Francesco De Gregori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La fine dei tempi e la nave che verrà https://www.carmillaonline.com/2018/07/10/la-fine-dei-tempi-e-la-nave-che-verra/ Mon, 09 Jul 2018 22:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46685 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile. Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile.
Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a livello planetario che sembra aver superato le barriere dello spazio e del tempo, la diffusione della ricezione delle sue canzoni in Italia fin dai primi anni sessanta, il collegamento con la tradizione folklorica e musicale non soltanto anglo-sassone e, infine, l’immancabile richiamo al testo biblico.

A tutto questo, che già potrebbe costituire un materiale enciclopedico intorno alla figura di Dylan, si va ad aggiungere un puntuale e coltissimo riferimento alle origini e ai richiami della tradizione delle ballate popolari all’interno delle sue canzoni e una definizione, credo, finalmente esaustiva di ciò che costituisce una ballata e che la differenzia da altri generi musicali quali, ad esempio, la canzone politica.

Il tutto si articola intorno ad una singola canzone, la celeberrima A Hard Rain’s A-Gonna Fall che, come afferma Portelli, fu anche la prima canzone di Dylan ad essere trasmessa da una radio italiana nel 1964. Affermazione avvalorata dal fatto che fu proprio lo stesso Portelli a trasmetterla nel programma Rotocalco musicale di Adriano Mazzoletti che andava in onda, sul secondo programma della RAI, ogni mercoledì alle 17.

Un legame di antica origine e di lunga durata è quello che lega quindi l’autore del libro, oggi uno degli americanisti e studiosi di storia orale e di cultura e musica popolare più importanti (forse il più importante) d’Italia, al cantautore e poeta statunitense. Legame lungo, appassionato e serio che permette a Portelli di sviscerare autenticamente la canzone, le sue origini e tutti i suoi possibili significati e, allo stesso tempo, fare altrettanto con i suoi riferimenti culturali e musicali.

Se il viaggio con l’opera e il successo di Dylan inizia infatti in Italia nel 1964, esso poi continua nel deserto del Sahara dove una guida tuareg, nel 1969, fa ascoltare al fotografo Mark Edwards la voce di Dylan, attraverso un vecchio mangiacassette a batteria, mentre interpreta proprio Hard Rain. Per continuare poi, nel tempo e nello spazio, fino al festival che si tiene annualmente a Shillong, ex-capitale dell’Assam, in India in occasione del compleanno di Dylan il 24 maggio. Festival rock cui partecipano gruppi e spettatori di mezza India, pur non essendo mai andato il destinatario di quella manifestazione ad esibirsi in quel paese. Oppure a Calcutta nel 2016, dove cantautori locali, giovani o meno, continuano ad interpretare ed inventare canzoni tradizionali sulla base della musica o della poetica dylaniana.

Un viaggio che in Italia ha visto avvicinarsi fin dagli inizi alla medesima poetica, per trarne ispirazione, cantautori ed artisti quali Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, il Nuovo Canzoniere Italiano e molti altri ancora. Ma, come si è già detto, questo viaggio non è soltanto nel tempo delle canzoni di Dylan e della loro ricezione, ma anche nelle radici popolari e storiche delle stesse.

Per fare ciò Portelli utilizza la ballata che maggiormente sembra avere influenzato la struttura di Hard Rain: si intitola Lord Randall, di cui sono state individuate dagli studiosi «versioni e varianti tedesche, olandesi, svedesi, danesi, ungheresi, wendish, irlandesi, americane, boeme, catalane; ma la coesione più stretta e fra le versioni italiane e quelle anglofone».1

Ed è esattamente a questo punto che la storia di Hard Rain/Lord Randall torna ad incrociarsi con la canzone popolare italiana, si potrebbe dire con l’autentica canzone popolare; quella trasmessa oralmente attraverso i secoli, da un esecutore all’altro, e di cui si trovano tracce fin dal 1629. La versione italiana, che potrebbe essere addirittura la prima e la più antica, si intitola Testamento dell’avvelenato ed è ricordata da «un certo Camillo detto il Bianchino, in una raccolta di testi pubblicata a Verona ».2

L’antica ballata, che inizia in media res, racconta la vicenda di un giovane che allontanatosi da casa per trovare la sua bella, tornerà a morire tra le braccia della madre e dei famigliari dopo essere stato avvelenato dalla stessa donna di cui si era innamorato. Non vi sono spiegazioni sui motivi dell’omicidio, ma la metafora dei rischi legati all’abbandono dei luoghi conosciuti e famigliari è potentissima. Infatti, come afferma Portelli

