare tipo di narrativa metastorica con tratti peculiari derivanti dal contesto italiano di fine e inizio secolo e millennio.

Tuttavia Greppi definisce un discrimine nel suo parlare di uomini ordinari e di donne ordinarie, un fattore che li faccia uscire dall’anonimato: la capacità di ricostruire il vissuto di coloro che hanno avuto una funzione sociale e politica peculiari vicende storiche. Il che richiede di coltivare un punto di vista definito, di parte, politico.

Se la storia si prende cura innanzitutto dei vivi – osserva Greppi – suggerendo loro cosa è degno di essere ricordato e in che modo, chi se ne occupa deve essere il più possibile consapevole del fatto che il suo lavoro ha anche una funzione politica, in senso esteso. Non è un caso che, in scia al celebre invito di Benjamin a “passare a contrappelo la storia”, l’ondata di interesse di storici e storiche per il “basso” impennatasi in particolare nell’ultimo terzo del Novecento ha avuto proprio delle motivazioni, anche esplicitamente, politiche. (p. 91)

In tal senso i postcolonial studies e i subaltern studies hanno contribuito profondamente a decostruire il pensiero occidentale e le grandi narrazioni, ossigenando la Storia tramite l’introduzione di piccole storie, come avverte la scrittrice indiana Arundhati Roy nel suo romanzo postcoloniale, Il dio delle piccole cose. Oppure come si chiede la filosofa anglo-indiana, Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subaltern Speak? Un processo di decostruzione che ha minato le basi dell’eurocentrismo, anzi, prova a «provincializzare l’Europa», a partire dall’analisi della condizione del subalterno nella concezione gramsciana di Storia: fronteggiare la frammentarietà dell’organizzazione sociale e politica dei subalterni e contenere l’assoggettamento culturale all’egemonia dei ceti intellettuali quali mediatori della borghesia proprietaria.

Il libro di Greppi ci invita sì ad umanizzare la storia, ma ci chiede anche di prendere posizione, consci che parlare dei vinti anziché dei vincitori, delle persone in carne e ossa, dei lavoratori e dei subalterni è anche e soprattutto una lotta politica che chiama in causa i movimenti sociali e di classe. Senza una presenza politica di tale spessore – e numerica e di idee – tale invito diventa testimoniale, parziale e di nicchia.
In ultimo un ricordo personale. Nel leggere storie che non fanno la Storia ho pensato a un episodio in cui mi sono imbattuto durante la ricerca sulla storia del terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980, raccolto nell’introduzione al secondo volume, Gli autonomi. Storia dell’Autonomia operaia meridionale, che ho curato con Antonio Bove per i tipi di Derive Approdi. L’episodio narra di un contadino, un “povero Cristo”, che aveva perso tutto e che con un gesto tanto inconsulto quanto concreto cercò di attivare l’attenzione e, chissà, smuovere la coscienza del Presidente della Repubblica italiana. Ne riporto integralmente il testo che rende testimonianza più di tante parole.

Raccontano che il 24 novembre ‘80 il presidente Sandro Pertini, in visita ai paesi terremotati dell’Irpinia sia stato colpito da una pietra lanciata da un uomo di Laviano. Chissà cosa gli sarà passato per la testa, a quell’uomo. Sarà stato un turbinio di emozioni ad armarne il braccio, la rabbia mista a disperazione e sconforto dinanzi alle macerie. Il bersaglio di quella pietra era preciso, però, non solo un lancio disperato e liberatorio ma un atto consapevole contro «lo stato di cose presente». Quello stato di cose che non è il frutto di una catastrofe inaspettata ma il prodotto di una stratificazione di colpe e di assenze che hanno fatto da contorno a quell’evento epocale e sconvolgente. Quella pietra era scagliata contro un’entità assente e lontana ma responsabile: lo Stato italiano. Avrà pensato, l’uomo con la pietra, che proprio l’entità rappresentata da quell’uomo con la pipa e non la catastrofe improvvisa, era colpevole, a distanza di un secolo dall’unificazione, della povertà di quelle “terre dell’osso” e di riflesso di tutto il Meridione, tradotto nella «modernità» ma tenuto ai suoi margini, dentro quel processo chiamato “boom economico” che ha solo lambito il Sud, giunto nell’entroterra tramite la radio e la televisione in bianco e nero, e alle volte grazie ai racconti e, soprattutto, alle rimesse degli emigranti, che come una sorta di welfare familistico ha permesso di fronteggiare miseria e inedia. Delle promesse di progresso e ricchezza nemmeno l’ombra. Avrà pensato a tutte queste cose, l’uomo con la pietra.

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Nazioni in cerca di Stato https://www.carmillaonline.com/2024/08/05/nazioni-in-cerca-di-stato/ Mon, 05 Aug 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83839 di Francesco Festa

Paolo Perri, Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale, prefazione di Michel Huysseune, Donzelli, Roma, 2023, pp. 258, € 28.00

Il 30 maggio scorso la camera bassa del parlamento spagnolo ha approvato una legge di amnistia per gli indipendentisti catalani, una misura controversa fortemente voluta dal governo di Pedro Sánchez per mettere fine a una stagione di conflitti sociali in una regione trainante d’Europa. In realtà a cinque anni di distanza dalle giornate autunnali del dormiente eppur mai sopito indipendentismo catalano, molte cose sono cambiate. Tutti i protagonisti di quegli eventi – [...]]]> di Francesco Festa

Paolo Perri, Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale, prefazione di Michel Huysseune, Donzelli, Roma, 2023, pp. 258, € 28.00

Il 30 maggio scorso la camera bassa del parlamento spagnolo ha approvato una legge di amnistia per gli indipendentisti catalani, una misura controversa fortemente voluta dal governo di Pedro Sánchez per mettere fine a una stagione di conflitti sociali in una regione trainante d’Europa.
In realtà a cinque anni di distanza dalle giornate autunnali del dormiente eppur mai sopito indipendentismo catalano, molte cose sono cambiate. Tutti i protagonisti di quegli eventi – e dalla parte spagnola e dalla parte indipendentista – non ricoprono più incarichi di rilievo, e a quell’atteggiamento oltranzista si sono sostituiti tentativi di negoziato, benché incompiuti e per ora piuttosto timidi. Anche se la parola fine per l’indipendentismo se non per il nazionalismo è un eufemismo. Sotto traccia questi fenomeni persistono, covano, e all’occorrenza riesplodono. E lo sanno bene i due partiti indipendentisti catalani, Junts ed Esquerra, ché dopo l’approvazione hanno avvertito: “no acaba nada”. L’amnistia non segna la fine della lotta per la Catalogna libera, il prossimo obiettivo è il referendum per l’indipendenza.

Riportiamo la memoria all’autunno del 2017, e non in una regione periferica, bensì in una fra le regioni economicamente più avanzate dell’Europa, locomotiva della produzione estrattiva, chimica e farmaceutica, dove i catalani hanno toccato con mano la possibilità di costituirsi in Stato indipendente. Difatti, da una parte hanno concretamente minato l’integrità territoriale della Spagna, dall’altra hanno dato seguito politico al desiderio sui generis, stratificato nella storia, proclamandosi per poche ore Stato autonomo e indipendente, a seguito dell’esito positivo del referendum. Le cose non sono andate proprio così, in maniera lineare o pacifica, anzi, la legge e la repressione hanno posto fine manu militare a tale processo. D’altronde ogni qualvolta la sovranità territoriale è minata, e quel principio politico a fondamento dello Stato, secondo il quale l’unità politica e quella nazionale debbano coincidere – come segnalato da Ernest Gellner – viene messo in discussione, allora, il Leviatano mette in campo tutta la propria forza militare.

Di contro, le “comunità in cerca di Stato” rispondono, non retrocedono, ma continuano sotterraneamente a scavare, si organizzano e, al momento opportuno, si sollevano, cercando di far coincidere i processi di costruzione politica della propria identità statale (state-building) con quelli d’identità nazionale (nation-building). E si badi: l’identità nazionale è sempre in fase più avanzata rispetto al potere costituito, poiché essa rinvia alla scrittura e alla riscrittura dei processi storici. In altre parole, l’identità nazionale quale fondamento della legittimità politica dello Stato è immanente alla storia e alla cultura di una comunità rispetto allo Stato che invece è esterno, trascendente, estraneo.

In realtà il nazionalismo riemerso in Catalogna, a richiamo di quello scozzese di qualche anno prima – con la vittoria del “No” (55,30%) alla separazione dal Regno Unito – è un fenomeno consustanziale alla forma politica degli stati moderni, dalla fine del Settecento, con una diffusione nell’Ottocento, e l’esplosione ideologica e organizzativa durante il Novecento. Ma le cui radici allignano nella storia di una regione o di una comunità, nelle stratificazioni di racconti e di miti costruiti e ricostruiti dai processi discorsivi e mitopoietici, ossia dalla creazione collettiva di miti, racconti o storie strettamente vincolate a quella comunità. Emile Durkheim diceva infatti che i miti hanno il compito di dare coesione alle collettività umane attraverso la creazione di un linguaggio comune per nominare le cose e i comportamenti. Furio Jesi individuava nel mito la facoltà di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un “eterno presente”. Insomma, il nazionalismo si nutre di un eterno presente per animare i cittadini, da cui attingere a seconda degli usi politici. Ernesto Laclau lo avrebbe chiamato “significante vuoto”, un concetto discorsivo aduso per tutte le formazioni politiche, camaleontico nel trasformarsi in base alle esigenze e agli interessi politici ed economico-sociali.

Di per sé è un “fenomeno politicamente magmatico”, con dei rimandi epici al mito di Proteo, vecchio dio del mare dell’Odissea, quella divinità omerica in grado di cambiare forma e aspetto a seconda delle circostanze, e che ci offre una suggestiva esemplificazione dell’oggetto di questo libro. Un esempio letterario con cui Paolo Perri, in Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale introduce il campo di studio e cerca di mettere in guardia il lettore da facili semplificazioni o da analisi politiche in cui si potrebbe incappare cercando di tradurre quel fenomeno in rivendicazioni localistiche o provincialistiche tipicamente nostrane. Il nazionalismo è una “categoria ribelle alla conoscenza scientifica” – avverte Perri – negli studi storici, sociologici e politologici, questo fenomeno è assai sfuggente all’inquadramento in apparati ideologici o a modelli universali, poiché i movimenti nazionalisti abbracciano orientamenti ideologici differenti, contraddicendo proprio quelle teorie che hanno presentato questi fenomeni come non ideologici, post-ideologici o di orientamento prevalentemente conservatore.

Perri cerca di inquadrare la categoria, riconoscendone la complessità come fattore costitutivo dei movimenti stessi, evitando così metodi e schemi troppo rigidi, pena la difficoltà di leggerne le differenze da movimento a movimento, da regione a regione. Egli adopera, infatti, un approccio multidimensionale e multidisciplinare, e da storico rafforza la ricerca consultando una mole di documenti di prima mano in archivi di mezza Europa, per indagare con metodo comparativo “origini, caratteri, trasformazioni e persistenze dei nazionalismi sub-statali all’interno di quattro diversi stati dell’Europa occidentale: Francia, Belgio, Gran Bretagna e Spagna”. Nello specifico, riguardano le seguenti regioni: Bretagna, Corsica, Fiandre, Vallonia, Galles, Irlanda, Scozia, Catalogna, Galizia, Paesi Baschi.

La versatilità del concetto si riflette proprio nella “babele terminologica” generata dal nazionalismo, in cui l’autore cerca di districarsi ricorrendo, invece, a categorie come “nazioni senza stato”, “nazionalismi periferici”, “nazionalismo sub-statale”. Altro dato che ne dimostra la camaleonticità è “la capacità dei movimenti nazionalisti di abbracciare orientamenti ideologici differenti, contraddicendo quelle teorie che hanno presentato questi fenomeni come non ideologici, post-ideologici o di orientamento prevalentemente conservatore” (p. 233). Le differenti posizioni, talvolta, riflettono le fratture e le contraddizioni (cleveages) presenti nei rapporti sociali se non nella composizione di classe, vale a dire, centro/periferia, stato/chiesa, città/campagna, capitale/lavoro, sennonché in contesti di composizione operaia o post-operaia questi fenomeni assumono connotati di classe se non di sinistra; in altri casi, dov’è maggiore la concentrazione finanziaria i partiti o le organizzazioni indipendentiste si spostano al centro o a destra. Un caso esemplare è la Galizia, dove vi sono partiti “nazionalisti” situati lungo tutto l’arco politico parlamentare.

Interessante è soffermarsi ancora sulla costruzione dell’identità e, di contro, i processi di centralizzazione od omogeneizzazione politico culturale messe in atto dagli stati-nazione. La domanda che Perri pone è come fanno “i movimenti nazionalisti a capitalizzare politicamente gli elementi identitari?” Considerando che “l’identità nazionale non [possa] essere creata del tutto ex nihilo dagli intellettuali nazionalisti, ma deve necessariamente poggiare su sentimenti, valori e identità pre-esistenti […] come memorie condivise, la lingua la religione, i costumi, il folklore, le antiche istituzioni locali e le leggi tradizionali.” (p. 21). Egli adopera uno schema composto di tre fasi di sviluppo: la prima di carattere intellettuale, in cui una ristretta cerchia di studiosi si concentrano sulla storia, la lingua, la letteratura, i miti e le tradizioni di una comunità, al fine di porre delle basi comuni; la seconda vede l’emergere di élites politiche che “reclamano la formazione di un nuovo stato per diventarne classe dirigente; mentre nella terza, il nazionalismo “acquisisce finalmente una dimensione di massa, realizzando i propri obiettivi o innescando dei veri e propri conflitti con lo stato centrale.” (p. 22)

In generale, durante il processo di formazione degli stati moderni, il ricorrere alla leva indipendentistica riflette le fratture economico-sociali che genera il capitalismo, a seconda delle sue fasi di accumulazione. Nell’Ottocento, le rivendicazioni erano figlie dei processi di industrializzazione e di accumulazione originaria, di talune regioni rispetto ad altre. Fra le due guerre del secolo scorso, i nazionalismi ebbero la vera svolta come ideologizzazione, a seconda delle posizioni – quelle nazifasciste, ma anche quelle di matrice socialista e comunista, si pensi al libro Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in cui Lenin descriveva il processo di differenziazione e valorizzazione dei molti gruppi etnici presenti nell’Unione delle Repubbliche Sovietiche, ove tramite repubbliche e sub-repubbliche venivano garantite le etnie non russe, nelle forme di autonomia e protezione dalla dominazione centralizzante; mutatis mutandis, Josip Tito in Jugoslavia prese ispirazione da tale modello.

Nel corso del Novecento, le lotte di liberazione e il decolonialismo, diede nuova linfa ai partiti e alle organizzazioni indipendentistiche, talvolta organizzando i conflitti sociali in forme di lotta armata e clandestina; e talvolta sfruttando gli equilibri della guerra fredda. Venuta meno questa, la stessa lotta è andata tramutandosi in organizzazione del conflitto nelle forme istituzionali ed elettorali, senza trascurare la possibilità di tornare a battere le strade della lotta e della guerriglia urbana, come spesso accade in forme circoscritte eppur persistenti a Belfast, nei Paesi Baschi e in Corsica. Con gli anni Duemila le scienze sociali iniziano a interrogarsi sulla capacità delle identità storico-culturali territorialmente radicate alle comunità, di sopravvivere alle sfide della globalizzazione neoliberista, alle relazioni liquide e precarie, ai rapporti produttivi e logistici a-territoriali, inseriti in un “villaggio globale”.

Dinanzi a questi presagi le “nazioni senza stato” hanno resistito, soprattutto quando le crisi finanziarie del 2007-08 hanno minato le solide basi del neoliberismo e lo spazio europeo, non solamente quello istituzionale, ha offerto visibilità politica alle rivendicazioni dei nazionalismi periferici.
Il fenomeno studiato con estrema profondità in Nazioni in cerca di Stato fa della complessità una caratteristica sia nelle forme organizzative, se non talvolta ideologiche, sia nell’importanza di rappresentare una variabile intra-nazionale con cui i movimenti e la classe politica devono fare i conti, poiché è quella leva che, trascurata, rischia di sorprendere dopo la sua emersione. Così avverte, l’autore:

all’incertezza, alla precarizzazione lavorativa ed esistenziale e all’allargarsi della forbice sociale prodotti dalla crisi il nazionalismo ha risposto con un progetto partecipativo, inclusivo e progressista di radicalizzazione democratica, mentre, in altri, con delle forme di chiusura neo-comunitarista e xenofoba, in cui la comunità nazionale, spesso definita attraverso caratteri ascrittivi e biologico-razziali, viene invece mobilitata per difendere le proprie risorse contro un presunto pericolo esterno (migranti, burocrazia europea, stato centrale, ecc.). La persistenza della frattura centro-periferia, la forza o debolezza degli elementi culturali, linguistici e religiosi, i vari contesti economici, le differenti opportunità politiche e l’atteggiamento dei governi centrali sono tutti elementi che hanno contribuito, e contribuiscono, all’evoluzione ideologica dei movimenti nazionalisti e della loro base sociale (pp. 237-38).

