Francesco Cossiga – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 31 Jan 2025 00:45:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Bologna 1980. «La bomba, per me, scoppiò la sera» https://www.carmillaonline.com/2024/11/21/bologna-1980-la-bomba-per-me-scoppio-la-sera/ Thu, 21 Nov 2024 22:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85372 di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola [...]]]> di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola nel Corpo italiano di Liberazione. Poi lavora come perito industriale. Il 2 agosto 1980, nella strage di Bologna, perde il figlio Sergio, ventiquattro anni.

È un uomo, un padre: «La bomba, per me, scoppiò la sera di quel tragico giorno al ritorno a casa da una passeggiata». La notizia che il figlio è fra le vittime si mischia ai primi commenti, al comportamento della città, alle reazioni. Sergio è ferito in modo spaventoso; morirà dopo qualche giorno. Il padre non nasconde la debolezza iniziale:

Non potevo credere ai miei occhi, la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. […] Sergio, malgrado stesse a occhi chiusi a causa delle gravi ustioni, aveva riconosciuto la mia voce, aveva capito che ero lì, quindi malgrado la gravità del suo stato era cosciente di ciò che era accaduto, di ciò che stava accadendo, e realisticamente non nutriva alcuna speranza di salvarsi. […] Dopo averlo visto me ne uscii precipitosamente dal reparto rianimazione, come se volessi fuggire per allontanarmi da un pericolo.

Torquato Secci, che voleva fuggire, invece si impegnerà, diventerà presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, pubblicherà questo volume dopo la sentenza di primo grado del processo. Adesso seguiamolo in un segmento narrativo che ha la forza di certi racconti dell’occupazione nazifascista. Indimenticabile, la bambina muta nel film L’uomo che verrà, col suo andirivieni nella terra della morte:

Dopo aver vagato a lungo per le strade che corrono intorno all’ospedale a un certo momento mi trovai a fianco un giovane che silenziosamente mi seguiva. Allora incominciai a parlare, a raccontare di mio figlio, delle sue condizioni, delle sue menomazioni, del suo stato d’animo e delle mie certezze che tutto si sarebbe concluso ancor più tragicamente. Lui seguendomi nel peregrinare mi ascoltò a lungo, ogni tanto cercava di dirmi qualche cosa, ma io non capivo le sue parole e non mi importava di non capirle. […] Stanchi di camminare ci sedemmo sul ciglio di pietra di un marciapiede e lì continuai a lungo il mio soliloquio, ogni tanto interrotto da un momento di commozione più intensa dovuta a un ricordo più caro. Era tardi, ci salutammo.

Il giovane misterioso è un personaggio liminare, affacciato sulla soglia fra l’impossibile e la realtà: un doppio del figlio? un’ombra venuta da non si sa dove? o semplicemente uno dei tanti bolognesi che vollero portare solidarietà come potevano, anche solo con un po’ di compagnia, di umanità? L’episodio va preso così com’è, col suo tesoro di senso e nonsenso, senza pretese.

Secci è ancora più sincero e forte quando ci si offre con l’interrogativo del superstite:

Mi sentivo in colpa, la colpa di non aver saputo difendere Sergio dalle avversità della vita che ora avevano finito per travolgerlo. Non ero stato un padre capace di difendere la mia creatura dall’attacco mortale che gli era venuto da una società in cui gli egoismi, la difesa dei privilegi e la lotta per assicurarsene una parte sempre più grande era ancora e rimaneva il motore principale delle azioni di coloro che avevano in mano il potere. Mi sentivo impotente e avevo chiara, evidente la misura delle mie modestissime possibilità. Avevo lottato, con notevoli sacrifici nel corso della mia vita, per ideali altruistici, per imporre almeno un limite agli egoismi e ai privilegi. La strada era ancora tanto lunga, seminata di tanto dolore e di tanto pianto, ma non era stata ancora percorsa tutta.

Insomma, senso di colpa. Ingiustificato, ovvio. Come al solito, a portarne il peso sono i migliori, gli onesti: gli innocenti. Le carogne non hanno scrupoli. Ma è un senso di colpa che non invischia, non imprigiona: presto è affiancato dalla consapevolezza delle cause storiche e sociali del lutto, per essere affrontato collettivamente e concretamente. Subito la narrazione si allarga: attivismo cittadino, soccorsi, energie.