“la pulsione verso il conosciuto, stabile, famigliare in tempi di trasformazioni tempestose ha anche una risonanza con il senso del tempo storico: la sensazione che il «nuovo» possa essere portatore non solo di speranza ma anche di pericolo.
Gli anni in cui fiorisce in Gran Bretagna la ballata epico-lirica sono quelli delle enclosures e delle leggi anti-vagabondaggio, in cui la modernizzazione consiste nella privatizzazione dei beni comuni e nella cancellazione degli usi civici, impoverendo le famiglie rurali o trasformandole in poveri urbani itineranti e vagabondi illegali. Non sempre, per le classi non egemoni, il nuovo ha voluto dire progresso, miglioramento.[…] La canzone popolare è una delle forme che esprimono, per dirla con Vito Teti, antropologo del mondo rurale del Sud, «l’inquietudine di popolazioni mobili rese costitutivamente precarie, melanconiche, ma anche creative e resilienti dall’esperienza prolungata delle catastrofi naturali e dagli stravolgimenti storico-economici, dalla fame e dalla ricerca di un paradiso altrove»”.3

La canzone di Dylan, cantata in pubblico per la prima volta nel 1962 ed uscita per la prima volta su disco il 27 maggio 1963, nel suo primo album di canzoni originali The Freewheelin’ Bob Dylan, parla in realtà del pericolo di un fall-out nucleare destinato a distruggere il nuovo mondo di cui il blue eyed young man protagonista della canzone è andato in cerca incontrando soltanto morte e distruzione, compresa la sua. La canzone riprende i toni apocalittici ereditati dalla Bibbia da blues, gospel e spiritual.

Non è la sola nel disco poiché con essa è presente anche Talkin’ World War Blues che riprende il tema della possibile distruzione nucleare del mondo con versi ora drammatici ora ironici. Ma l’anno è importante poiché si tratta del 1962 e la crisi dei missili di Cuba ne è diventata il simbolo. Il senso del vivere sul limite di una catastrofe nucleare pervade le folk songs, i primi movimenti di protesta giovanili anti-militaristi e precederà di poco lo sviluppo dei movimenti per i diritti civili e di lì a poco il 1968.

Ma Dylan può affermare, a ragione, di non aver mai scritto una canzone politica, anche se molt, ieri e ancora oggi sono state accolte e sono ancora interpretate come tali. In questa affermazione l’autore americano non solo conferma la sua volontà di non essere mai inquadrato in un cliché, ma rivendica indirettamente il suo essere scrittore ed interprete di ballate epico-liriche tipiche della cultura popolare.

Infatti, ci spiega Portelli

“La ballata si occupa di quelle opposizioni in cui schierarsi non è possibile. Ciascuna ballata, o il sistema delle ballate nel suo insieme, enuncia un dilemma ma non lo risolve perché, come nella tragedia, le ragioni sono divise, sono tutte sia giuste, sia fatali: il nuovo è minaccioso ma come possiamo rinunciare al futuro? […] Ascoltare le ballate e prenderle sul serio ci aiuta a conoscere meglio Bob Dylan e a capire anche perché non sia solo il Dylan giovanile ma anche quello più recente a esserne intriso, come se quelle canzoni che esplorava come riproposta tornassero decenni più tardi, interiorizzate in forma di memoria.”4

L’argomento delle ballate, scrive ancora l’autore, sono le domande, non le risposte e questo può spiegare la loro sopravvivenza nel tempo e nello spazio poiché spesso fanno riferimento ai grandi temi e ai grandi archetipi dell’agire umano e dell’inconscio collettivo. Potendo essere di volta utilizzate e riutilizzate in contesti sempre nuovi, sempre diversi e allo stesso tempo costanti.
Cosa che le avvicina alla lirica e alla poesia e che in Dylan vede accumularsi, insieme alla tradizione folk, blues, gospel, biblica e tradizionale, elementi della poesia moderna dal Bateau ivre di Rimbaud a Howl di Allen Ginsberg, passando per la ribellione giovanile dell’autentico drop out quattrocentesco François Villon. Ed è stato proprio questo approccio che ha, di fatto, contribuito all’assegnazione del Nobel a Dylan proprio nell’anniversario della morte di un altro premio Nobel, questa volta italiano, che dell’unione tra colto e popolare aveva fatto il centro del suo Mistero buffo: Dario Fo.