È un’ideologia dal nucleo sottile, non una complessità, quella del nazionalismo senza ideologia, altrimenti non si spiegherebbe perché in base al contesto in cui si trova ad agire possa adottare idee molto diverse, nella sua plasticità:

il suo orientamento ideologico può evolversi o venire addirittura stravolto per adattarsi alle diverse situazioni e ai mutati contesti socio-economici […] per questo esistono varie tipologie di nazionalismo politico – liberale, democratico, socialista, fascista, conservatore, comunista – e se non ne tenessimo conto, se ne minimizzassimo la dimensione prettamente ideologica, non riusciremmo a comprenderne la capacità di mobilitazione e, soprattutto, a spiegare efficacemente il sostegno di cui godono ancora oggi questi movimenti, a dispetto di ogni previsione passatista (p. 238).

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Black marxism https://www.carmillaonline.com/2024/02/23/black-marxism/ Fri, 23 Feb 2024 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81352 di Francesco Festa

Cedric J. Robinson, Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera, prefazione e postfazione di M. Mellino, traduzione di E. Giammarco, Edizioni Alegre, Roma, 2023, pp. 800, € 35,00

Quando il 20 gennaio 2009 varcò la porta della Casa Bianca di Washington, Barack Obama era il primo presidente nero nella storia degli Stati Uniti d’America. Dati i due mandati consecutivi, fino al 2017 visse in quella casa. Una sineddoche epifenomenica: un nero che s’insedia a capo del paese fra i più razzisti della storia contemporanea. Al mondo intero parve che quell’elezione ponesse fine alla febbre del razzismo, inaugurando un’era [...]]]> di Francesco Festa

Cedric J. Robinson, Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera, prefazione e postfazione di M. Mellino, traduzione di E. Giammarco, Edizioni Alegre, Roma, 2023, pp. 800, € 35,00

Quando il 20 gennaio 2009 varcò la porta della Casa Bianca di Washington, Barack Obama era il primo presidente nero nella storia degli Stati Uniti d’America. Dati i due mandati consecutivi, fino al 2017 visse in quella casa. Una sineddoche epifenomenica: un nero che s’insedia a capo del paese fra i più razzisti della storia contemporanea. Al mondo intero parve che quell’elezione ponesse fine alla febbre del razzismo, inaugurando un’era post-razziale.

Il 9 agosto 2014, nel Missouri, un poliziotto, Darren Wilson, sparò e uccise durante un controllo il diciottenne afroamericano Michael Brown. Per settimane si susseguirono rivolte e proclami di coprifuoco. Ferguson, Los Angeles, New York, Houston, e altre città vennero sconvolte dalle proteste a seguito della sentenza di assoluzione del poliziotto emessa dal Gran Giurì e dal pubblico ministero della contea di St. Luis, Robert P. McCulloch – un democratico eletto ininterrottamente alla carica dal 1991.
Dopo quasi un decennio di presidenza di Obama, al soglio di quella casa salì Donald Trump. Il presidente più sfacciatamente razzista e suprematista della storia statunitense.

Insomma, la questione razziale non sembra proprio esser stata superata. Anzi, oltre la siepe di quella casa vi è un’escrescenza che cresce sempre più, assumendo forme inquietanti – i confini e i margini delle società democratiche che spingono verso il centro della realtà sociale.
Conviene analizzare la questione stessa in altro modo, ossia come il razzismo e la supremazia bianca siano elementi strutturali della società statunitense, per dirla con Angela Davis. Dunque ripercorrerne la storia, interpellando tanto i livelli strutturali quanto i livelli sovrastrutturali, adoperando il metodo della genealogia per andare fino in fondo non tanto al “problema” – ché altrimenti avrebbe una sua soluzione – quanto alla sua esistenza che è consustanziale al sistema-mondo capitalista.

Ed è quanto realizzato da Cedric Robinson in Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera. In un’opera mastodontica, uscita nel 1983 e tradotta per la prima volta dalle Edizione Alegre, con un’ampia e organica prefazione e postfazione di Miguel Mellino – a entrambi va riconosciuta profonda gratitudine per l’impegno inconsueto nel dare alle stampe un opus magnum. La voluminosità del testo non deve trarre in inganno: Robinson accompagna il lettore negli angoli remoti, archeologici, della questione razziale, con un linguaggio lineare e appassionato, senza trascurare gli aspetti più articolati, capovolgendo alcune teorie e punti di vista storicamente assodati, del nostro modo di pensare. Egli scava così in profondità nell’archivio dei nostri saperi che al termine della lunga lettura ci si sente di non avere più le consapevolezze coriacee da cui si è partiti. E, per certi versi, si sente che qualcosa è cambiato, dall’angolo prospettico in cui si osserva la realtà. Un merito indubbio di Black marxism è quello di rivoluzionare le basi teoriche di colui che lo legge – e di riflesso del sapere occidentale.

Osserva Mellino: “Si resta subito colpiti, anche spaesati, dalla dimensione ‘rizomatica’ dello scritto: la cristallizzazione dei suoi oggetti e discorsi – il ‘marxismo nero’, l‘’emergere della nozione di civiltà europea come strumento ideologico di dominio’, il ‘razzialismo’, il ‘capitalismo razziale’, la ‘tradizione radicale nera’ – avviene non solo ad un’imponente molteplicità di livelli (storici, disciplinari, tematici), ma soprattutto stabilendo, tra i fenomeni esaminati, connessioni tanto stimolanti quanto piuttosto impreviste.” (p. 10)

In realtà Black marxism non è catalogabile o incasellabile all’interno di una disciplina. È un libro eccentrico, con una prospettiva intensamente transdisciplinare; unisce la teoria politica, la storia, la sociologia, la filosofia, l’analisi culturale, la biografia e tanto altro, arrivando a riscrive la storia dell’ascesa dell’Occidente e del modo di produzione capitalistico, dall’antica Grecia fino alla metà del Ventesimo secolo. E ripercorre le radici del pensiero radicale nero tramite un’epistemologia condivisa dalla diaspora africana, muovendo al contempo una critica stringente alla tradizione marxista occidentale: mostrando i limiti del materialismo storico, da una parte, nella genesi del sistema capitalistico – in un dialogo intenso con Immanuel Wallerstein – e, dall’altra, nel comprendere l’esperienza nera, rivelando come il razzismo occidentale affondi le radici nella civiltà europea ben prima dell’alba del capitalismo.

L’ipotesi genealogica di Robinson è che il capitalismo sia sempre stato un sistema di dominio razziale fin dal suo emergere, fra il 3-400 d. C., cresciuto all’interno dell’Europa durante il Medioevo. Scrive nelle prime pagine: “le basi sociali della civiltà europea furono poste da coloro che i Romani chiamavano barbari” (p. 55) – evidente qui, e non solo, è il debito all’Orientalismo di Edward Said. Il capitalismo razziale, dunque, nasce incorporando via via una certa ideologia e un certo ordinamento razziale che fa capo ad una mitologia del sangue, del primato della cosiddetta “civiltà occidentale”, del privilegio di alcune stirpi razziali in grado di governare su altre. Col tempo questo sistema si va strutturando come una “macchina assiomatica” – per dirla con Deleuze e Guattari – tanto quanto si va organizzando il modo di produzione del capitalismo nascente, e successivamente durante l’espansione coloniale, con la schiavitù, diventando infine un sistema globale di dominio.

L’elemento interessante nella transizione dal modo di produzione medievale a quello capitalistico è che il concetto di razza non nasce denotando una precisa linea del colore. Ciò che sostiene Robinson è che le prime popolazioni assoggettate non siano state nere – o non soltanto nere. I primi popoli assoggettati a questo dispositivo razziale di dominio erano i poveri europei e soprattutto le donne. In altri termini, la schiavitù medievale in Europa era rappresentata per lo più da donne, slavi, irlandesi e da popoli del Sud Europa. Questo è ciò che sostanzia il razzialismo, ossia l’intreccio storico tra razza, razzismo e capitalismo, il quale ha agito come dispositivo generando l’idea di razza fra il Sei-Settecento. Dispositivo che, a partire dalla schiavitù si condensa in termini fenotipici producendo il concetto di “supremazia bianca”. Il razzialismo mette in chiaro quali siano i rapporti di forza fra i gruppi sociali e i modi in cui questo si trasforma, poi, in una supremazia anche di tipo razziale.

Nella lettura di questa genealogia storica si colgono le critiche rigorose di Robinson a Marx ed Engels. Ne segnaliamo alcune. Innanzitutto, l’avvento del sistema di accumulazione capitalistico non è l’esito di rotture o interruzione con la produzione feudale, attraverso l’emergere della società borghese, bensì è un’evoluzione interna del sistema medioevale. Mentre, il dominio coloniale e il dominio schiavistico non sono modi di produzione precapitalistici, ma come visto fin qui, modi propri del capitalismo razziale, a seconda dei rapporti di produzione. Così come la logica di accumulazione capitalistica non produce un’omologazione dei rapporti di produzione e della forza lavoro globale, bensì – come ricorda Mellino – “nella sua espansione, riproduzione e spazializzazione planetaria come sistema di dominio”, si articola “a partire da una tensione dialettica fra omologazione-universalizzazione e differenziazione-gerarchizzazione.” (p. 729)

Particolare attenzione va prestato ad alcune interessanti considerazioni di Robinson sul “carattere non-oggettivo dello sviluppo capitalistico”, o detto altrimenti sulla “concezione culturale gerarchica dell’umanità”, su cui si è formato il capitale, dunque, non soltanto sulla dimensione economica. La critica al marxismo qui si concentra sul rapporto struttura/sovrastruttura o adottando un concetto althusseriano ripreso da Stuart Hall, sui “differenti livelli di articolazione” – istanze economiche, politiche e ideologiche – del rapporto sociale di produzione, che si “surdeterminano reciprocamente”; ciò che Gramsci ha definito come “teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture” ossia, la funzione strutturante delle “istanze politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle “tradizioni” e della tradizione nazionale”.
Effettivamente si percepiscono dei rimandi a Gramsci; anche se nella bibliografia di Black marxism non appaiono è effettiva la vicinanza delle tesi gramsciane con quelle di Robinson, ad esempio, nell’attenzione di entrambi per le tradizioni popolari delle culture subalterne.
Tornando da dove siamo partiti, proviamo a spiegare attraverso Black marxism la ragione per cui Obama, così come tantissimi intellettuali che ricoprono ruoli rilevanti nelle istituzioni statunitensi – e non solo – agiscano come maschere bianche su pelli nere, parafrasando un efficace titolo di Frantz Fanon; oppure, adoperando termini robinsoniani, agiscano come “rinnegati dell’intellighenzia nera”.

“Nei territori anglofoni, francofoni e latini di entrambi gli emisferi – scrive Robinson – le ‘classi medie’ nere si sarebbero via via caratterizzate per cultura e linguaggio, vale a dire per la loro capacità di assorbire le culture delle classi dominanti e di saper leggere e parlare le lingue europee. Sradicamento, alienazione sociale e culturale, divennero i parametri per giudicare il loro grado di civiltà, lealtà e utilità. Ovviamente sapevano bene, come le masse, che questa loro patina non era che l’artificio storico per la strutturazione stessa di caste, classi, razze, autorità, che questa loro specifica adattabilità era il marchio del privilegio e dello status.” (p. 423)

Dalle contraddizioni del colonialismo è sorta dunque una borghesia nativa che ha funto da strumento di governo coloniale, come complice del sistema coloniale; nondimeno essa ha subito il razzismo degli europei, per un verso, e per un altro un senso di estraniamento dalle culture native. Queste contraddizioni hanno provocato in alcuni individui, istruiti ai valori occidentali, una sorta di forclusione delle proprie origini, che li ha portati ad abbracciare completamente la società dominante; in altri, invece, un rifiuto e una ribellione, dalla quale è nata l’intellighenzia radicale nera. Che è emersa a cavallo dell’Otto e Novecento e fra i due conflitti mondiali, ossia nel momento in cui ha preso coscienza della fragilità della civiltà occidentale, con le crisi economico-sociale e l’ascesa del nazi-fascismo.

Robinson esamina la vita e le opere di W.E.B. Du Bois, C.L.R. James e Richard Wright, spingendosi ben oltre la biografia e l’analisi critica da loro prodotta. Accompagnandoci in un viaggio attraverso due secoli di storia degli Stati Uniti e della diaspora africana, Robinson ripercorre i processi rivoluzionari emancipativi che catturarono l’attenzione di questi tre intellettuali. Col tempo, Du Bois, James e Wright rividero le loro posizioni sul marxismo occidentale, oppure lo abbandonarono e, in misure diverse, abbracciarono il radicalismo nero. La maniera in cui arrivarono alla tradizione radicale nera fu più un atto di riconoscimento che un’invenzione; non crearono la teoria del radicalismo nero ma piuttosto, tramite il loro lavoro e il loro studio, la ritrovarono nei movimenti di massa dei neri.

Fin qui si è cercato di restituire la ricchezza di un libro fondamentale per il pensiero radicale internazionale. Black marxism squaderna delle questioni essenziali dei movimenti di lotta. È un libro che andrebbe letto e riletto per fissare nodi che, laddove sciolti, potrebbero tornare molto utili alla lotta di classe, all’opposizione sociale e alla costruzione dell’alternativa. Ne fisso, in ultimo, soltanto due. Il primo è quello relativo alle divisioni, alle contraddizioni e alle opposizioni dentro la composizione delle classi lavoratrici su cui il capitalismo razziale agisce disciplinando i distinguo oppure creandone di nuovi, il che permette il trionfo in continuo mutamento del dominio capitalistico e, di contro, il fallimento della trasformazione del proletariato in classe universale; se non si prendono in seria considerazione i processi di differenziazione e le identità molteplici all’interno della composizione di classe, come intersezione delle stesse, queste differenze si tradurranno sempre in divisioni e gerarchie. E il secondo, utilizzando sempre la cornice dell’intersezione, riguarda la lotta contro il razzialismo e per la giustizia sociale che è la stessa lotta contro l’apartheid e per la giustizia in Palestina, così come per la giustizia sociale, la libertà e l’autodeterminazione dei curdi del Rojava. Queste e molte altre lotte e resistenze – micro e macro – contro comportamenti inferiorizzanti, pratiche disumanizzanti e politiche discriminatorie, hanno oggi lo stesso valore e, anzi, una forza maggiore di quella condotta contro l’apartheid che, paradigmaticamente, ha ridisegnato il Sud Africa.

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L’odio dei poveri https://www.carmillaonline.com/2023/12/28/lodio-dei-poveri/ Thu, 28 Dec 2023 21:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80561 di Francesco Festa

Roberto Ciccarelli, L’odio dei poveri, Ponte alle grazie, Milano, 2023, pp. 328, € 18,00

La povertà è un “significante vuoto”, un concetto discorsivo aduso per tutte le formazioni politiche, sia per quelle sfacciatamente populiste, sia per quelle che ci provano ma proprio non ce la fanno. D’altronde la povertà, quale concetto assai proficuo, si inserisce utilmente nella logica delle equivalenze di quel piano sintagmatico descritto da Ernesto Laclau, che di per sé enuclea un ossimoro: abbonda sulla bocca di molti, nonostante provochi passioni tristi, sofferenze, se non addirittura sentimenti di rabbia e violenza, a seconda di chi ne [...]]]> di Francesco Festa

Roberto Ciccarelli, L’odio dei poveri, Ponte alle grazie, Milano, 2023, pp. 328, € 18,00

La povertà è un “significante vuoto”, un concetto discorsivo aduso per tutte le formazioni politiche, sia per quelle sfacciatamente populiste, sia per quelle che ci provano ma proprio non ce la fanno. D’altronde la povertà, quale concetto assai proficuo, si inserisce utilmente nella logica delle equivalenze di quel piano sintagmatico descritto da Ernesto Laclau, che di per sé enuclea un ossimoro: abbonda sulla bocca di molti, nonostante provochi passioni tristi, sofferenze, se non addirittura sentimenti di rabbia e violenza, a seconda di chi ne subisce gli effetti o ne evochi la realtà. Ad esempio, sia i partiti sia i movimenti politici inanellano le più variegate domande in una sorta di catena che viene transustanziata da un significante vuoto in grado di sussumerle e produrne un discorso con una presa sul “popolo”.

I postfascisti meloniani o i leghisti – ma anche i socialdemocratici o i centristi – raccolgono domande disparate che vertono sul disprezzo per i meridionali oppure il rigetto degli immigrati; le accuse di fannullonismo ai percettori di svariate forme di welfare et similia (reddito di cittadinanza, sussidi sociali e familiari ecc.); e ancora, la richiesta di centralizzazione dei poteri nell’“uomo nuovo” al comando e la protesta per le tasse troppo alte. Insomma, le più diversificate istanze che abbisognano di un collante, cioè, di un significante vuoto che li concateni e, così, attragga a sé i sentimenti più ambivalenti e, infine, si traduca in voti e consenso diffuso. La povertà funge da collante, par excellence.