Poiché un viaggio deve per forza concludersi con una nave che entra in porto, se nella canzone Hard Rain a trionfare può essere l’apocalisse, in un’altra canzone famosissima la speranza può arrivare con una nave, un’arca della salvezza oppure carica di angeli sterminatori per i malvagi: When The Ship Comes In. Inserita in The Times They Are A-Changin’, del 1964 e terzo lp del giovane Dylan, in essa si afferma che

“Tempo verrà; non se ma quando arriverà la nave.[…] When The Ship Comes In è un’altra profezia che rovescia e bilancia A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Siamo in quel momento sospeso in cui la pioggia sta per cadere, ma stavolta non è la fine del tempo: è un prodigioso tempo nuovo, un avvento liberatore che apre l’oceano e scuote la sabbia; persino i pesci e i gabbiani sorrideranno, persino le rocce si ergeranno orgogliose sulla riva, il sole finalmente non brucerà più i visi dei naviganti e le parole usate per confondere la nave si riveleranno in tutta la loro incomprensibile insensatezza. E’ una canzone intrisa di echi biblici. Ma quelle catene che si spezzeranno fanno pensare anche ad un altro testo sacro […] Quando arriva la nave non è più il tempo dei compromessi, delle mediazioni, delle concessioni; dalla prua della nave grideremo (ai nostri potenti nemici) «your days are numbered», i vostri giorni sono contati. «We’ll shout from bow» – Noi grideremo dalla prua; la nave non è un prodigioso deus ex-machina che viene a salvarci; sulla nave ci siamo noi; siamo noi, tutti insieme, la nostra salvezza”.5

Sarebbero ancora tantissimi i temi, le canzoni, i collegamenti contenuti nel libro, ma credo sia giusto chiudere qui, con un messaggio che è allo stesso tempo di vendetta e di speranza, esattamente come fa l’autore, che rinvia più ai drammi dell’odierno Mediterraneo colonizzato e insanguinato dall’imperialismo europeo che ai versi tratti dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini: «Un bel dì, vedremo levarsi un fil di fumo, sull’estremo confin del mare. E poi la nave appare. E poi la nave appare».


  1. A. Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, pag. 29  

  2. A.Portelli, op.cit., pag. 27  

  3. ibid. pp.120-121  

  4. ibid. pp. 124-125  

  5. ibid. pp.143-144  

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La Falcucci, la Potëmkin e l’amore: Genova, 1986 https://www.carmillaonline.com/2018/06/07/falcucci-potemkin-e-amore-genova-1986/ Thu, 07 Jun 2018 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46057 di Filippo Casaccia

Sabato 11 gennaio La prendo larga: ho una prof di storia e filosofia che avrà quarant’anni, massimo quarantacinque, la Canepa. Interessante, un po’ sciupata, con un passato movimentista, se non ho capito male. Ci chiama per nome: la cosa dà fastidio a molti dei miei compagni ma a me pare la cosa più adulta che ci sia capitata in questo liceo. Beh, a novembre succede che un martedì facciamo tutti sciopero. Uno sciopero strategico per evitare un’interrogazione micidiale di fisica, una strage annunciata, e il giorno dopo, lei, alla prima [...]]]> di Filippo Casaccia

Sabato 11 gennaio
La prendo larga: ho una prof di storia e filosofia che avrà quarant’anni, massimo quarantacinque, la Canepa. Interessante, un po’ sciupata, con un passato movimentista, se non ho capito male. Ci chiama per nome: la cosa dà fastidio a molti dei miei compagni ma a me pare la cosa più adulta che ci sia capitata in questo liceo.
Beh, a novembre succede che un martedì facciamo tutti sciopero. Uno sciopero strategico per evitare un’interrogazione micidiale di fisica, una strage annunciata, e il giorno dopo, lei, alla prima ora, controlla le giustificazioni. Firma i libretti in silenzio ma si vede che sta covando un’incazzatura da pantera, anche se lo sciopero non la riguardava.
Quando finisce, chiede:
«E per cosa avete scioperato, ieri?».
Silenzio in classe.
Anch’io, francamente, non ricordavo nulla, se non un volantino con disegnato Spadolini a pecora e dei missili che gli puntavano dritto al culo.
A quel punto lì la prof rincara la dose:
«Okay. E la manifestazione com’è stata?».
Ancora silenzio.
Che una prof ti faccia il mazzo perché scioperi qui è consuetudine ma che s’imbufalisca perché non sei andato in corteo è grandioso. Ci ha fatto una cazziata epocale, con sacrosanta rampogna su diritti e doveri, sul nostro ruolo di attori politici e bla bla. Poi ha chiamato alla lavagna il povero Vaiolo, o Enzo come lo chiama lei, e l’ha brasato: 3 e mezzo, gli ha dato. A fine lezione era ancora nervosetta e ci ha caricato di compiti e ho pensato che ci fosse un po’ di confusione tra politico e privato. Però aveva schifosamente ragione e, adesso, ogni volta, prima di andare in piazza a dimostrare ci penso. E poi ci vado comunque.
Il fatto è che io stamattina non avevo voglia di entrare in classe, ma proprio per niente. Ci sono quei giorni in cui Genova ha una luce particolare e nell’aria tersa pulita dalla tramontana i colori diventano vivissimi. È come se si potesse vedere la città attraverso l’obbiettivo di una reflex: tutto nitido, splendente e a fuoco. Fa un bel freddo ma non c’è una nuvola e il cielo è blu cobalto. Quando sono arrivato davanti a scuola ho visto gli studenti medi che volantinavano e ho capito che il mio destino era segnato anche se Jacopo non sentiva ragioni:
«Sono solo cinque giorni che siamo tornati, dài», ha detto. «I voti del primo quadrimestre ce li portiamo alla maturità!».
Sì, e tutto quello che vuoi – ho pensato – ma oggi no, io non entro. Non me la sento, è una mattinata troppo bella per perderla con due ore di disegno e due di ginnastica: io vado in manifestazione. Ho calcato il mio berretto andino in testa e ho preso il 41 puntando verso Caricamento, dove c’è il raduno per una fantomatica adunata contro un preside di un istituto tecnico che ha punito due studenti che si baciavano durante la ricreazione. Questa storia da romanzo del secolo scorso la apprendo quando arrivo lì, all’assembramento, assieme a dir tanto a trecento ragazzi, la crema dei liceali genovesi, scansafatiche sì ma con un progetto politico o quasi in testa: si tratta di una baciata, mi dicono, una magnifica occasione per scambiarsi germi davanti a tutti con la scusa di una rivendicazione, dimostrando che si è innamorati o forse no ma non importa. Perché è una giornata spettacolare ed è bello urlare contro il ministro Falcucci, contro questo preside bacchettone e contro tutti i vecchi che ti guardano strano perché loro, alla nostra età, se lo sognavano di baciarsi per strada.
Come me del resto, perché – realizzo – sono solo come un cane.
Non ci sono tante bandiere politiche o striscioni, solo moltissime coppie. Mi metto diligentemente nel gruppone e declamo gli slogan, alzo il pugno, rido e canto, cercando la complicità di qualche altro cane sciolto, diciamo così.