Beninteso, spostando lo sguardo dal dito alla luna, dietro quel significante vuoto vi è una sostanza poco nota ai più che ne nominano l’esistenza per ragioni politiche. La diffusione della povertà, e in particolare della povertà misurata in termini assoluti ha assunto dimensioni crescenti. La quota di famiglie povere è salita ulteriormente nel 2020 a causa della pandemia, rimanendo sostanzialmente stabile l’anno seguente; e nel 2022, i dati dell’Istat e di Eurostat sono drammaticamente tristi: il 63% delle famiglie non riesce ad arrivare alla fine del mese, mentre la media europea è del 45,5%, cioè, le famiglie in condizione di povertà assoluta sono poco più di 2,18 milioni e oltre 5,6 milioni di individui. I dati registrano un aumento significativo a partire dalla due crisi globali del neoliberismo: la crisi dei mutui subprime del 2008-09 e, a seguire, la crisi dei debiti sovrani della seconda metà del 2011. Il debito sovrano esplode proprio nel periodo aureo del neoliberismo: quando la sua egemonia è dispiegata ai massimi livelli, dopodiché quel sistema di “accumulazione tramite spoliazione”, per dirla con David Harvey, si accanisce ancor più contro i poveri e ai beni pubblici.

La neoliberalizzazione della società ha comportato la distribuzione della ricchezza, piuttosto che la sua produzione, per cui i soldi pubblici servono a finanziare una distorta forma di welfare morale piuttosto che welfare economico che trova applicazione in forme diverse, fra cui anche il dismesso reddito di cittadinanza del governo gialloverde. O per meglio dire: un reddito di povertà volto alla gestione dell’ordine dinanzi all’aumentare del numero dei poveri che attentano al banchetto della proprietà privata, come una sorta di regolazione della produzione ma soprattutto della riproduzione sociale.

Poveri e povertà sono quel significante da riempire, dunque. “Il ‘povero’ diventa così il risultato di un lungo e complesso lavoro tecnico, giuridico e amministrativo che trasforma la sua ‘povertà’ in una costruzione sociale. Tale costruzione è ispirata da progetti diversi, ma convergenti, che provano a guidare i ‘poveri’, spingendoli a ‘cercare un lavoro’ e, se è possibile, a trovarne almeno uno. In fondo, non importa quale” (p. 12).
È uno dei passi assai suggestivi dell’ultimo libro di Roberto Ciccarelli. Un’inchiesta rigorosa sul welfare, sulle trasformazioni della “forza lavoro”, sulla fenomenologia del “capitale umano” e, fra l’altro, anche del “Quinto Stato”, ossia, della moltitudine di lavori e di vite precarie, di coloro che dal neoliberismo e dalle sue crisi hanno subito “il senso della perdita di una posizione sociale” e di una identità.

Una spietata e a tratti distopica radiografia delle società neoliberiste, dove l’individuo è prodotto dall’incontro tra le tecniche di governo politico, la disciplina morale e la razionalità economica, per cui come Christian Laval e Pierre Dardot hanno mostrato nella fabbrica del soggetto neoliberista, l’io è giocoforza spinto a “mutare per sopravvivere nella competizione”, dunque, deve divenire “esperto di se stesso, datore di lavoro di se stesso, inventore di se stesso, imprenditore di se stesso”; non vi è spazio per la povertà e per i poveri, né tantomeno per reddito di cittadinanza o altre forme di ammortizzatori sociali. Fuori dai denti: è la stessa povertà che deve essere messa a lavoro e a valore, a seconda di quelle domande generate dagli attori sociali e politici.

In questa ricerca cui va il merito di aver complicato l’analisi, altrimenti assai semplicistica se non leziosa che interpreta la povertà come fenomeno da fronteggiare con azioni filantropiche per ripulire le coscienze borghesi, Ciccarelli redige innanzitutto un glossario genealogico sui termini entrati nel senso comune (in appendice al volume si trova la voce “glossario”), e al contempo una guida degli affetti, in senso spinoziano, cioè, delle passioni che suscitano la povertà o l’essere povero, fino a provocare quei sillogismi, ormai assunti come naturali, per cui la condizione di povertà arrischia la proprietà privata, essendo assai incline a condotte illegali e incasellabile fra le “classi pericolose”.

Difatti, “la vita precaria, come quella povera, restano esperienze incomprimibili in un’astrazione statistica. Questa condizione è odiata sia da chi è povero, e viceversa. In una società costruita sulla competizione questa è la leva del livello più basso dell’odio che porta alla guerra tra chi vuole sentirsi meno precario o povero di un altro. Più che la persona in uno stato di bisogno è odiata la posizione sociale di chi è costretto a sopravvivere. Nessuno vuole assomigliare a chi prova vergogna, cioè la conseguenza della tristezza provocata dall’idea che gli altri possano biasimare l’azione di chi è povero. Ci si vergogna perché non si sopravvive con i miseri guadagni. È meglio mangiare o andare dal dentista? Pagare il mutuo o la bolletta del gas? Comprare le medicine o versare la rata dell’autonomobile? Fare benzina o acquistare un paio di scarpe?” (pp. 42-43).

Una volta smontati gli stigmi sulla pericolosità sociale della povertà – su cui hanno pontificato le scuole rancorose e pregiudizievoli della broken window theory – , Ciccarelli si concentra prima sul “governo dei poveri” e poi su quello formazione e dell’occupazione, prendendo di petto quella che è la nuova vulgata delle politiche sociali, vale a dire il workfare. La cittadinanza passa così a maggior ragione dalla cruna del lavoro. Viene definita “inclusione attiva”, ché il povero non esiste in quanto tale, piuttosto esiste un individuo non vocato alla propria esistenza che è quella del lavoro. Esso non sarà beneficiario di alcun sostegno pubblico se non si presta alle condizioni dell’occupabilità (employability). Anche se i beneficiari non fossero ritenuti occupabili – com’è stato, in realtà, per i due terzi della platea di percettori del reddito di cittadinanza – poco importa: poiché è il messaggio che conta; e anche l’attivazione del dispositivo di governo dei poveri. Insomma è un altro ordine del discorso: l’abolizione di quella che era una misura di contrasto alla povertà, quale il reddito di cittadinanza, ha dato la stura alle politiche attive del lavoro, nella formula del workfare (work-to-welfare), vale a dire, del rovesciamento dello schema del welfare.

Se in quest’ultimo la cittadinanza sociale – scrive Ciccarelli, in altra occasione – è la prerogativa per il riconoscimento sia dei sussidi che del reinserimento al lavoro, nel workfare è l’effetto della volontà di un soggetto che si rende disponibile al lavoro (ad essere cioè ‘occupabile’ che non significa avere un’occupazione, perlomeno ‘fissa’), alla formazione obbligatoria e a svolgere la corvée dei ‘progetti utilità alla collettività’ (Puc). In alcuni casi potrebbero risultare un illusorio reinserimento sociale di persone dimenticate dalla società. In realtà, alla lunga, saranno la doppia pena dei poveri: esclusi e poi costretti ai lavori gratuiti pena la perdita del sussidio. Sull’incapacità di riconoscere e criticare modelli già noti in altri paesi si misura la forza dell’egemonia neoliberale sulla sinistra e sui sindacati, fautori in Italia di questo workfare.

Questo processo forzoso e a tratti violento – da menzionare le campagne livorose per cui il reddito di cittadinanza equivaleva al diritto al divano – rimanda ad un eterno ritorno della storia del capitalismo, all’“attualità della preistoria”, per adoperare una felice locuzione di Sandro Mezzadra, titolo della sua rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale di Marx, “La cosiddetta accumulazione originaria”. In questo saggio, Mezzadra restituisce con lo sguardo della critica postcoloniale quel processo sempre attuale, che è presupposto del capitale e il risultato della sua riproduzione, per cui il rapporto capitalistico non può esistere se l’individuo non è costretto a vendere la propria forza lavoro. Parimenti a quanto ricostruito da Karl Polanyi nell’Inghilterra della Rivoluzione Industriale, fra il XVIII e il XIX secolo, ossia il processo di proletarizzazione tramite l’abolizione della Speenhamland Law, la legge sul diritto di vivere che si scontrava inevitabilmente con l’esigenza di creare un mercato del lavoro e una classe lavoratrice che vivesse esclusivamente di salari.

Si può andare oltre nell’opera di smontaggio della grande narrazione neoliberale e della sua razionalità normativa – al cui centro vi è la norma di vita numero uno del mercato, cioè, la concorrenza – se adottassimo la “teoria del valore-lavoro”, come misura del valore del surplus, adattandola al sistema capitalistico e al succedersi di diverse modalità di accumulazione, al processo di valorizzazione definito da Andrea Fumagalli, “biocapitalismo”, come “superamento della separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro” e della “separazione tra produzione, circolazione e consumo”. Detto altrimenti, la povertà è una condizione inesistente nell’attuale modalità di accumulazione: è la vita messa a valore. Il che andrebbe riconosciuto sotto forma di remunerazione per tutte quelle attività che svolgiamo quotidianamente e che producono valore tramite un autentico reddito di cittadinanza: un reddito di base universale e incondizionato.

Il “che fare” passa dalla rottura del “ciclo neoliberale e invertire il suo senso politico”. Hic Rhodus hic salta. Lotta politica, costruzione di un potere sociale che scardini e rovesci la “pedagogia autoritaria del workfare […] con l’educazione alla potenza degli oppressi”, con la ripresa della lotta di classe, dei poveri e dei subalterni, “quella che incoraggia l’affermazione di virtù civili, pubbliche e politiche ispirate all’indipendenza, alla cooperazione, all’operosità. Riscopriremmo così il pensiero della liberazione a cominciare dalle pratiche femministe del partire da sé superando l’egolotria, dall’etica spinozista della potenza, della conoscenza e dell’agire e da quella che valorizza l’etica e la pratica della cura nelle relazioni sociali, economiche e politiche. Queste politiche, e i provvedimenti che possono generare, servirebbero a riorientare il welfare nella direzione di un commonfare, o di un welfare del benessere, delle libertà uguali e delle proprietà comuni.”

Il discorso di Ciccarelli non fa una piega e spinge a compiere un passo in avanti soprattutto alle analisi prodotte in questi anni, che sono anche programmi per un pensiero e per delle pratiche radicali all’altezza della sfida neoliberista. Sono tattiche per riacciuffare il bandolo della matassa e per incominciare a fargliela pagare. Il commonfare è un welfare del comune e della cooperazione sociale, di ciò che ci viene espropriato: un welfare adeguato al nuovo paradigma di accumulazione che, mettendo a lavoro e a valore la vita, estrae profitto espropriando la riproduzione sociale e il general intellect. Qualsiasi politica di welfare che abbia a cuore la coesione sociale non può quindi che partire dal comune. E, iuxta propria principia, come critica dell’economia politica, andrebbe ripresa la formula del “rifiuto del lavoro”. Formula che Toni Negri, in linea con il marxismo rivoluzionario, ci ha insegnato essere il baricentro della politica non dialettica di una relazione costruttiva, costituente, fra teoria e pratica rivoluzionaria. Situata dentro e contro lo sviluppo del capitale.

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Apologia della storia militante. Sergio Bologna, la rivista “Primo Maggio” e la storiografia militante https://www.carmillaonline.com/2023/10/31/apologia-della-storia-militante-sergio-bologna-la-rivista-primo-maggio-e-la-storiografia-militante/ Tue, 31 Oct 2023 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79726 di Francesco Festa

Sergio Fontegher Bologna, Tre lezioni sulla storia. Milano, Casa della Cultura, 9, 16, 23 febbraio 2022, Presentazione di Vittorio Morfino, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 174, € 12.00

Il concetto di storia di Walter Benjamin dai tratti folgoranti, densissimi, non finiti eppur integri, è enucleato in una sua potente intuizione: lo studio della storia è l’osservazione del “futuro del passato”, un “ricordare il futuro”, dove l’attualità di ciò che è stato, proprio perché non ancora giunta a compimento e non ancora onorata dalla storia, ci attende, viva più che mai, al presente.

Sergio Fontegher Bologna, l’autore di questo libro [...]]]> di Francesco Festa

Sergio Fontegher Bologna, Tre lezioni sulla storia. Milano, Casa della Cultura, 9, 16, 23 febbraio 2022, Presentazione di Vittorio Morfino, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 174, € 12.00

Il concetto di storia di Walter Benjamin dai tratti folgoranti, densissimi, non finiti eppur integri, è enucleato in una sua potente intuizione: lo studio della storia è l’osservazione del “futuro del passato”, un “ricordare il futuro”, dove l’attualità di ciò che è stato, proprio perché non ancora giunta a compimento e non ancora onorata dalla storia, ci attende, viva più che mai, al presente.

Sergio Fontegher Bologna, l’autore di questo libro di cristallina chiarezza e di agile lettura mai a scapito della densità, a un certo punto della sua ricostruzione di un lungo percorso – apertosi con le rivolte genovesi del 30 giugno 1960 contro il congresso del MSI – si interroga sul cambio di paradigma nella ricerca storica a cavallo dei due secoli: l’oggetto della ricerca non è più la “realtà storica” e, simmetricamente, si impone un registro ermeneutico e linguistico che fa leva sull’accezione di memoria in luogo del concetto di storia: entrambi sintomi dell’impossibilità di incidere sulla realtà, cioè, sul presente quale matrice del “pensiero storico”.

Quando noi parliamo di crisi o di eclissi della storia militante – scrive Fontegher Bologna – non ci riferiamo soltanto alla fine dell’etica della partecipazione ai movimenti sociali contemporanei, né soltanto alla ‘crisi della politica’ e al progressivo ritirarsi nel privato, né alla ricerca di nuove strade diverse dalla labour history, ci riferiamo a un modo di ragionare e di discutere tra storici che esclude, cancella, il presente, nella storia militante il presente era la fonte delle domande che lo storico si pone all’inizio della ricerca. Il combinato disposto della diffusione del termine “memoria” e della concezione della storiografia come narrative come forma di creazione letteraria, portano alla cancellazione del presente come fonte del pensiero storico. (p. 142)

In poche righe è racchiuso pregnantemente il senso del discorso di Sergio Fontegher Bologna (che per la prima volta si firma anche con il cognome della madre), autore di Tre lezioni sulla storia, con la presentazione di Vittorio Morfino. La sua biografia è fondamentale per chi voglia coltivare un punto di vista di parte nello studio della historia rerum gestarum. “Quaderni rossi”, “Classe operaia”, “Quaderni piacentini” sono alcune delle riviste collettive alle quali ha partecipato.

Alcune sue opere sono intramontabili nello studio del movimento operaio internazionale, quali Nazismo e classe operaia 1933-1993, per dedicarsi allo studio delle molteplici figure del precariato, fra cui, non da ultimi i freelance.

Questo libro raccoglie tre lezioni tenute presso la Casa della Cultura di Milano nel febbraio del 2022 e ripercorrono proprio la sua biografia: non mancano tratti e frammenti di vita emozionanti, vividi, di un tempo ormai lontano, in cui la classe lavoratrice, le donne e gli uomini in carne e ossa, riuscivano a dettare il corso della storia. Le tre lezioni, dopo una veloce carrellata sugli anni Sessanta, si concentrano sugli anni Settanta, su quella “grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale” – com’ebbero a scriverne, Nanni Balestrini e Primo Moroni – per poi attraversare i vent’anni a seguire, giungere a Genova 2001 e al decennio successivo.

Quel decennio coincide per il nostro autore con l’esperienza della rivista “Primo Maggio”, nata in un anno cruciale, il 1973, ed editata fino al 1989. Un consiglio, prima di imbatterci nella rivista: a corredo di questo libro, vale la pena di affiancare la lettura della raccolta curata da Cesare Bermani, La rivista “Primo Maggio” (1973-1989) (DeriveApprodi, Roma, 2010), con tutti i numeri della rivista in Dvd; e il saggio di Damiano Palano, Nel cervello della crisi. La “storia militante” di Sergio Bologna tra passato e presente (“tysm literary review”, 6, 9, 2013).

“Primo Maggio”, dunque, è stata una rivista illuminante per la sinistra di classe. È stata una scuola di formazione e un laboratorio dove gli arnesi dell’operaismo italiano sono stati adoperati per osservare, indagare e narrare non la fabbrica fordista, bensì la sua trasformazione, anticipandone la polverizzazione nelle filiere territoriali con l’affermazione di quella che è stata poi chiamata dalla sociologia accademica “terza Italia”: l’Italia delle fabbrichette e delle famiglie prima contadine, poi operaie e infine piccole imprenditrici; e, mutatis mutandis, la trasformazione dell’operaio massa in operaio sociale e imprenditore di sé stesso. “Primo Maggio” ha studiato anzitempo le soggettività, la cultura e il territorio che andavano modellandosi sui primi segni del neoliberismo, affrontando con intuito argomenti complessi come la gestione capitalistica della moneta, l’emergere di nuove figure sociali, la trasmissione della memoria, l’avvento della logistica. Con collaborazioni internazionali, ha riscoperto pagine straordinarie di storia del proletariato migrante, ricostruendo immaginari e modelli di comportamento e offrendo una diversa rappresentazione dell’America. Sergio Bologna l’ha fondata e diretta fino al 1981, succeduto poi da Cesare Bermani e Bruno Cartosio. Mentre Primo Moroni, libraio della Calusca di Milano e inventore di un modo nuovo di fare cultura, ne è stato l’editore.

“Primo Maggio” è stata soprattutto una “Rivista di storia militante”, come recita la sua dizione. E “storia militante” voleva dire

una storia strettamente intrecciata con i movimenti sociali di quel tempo scritta per i movimenti sociali, scritta con i movimenti sociali e in particolare con le figure più rappresentative, scritta con gli operai e i tecnici. (p. 63)

Ecco la matrice operaista: per un verso, la scrittura quale esito di intervento collettivo (“conricerca”); e per un altro, il punto di vista di parte e la posizione in cui si situa il motore della storia, vale a dire, la classe lavoratrice o, per dirla con Gramsci, i “gruppi sociali subalterni”. Metodologicamente: storia militante voleva dire ricerca nel passato, scavare nei modelli di accumulazione capitalistici e nella sua composizione di classe, per individuare gli “obiettivi di lotta, le parole d’ordine e le forme organizzative” da tradurre in “lotta politica”. Questi strumenti diventano così “categorie di interpretazione del passato e, viceversa, la storia passata del movimento operaio diventa modello per la tattica di oggi”. Per intenderci, tale approccio storico è alla base delle ricerche del keynesismo e del capitalismo di Stato in Italia, costruito tanto dalla Dc quanto dal Pci nel dopoguerra, e sintetizzato nella formula “Stato-piano”, tramite lo studio degli anni Venti e Trenta negli Stati Uniti, i cui esiti sono nel volume collettaneo di “Materiali marxisti” (collana a cura di Sergio Bologna e Toni Negri), Operai e Stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e New Deal (Feltrinelli, Milano 1972). E conclude il nostro autore:

una rivista di storiografia militante non solo sceglie i temi entro periodi ben definiti della lotta di classe, ma scopre in quelli un filo conduttore che li porta immediatamente ai problemi del presente. (p. 63)

Prima di trattare di “Primo Maggio”, Fontegher Bologna individua i luoghi e i nomi che hanno strutturato il modo di fare storia militante. Due paesi, in particolare, corrispondono anche ai contatti intrattenuti negli anni e agli ambiti formativi, l’Italia e la Germania. E tre libri o meglio tre officine del pensiero: i Quaderni del carcere di Gramsci, Sul concetto di storia di Walter Benjiamin e Apologia della storia o Mestiere di storico di Marc Bloch. Sono questi i capisaldi da cui muovere i passi per chi voglia fare storia o riempire il tempo dell’adesso, incarnarlo attraverso quei soggetti che scrivono la storia e sono il motore del progresso, che camminano contrariamente al tempo “omogeneo e vuoto” costruito dal capitale.

Il fare storia militante significa anche utilizzare differenti registri metodologici, e nel libro sono analizzati la storia orale così come la public history – in Italia sostenuta dalla breve eppur prolifica vita di Nicola Gallerano – oppure dalla microstoria e dalla labour history. Mentre, i luoghi e le istituzioni dal basso che hanno funto da laboratori di formazione sono stati in Germania, la Fondazione per la storia sociale del XX e del XXI secolo di Brema, il cui ideatore è stato Karl Heinz Roth, autore del seminale lavoro del 1976, L’altro movimento operaio: storia della repressione capitalistica in Germania del 1880 a oggi; e in Italia, la libreria Calusca, prima, e poi, la LUMHI (Libera Università di Milano e del suo Hinterland “Franco Fortini”). La LUMHI, su cui si sofferma ampiamente il nostro autore, è stata anche un osservatorio straordinario e lungimirante delle trasformazioni del lavoro, una ricerca fra le tante, anch’essa, seminale nella bibliografia dei movimenti sociali e della composizione di classe è Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, curato da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli. Venuta via via meno la centralità dell’osservazione del lavoro, in primis salariato, sono avanzate le posizioni revisionistiche in campo storico e storiografico. La tesi sostenuta dall’autore – assai convincente anche dal punto di vista politico delle lotte sociali è che, venuta meno la centralità delle lotte lavorative, con una parabola discendente i cui primi segnali furono ravvisabili nella “sconfitta alla Fiat” del 1980, anche la storia militante, sia a causa dei rapporti di forza politici, sia a causa della scarsità di risorse economiche, è andata ritirandosi. Restano un’eccezione le pochissime tesi di laurea e dottorali che riescono a trovare fondi ed essere pubblicate e ad uscire dall’anonimato degli ambiti specialistici.

Tuttavia, nel dopo Genova 2001, vi è stato un quinquennio di ripresa dell’intervento nel mondo del lavoro precario. L’autore ricostruisce stenograficamente il percorso della May Day: movimento composto da figure lavorative precarie che hanno organizzato in occasione del primo maggio, ma con modi di partecipazione e di lotta distribuite in tutto l’anno, cortei partecipatissimi il cui scopo, fra gli altri, era dare visibilità agli invisibili dei diritti del lavoro, ossia ai lavoratori di seconda e terza generazione, e al contempo una visibilità a piattaforme e programmi fino ad allora completamente ignorati dall’agenda politica della sinistra istituzionale e dei sindacati. I cortei a mo’ di street parade erano veicoli di messaggi dai tratti straordinariamente comunicativi e creativi, ricalcando di fatto la vita funambolicamente precaria delle molteplici figure lavorative che si rappresentavano in piazza. Quel movimento nacque, infatti, da alcune figure del mercato del lavoro, sotto la categoria di Chain Workers (lavoratori delle catene commerciali), in realtà, un eufemismo, poiché molte, ma molte di più erano le soggettività della May Day. Da Milano si estese in numerose metropoli italiane ed europee. Quelli sono anche gli anni di una ripresa degli studi di “storia militante”, gli anni della nascita dell’associazione Storie in movimento e del suo appello “per la creazione di una rivista” volta allo “studio dei movimenti e dei conflitti sociali”, conducendo, nel 2003, alla rivista quadrimestrale “Zapruder: rivista di storia della conflittualità sociale”.

Di contro, gli anni successivi al 2001, al movimento no global, sono stati anni di inarrestabile decadenza dell’intervento politico delle lotte sociali, con tentativi talvolta esiziali, talaltra minoritari se non sempre più inconsistenti. Certo, la repressione ha prima ucciso Carlo Giuliani e massacrato con metodi cileni nelle piazze genovesi; poi, ha operato nelle preture e nei tribunali e infine ha prosciugato l’acqua da cui attingeva il consenso quel movimento, che seppur con tante ambivalenze era egemone nell’opinione pubblica: muoveva il senso comune. Dopo, con alcune eccezioni di lotte territoriali e lotte studentesche, anche se episodiche o sintomatiche, la lenta discesa nell’anonimato delle lotte delle sociali e, in particolare, delle classi lavoratrici è stata direttamente proporzionale alla scarsità di risorse e progetti a disposizione della storia militante e, allo stesso modo, inversamente proporzionale al moltiplicarsi di culture, partiti, gruppi, stampa ed editoria revisionisti. E sono divenuti maggioritari, così, nel rileggere la storia del XX secolo, anche intellettuali moderati o affettivamente in sintonia con una idealizzata sinistra laburista o socialdemocratica, hanno prodotto discorsi impregnati di categorie astratte – quali libertà, buon senso, fare, famiglia, ecc. – e conditi da paranoia e paura, che hanno riabilitano nel senso comune, grazie a risorse economiche e comunicative spropositate, linguaggi e paradigmi profondamente fascisti, dai modelli unitari, totalizzanti e gerarchici. Ipso facto: la storia è stata riletta. Il che ha riguardato, la storia della resistenza, prim’ancora, del Risorgimento, per non parlare degli anni Settanta e della storia ormai riabilitata per le formazioni neofasciste i cui esponenti sono addirittura al governo in questo paese. La realtà storica ci dice che tali discorsi hanno una grossa presa sul senso comune, largamente maggioritari nelle vendite di libri e giornali. Mentre, da questa parte, dalla nostra parte, passano dinanzi agli occhi gli oceanici cortei del “movimento dei movimenti”. Cioè: di una ventina di anni fa. Forse, vale la pena di prendere contezza e rimettere mano alla lotta di classe, anche in campo storico. Ché, se è vero, come disse l’“oracolo di Obama”, il multimiliardario Warren Buffet: “la lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”. È pur vero, però, che non è finita.

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Apartheid in Palestina https://www.carmillaonline.com/2023/06/05/apartheid-in-palestina/ Mon, 05 Jun 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77451 di Francesco Festa

Gabriel Traetta, Apartheid in Palestina. Origini e prospettive della questione palestinese, DeriveApprodi, Roma, 2022, pp. 240, € 20,00

Pochi giorni fa è caduto l’ennesimo anniversario. Il 15 maggio 1948, il giorno drammaticamente noto ai palestinesi con l’appellativo di Al Nakba (“disastro”). Il giorno in cui lo Stato d’Israele si è impossessato delle terre, delle case e delle vite del popolo palestinese. Anche se questo processo prende il via ai principi del Novecento con l’acquisto e l’occupazione delle terre da parte degli ebrei d’ispirazione sionista, Al Nakba è il giorno in [...]]]> di Francesco Festa

Gabriel Traetta, Apartheid in Palestina. Origini e prospettive della questione palestinese, DeriveApprodi, Roma, 2022, pp. 240, € 20,00

Pochi giorni fa è caduto l’ennesimo anniversario. Il 15 maggio 1948, il giorno drammaticamente noto ai palestinesi con l’appellativo di Al Nakba (“disastro”). Il giorno in cui lo Stato d’Israele si è impossessato delle terre, delle case e delle vite del popolo palestinese. Anche se questo processo prende il via ai principi del Novecento con l’acquisto e l’occupazione delle terre da parte degli ebrei d’ispirazione sionista, Al Nakba è il giorno in cui il popolo palestinese si è trasformato in una nazione di rifugiati: 750 mila palestinesi espulsi dalle loro case e costretti a vivere nei campi profughi; molti di quelli che non sono riusciti a scappare, poi, sono stati uccisi. Più del sessanta per cento della popolazione palestinese è stato espulso. Più di 530 villaggi palestinesi sono stati evacuati e distrutti completamente. Fino a oggi, Israele ha impedito il ritorno di circa sei milioni di rifugiati palestinesi e continua ancora oggi a cercare di espellere i palestinesi dalla loro terra, praticando forme e condotte proprie del colonialismo.

Quanto accade in quella porzione di Medioriente enuclea la quintessenza di tutte le contraddizioni, le ambiguità e le ipocrisie dell’ordine politico ed economico occidentale. Per dirla con una categoria di Mark Fisher racchiude il paradigma del “realismo capitalista” alla realtà palestinese. E per chi ha a cuore la giustizia, la libertà e la solidarietà internazionale, quali valori costituenti della vita sociale, non può ignorare quanto avviene ogni giorno in un piccolo territorio di circa ventiseimila chilometri quadrati, dove vivono un po’ più di cinque milioni di ebrei e circa quattro milioni di palestinesi. Qualora lo facesse, vi sarebbero i palestinesi a riaccenderne l’attenzione: con la loro resistenza dimostrano alle società occidentali cosa possa la dignità umana dinanzi ai soprusi e alla violenza dell’occupazione e dell’apartheid dello Stato di Israele, fra i più militarizzati al mondo. Quel “tozzo” di terra senza nessun confine internazionale a separare le due popolazioni vive in un continuo “stato di eccezione” o di “guerra civile permanente”. In effetti, dove persiste una situazione di colonizzazione – ci ricorda Giorgio Agamben – vi è uno “stato di eccezione”, ossia “un tale stato come un vuoto giuridico, una sospensione del diritto paradossalmente legalizzata”.

Dinanzi a tale ingiustizia dai tratti umani e storici drammaticamente abnormi, il libro di Gabriel Traetta, Apartheid in Palestina. Origini e prospettive della questione palestinese  è un lavoro che cerca di mettere le cose a loro posto, di rendere per lo meno giustizia per ciò che concerne la verità storica, utilizzando termini e concetti ormai banditi dal senso comune, poiché sottoposti alla censura del potere israeliano. Questo libro risponde alla sollecitazione di Edward Said, l’intellettuale palestinese che ha dedicato una vita alla causa natia, vale a dire, “dire la verità al potere”. Traetta è un ricercatore indipendente, il che è garanzia – e nel suo caso è accezione davvero precipua – di passione e serietà nelle ricerche. Egli ha ripercorso la questione palestinese incrociando differenti metodi d’indagine, grazie anche al suo lavoro in campo diplomatico e internazionale che gli ha consentito di coltivare un punto di vista privilegiato.

Il libro, con un esaustivo apparato cartografico in appendice, porta a sintesi la letteratura sul tema. Per molti versi si presenta come un compendio degli studi sulla questione palestinese, difatti è all’oggi il lavoro più completo e articolato per chi voglia affrontarne problemi e prospettive. La sua cassetta degli attrezzi contiene l’indagine storica affiancata all’analisi del diritto internazionale, così come lo studio dei documenti diplomatici e delle organizzazioni internazionali trova sostegni nell’analisi del linguaggio ufficiale e di quello giornalistico, con le inevitabili ricadute nel senso comune. E Apartheid in Palestina ha ridonato la giusta interpretazione a termini corrispondenti alle pratiche odiose ed orribili messe in atto dallo stato di Israele e avallate dalla comunità internazionale.

Innanzitutto vi è da sgomberare il campo da alcuni equivoci a causa dei quali il dibattito pubblico viene inquinato alla fonte. Fra tutti quello dell’equiparazione fra antisionismo e antisemitismo, talché Traetta smonta la definizione di antisemitismo elaborata dallo stesso International Holocaust Remembrance Alliance – il più autorevole organismo di collegamento con la memoria ebraica dell’olocausto – e sostiene che

non rimane che cestinare il tutto come un lavoro reazionario, illiberale, antidemocratico, sprovvisto di qualsiasi fondamento giuridico e privo di dignità. La lotta all’odio, alla xenofobia, al razzismo e all’antisemitismo è un tema serio e non può essere strumentalizzato da un movimento politico – per di più storicamente razzista come il sionismo – per difendere le violenze e gli abusi commessi dallo Stato di Israele. Rifiutare il razzismo vuol dire rifiutarlo in toto, incluso il sionismo. Fare diversamente, nella migliore delle ipotesi, vuol dire prendere parte a una farsa. Questo, si badi bene, non significa che non vi possano essere o che non vi siano antisemiti tra le persone che si oppongono al sionismo, ma questi sono presenti anche tra coloro che sostengono il sionismo. Il punto è che è totalmente infondato assimilare in maniera generica l’antisemitismo e l’antisionismo. L’Ihra sembra non conoscere o finge di non conoscere persino quella che dovrebbe essere la sua storia. Le prime posizioni antisioniste, infatti, nacquero in seno alle correnti religiose ebraiche che vedevano nel sionismo un movimento politico colpevole di voler secolarizzare il giudaismo, trasformando così la religione in una nazionalità etnica. L’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto sarà infatti sorpresa nell’apprendere che l’antisionismo è innanzitutto un fenomeno ebraico sviluppatosi originariamente come risposta al sionismo. Sarà altrettanto sorpresa nello scoprire che nel 2020 in tutto il mondo, anche in Israele, vi sono comunità ebraiche, che sulla base delle più svariate argomentazioni – religiose, politiche e morali – si dichiarano antisioniste (pp. 197-198).

Altri concetti indagati da Traetta con quel desiderio di “dire la verità al potere” sono argomentazioni relative alla più ampia categoria del “regime di apartheid” messo in atto dallo Stato di Israele. Vale la pena di riportare direttamente le parole del libro, accludendo qui alcune parti del testo che rendono precipuamente l’organizzazione storica del regime di apartheid.