Poi inquadro una coppia di ragazze spaiate e mi accodo: una ha una giacchetta verde militare e dei pantaloni marroni bellissimi, un po’ flosci, con le tasche laterali. Mentre sto ammirando l’originalità stilistica, lei si gira e mi guarda assieme all’amica. Lo slogan Ucci ucci! Sento odore di Falcucci mi muore in gola, mentre le sorrido. È… perfetta. Capelli lunghi, scuri, la riga in mezzo. Una cicatrice rosa sulla guancia destra, come Capitan Harlock, ma che le dona pure. Occhi chiari, allegri. Sussurra una cosa all’amica, fissandomi, e poi scoppiano a ridere.
Trovo la fantasia per dire una cosa giusta anch’io, una volta tanto:
«Ciao!».
Il corteo si ferma. Ancora canti e slogan, mentre ci guardiamo tutti un po’ imbarazzati, perché adesso dovrei inventarmi qualcos’altro. A levarmi d’impaccio arriva uno del servizio d’ordine, che in una manifestazione così è una cosa ridicola. È alto due metri, gli occhiali con la montatura nera spessa e un barbone da Fidel.
Si rivolge alla ragazza, sarcastico:
«Con uno del King?».
Ho lo stemma del mio liceo sullo zaino, in effetti, che fa molto campus americano, sul versante vorrei ma non posso. Poi si rivolge a me:
«Un fighetto della borghesissima Albaro! Oggi che ci si bacia, lotta dura senza paura, eh?».
Non so se sia veramente la giornata giusta o gli occhi di questa qui coi pantaloni militari o la congiunzione astrale, ma gli rispondo al volo, sicuro e senza calcolare le conseguenze:
«Beh, oggi giornata libera… sono appena tornato dalla zafra, non so se hai presente».
Fidel strabuzza gli occhi perché tutto s’aspettava fuorché una messa in dubbio del suo fervore rivoluzionario, da un albarino poi.
«La zafra?».
Ho rischiato, sì, ma quanti italiani andranno a fare il raccolto della canna da zucchero a Cuba?
Il castrista balbetta e chiede rispettosissimo:
«E dove!?».
«Cienfuegos, amigo!», gli rispondo. «Record personale di 326 chili in un giorno!». Che non so se sia poco, tanto o troppo, e allora faccio il modesto:
«Ma c’erano dei compagni bulgari che ne tagliavano anche di più».
Ho evocato tropici, rum e compagni fratelli del Patto di Varsavia: Fidel non è più ostile, balbetta qualche monosillabo e se ne va, tra l’ammirato e il tramortito, inventandosi un’emergenza in coda al corteo. Lo segue l’amica di Capitan Harlock, che ci lascia soli strizzandole l’occhio. Io non so bene che dire, adesso, ma la sconosciuta Perfetta mi porge la mano e rivolge lo sguardo verso la testa del corteo, come a dire: andiamo!
E allora andiamo, sì.
Cantiamo e ci sorridiamo, dicendoci tutto quello che vogliamo sentirci dire e ci fermiamo solo quando un ragazzotto dell’ITIS con la kefiah, uno che ho già visto tante volte in manifestazione, sale su una panchina e proclama col megafono che è venuto il momento di rispondere al preside. Si abbraccia con la tipa che gli sta di fianco e, là!, si sparano un limone che dura trenta secondi.
Silenzio emozionato e poi, quando finiscono, applauso liberatorio, come se dovessimo tutti riprendere fiato assieme a loro. È il segnale convenuto e tutte le coppie si uniscono in questo splendido gesto di resistenza civile. La ragazza Perfetta dai pantaloni con le tasche mi prende le mani, mi avvicina e alza le spalle, come a dire che ci tocca per solidarietà politica: mi toglie il berretto andino, se lo mette e mi invita con i suoi splendidi occhi. Cosa si fa in questi casi?
Mi bacia. Quando ci stacchiamo ride. E allora sono io a baciarla. Non so se lei baci bene o se lo faccio bene io – cosa di cui dubito, se non altro per scarsissimo curriculum – ma questa manifestazione ci piace. Eccome!
E da lì è una passeggiata. Mano nella mano.
Può nascere così una storia?