Tuttavia i governi di Tel Aviv sono andati ben oltre la costituzione di un regime fondato sull’ineguale redistribuzione della ricchezza. Come già è emerso, persino le organizzazioni più rappresentative del sistema di potere contemporaneo, si pensi ad esempio alle documentazioni prodotte dall’Unrwa, l’Unicef o l’Ocha, de- nunciano quotidianamente con forza gli abusi e i crimini commessi da Israele. Da un lato vi è un popolo oppresso, condannato inesorabilmente alla povertà e alla miseria in funzione del progresso altrui, e dall’altro un popolo oppressore che con la sua violenza ha instaurato un regime di occupazione fondato sulla discriminazione razziale. Non è certo un caso che delle sei Commissioni principali dell’Assemblea generale quella che si occupa di investigare le viola- zioni dei diritti umani di Israele ai danni dei palestinesi è la Special Political and Decolonization Committee – Fourth Committee. Sulla scia delle peggiori esperienze coloniali europee, Israele ha prima occupato la Palestina, poi espulso e sterminato una parte della popolazione, e infine immesso una fetta degli indigeni sotto occupazione nel nuovo ordine. Quest’ultimo, secondo il modello coloniale britannico e la formula ideata dalla Società delle nazioni, basa la sua legittimità su una presunta operazione di civilizzazione e progresso. Prima del 1948 l’oppressore – il Regno Unito – si fregiava del titolo di ‘potenza mandataria’ conferito dalla Società delle nazioni; dal 1948 l’oppressore – la comunità ebraico-sionista divenuta Israele – si fregia del nobile titolo di ‘Stato’. Come noto, l’ordine mondiale emerso nel corso del XX secolo, come il diritto internazionale da esso emanato, vede come attori principali dello scenario politico internazionale gli stati-nazione. Non è certo un caso che i popoli colonizzati – le popolazioni sudamericane, mediorientali e africane sono emblematiche a tale proposito – hanno dovuto lottare con tutte le loro forze per liberarsi dall’occupazione straniera e aggiudicarsi il tanto ambito titolo di “Stato”. Tuttavia, la questione non si risolve del tutto grazie a una formula giuridico-lessicale. Alcuni popoli ex-colonizzati, infatti, a distanza di decenni dal processo di indipendenza nazionale devono ancora passare dal grado di “Stato’ a quello di ‘Stato libero e sovrano’. Altri, invece, come quello palestinese, hanno perso – almeno finora – la lotta per la liberazione nazionale e da cento anni sono sotto il giogo delle potenze coloniali. Da oltre un secolo vi sono una presunta legalità nazionale (legalità codificata dalla potenza occupante di turno) e un presunto ordine internazionale (ordine imposto dai paesi egemoni dello scacchiere internazionale) che sanciscono la legittimità de facto delle politiche adottate dalla forza occupante. Dopo aver rubato la terra e le risorse, Israele ha poi generosamente istituito un ordine socio-economico in cui i condannati all’esilio e alla miseria potevano immettersi nel sistema di produzione e di mercato diventando manodopera a bassissimo costo, gli ultimi degli sfruttati. Tale sistema è andato avanti fino alla scelta radicale di sigillare la Striscia di Gaza, isolandola dal mondo, e di istituire regime di apartheid in Cisgiordania. Gli occupanti si arricchiscono e si sviluppano e gli occupati si impoveriscono rafforzando le basi del loro sottosviluppo. E così, proprio come affermato da Darcy Ribeiro in riferimento all’esperienza del colonialismo europeo in Sudamerica: ‘gli indigeni sono il combustibile energetico del sistema produttivo coloniale’. Dinanzi a tale violenza, gli attori principali che animano la cosiddetta comunità internazionale non solo non hanno preso e non prendono le parti degli oppressi ma si spingono – nel nome degli interessi economici delle classi dirigenti al governo – a rovesciare i ruoli e rendere vittima il carnefice e la vittima carnefice. La questione palestinese, se mai ce ne fosse stato bisogno, certifica definitivamente che per la stragrande parte degli stati l’ingiustizia sociale e il rispetto dei diritti umani non incidono minimamente sulle politiche relative alle relazioni internazionali (pp. 187-188).

Il regime di apartheid, giocoforza, deve trovare una ratio su cui far leva per giustificarsi, questa è nell’apparato teorico-politico del sionismo.

David Ben Gurion, uno dei padri del sionismo e fondatore di Israele, oltre ad aver ricoperto la carica di Primo ministro israeliano per primo, cristallizzò in un’affermazione diventata poi storica la volontà di dearabizzare la Palestina e creare uno Stato puramente ebraico: ‘Sono favorevole al trasferimento forzato: non ci vedo nulla di immorale’. Molti anni dopo, nel novembre 1998, sulla stessa scia, il Primo ministro Ariel Sharon fu ancora più esplicito: È dovere dei leader israeliani spiegare all’opinione pubblica, chiaramente e coraggiosamente, un certo numero di fatti che sono stati dimenticati nel tempo. Il primo di questi è che non c’è sionismo, colonizzazione, o Stato Ebraico senza l’espulsione degli arabi e l’espropriazione delle loro terre (p. 211).

Frantz Fanon è un autore citato più volte nel libro perché permette di disvelare le politiche israeliane in regime coloniale e di apartheid, le quali trovano sostegno nel silenzio dei governi occidentali e, al contempo, nel loro rimosso coloniale, ossia in quelle teorie razziste e anti-scientifiche per cui intere popolazioni sono state relegate al rango di “sotto-uomini” mascherando così i reali obiettivi della politica coloniale occidentale. Il colonialismo, in teoria, è stato abolito, ma persiste de facto all’interno delle politiche migratorie così come nella gestione di conflitti internazionali, come se agisse in filigrane sottili eppur spesse che motivano quel “realismo capitalista” occidentale. Mutatis mutandis, avviene nello Stato di Israele – indifferentemente sostenuto da governi europei e statunitensi di qualsiasi colore – malgrado questi violi senza soluzione di continuità tutte le risoluzioni dell’ONU. Fra i tanti citati con attenzione da Traetta, vi è la “risoluzione 242 del 1967” sul ritiro di Israele da tutte le posizioni occupate, che rinvia anche alla risoluzione 194 del 1948 sul ritorno dei profughi; oppure la risoluzione 252, la quale riaffermò il principio espresso nel preambolo della risoluzione 242, in cui si sancisce come tutte le misure legislative e amministrative adottate da Israele, compresa l’espropriazione di terre e proprietà, tese a modificare lo status legale di Gerusalemme siano da considerarsi non valide.

Ma la radice storica di questa diplomazia fallace vi è la guerra arabo-israeliana del 1949, seguita ad Al Nakba. Con gli armistizi separati fra Israele e Egitto, Libano, Giordania e Siria, lo Stato di Israele ha occupato e annesso il 77% del totale della Palestina mandataria, a dispetto del 56% assegnatogli dall’Onu, di cui fa parte anche Gerusalemme ovest. “In contrasto con le disposizioni della risoluzione 181 – osserva Traetta – riguardo alla condizione di corpus separatum della Città santa, nel 1949 la posizione di Israele espressa in seno all’Assemblea generale dal proprio rappresentante diplomatico presso la Commissione politica ad hoc fu la seguente: ‘Il governo di Israele ha sostenuto l’istituzione da parte delle Nazioni Unite di un regime internazionale per Gerusalemme che si occupa esclusivamente del controllo e della protezione dei Luoghi Santi e coopererà con tale regime. Concorderebbe inoltre di porre sotto il controllo internazionale i Luoghi Santi situati all’interno del suo territorio ma al di fuori di Gerusalemme, e ha appoggiato la proposta che bisognerebbe dare delle garanzie per la protezione dei Luoghi Sacri situati in Palestina e garantirne il libero accesso’” (p. 201).

Il sistema coloniale agisce anche su un secondo livello, vale a dire sulla percezione da parte dei colonizzati del sistema stesso. Fanon, che ne ha indagato gli effetti, ha mostrato come i colonizzati tendono a interiorizzare le immagini deridenti e caricaturali che vengono loro imposte: tali immagini, associate alle relazioni oggettive e strutturali, vengono riconosciute come “naturali”. Il colonialismo dei “settlers” agisce attraverso l’eliminazione dell’esistenza delle popolazioni indigene dal territorio. Solo a queste condizioni esso può funzionare. Al colonialismo non interessa lo sfruttamento degli indigeni, ma tende invece a produrre una totalità, sradicando ciò che costituisce la sua negazione, cioè l’esistenza di popoli indigeni, riducendoli a un’entità invisibile, una persona non grata. È per questo che l’impasse israelo-palestinese non dovrebbe essere vista come un evento particolare, ma piuttosto come una struttura che opera per l’eliminazione dei palestinesi autoctoni come entità. Il desiderio di riconoscimento nel colonizzato, che si sviluppa nei termini propri della struttura coloniale globale, può essere visto come una forma di misconoscimento, in quanto rafforza il predominio dell’oppressore. Tuttavia quanto accade nei territori occupati è qualcosa di straordinariamente resistente a qualsiasi forma di oscuramento o misconoscimento. Ed è questa la forza della resistenza palestinese, nonostante l’apartheid, il sionismo e le politiche di annientamento o assoggettamento nei loro confronti. La resistenza palestinese, anziché esaurirsi, rinasce sempre a nuova vita.

Ciò nondimeno la resistenza palestinese convive con la forza israeliana. La soluzione qual è? Riconoscerne l’esistenza. Quella di entrambi, però. La sola intervista rilasciata da Said a un giornale israeliano, l’“Ha’aretz Magazine”, è stata anche la sua ultima in vita e descrive il conflitto fra Israele e Palestina come una “maestosa sinfonia” e mostrandone le vie di fuga.

“Dicevo l’altra sera a Daniel Baremboim – rifletteva a voce alta – Pensa a questa catena di eventi: l’antisemitismo, il bisogno degli ebrei di trovare una patria, l’idea originaria di Herzl, decisamente colonialista, e poi la sua trasformazione nelle idee socialiste del moshav e del kibbutz, la situazione drammatica sotto Hitler e persone come Yizhak Shamir che erano realmente interessate a cooperare con lui, poi il genocidio degli ebrei in Europa e le azioni contro i palestinesi nella Palestina del 1948”. Quando pensi a tutto questo, quando pensi a ebrei e palestinesi non separatamente ma come parti di una stessa sinfonia, c’è qualcosa di incredibilmente maestoso. Una storia molto ricca, anche molto tragica e per molti versi disperata, una storia di estremi – di opposti in senso hegeliano – che ancora deve ottenere il giusto riconoscimento. Quello che hai davanti, quindi, è una sorta di grandezza sublime: una sequenza di tragedie, perdite, sacrifici, dolori che richiederebbero la mente di un Bach per riuscire a ricomporla.

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Mixed by Erry https://www.carmillaonline.com/2023/05/13/mixed-by-erry/ Sat, 13 May 2023 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77174 di Francesco Festa

Simona Frasca, Mixed by Erry. La storia dei fratelli Frattasio, Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2023, pp. 252, € 15,20

Vi sono libri che, come matrioska, contengono altri libri, e a loro volta, altri ancora. Certamente quello scritto da Simona Frasca, Mixed by Erry. La storia dei fratelli Frattasio è un esempio par excellence. Un contenitore di tanti libri. Anzi, suggestivamente, è un “cascione” di ricordi, memorie individuali e collettive. Una sorta di sherazade di storie di vite – come lo definisce la stessa autrice. Un cascione di vicende esistenziali e di spaccati generazionali. In particolare, di chi ha [...]]]> di Francesco Festa

Simona Frasca, Mixed by Erry. La storia dei fratelli Frattasio, Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2023, pp. 252, € 15,20

Vi sono libri che, come matrioska, contengono altri libri, e a loro volta, altri ancora. Certamente quello scritto da Simona Frasca, Mixed by Erry. La storia dei fratelli Frattasio è un esempio par excellence. Un contenitore di tanti libri. Anzi, suggestivamente, è un “cascione” di ricordi, memorie individuali e collettive. Una sorta di sherazade di storie di vite – come lo definisce la stessa autrice. Un cascione di vicende esistenziali e di spaccati generazionali. In particolare, di chi ha svolto il proprio apprendistato giovanile fra gli anni Ottanta e Novanta. Uno scorcio di anni frapposto fra i riverberi dell’“orda d’oro”, dell’ondata rivoluzionale ed esistenziale degli anni Settanta, e la repressione degli stessi movimenti politici, la diffusione dell’eroina e, complessivamente, la controrivoluzione neoliberale. Gli anni del “no future” insomma, o anche della “fine della storia” per il capitalismo yuppistico.

In quello scorcio, col senno di poi, non tutto è andato perduto. Nuove forme di aggregazione, di partecipazione e di produzione hanno scavato come talpe ricomponendo un altro possibile. Un senso di quegli anni è sintetizzabile nella categoria di “postmoderno”, ché per almeno due generazioni ha significato la sperimentazione di quanto accennato o intuito negli anni Settanta. Pier Vittorio Tondelli parla del postmoderno italiano degli anni Ottanta come di un insieme di “frammenti, reportage, illuminazioni interiori, riflessioni, descrizioni, fra gruppi teatrali, artisti improvvisati, musici imberbe e filmaker perditempo”.

È in questo contesto storico che va iscritto il libro di Simona Frasca. Poi, va calato nella realtà di Napoli. E, infine, provando a districare quella matrioska di storie postmoderne, vi sono i frammenti biografici, in cui l’autrice cerca di districarsi.

I racconti si accavallano nel flusso della memoria, assumono un ritmo serrato. Per me diventa faticoso contenere la vertigine attivata dalle rievocazioni. Le sessioni di registrazione delle interviste diventano sempre più lunghe. Devo dare ordine alle cose nel caos della vita dei Frattasio. E soprattutto, devo mettere ordine anche dentro i miei pensieri. Per quanto mi sforzi. Per quanto mi dica che il mio sguardo deve essere oggettivo, è difficile non farsi coinvolgere, non prendere parte, non essere empatici. Io faccio loro delle domande. Mi rispondono. Ma il tutto non si limita a questo. È inevitabile che il mio prestare ascolto accolga anche dell’altro. Proprio come accade a un antropologo, questa mia disponibilità ha bisogno continuamente di essere azzerata per ricondurre la narrazione della vicenda a un livello adeguato di oggettività (p. 80).

Mixed by Erry parla di mondi che, a buon titolo, sono catalogabili fra i “miti d’oggi” – come spunto dalle preziose osservazioni di Roland Barthes. Mito come costruzione mitica, mitopoietica, ché è quanto realizzato dai fratelli Frattasio, i quali sono stati artefici di qualcosa che prima di loro non esisteva: preconizzatori di un idealtipo musicale, la compilation, e altresì di modelli economici inesistenti prima delle loro intuizioni. Un mito che, in quanto tale, una volta menzionato è capace di scoperchiare quel cascione e farne uscir fuori una moltitudine di ricordi e storie. E difatti, il libro è un tuffo nel passato di ognuno di noi, o meglio di quelle generazioni iniziate alla musica grazie ai fratelli Frattasio – di cui, oggi, ne conosciamo il nome – oppure di quegli adolescenti, ascoltatori maniacali di musica attraverso le radio di provincia, che conservano gelosamente le musicassette con l’etichetta “Mixed by Erry. La dimensione ideale per l’ascolto pulito”.

D’altronde, il mito ha anche un’altra caratteristica, una sorta di sviluppo politico, socialmente trasversale, poiché viene utilizzato dalle classi dominanti per cancellare le differenze tra le classi sociali tramite i prodotti commerciali e culturali e, in particolare, per favorire l’alleanza tra borghesia e la piccola borghesia, anzi, precisamente, per appropriarsi dell’intelligenza e della creatività delle classi subalterne e farne oggetto dei propri desideri.

L’autrice, dunque, ripercorre la vicenda di Mixed by Erry, attraversando idealmente i dedali di Forcella, della Duchesca e del Centro storico (un corredo di foto in appendice al libro ne restituisce, infatti, il contesto). In maniera caleidoscopica, Frasca ricostruisce la vita economica, politica e sociale di Napoli. Una città che si barcamenava fra il dopo terremoto del 23 novembre 1980, le faide di camorra, da una parte, e dall’altra, il Napoli di Maradona del primo e secondo scudetto, i movimenti dei disoccupati organizzati, i primi centri sociali e le controculture musicali. E in mezzo, vi era un’economia parallela o, precisamente, l’economia reale: il commercio di nuovi prodotti, il contrabbando e la contraffazione di nuovi beni e di nuovi miti (le sigarette, l’abbigliamento, le musicassette, ecc.), quali prodotti, a loro modo, originali sul mercato.

Il legale e l’illegale all’epoca erano la stessa cosa, lo stato in mancanza di lavoro ci lasciava fare quello che volevamo. Erano gli anni in cui si facevano le multe di miliardi che mai sarebbero state pagate ma che si dovevano fare per legge (p. 152).

Che tale settore o tali condotte vengano rubricate dalla legge sotto forma di “pirateria” è aspetto assai risibile rispetto a un dato inconfutabile, ossia, di quei beni e di quei prodotti si rifornivano trasversalmente sia i “ceti subalterni” che la borghesia, tanto a Napoli quanto nel Meridione, se non nel resto d’Italia.

D’altro canto, la pirateria è una categoria ambivalente, sotto tanti aspetti. Ad esempio, gli storici si sono interrogati sulla stessa e sulla figura mitica del pirata. Preconizzatore spietato di nuove terre e nuovi mari oppure un “Robin Hood” delle risorse opulenti dei privati accaparratori? I “ribelli dell’Atlantico” (ex marinai, schiavi, soldati, plebaglia, affiliati a sette religiose radicali), ossia “i pirati dall’ideale utopico”, hanno istradato – a loro insaputa – a partire dalla fine del XVI fino al XVIII secolo l’espansione coloniale inglese nelle terre vergini delle Americhe. Oppure, come raccontato da Wu Ming, con un registro mitico, i pirati hanno inventato forme di produzione sociale, in controtendenze anche alle forme statuali e contro il senso comune, diffondendo idee di libertà e giustizia sociale. Tuttavia, una volta sgamata, la pirateria di qualsiasi epoca e situazione viene poi imbrigliata in dispositivi di controllo e repressione. Si chiamino fiscalità o diritti d’autore oppure copyright, in fin dei conti tali dispositivi sono forme di espropriazione delle creazioni sociali, collettive, messe in atto da precursori innovativi e utopici. Tale processo appare come una sorta di “accumulazione originaria”, ante litteram, cioè, di preistoria del capitale e del modo di produzione di determinati beni.

Nel libro vi è ampio spazio dedicato ai dati con cui vale la pena di fare i conti per interrogarsi sul fenomeno, il quale non può essere rubricabile nella categoria di pirateria. Se si parla che “il 21% del mercato mondiale valutabile in circa 40 miliardi di dollari era costituito da prodotti illegali per un valore di oltre 2500 milioni di dollari” (p. 174), è impensabile che fosse tutto oggetto di pirateria, di falsificazione? Per rispondere a questa domanda, giunge in soccorso uno stralcio di intervista – fra le tantissime presenti nel libro – a Peppe Vessicchio, noto compositore e direttore d’orchestra al Festival di Sanremo dal 1990, che pacatamente sostiene “come tanti altri non sapevo chi fosse Louis Vuitton fino a quando quel nome non è comparso su centinaia di borse in vendita sulle bancarelle” (p. 69). E di fatto, grazie a Mixed by Erry, “tanti cantanti di rilievo locale come Franco Ricciardi, Federico Salvatore e Tony Tammaro hanno ottenuto pubblicità gratuita”. A maggior ragione, il sogno di un musicista qual è? Altrimenti detto: cos’è la musica se non arte quale prodotto sociale che, giocoforza, deve divenire bene comune per essere conosciuta e ascoltata possibilmente da quante più persone?

Detto fuori dai denti, la portata del fenomeno pirateria è icasticamente rappresentato dalla confidenza di Luciano D’Angelo, il Pubblico ministero che ha firmato le misure cautelari ai fratelli Frattasio, nella prima metà del 1997. Nonostante il suo ruolo, il Pm rivela che “anche lui aveva una discreta raccolta di cassette Mixed by Erry anche se, specifica, le aveva collezionate prima di interessarsi al caso” (p. 173).

In conclusione di Mixed by Erry – che è davvero una bella lettura – resta come una metafora, quella del gatto e del topo: fra lo Stato, il capitale, la legge e la Guardia di finanza, da una parte, l’intelligenza collettiva, il sapere sociale, dall’altra. Provando una traduzione dell’ermeneutica marxista alla produzione di questa tipologia di valore e di bene, non pare peregrina l’ipotesi di come il valore d’uso del sapere, immagazzinato in quelle centinaia di migliaia di musicassette e cd-rom distribuite fra bancarelle e negozi, più o meno ufficiali, sia stato assai superiore del valore misurato e mercificato dal capitale stesso. Quelle musicassette – con Marx dei Grundisse – è “sapere sociale generale”, “knowledge”, “general intellect”, tale da materializzarsi in “prassi sociale” e “processo di vita reale.”

Dell’impresa dei fratelli Frattasio per cui hanno pagato con l’onta del carcere, oggi, cosa resta? Di certo resta un’infinità di domande di per sé ambivalenti e tutte afferenti a un rapporto, risalente alla notte dei tempi, fra le pratiche di libertà e i dispositivi di controllo. Ma soprattutto, resta un archivio di emozioni, riaccese con questo libro, e un repertorio sconfinato di musicassette su cui tante generazioni sono cresciute.

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Decostruire e ricostruire il Mezzogiorno a partire da “Il rovescio della nazione” https://www.carmillaonline.com/2023/03/10/decostruire-e-ricostruire-il-mezzogiorno-a-partire-da-il-rovescio-della-nazione/ Fri, 10 Mar 2023 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76458 di Francesco Festa

Carmine Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu Edizioni, Napoli, 2023, pp. 237, € 15,20

C’è una nota affermazione di Jacques Derrida dove il pensatore francese sosteneva che nel parlare del margine in realtà parliamo del centro, ossia, tocchiamo il cuore del problema, anzi, decostruiamo il centro a partire dal suo margine, laddove questo, obliquamente, ci mette nella condizione di osservare il centro in tutta la sua limitatezza. Il libro di Carmine Conelli ci restituisce questo effetto, cioè, di parlare di un tema posto ai [...]]]> di Francesco Festa

Carmine Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu Edizioni, Napoli, 2023, pp. 237, € 15,20

C’è una nota affermazione di Jacques Derrida dove il pensatore francese sosteneva che nel parlare del margine in realtà parliamo del centro, ossia, tocchiamo il cuore del problema, anzi, decostruiamo il centro a partire dal suo margine, laddove questo, obliquamente, ci mette nella condizione di osservare il centro in tutta la sua limitatezza.
Il libro di Carmine Conelli ci restituisce questo effetto, cioè, di parlare di un tema posto ai margini, situato icasticamente alla periferia della storia, ciò nondimeno, così potente da essere la spina nel fianco di questa “nazione”, la cruna dell’ago da cui, chiunque si confronti con esso, debba giocoforza passare.

In effetti un libro che parli del Mezzogiorno d’Italia ha poche alternative: o è un libro scomodo, che punta dritto al cuore sferrando l’attacco dalle retrovie, da dove non ti aspetti e va a colpire un fianco aperto, oppure è un deja vu, qualcosa di già letto. Se è quest’ultima la china, il discorso procederà con le lamentele e le recriminazioni, sulla “questione meridionale”, su ciò che è stato fatto, o non fatto, i soldi investiti e quelli sperperati o spariti, quanto sia responsabilità della classe dirigente oppure sulla responsabilità della cultura dei meridionali. Un testo del genere condurrà il lettore al cul-de-sac dove sono esposte la responsabilità, l’assenza di senso civico e di cultura della modernità dei meridionali.

Il rovescio della nazione, per fortuna, fa piazza pulita di questi discorsi depotenzianti, dei cliché e degli stereotipi, anzi, se ne tiene ben distante. È un libro scomodo, innanzitutto, che partendo dal margine meridionale cerca di indagare su ciò che può essere un punto di vista autonomo, altro, sul Meridione. È stato volutamente scritto per una facile divulgazione, superando gli specialismi, tralasciando – a ragione – l’infrastruttura bibliografica che sorregge l’impianto teorico delle categorie in esso utilizzato e che ha lavorato, almeno negli ultimi venti anni, come una talpa per decostruire e ricostruire l’idea di Mezzogiorno.

Sbrogliata la matassa dei discorsi depotenzianti, nel libro si coglie una stratificazione bibliografica, composta di saggi, articoli e libri pregressi i cui echi sono percepibili solo da chi ne conosce i rimandi; infatti, al lettore comune Il rovescio della nazione appare come un’opera straordinariamente originale, poiché ne elude la genealogia.

Vale la pena però qui ripercorrere la stratificazione bibliografica e risalire a quanto nel “presente storico” del Meridione, per dirla con Marx, vi sia il frutto di un lavoro di rovesciamento di paradigma, ciò non solo per ripercorrere la genealogia de Il rovescio della nazione ma tutta l’opera di studiosi e di collettivi che negli ultimi vent’anni hanno lavorato per smontare il regime di verità costruito sul Meridione, segnalando il rimosso, il non detto, il forcluso della storia italiana, ciò che Miguel Mellino chiama l’“inconscio coloniale delle strutture del sentire nazionale”.

Occorre riandare agli anni Novata, all’avanzata del leghismo e all’emergere di una “questione settentrionale”, violentemente impostasi – e nei discorsi e nelle pratiche – contro la “questione meridionale”. Alla fine di quel decennio è incominciato a nascere come una sorta di revisionismo della storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia. La cifra stilistica di chi ne sosteneva movimenti culturali e politici ruotava sull’assunto che sotto i Borbone si stava meglio: Napoli capitale di un regno, la prima linea ferroviaria e le prime industrie erano al Sud, e via discorrendo, ignorando come tali primati corrispondessero solo ai capricci e agli interessi della casa reale e della borghesia proprietaria, la quale sotto il Regno Sabaudo cambiarono casacca garantendosi le medesime proprietà. I sostenitori di tali tesi si appoggiarono in seguito anche a libri, sempre di fattura revisionistica, scritti da giornalisti o presunti storici, con una debolezza disarmante di fonti storiografiche, ciò nondimeno ebbero una larghissima diffusione fra discount e autogrill. E gli effetti sono stati devastanti. Hanno suscitato un’eterogenesi di reazioni: da una parte, libri di taglio opposto ma dalla stessa fattura, dall’altra, in ambiti accademici, si sono intensificati gli studi a sostegno di tesi per lo più di matrice crociana e storicista, che hanno cercato di giustificare il processo unitario come necessario e ignorato sans phrase la “questione coloniale interna”, adoperando una categoria di Nicola Zitara. In altre parole, quelle reazioni hanno messo all’angolo all’interno della “costruzione della nazione” alcuni campi d’indagine afferenti al processo di unificazione e a quanto avvenuto a cavallo tra Otto e Novecento. Ne citiamo alcuni: il tema della colonialità, la struttura dell’accumulazione capitalistica, la politica delle differenze e i processi di razzializzazione. Tali temi forclusi si sono stratificati, non sono scomparsi, anzi, hanno continuano ad agire nel senso comune, tuttavia non sono stati studiati organicamente, se non affrontati sporadicamente da qualche studioso illuminato, ma in ogni caso sono rimasti dei temi isolati, assai poco introdotti negli studi sul Mezzogiorno, i quali sono rimasti ostaggio dell’economia politica, delle astratte cifre dei dati sugli indici di sviluppo o di differenza dalle province settentrionali.

Eppure qualcosa si stava muovendo alla fine degli anni Novanta. Una serie di ricerche, seppur con distinti approcci, andava dischiudendo tramite innovativi metodi di osservazione un altro modo di interpretare il Meridione d’Italia. Che potremmo leggere nella categoria di “pensiero meridiano”, dove “meridiano” addiviene a un altro sentire del Sud: una collocazione geografica quale incontro tra la terra e il mare, una collocazione di confine che simboleggia “la difficoltà di stare in un solo luogo”, la coesistenza di più “patrie” e, dunque, la garanzia di identità complesse e di riscatto da soffocanti campanilismi. Una volta rotta la gabbia della reductio ad unum e interpretato il Sud nella sua multiformità, l’esplosione di senso ha permesso nuove riflessioni sulla sua storia. Ne citiamo alcune: il processo di accumulazione originaria a cavallo fra Otto e Novecento che ha determinato, lungo il piano storico del capitalismo internazionale, la ricerca di nuovi spazi e nuove periferie da colonizzare, instaurando “politiche delle differenze”, cioè, politiche di inclusione differenziale a seconda della composizione lavorativa richiesta in particolare nelle province meridionali; il che, in decenni in cui infieriva il “romanzo antropologico” della scuola positivista, la razzializzazione quale dispositivo di controllo della popolazione e delle forze produttive è divenuto un modello di governo nel corso del Novecento, così a determinati rapporti di produzione è corrisposto un determinato ordine del discorso razzista.

In quest’ambito di studi una menzione particolare va fatta per “Meridiana”, una rivista nata all’interno dei dipartimenti di storia di alcune università meridionali, con la collaborazione anche di storici inglesi e americani. “Meridiana” ha certo gettato luce sul Mezzogiorno da altre prospettive. Innanzitutto, nella ricchezza e multiformità delle sue province, rifuggendo dalla tediosa “questione meridionale”, a causa della quale l’osservazione è stata curvata esclusivamente verso la dimensione dell’arretratezza, non solo economica e politica, ma anche sociale, civile e culturale, contrapponendo il Sud, nel suo complesso, al Nord prospero e progredito, centro reale della storia. “Meridiana” ha di fatto messo in dubbio il meridionalismo tradizionale come unica prospettiva possibile. Dello stesso tenore è il libro del 1999, Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia, curato dagli statunitensi Robert Lumley e Jonathan Morris, che affronta argomenti classici come l’economia del latifondo, la criminalità organizzata o la struttura del potere locale, e temi in quel tempo ancora insondati come, ad esempio, la nascita degli stereotipi sul Sud.

Nello stesso periodo, gli studi si sono intensificati e, soprattutto, si è andata arricchendo la cassetta degli attrezzi del pensiero meridiano. Passaggio fondamentale è stato il 1996, con l’uscita de Il pensiero meridiano del filosofo Franco Cassano, senza dubbio un attrezzo apripista per un punto di vista autonomo sul Meridione e sulla molteplicità dello stesso, rivalutando quelle caratteristiche del Sud, stigmatizzate dal meridionalismo classico e viste come patologie alla sua crescita e alla sua modernizzazione. Il pensiero meridiano muove da tre idee principali e promuove due metodi di azione. Partendo da una critica agli interventi imposti sul Sud, finalizzati a ridurre lo scarto con il Nord, ma che anziché agire da cura ne hanno aggravato le patologie – in certi casi le avrebbero persino create – e promosso il sottosviluppo, viene proposto come primo assunto un Sud soggetto di pensiero, che pensi da sé e per sé, capace di riconquistare la propria autonomia; per operare un’inversione di marcia la prima azione è quella di abbandonare la corsa allo sviluppo inteso come tecnicizzazione, industrializzazione e accumulo capitalistico, sviluppo che si è cercato di realizzare, senza successo, “prostituendo il territorio e l’ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni” e ricorrendo ad attività criminali, quando poi sono falliti metodi e forme legali. La seconda azione è aspirare a un diverso ideale di modernità e di sviluppo e creare questo ideale attingendo al proprio patrimonio culturale e al proprio deposito di risorse e valori, quelle risorse e quei valori che sono stati finora visti come “vincoli, limiti e vizi” dai sostenitori della modernità e che oggi esistono solo in forme disperse o malate.

Sono seguiti altri studi che hanno proseguito lo scavo inaugurato da Il pensiero meridiano tuttavia ognuno di essi ha dovuto confrontarsi col suo punto di vista sul Sud. In tal senso, come già fatto da Cassano, si può considerare l’utilizzo dell’“orientalismo” alla storia culturale italiana. Un concetto d’ispirazione gramsciana, elaborato poi da Edward Said negli anni Settanta per interpretare il rapporto Oriente/Occidente tramite la lente dell’egemonia culturale: il “materialismo geografico” che caratterizza i processi di accumulazione a seconda dei differenti contesti territoriali, visibile anche e soprattutto della rappresentazione culturale che la parte egemone costruisce sulla parte subalterna. Nel 1998 esce a cura di Jane Schneider, Italy’s ‘Southern Question’ Orientalism in One Country, un libro che raccoglie studi storici e antropologici, promosso da università statunitensi e indiscutibilmente debitore di Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente di Said. Un altro passo fondamentale è stato compiuto, sempre nel ’98, con la pubblicazione di Come il Meridione divenne una questione. Rappresentazione del Sud prima e dopo il ’48 di Marta Petrusewicz e a seguire da Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea di Mario Alcaro.

Importa sottolineare come il risultato più significativo conseguito da questo sforzo di pensiero, da queste ricerche, sia stata la critica all’usurata “questione meridionale” e di tutta quella corrente economico-politica che va sotto il nome di meridionalismo, ovvero la costante demolizione spietata del Sud attraverso una rappresentazione di varia natura e desolazione iniziata e sviluppata a partire dalla fine dell’Ottocento. In realtà, non si è trattato solo di fare i conti con la radice liberal-risorgimentale che ha alimentato il meridionalismo, tanto nella sua versione dorsiana-salveminiana quanto in quella marxista-togliattiana, bensì si tratta, ancor oggi, di individuare la classe politica – e della sinistra riformista e di quella centrista – sparsa anche al di fuori del Mezzogiorno, nella pubblica amministrazione, nelle burocrazie sindacali e di partito, nelle redazioni dei giornali e delle emittenti televisive, che continuano a riprodurre una opinione pubblica accidiosa, svolgendo un pensiero in continuità con quel meridionalismo “sviluppista” in cerca di interventi speciali, che ha in sé il paradigma dell’emergenzialismo, sostenuto da attività di studio e di ricerca, con consolidate risorse accademiche, i cui esiti sono assai caricaturali. La posta di quegli studi meridiani, invece, è stata ben più alta: aprire gli studi sul Sud, sottraendoli ai dati legati al Pil, all’economia politica, alle classifiche dei tassi di crescita, puntando ad altri ambiti: l’antropologia, la sociologia comparata, la storia delle idee, delle passioni comuni, dei desideri, dei movimenti, della comune apprensione del tempo e della natura, della psico-analisi della vita quotidiana, del senso comune e delle forme di rimozione collettiva.

Con gli anni duemila, la cassetta degli attrezzi meridiana si arricchisce notevolmente: appaiono in lingua italiana le traduzioni di alcuni saggi e articoli, in gran parte anglo-sassoni, che vanno sotto il nome di Postcolonial studies, Subaltern studies o anche più genericamente Cultural studies. Per lo più è materiale di studio svolto in riviste collettive indiane o della diaspora coloniale. Stuart Hall, Paul Gilroy, lo stesso Edward Said o gli storici Ranajit Guha e Dipesh Chakrabarty, e la filosofa Gayatri Chakravorty Spivak, sono alcuni riferimenti di questa corrente di studi, i cui strumenti interpretativi si mostrano subito utili, sia agli studi sul Meridione sia al dibattito del movimento noglobal (in quegli anni, in pieno fermento nella critica alla modernità capitalistica e al paradigma della globalizzazione neoliberista), infatti è dei primi anni duemila, un numero speciale della rivista DeriveApprodi, intitolato proprio Movimenti postcoloniali.

Di indubbia importanza, nella stratificazione che stiamo ripercorrendo, è l’originale lettura del pensiero di Gramsci offerta dai subaltern studies. Liberato dalle maglie imposte da Palmiro Togliatti, con la pubblicazione dei Quaderni del carcere nel 1948, Gramsci riacquista quella potenza interpretativa della realtà sociale. Le sue numerose categorie sono così diventate strumenti utili per leggere la produzione del mondo da parte del capitalismo, ma soprattutto leve per disarticolarlo. Oppure l’analisi dei “gruppi subalterni” o l’idea di “egemonia”; il campo dell’“ideologia” e della cultura oppure l’archivio dei “luoghi comuni” che è stato indagato approfonditamente da Gramsci in un rapporto di tensione con il marxismo classico e di abbandono delle semplificazioni del “riduzionismo” e dell’“economicismo”; le “società” o le “formazioni sociale”, ove si combinano in modi differenti istanze economiche, politiche, ideologiche, i costumi, le abitudini e le “tradizioni” nazionali.