Io non capisco più nulla, felice come non mi capitava dall’11 luglio 1982.
Le chiedo come si chiama.
«Annalisa», dice, e aggiunge: «come la canzone dei New Trolls!».
Come, pardon?
«Io Eugenio». Esiste una canzone di De Gregori, ma non mi pare il caso.
Seguiamo il corteo, leggeri e un po’ stupidi. Chi sei, cosa fai, cosa studi, cose così, senza neanche ascoltarci, senza che lei mi chieda mai se ho la moto o quale sia la compagnia con cui esco, guardando invece le altre coppie e sentendoci bellissimi perché lo siamo anche noi, una coppia. Magari un po’ improvvisata, però due che sono uno, adesso. Lei ogni tanto mi indica degli scorci della città che non avevo mai degnato di uno sguardo. E Genova non è bella, è splendida. Vedo il leone in marmo che sta a fianco della scalinata della cattedrale di San Lorenzo e un po’ mi commuovo: sono nella Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn!
«Ma Cuba?», chiede lei. Guardo in basso, confesso:
«In realtà non son mai stato più a ovest di Nizza».
Per fortuna ride.
«Ci andremo assieme, allora!».
E certo. Altro bacio. Flirtiamo, giocando alla coppia anche se non sappiamo neanche chi siamo. Ma è stato tutto così naturale che non mi sembra vero. Non so se sotto il pavé parigino ci fosse la sabbia, ma oggi sotto i lastroni di arenaria genovese pare proprio di sì.
Arriviamo davanti a Palazzo Ducale, un po’ scalcagnato come questa manifestazione felice e indolente, quando scoppia il casino. Un celerino – dei trenta che ci seguono a distanza – si piglia con un fesso che sta in coda al corteo. Non ho capito bene: una frase stupida, uno spintone, una manata. Fatto sta che il fesso – e sfigato aggiungo, perché non aveva nessuno con cui baciarsi e questo io ormai lo posso dire ad alta voce – finisce a terra. Quei Nobel coi manganelli gli tirano dei calci, un altro manifestante reagisce, un pulotto colpisce due che si stanno baciando e gli spacca le labbra nel bacio più eroico e sanguinante che abbia mai visto, e poi è il caos. Chi scappa, chi reagisce, chi non capisce: ma si possono caricare trecento studentelli imberbi che slinguazzano?
Sì, cazzo, si può, maledizione.
Il piccolo corteo sbanda e torna indietro, davanti al Duomo. Il leone è ancora accucciato e della Corazzata Potëmkin è rimasta solo la fuga precipitosa. Sono sballottato e la mano di questa perfetta Annalisa mi sfugge tra cappotti, zaini e caschi. Mi giro e non c’è più, non vedo la giacchetta militare e neanche il mio berretto che le è rimasto in testa. Qualche deficiente in divisa pensa pure che serva un lacrimogeno. O due o tre, perché ora c’è una nebbia giallorosa che avvolge tutti, un caffelatte onirico in cui la folla si dirada. Si agitano ombre sparse e ce n’è una più scura che sta ferma, a cinque metri da me, col manganello tenuto basso.
Mi sta fissando, direi.
Io strizzo gli occhi che lacrimano, ricambio lo sguardo e poi mi volto per vedermi dietro, perché non può mica avercela con me, che sto qui, fermo.
«Ma ce l’hai con me? ».
Ce l’ha con me eccome, ‘sto stronzo: alza il manganello e mi carica cacciando un urlo.
Roba da pazzi. Altro che vacanze cubane: mi volto e corro giù per via di Scurreria rischiando di volare sul selciato, perché è una strada con una pendenza di non so quanti gradi, ma tanti, e da lì arrivo in piazza Campetto e poi risalgo verso piazza San Matteo con un polmone in gola, la milza che urla e i polpacci in fiamme. Mi fermo davanti alle vetrine di un negozio di dischi, facendo finta di essere lì per caso, controllando nel riflesso del vetro se c’è qualche manganello alle spalle.
Ma nessuno insegue più nessuno, a parte me che dovrei, perché ho perso Annalisa.
E anche il berretto andino.
Ma più Annalisa.

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Riportando tutto a casa https://www.carmillaonline.com/2017/11/30/riportando-tutto-a-casa/ Thu, 30 Nov 2017 22:02:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41928 di Filippo Casaccia 

Simone Pieranni, Genova macaia, Laterza 2017, pp. 148, € 14

Noi genovesi siamo diversi. Ci sentiamo diversi e viviamo questa diversità esibendola con un orgoglio che spesso è solo il modo per nascondere la dolce tristezza che ci contraddistingue. Abbiamo spesso un carattere ispido, burbero, mugugnone, con cui poi si raggiungerà un’intesa, ma che al primo approccio vi tiene a distanza, con diffidenza, prendendo le misure. E di come siamo, di come ci comportiamo, ce ne rendiamo conto solo quando a Genova, finalmente, facciamo ritorno e guardiamo la nostra città con [...]]]> di Filippo Casaccia 

Simone Pieranni, Genova macaia, Laterza 2017, pp. 148, € 14

Noi genovesi siamo diversi.
Ci sentiamo diversi e viviamo questa diversità esibendola con un orgoglio che spesso è solo il modo per nascondere la dolce tristezza che ci contraddistingue. Abbiamo spesso un carattere ispido, burbero, mugugnone, con cui poi si raggiungerà un’intesa, ma che al primo approccio vi tiene a distanza, con diffidenza, prendendo le misure.
E di come siamo, di come ci comportiamo, ce ne rendiamo conto solo quando a Genova, finalmente, facciamo ritorno e guardiamo la nostra città con uno sguardo un po’ da foresto, come si dice da noi, apprezzando di nuovo quella dolcezza di vivere per cui l’inverno è sempre un po’ più clemente di quello che vivi a Milano e l’estate sempre un po’ più fresca.
Bene: se non avete avuto la fortuna di nascere anche voi in questa Superba da sempre coacervo di contraddizioni e di armonia tra anime diverse e che vive di passato e poco di futuro, a farvi capire quella malinconia sottile, quella somma di risentimenti e alterigia che è Genova e l’essere genovese e di come la città e la natura di chi la abita siano inseparabili, contribuisce questo nuovo libro di Simone Pieranni, ancora una volta – come nel precedente 72 – con un racconto in forma di autofiction, senza che importi quanto narrato della vita dell’autore sia vero o verosimile o forse solo immaginato.
Vi chiedo di perdonarmi se mi scapperà dell’autobiografismo non richiesto ma nel magnifico libro di Pieranni mi sono ritrovato perfettamente. E mi è successo pur partendo da presupposti sociali e geografici diversi. Io cresciuto nella Albaro borghese e distaccata di Levante, lui – di poco più giovane –, nella periferica Bolzaneto più laboriosa, già lontana dal mare, a Ponente.
Nel percorso che abbiamo fatto tutte e due da punti eccentrici ed opposti della città verso il suo cuore, alla sua scoperta – durante l’adolescenza e ai tempi dell’università –, c’è lo stesso stupore. E c’è un identico sentimento provato nella lontananza da quel nome che è luoghi familiari, affetti, amicizie, profumi, sapori e anche sofferenza, tanta. Perché – e questo spettro aleggia su di noi come su tutta la nostra generazione – Genova è la città del G8, di un mondo diverso solo sognato, di una repressione violenta mai sanzionata. Genova è diventata un simbolo, un modo di dire, “quelli che erano a Genova”, i fatti di Genova, i processi di Genova.
Una ferita che non si richiude e il cui dolore nasconde tutto il resto.
Quello che avvenne in qui giorni del 2001 ha anche scippato l’autore del nome del suo preciso luogo di nascita. Bolzaneto non è più una delle tante realtà periferiche inglobate dalla città, no: ormai è solo la caserma di Bolzaneto, quella di fianco alla quale lui giocava da bambino.
Ed è per risarcire la città, per dare dignità ai nomi che hanno una storia per fortuna diversa, Pieranni – che di quei giorni infami è stato testimone e poi ne ha seguito come cronista la storia giudiziaria – intraprende una serie di percorsi attraverso una realtà fisica che è una sfida podistica: discese e salite ripidissime tra acqua e monti, raccontando la natura verticale oltre che orizzontale di una città che è srotolata sul mare e chiusa alle spalle dall’Appennino, ma che vive nelle vallate anguste che in questi rilievi si fanno strada, passando da un sole caldo a un’ombra gelida. Genova è una città di funicolari, ascensori, ponti su altri palazzi, portoni di casa all’ultimo piano in alto e giardini bui al piano terra, stretti tra muri di contenimento altissimi. È affacci, sbocchi, strettoie, vicoli ciechi, svincoli micidiali – come cantava De Gregori – e uscite autostradali che sono le porte d’ingresso a questi tragitti di conoscenza. E ognuna di queste bocche che ti ingoiano nel corpo della metropoli ha una sua peculiarità.
Genova Ovest ti catapulta già nel centro, salutandoti con la Lanterna, e subito ti immette in quel serpentone di asfalto che è la Sopraelevata, così cara a noi e così invisa ai turisti che non capiscono quale tuffo al cuore sia tornare a casa e avere a disposizione una camera-car fenomenale, con tutta la città ai tuoi piedi, con la modernità accanto ai palazzi del 1000, il cemento a fianco della pietra, dei mattoni, del marmo.