A cavallo dei due secoli, Lidia Curti e, poi, il Centro Studi Postcoloniali e di Genere hanno svolto una funzione indispensabile per la traduzione e la diffusione a livello internazionale degli Studi Postcoloniali. Curti insieme a Iain Chambers ha curato il volume La questione postcoloniale nel 1997, da quella pubblicazione in poi vi è stato un crescendo di ricerche con sede presso l’università l’Orientale di Napoli, diffondendo conoscenza critica dei rapporti di sapere e di potere, decostruendo i processi di colonizzazione e subordinazione e focalizzando gli studi lungo la linea della disuguaglianza razziale e di genere. Lo sviluppo del pensiero di Chambers ha certo aperto la strada all’introduzione degli studi postcoloniali nelle ricerche sul Sud e sul Mediterraneo. Qualche anno fa, scriveva Chambers: “Smontare il Sud per permettere che un altro Sud possa emergere, significa cercare un’altra grammatica con cui narrare questo tempo-spazio costruito e costretto a ripetersi nello specchio di una subalternità costante. Insistere sul ruolo determinante del Sud nella riproduzione politica e culturale dell’egemonia del Nord, come parte integrante della sua riproduzione, significa già smantellare la gabbia”.

Emancipato dai fardelli del meridionalismo e arricchito da questi contributi, nel 2008, Franco Piperno cura il volume Vento del meriggio. Insorgenze urbane e postmodernità nel Mezzogiorno. In realtà, Piperno dà forma e parole a riflessioni prodotte un decennio prima in Elogio dello spirito pubblico meridionale: genius loci e individuo sociale, uscito nel 1997; infatti Vento del meriggio raccoglie saggi provenienti da luoghi posti in quel conflittuale margine in lotta contro i modelli di sviluppo capitalistico imposti dallo Stato e dai governi dell’epoca e in contrasto con i desideri delle comunità. Un libro corale che parla delle lotte meridionali e offre loro un apparato teorico. Ritroviamo le lotte contro il nucleare a Scanzano, le rivolte contro l’inceneritore di Acerra o quelle contro la discarica di Serre, per un altro modo di gestione della raccolta dei rifiuti in Campania e per la filosofia di “rifiuti zero”. Sono solo alcuni esempi di un’opera che si presenta come sintesi di pratiche e condotte riconducibili al pensiero meridiano.

Il paradigma meridiano, al giro di boa del 2010, è ormai maturo. Si porta dietro tanto materiale: svariati saggi e interventi, qui brevemente scorsi, e una riflessione complessivamente solida sul Sud, una cassetta degli attrezzi a cui collettivi, centri sociali e organizzazioni di movimento possono attingere. Infatti, la sistematizzazione di questo svariato materiale avviene in un ciclo di seminari, fra il 2011 e il 2013, promossi dall’esperienza di Orizzonti meridiani, una rete che collegava ricercatori ed esperienze militanti. I materiali sono raccolti in Briganti o emigranti: Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, del 2014, un libro collettivo che getta uno sguardo sulla condizione del Meridione, interrogandone l’esistenza stessa, a partire da una comune, autonoma temporalità, dal sentimento del luogo e del movimento che ne costituisce la specificità. Sono esercizi di decostruzione delle vecchie categorie concettuali sulle quali per anni si è fondata la tradizionale “questione meridionale”: la coppia sviluppo/sottosviluppo, dispositivo di governo che attraversa tutta la storia del Mezzogiorno, sancendone la presunta “arretratezza”; i discorsi di inferiorizzazione, spesso esplicitamente razzisti, che hanno avuto ampia parte nella costruzione della subalternità del Sud; le retoriche dello stato d’eccezione e della perpetua “emergenza”. Allo stesso tempo, sondano le nuove pratiche del comune, della riappropriazione, degli esperimenti di welfare dal basso, che animano le lotte della società meridionale. In quelle pagine trova applicazione il “materialismo geografico”, vale a dire, Gramsci che incontra i Subaltern studies e le prospettive postcoloniali per definire una cartografia delle lotte, delle resistenze, delle insorgenze che, da Sud, tracciano un’alternativa altermoderna, oltre la crisi del modello lineare e omologante di sviluppo imposto dal neoliberismo.

Questa è la genealogia cui attinge Il rovescio della nazione. Ma l’importanza di questo volume, così come ogni ricerca accademica, è quella tensione costituente ad arricchire la bibliografia esistente con ulteriori elementi. Ne consideriamo uno qui, vale a dire la definizione di “colonialità” che Conelli prende in prestito dal sociologo peruviano, Anibal Quijano, il quale la utilizza per denominare lo scarto tra il fenomeno della colonizzazione, intesa come processo militare, politico e culturale limitato nel tempo e nello spazio, e quello della colonialidad che è invece la forma materiale del potere. Se il colonialismo è la pratica di conquista, assoggettamento e sfruttamento, la “colonialità” è molto più duratura e profonda come forma di potere, poiché si fonda sulla giustificazione del ruolo dei colonizzatori – per Quijano gli europei – in qualità di organizzatori razionali del mondo e portatori di un ordine superiore – che in quel caso era l’eurocentrismo. Va aggiunto poi quel surplus, direbbe Étienne Balibar, di differenziazione costituito dall’idea di razza, quale strumento di “codifica e naturalizzazione di presunte differenze biologiche”. A questo punto, Conelli ha in mano una lente assai potente per portare in evidenza la sottile “filigrana della colonialità” mostrando come essa abbia attraversano decenni e decenni giungendo fino all’oggi, mutando la sua finalità, da mera politica economica a stereotipo, insidiandosi nelle categorie del pensiero e nel senso comune, una lente che ci consente anche di scorgere chiaramente la colonialità impregnata nelle politiche dell’“autonomia differenziata” in via di realizzazione dal governo post-fascista. Se ne evince bene la portata nel passaggio qui accluso:

L’espansione coloniale incise fortemente su quel processo di formazione dell’identità nazionale che fino all’unificazione e con la guerra al brigantaggio era avvenuto proiettando su un’alterità «interna» il rovescio della modernità auspicata dalle élite. Esso ora si ridefiniva attraverso il contrasto con l’alterità delle popolazioni colonizzate, che consentiva di ridurre la differenza imperiale con gli altri paesi d’Europa e di riportare all’interno del discorso nazionale gli stessi meridionali. Ci troviamo ora al punto di incontro tra la logica della colonialità che abbiamo individuato nel processo di costruzione del Sud e il fenomeno coloniale in senso proprio. Utilizzare il filtro della colonialità per passare al setaccio il campo discorsivo dell’identità nazionale italiana significa porsi sulla linea di demarcazione esistente tra questione meridionale e questione coloniale, rendendone cristalline le sovrapposizioni e le rotture inaugurate nella sfera pubblica italiana a partire dal periodo risorgimentale (p. 95).

Gli echi di quel catalogo dell’“altro indesiderato” si sentono ancora, come un brusio a volte percepibile talaltre meno, eppure è lì, sullo sfondo: i meridionali, passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e senza cultura razionale, civica, ordinata. Il rovescio della nazione va oltre questo catalogo, anzi, a partire dai frammentari “criteri metodologici” del Quaderno XXV di Gramsci, si pone alcune domande sull’attualità dell’organizzazione dei subalterni. Focalizzando i limiti di esperienze di autorganizzazione negli anni Settanta a Napoli, si concentra su ciò che è l’autonomia di comportamenti delle classi subalterne, quelle “contro-condotte” com’ebbe a dire Michel Foucault, grazie alle quali si possono immaginare e consolidare delle pratiche costituenti. Da qui, Conelli ci mostra la violenza dello Stato e dei suoi lacchè intellettuali nel rapporto con la subalternità o con ciò che è indesiderabile, il che si manifesta in maniera icastica sui bambini, sui corpi inermi, e l’autore dedica ampie riflessioni alla vicenda di Ugo Russo, il quattordicenne ucciso da un carabiniere. Il consiglio, spesso, è di tornare ai classici, in effetti, Vincenzo Cuoco annottando punti sulla sconfitta della Rivoluzione napoletana del 1799, rammentava come “le genti de’ geni, de’ spiriti”, assai spesso sono “incapaci di cogliere le distinzioni”, “di comprendere la molteplicità della realtà effettiva” della diversità.

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Il potere della lingua https://www.carmillaonline.com/2022/11/24/il-potere-della-lingua/ Thu, 24 Nov 2022 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74806 di Francesco Festa

Gennaro Ascione, Untori, Magmata, Napoli, 2022, pp. 92,  € 15,00

Dopo il De umbris idearum, in cui enuclea i fondamenti teorici della “nova filosofia”, Giordano Bruno pubblica Il Candelaio, una commedia in volgare. La scelta del volgare non è casuale. Dal 1583 al 1586, tra Parigi e Londra, il nolano pubblica anche i sei dialoghi italiani ma continua a scrivere opere in latino. Il che si spiega per una volontà politica, ossia la volontà di esprimere la sua filosofia con un linguaggio nuovo volto a comunicare con il “volgo”, dunque, [...]]]> di Francesco Festa

Gennaro Ascione, Untori, Magmata, Napoli, 2022, pp. 92,  € 15,00

Dopo il De umbris idearum, in cui enuclea i fondamenti teorici della “nova filosofia”, Giordano Bruno pubblica Il Candelaio, una commedia in volgare. La scelta del volgare non è casuale. Dal 1583 al 1586, tra Parigi e Londra, il nolano pubblica anche i sei dialoghi italiani ma continua a scrivere opere in latino. Il che si spiega per una volontà politica, ossia la volontà di esprimere la sua filosofia con un linguaggio nuovo volto a comunicare con il “volgo”, dunque, lontano dal latino pedantesco adoperato nelle università e concatenato all’elitismo dell’universo aristotelico. D’altronde, i dialoghi filosofici come anche le commedie, Bruno li utilizza stravolgendone i canoni e inserendo elementi del dialogo nella commedia ed elementi teatrali; e di conseguenza ne rivoluziona le regole imposte dai grammatici ortodossi. Il rifiuto interno e la consapevolezza che un pensiero nuovo imponeva un linguaggio nuovo, lo spingeva a ricercare forme espressive corrispondenti al suo pensiero da tradurre in una lingua viva; e la scelta del volgare era in sé segno di vitalità, vivacità e di musicalità del suo idioma natìo.

Alla prima presentazione del romanzo Untori (Magmata, Napoli, pp. 92), presso lo spazio Dopolavoro culturale, all’interno del Monopolio – Laboratorio di Cultura popolare di Ariano Irpino (Av), l’autore Gennaro Ascione ha riconosciuto il debito verso Giordano Bruno, il filosofo arso vivo a Campo dei Fiori. Un debito che rievoca la sentenza del filosofo pronunciata alla modernità, tanto del potere statuale quanto del potere economico, che da quel 17 febbraio del 1600 giunge fino a noi: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (“Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla”). È alla “ragion di Stato” e ai suoi dispositivi di “governo degli uomini” che si rivolge Bruno, a quei primi passaggi – secondo Michel Foucault – tali da costituire le strategie disciplinari dello Stato moderno. E con queste forme e strategie, seppur fra le righe, il libro di Ascione fa i conti.

Untori è un’opera costruita magistralmente sull’uso della lingua. Quale debito col nolano, l’autore dà vita a una “lingua nuova”: un melting pot di spagnolo, veneziano, napoletano e latino. Il libro è costruito seguendo dei ritmi musicali, con tempi lenti e di repente rapidi, e parole onomatopeiche in grado di accompagnare la lettura. È redatto come un amanuense trascriverebbe un testo, in maniera maniacale, proprio perché è la lingua o meglio il codice linguistico delle differenti lingue che conduce il lettore nel senso storico in cui si svolgono i fatti: è nella musicalità della lingua che entrano in scena i fatti.

Untori è difatti costruito come una pièce teatrale. Ed ecco il secondo debito di Ascione, ossia un debito con la tradizione del teatro napoletano, le cui radici risalgono suppergiù agli anni d’ambientazione del romanzo, fra il XV e il XVI secolo; sono le maschere teatrali cui si rifà l’autore che rimandano a quel teatro: sono i personaggi in grado di farsi beffa dell’intera classe politica e delle sue magagne solamente tramite l’ironia, denunciando la condizione del volgo, vessato dalle ingiustizie e soggetto alla fame e alla povertà. Insomma, il teatro come strumento di satira e lotta politica.

Da una parte, abbiamo la “lingua nuova”, dall’altra, il teatro. Sono i due attrezzi, fra i tanti della sua cassetta, adoperati nella scrittura di Untori. Il lettore viene così trasportato in epoca rinascimentale, nel Cinquecento, e in un luogo ben situato, la Napoli dei decumani e dei cardini, ma soprattutto la Napoli della stratificazione sociale e della distribuzione nello spazio urbano, che proprio in quel secolo trova la forte polarizzazione sociale perpetuatasi fino ad oggi, che corrisponde all’organizzazione residenziale, ossia i ricchi e poveri insediati negli stessi edifici (bassi e piani inferiori popolari, piani superiori nobili) o in strade adiacenti (borghesi e aristocratici nei larghi viali, classi popolari in stradine e vicoli perpendicolari a queste).

“Al risveglio mattutino senza pioggia in quella via, Pia Gargiulo, la comare, schiude il basso rabbuiato ai pié dell’arco monumentale. Mette il latte sopra al fuoco per la figlia e sbadiglia stropicciandosi le palpebre col polso. Lo strillone irriverente diffonde il nuovo editto per la cittadinanza viva: ‘Ormai è nota quasi a tutti la potenza trasmittibile del male ch’oltre a dita, mani, naso, bocca e gola, non risparmia il contagio per la via delle membrane tanto all’oculi che anale, anche al glande o vaginale. Caro popolo, non ti crucciare con dottori e sanitari se in principio, quando il morbo ha iniziato a mieter vite, ripetevano concordi ammonendo tutti quanti che era l’aria il sol vettore onde porre attenzione. Sicché voi, anime belle, avrete certo perdonate a miglior vita la gran parte delle strambe marachelle combinate all’insaputa… Ma per ora, poveracci non vi resta che di dar la testa al muro perché, pur senza saperlo, hate diffuso mortal morbo strofinandovi le mani tra l’ascelle e le dita dentro al culo!” (p. 3)

Il lettore si trova scaraventato in un incedere energico di vicende, fra la diffusione del morbo e la ricerca degli untori. La lettura è come un fiume in piena al disciogliersi delle nevi, reso vigoroso da mille rivoli ed affluenti con espressioni vernacolari, proverbi popolari, equivoci e colpi di scena, metafore oscene e figure retoriche, forme sintattiche esasperate, utilizzando tutti gli elementi della scrittura per esprimere la teatralità dei fatti storici.
La trama si articola nella ricerca degli “appestati”, i quali imprimono le mani rosso sangue sui portoni dei palazzi nobiliari in cui infettano donne e uomini che patiscono atroci sofferenze per poi morirne. I rimandi storici sono per certi versi espliciti a quanto vissuto negli ultimi anni di pandemia. L’investigazione dei gendarmi sui generis termina con un processo canzonatorio, deridente le paure e le fobie che un virus riverbera nei rapporti sociali. Il processo è a due “loschi figuri” dinanzi a Torquato Pere Lonc, “eloquente magistrato”, aduso all’uso di un misto di spagnolo, latino e napoletano, nella Chiesa dei Banchi di Giustizia, sita in “via dell’Anticaglia per via d’Atri”.
Il processo a nulla porta se non all’assoluzione dei due “figuri”. Ed è parabola di come la “ragion di Stato”, tramite l’uso strategico di emergenze e “stato di eccezione”, fungano da dispositivi di disciplinamento e governo delle popolazioni, fra poteri costituiti e poteri paralleli, laddove proprio il Leviatano non è in grado di contenere la potenza e la cooperazione delle donne e degli uomini liberi.

“C’è qualcun che vuol saper di Piazza e Mora? Vivi e vegeti; prosciolti dalla ruota.
Che boutade – a ben guardare – il clamore popolare: prima v’eran occhia centinaia incollati loro addosso con la brama di vederli consumati fino all’osso dal dolor de la sevizia; pochi istanti dopo, nessuno n’have a cuore più la sorte né domanda più loro notizia. Proprio adesso che la storia vera – se vi pare – inizia.
‘Ce la fai?’
‘Sì, ma sto uno schifo’.
‘Dopo il tramonto. Alla locanda del Glifo’.
Sogghigna torvi ormai solinghi i due furfanti. L’occhi lor accendon a vicenda un fosco fuoco al canticchiare complice di quel segreto carme che tramandano zelanti gl’iniziati ai riti torbidi della congrega antica cui appartengono, pestiferi, i venefici briganti.

Simmo malati e facimmo paura
E cu’a sputazza vulimmo infettàr!
Femmine, huommini, viecchie e creature…
La sterminiamo quest’umanità!
‘A sterminammo chest’umanità!