Genova Est invece sfiora, per aria, un acquedotto storico e ti fa costeggiare il cimitero di Staglieno, il carcere e lo stadio di Marassi, il torrente Bisagno che tutti conoscono per le troppe esondazioni, la stazione Brignole e infine la Foce e il mare. E di nuovo le memorie del G8 in corso Italia.
Ma c’è anche Genova Nervi, un’uscita autostradale che significa evasione, mare, spiagge – spiagge come lo sono quelle di Genova e dintorni: scogli lepegosi e sassi, ma lì, a due passi da casa, evocate da quelle facce marroni, sempre abbronzate che hanno i genovesi che mettono il naso al sole appena possono (e possono molto spesso).
La città, il centro, sono poi attraversati da un reticolo di tragitti individuali, di incroci, di sorprese, perdendosi e ritrovandosi: ed ecco allora il Cantinone, i centri sociali, le facoltà, le panetterie, la comunità di San Benedetto al Porto, la poesia di Caproni fatta realtà e quella in musica e parole di Ivano Fossati e tanti altri ancora.
Io, futuro architetto, scoprii veramente il cuore della mia città nel 1994, facendo una ricerca sociologica per la facoltà di Economia.
Vengo da Albaro – uno dei quartieri alti, come li chiama Pieranni – e ho vissuto in una condizione astorica, protetta, vicino a Boccadasse, col lungomare davanti, le domeniche delle vasche dei genovesi con la radiolina attaccata all’orecchio per seguire i risultati del Genoa e di quegli altri.
Quel lavoro mi permise di capire che, quelli che erano fondali per noi studenti privilegiati, erano in realtà voragini profonde: entravo negli appartamenti che si affacciavano sui caruggi, vedevo come si viveva tra quei muri antichi, spesso fatiscenti, e constatavo la dignitosa vitalità imprenditoriale di quella immigrazione che ancora non era comodo dipingere come pericolosa. E al contempo testimoniavo la sparizione, spesso per semplice consunzione, della Genova antica, non più al passo coi tempi.
Ovviamente per Pieranni è interessante la commistione delle vite di questa città e come si sono consolidate nella pietra, nei luoghi. E per condurci per mano in questo viaggio racconta anche le vicissitudini dei suoi familiari.
La Genova di Ponente del dopoguerra rivive attraverso la figura della nonna paterna: la città dell’acciaio, dell’Italsider – una presenza ingombrante, venefica, che significava fatica, sacrificio, la polvere di ferro nei vestiti, sui davanzali, nell’aria; e anche riscatto sociale e orgoglio operaio. E la nonna è anche testimone della Resistenza, della Liberazione e della Genova migliore: quella dei fatti del 1960 e delle magliette a strisce, quando la città si oppose al ritorno in città dell’ex prefetto Basile e al congresso del Movimento Sociale Italiano al teatro Margherita (teatro che ritorna nella narrazione, quasi per essere riabilitato, per un concerto di De André che vidi anch’io). E da quel rifiuto si misero in moto una serie di avvenimenti che poi portarono alla caduta del governo Tambroni. Quella volta la piazza aveva vinto.
Grazie alla voce di uno zio un po’ legera, che scappa più volte e più volte ritorna e stringe amicizie che ben esemplificano la trama sentimentale di questo autentico porto di mare, c’è anche la storia millenaria della città, ripresa attraverso la sua passione per quel 1200 che la vide diventare una potenza mai militare ma commerciale e finanziaria, una ricchezza che diventerà una maledizione quando qualcuno non rimetterà i suoi debiti, condannandola la Repubblica al declino.
E poi il Ghedda, amico dello zio, curioso animale metropolitano dalla vita romanzesca che vive la giungla del centro storico trovandosi in mezzo ad affari e malaffari, forte di un’ascendenza nobile e poi calato in quell’intrico che era la città vecchia prima degli anni più recenti, più insipidi, incattiviti dall’eroina e dalla gentrificazione.
Ma in tutto questo andirivieni della memoria non c’è mai il compiacimento per la Genova balorda e delinquente o per il passato glorioso, secondo certa facile retorica. No, Pieranni osserva e riflette, con la sua curiosità, volendo svelare gli aspetti che al visitatore casuale sfuggono, specialmente oggi, con la città apparentemente ripulita, pacificata.
L’ultima testimonianza è quella più intima: la figura del padre a cui l’autore si rivolge sempre. È il racconto della ricerca di un contatto, di una comprensione, di un abbraccio ostacolato da due nature troppo diverse, tra un genitore distaccato e un figlio irrequieto ma riservato, arrabbiato col mondo e pronto a scappare nel posto più lontano dal mare che esista, nel cuore dell’Asia centrale, sul limite del deserto del Takla Makan, in Cina, a Urumchi.
Manca il versante materno, citato solo una volta quasi di sfuggita, con pudore, in occasione del ritorno poco distante dalla metropoli, a Recco. Forse è una mia interpretazione ma questo ricongiungimento è una sorta di riconciliazione con la natura materna (e matrigna) della città, come se la separazione avesse portato a una conoscenza possibile solo grazie alla distanza.
Genova macaia è una prova dalla scrittura fine e ricchissima, con un equilibrio prezioso tra saggio e narrativa: una guida per l’anima e anche per il turista che ragiona col cuore e coi piedi.

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