Eh, oh, ah ah ah ah!
Eh, oh, ah ah ah ah!” (p. 92)

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Napoli senza mezze misure https://www.carmillaonline.com/2022/09/26/napoli-senza-mezze-misure/ Mon, 26 Sep 2022 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74224 di Francesco Festa

Giancarlo Piacci, I santi d’argento, Salani, 2022, pp. 334, € 16.00

La lettura di un libro assai spesso viene pungolata o ispirata se non istradata da una colonna musicale. Prima di imbatterci nel ventre del romanzo, vale la pena di offrire qualche consiglio su come affiancarne la lettura. Di certo, un brano che ha ritmato, en pendant, l’incedere del testo, come un camminare onomatopeico incomincia così: “Allero ‘miezo ‘a via/ annascunnuto mai/ cu ‘a cumpagnia / ‘e ‘na 10 ‘e niro / pazzeo pecché sto chino ‘e guaje”. È dei [...]]]> di Francesco Festa

Giancarlo Piacci, I santi d’argento, Salani, 2022, pp. 334, € 16.00

La lettura di un libro assai spesso viene pungolata o ispirata se non istradata da una colonna musicale. Prima di imbatterci nel ventre del romanzo, vale la pena di offrire qualche consiglio su come affiancarne la lettura. Di certo, un brano che ha ritmato, en pendant, l’incedere del testo, come un camminare onomatopeico incomincia così: “Allero ‘miezo ‘a via/ annascunnuto mai/ cu ‘a cumpagnia / ‘e ‘na 10 ‘e niro / pazzeo pecché sto chino ‘e guaje”. È dei 24 Grana, la canzone, Stai mai cca’. Giovano anche altri brani della band partenopea. E, va da sé, a seguire alcune canzoni dei 99 Posse, fra tutte, indubbiamente, Napoli: “Napoli/ Ma tenimmo ‘o sole ‘a pizza e ‘o mandulino/ Tarantelle canzone sole e mandulino/ A Napoli se more a tarallucce e vino / Napoli / Na-Na-Na-Na Napoli”.

Ce ne sarebbero altri, di brani o di autori, per lasciarsi istradare: fra i tanti, il rinvio tosto è a Pino Daniele, e ai suoi primi brani del movimento Neapolitan Power, essi avrebbero accompagnato con complicità la lettura del libro, ma vi sarebbe stata una distanza anagrafica con lo stesso testo, ché invece parla della città di metà e dei tardi anni Duemila, sullo sfondo narrativo vi sono infatti i cambiamenti repentini della città dai mille piani e dalle molteplici stratificazioni, oggetto dell’economia turistica mordi e fuggi. Poco male, in realtà, poiché la storia di tre millenni insegna come Napoli porti con sé una dote straordinaria, quella di essere camaleontica: assorbe tante mutazioni, serbando sempre la sua misteriosa vitalità e potenza.

Per chi ha vissuto a crepapelle il Centro storico di Napoli, fra decumani, cardini e fondaci di epoca greco-romana, non può non identificarsi con quelle colonne musicali. Né tantomeno può isolarsi dalla pervasività della vita cittadina. Non vi sono mezze misure. La “Napoli porosa”, com’ebbe a chiamarla Walter Benjamin, è in grado di trascinare i vissuti e farli propri. È quella dimensione sociale e urbana di compenetrazione di aspetti assai diversi, che si mescolano inesorabilmente in un’unica immagine della città: nulla a Napoli è chiuso in sé stesso, nulla è definitivo e definito: “Nessuna situazione, per come essa appare, è pensata una volta per sempre. Nessuna figura reclama il suo ‘così e non altrimenti’”.

Sono delle istruzioni per l’uso, queste, utili per provare a dirimersi all’interno del dedalo biografico della città, e per essere informati come si conviene al primo romanzo di Giancarlo Piacci, I santi d’argento (Salani, 2022, pp. 334). Vi è difatti una fusione, un sentirsi complici, fra le sue pagine con la “Napoli porosa” o anche con la Napoli subalterna. La Napoli che appare fra le righe è una sorta di contrappunto alla città turistificata e gentrificata, che va travolgendo la sua identità.

In I santi d’argento traspare un “materialismo geografico”, un rapporto di conoscenza ferreo con la città partenopea e con le sue contraddizioni e ingiustizie – come una sorta di “odio mosso d’amore”, per dirla con un brano dei 99 Posse, è quello che affiora durante la lettura. Mentre la città appare come una geografia del desiderio, ordita di una composizione sociale che ambivalentemente e conflittualmente ne vive i suoi stati umorali e porosi; e a mo’ di osmosi ne trasmette i propri, di umori. Se ne evince, così, un’antropologia urbana icasticamente composta di militanti – i cosiddetti “giovani dei centri sociali” (in realtà militanti di formazioni antagoniste e autorganizzate) – che vivono passo passo la roccia vulcanica dei sampietrini, coltivando una missione quasi francescana: “fare la rivoluzione”, o come ricordava Valerio Evangelisti, “essere scintilla per far scoppiare tumulti”. Tale missione convive in quella antropologia con coloro che sopportano lo “stato di cose presenti”, subendo il dominio e la violenza dello Stato – sotto forma istituzionale oppure politico-criminale.

All’interno di tale matassa urbana e sociale, Piacci cuce un romanzo che definire avvincente è poco. Pagina dopo pagina inchioda il lettore a seguirne le trame: i passi di Vincenzo, di ritorno da Bacoli verso Napoli, come un Enea, dall’esilio volontario in provincia, che in realtà è estensione della città stessa, si volge a districare alcune vicende mai conchiuse, le quali riportano alla luce un passato col quale, né con gli psicofarmaci, né con l’isolamento, ha fatto pienamente i conti.

A Napoli, sradicato dal suo esilio, Vincenzo si mette alla ricerca del suo passato e di Giovanni, riannodando i fili di quella matassa: s’incunea nei dedali del Centro storico, e seguendo la narrazione, sembra di camminare insieme a lui, per giungere infine al suo quartiere natale. Qui, l’autore offre un affresco del Centro storico. Forse è una dimensione resistente alla mercificazione, a tratti premoderni, per dirla con Ernst Bloch, la “contemporaneità del non contemporaneo”; di certo è molto lontana da quella ormai soggiogata al turismo di pizze e “cuoppi fritti”.

Cerco di non pensare a casa mia. A quanto peraltro sia improprio definirla ‘mia’. Non credo di essere pronto a tornare. A vivere ancora la vicinanza che anima i vicoli. A respirare quelle vite sempre strette le une alle altre. Ormai sono abituato a non vedere nulla se non la monotona orizzontalità del mare che non fa domande e ti lascia stare. Nel vicolo, invece, tutto è senza barriere. Il vicolo scompone il concetto di famiglia e di proprietà. Si spazza, si lava, si mettono fiori e santini sulle urne della Madonna. Oppure si invidia sfacciatamente, si urla una bestemmia, si riparano le buche, si smista la posta. Tutto è in comune. Le litigate, la televisione, i profumi della tavola. Anche l’amore. Nessuno si scandalizza se nelle notti d’estate, mentre si combatte con il ronzio di una zanzara, si sentono sospiri e gemiti da una finestra vicina. È il vicolo che ama, che si riproduce o che tradisce. (p. 48)

Una volta a casa, Vincenzo, in cerca di Giovanni e di un omicidio o suicidio, s’imbatte in un corteo dove è certo di ritrovare qualcuno che sappia dargli informazioni. Poco dopo si trova in mezzo a scontri con la celere. Un altro brano dei 99 Posse fa da eco alla lettura del brano: “Il sole splende forte a Piazza Plebiscito/ le sirene il cellulare sono mezzo tramortito / a Roberta il mio pensiero non ti ho neanche salutato / schedato, picchiato, insultato, provocato / e intanto il sole splende a Piazza Plebiscito”. Il corteo è per la morte di un ragazzo per mano della polizia, in una città in cui la vita di un ragazzino di famiglia proletaria vale una pallottola in corpo. Un rinvio assai poco velato ai recenti episodi di Davide Bifolco e Ugo Russo: due ragazzi, fra tanti, su cui un’associazione di centri sociali e attivisti va chiedendo verità e giustizia, ricacciandone l’oblio.

Cammino sul marciapiede seguendo lateralmente l’avanzare di questo corteo disordinato che ha radunato centinaia di persone. Alcune sono a torso nudo, le magliette le hanno avvolte sul viso per rendersi non identificabili. Hanno la pelle chiara e i fisici asciutti degli adolescenti. Mi guardo intorno cercando qualche faccia conosciuta […] Intanto, tra le file della polizia qualcosa si muove, arrivano i primi lacrimogeni. La folla si separa. Per alcuni secondi si fa il vuoto attorno ai candelotti che disperdono il gas, poi qualcuno li calcia di nuovo in direzione dei doni della celere. La maggior parte delle persone della mia età tossisce e si strofina gli occhi. Da un bar spuntano alcune bottiglie d’acqua. Riesco a prenderne una e a sciacquarmi la faccia. “Il limone, metteteci il limone. Vi passa subito” mi suggerisce il ragazzo rasato con la bandana e la vitiligine che ho visto prima. Porgendomene una metà. Lo guardo un po’ interdetto poiché non mi è chiaro se vuole che lo sprema nella bottiglia o che me lo strofini sul viso. Lui mi legge l’indecisione sul viso e mima il gesto di passare il frutto intorno agli occhi e sulle palpebre. Mi sento uno di quei vecchi che gioca a fare le cose dei giovani senza rendersi conto di fare ridere, o peggio, di essere patetico. Per un momento mi assale anche la sensazione che quest’idea possa essere estesa a tutta questa storia. A me che, completamente fuori di testa, vengo fino a qui per fare luce su un suicidio. A chi la voglio raccontare? La realtà che rifuggo è esattamente come la immaginavo. Un mondo in rivolta con due fazioni distinte che si fanno la guerra, con me nel mezzo che ne ignoro le regole d’ingaggio, i valori e le sfumature. (p. 52)

I santi d’argento ti abbranca, e lo si nota da questo stralcio. Un noir che ti risucchia nella lettura. E l’autore ha fuor di dubbio una strada spianata in tale genere. Ciò nondimeno, la sua virtù è di introdurre il lettore, e poi di interpellarlo, nelle contraddizioni dei rapporti sociali e nei cortocircuiti relazionali di una città liminare, com’è Napoli, situata sulla soglia di diverse fazioni che convivono e, alle volte, si contrappongono. Insomma, non è il solito noir di pregio, esso smuove le viscere, in realtà, sbalzandone gli strali lungo i vicoli, i cui effetti sono ancor più acuti se si riconoscono ambientazione e vicissitudini.

Detto fuori dai denti: la narrazione del corteo di protesta contro l’uccisione del ragazzino fa a pugni con le immagini stereotipate e positiviste, dal sapore lombrosiano, del prodotto turistico da mettere in mostra. Per altri versi è la concretizzazione dell’“orientalismo”, dello sguardo esterno verso Napoli e i napoletani, quali oggetti reificati, nonché sommatoria di alterità. È un discorso che Piacci riesce con intelligenza a smontare e a détournarne senso e messaggio: un esercizio che alla lunga può mettere in scacco proprio quell’intellighenzia, specchio della borghesia proprietaria, se non assenteista e parassitaria, che non si esime a difendere le ingiustizie dello Stato e le illegalità della propria classe di riferimento, in nome di una giustizia aleatoria o di istituzioni completamente assenti. Un esempio è proprio la morte del diciassettenne Davide Bifolco, avvenuto l’8 settembre 2014 nel rione Traiano, per mano di un poliziotto, dopo un breve inseguimento per un mancato fermo a un posto di blocco. In quell’occasione il noto storico, accademico e giornalista napoletano, Paolo Macry scrisse sul Corriere del Mezzogiorno un editoriale tranchant, pregno di rappresentazioni essenzializzanti sulle periferie secondo quello schema dicotomico, additato dal protagonista de I santi d’argento: da una parte, la legge, dall’altra, l’anomia. Tertium non datur.

A Napoli esistono i ghetti – scrive Macry – nella Parigi di Victor Hugo o nella Londra di Charles Dickens il confine di classe […] è lungamente il confine di razza, a Napoli è il confine della legalità. Scampia, Forcella, il Rione Berlingieri, il Rione Luzzatti, costituiscono aree economicamente degradate e urbanisticamente fatiscenti, ma sono anche il luogo di una contrapposizione dei cittadini allo Stato […] È qui che si nascondono i latitanti, che la gente cerca di resistere con la forza agli arresti della polizia, che i conflitti tra interessi vengono risolti da una giustizia privata e cruenta e le guerre tra bande armate avvengono alla luce del sole […] Sono insomma ghetti perché riflettono un contesto infernale ma anche perché, in qualche modo, si sentono essi stessi ghetti […] territori separati dal resto del tessuto urbano, soggetti a codici speciali, abituati a proprie gerarchie di potere, fidelizzati con ricompense di varia natura dalle organizzazioni criminali.

Nelle periferie i canoni istituzionali mutano differentemente che in altre parti della metropoli: vi sono caratteri straordinari (extra legem), mentre il monopolio della forza adotta una condizione di eccezionalità permanente. Così i confini della cittadinanza divengono giocoforza dislocati in base a un’asimmetria di poteri e a seconda dei quartieri cittadini. Il tutto condito da una serie di cliché: da una parte, un classico dell’orientalismo su Napoli, l’allusione all’inferno, immagine pittoresca ripresa da Benedetto Croce da aneddoti settecenteschi, Un paradiso abitato da diavoli; dall’altra, una concezione tipica della letteratura sulle classi subalterne e le classi pericolose (“la reazione della gente del Rione Traiano, l’assalto alle auto delle forze dell’ordine, le dichiarazioni di amici e passanti, il corteo aggressivo segnalano un fenomeno da non sottovalutare)”. Anche se fra gli storici, vi è chi come Eric Hobsbawm – un po’ più noto del summenzionato – il quale ha riconosciuto proprio nelle rivolte e nelle sollevazioni dei subalterni “forme primitive di rivolta sociale”, ossia “forme prepolitiche che ancora non sono riuscite a trovare un linguaggio”, che non sono state integrate nelle forme politiche e istituzionali borghesi, e che enucleano in sé forme ante litteram di partecipazione politica.

Lungo questo crinale, mutantis mutandis, si possono ascrivere tutte le saghe e le fiction di Gomorra e delle sceneggiature di Roberto Saviano, con cui, a nostro parere, I santi d’argento fanno i conti. Scorrendone le pagine si prende senno di un’altra Napoli rispetto a quella savianea – che è redatta di frusti stereotipi, di frame storici neopositivistici, di descrizioni morali di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici. L’abilità di Piacci sta proprio nel détournare la dinamica manichea, ossigenando il testo grazie a interpretazioni compenetranti le molteplicità sociali e urbane.

I santi d’argento decostruiscono, dunque, l’ordine del discorso manicheo. E per ciò ci pare che un’ultima virtù di questo romanzo è quella di aver dato lustro al New Italian Epic. Un genere coniato da Wu Ming 1 nel 2008, con la pubblicazione del Memorandum di teoria letteraria, in cui descriveva lo scenario letterario italiano durante la Seconda Repubblica, dal 1993, dall’attacco alle Torri Gemelle e il G8 del 2001, fino ai tardi Duemila. Il testo wuminghiano suscitò subito un accesissimo dibattito. Fra gli interventi, da annoverare è quello di Carlo Lucarelli. Lo scrittore bolognese enucleò i tratti comuni di tale flusso letterario – romanzi, narrativa, saggistica – i cui addentellati erano: un tratto epico (imprese storiche o mitiche, sia epocali, sia minori, con la fusione talvolta di aspetti storici e leggende, avocando anche il soprannaturale); un tratto geografico e storico, vale a dire la storia politico-sociale e geografica dell’Italia: paese dalle gambe fragili e dal terreno instabile, per cui quanto accaduto durante la Prima Repubblica è stato appannaggio di uno stato di eccezione permanente, dove la conventio ad excludendum ha tenuto fuori i movimenti sociali, così come le forze del cambiamento, a favore delle forze post-fasciste della reazione e della conservazione.

Con queste caratteristiche, le opere realizzate nei vent’anni del New Italian Epic hanno il fascino della frontiera, una prassi liminare e di sfida con un nuovo far west: una frontiera sia fisica (ambientazioni e mondi da esplorare), sia narrativa (trame, avventure, tecniche di montaggio, emozioni), sia infine stilistica (nuovi assemblaggi e costruzioni scritturali, ciò che i Wu Ming definiscono i “romanzi mutanti”). Una narrativa con tanti affluenti e respiri per raccontare mondi complessi, traducendoli con un linguaggio concreto e ficcante; e soprattutto l’esercizio di uno “sguardo obliquo”, tale da osservare la realtà da altri punti di vista, narrando posizioni altere e condotte fuori dai cliché della normalizzazione e dell’apparire.

Ci pare che questo libro riesca a raccontare un’altra città, anzi, racconta la città reale, ridonandole la potenza di città di frontiera e camaleontica, perciò figlia di un tempo non incasellabile dentro le forme di contemplazione effimera e di mercificazione in cui pare essere precipitata. Dopo tutto, Napoli, come in una profezia nietzschiana, tornerà a vivere “ancora una volta e ancora innumerevoli volte” quanto già vissuto nei suoi tre millenni d’età.

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