E subito comincia la critica alle autorità, perché lo stragismo, fascista e addomesticato agli interessi padronali, nel 1980 miete vittime già da oltre dieci anni, impunito. Ai funerali ufficiali ci sono poche salme perché 68 famiglie le portano via prima:

I familiari di queste vittime si erano rifiutati di partecipare alla cerimonia comune, di attendere i discorsi ufficiali, le bandiere e tutta quella liturgia che ormai già per troppe volte aveva accompagnato fatti di questo genere. Erano le prime avvisaglie di una riservata e silenziosa contestazione che non aveva nulla di emozionale ma che si radicava in una seria e meditata mancanza di fiducia nei vari organi dello Stato. Lo Stato non era stato capace di difenderli contro la violenza, di conseguenza non aveva il diritto di curarsi di loro, dopo morti.

Ed è chiaro che l’impunità del prima è la migliore garanzia per ciò che accade dopo:

Le stragi che avevano preceduto quella di Bologna avevano insegnato come fosse facile per terroristi, spioni, servizi di sicurezza, personaggi con responsabilità accertate, ottenere l’impunità giudiziaria. Queste protezioni avrebbero raggiunto anche lo scopo di permettere la continuazione e il rafforzamento di quel tipo di terrorismo.

La continuazione non è solo ripetizione; siamo di fronte a una diversa versione della continuità, quella dello Stato italiano – burocrazia, personale in divisa, magistratura – , tra fascismo e democrazia: in fondo, è un altro volto della continuità studiata da Claudio Pavone. E infatti, nella strage di Bologna si sente l’eco dell’occupazione del paese, del collaborazionismo, di Salò. Il crimine, del resto, come altre stragi degli anni Settanta e Ottanta, e come la più grave delle stragi nazifasciste in guerra, quella di Monte Sole, colpisce sulla direttrice che unisce la Valle Padana all’Italia centro-meridionale: si mira anche all’Unità d’Italia, nelle pieghe del bersaglio c’è il Risorgimento.

L’esigenza di giustizia è senza compromessi; Secci non cede a retoriche intimiste. Non ci sono neanche surrogati riparazionisti, come quelli che dal 2008, con la connivenza di governi, autorità, storici famosi, hanno ostacolato i risarcimenti delle stragi nazifasciste commesse dal 1943 al 1945:

Il perdono può essere del singolo, in quanto sentimento privato chiuso nella coscienza di ognuno e quindi non giudicabile dall’esterno. Ma quando la collettività viene offesa con orrendi delitti come le stragi indiscriminate, non può perdonare finché sussistono i motivi di condanna, in quanto deve difendere la sua propria essenza[1].

Severissima, Anna Maria Montani: ha perso la madre e non accetta il risarcimento offerto dallo Stato. «“Cento milioni per testa di morto”, secondo il decreto del governo. “Non li voglio. Li sento sporchi di sangue. Se quelli vogliono fare qualcosa cerchino chi ha ammazzato”»[2]. Proprio lei accetta i funerali di Stato, sì, ma solo come occasione per dire basta alle autorità, e in chiesa non stringe neanche la mano del presidente Sandro Pertini.

L’unione fa la forza. Oltre all’Associazione tra i familiari del 2 agosto, nel 1983 nasce l’Unione dei familiari delle vittime di stragi, che riguarda le stragi fasciste, compresa quella di Bologna. Il gruppo incontra difficoltà:

Cozzammo contro ostacoli insormontabili di miopia politica, di settarismo, di scetticismo, di sfiducia nei risultati, ma non ci lasciammo convincere e non ci lasciammo fermare, li superammo tutti pensando che le stragi avevano molte cose in comune e che perciò ciascuno di noi, chiedendo giustizia per sé, l’avrebbe chiesta per tutti.

Fra gli scopi dell’Unione c’è una modifica legislativa per vietare il segreto di Stato sulle stragi (e una proposta simile era già nel primo programma dell’Associazione). Così ad Arezzo, al convegno La vicenda della P2: poteri occulti e Stato democratico, Secci incontra il magistrato Marco Ramat, che prepara una bozza di intervento sulla legge 801 del 1977. Le idee sono chiare:

Il segreto di Stato nei processi per strage aveva sempre fermato i giudici nel corso delle loro indagini, pensavamo che al processo di Bologna sarebbe accaduta la medesima cosa, occorreva quindi prevenire questa eventualità. […] Non permettendo più il segreto, l’impunità, per questo crimine, cadeva e coloro che avevano pensato ed eseguito la strage sarebbero stati perseguiti senza ostacoli dalla giustizia[3].

Raccolgono le firme. Ci sono promesse di aiuto non mantenute; li riceve il presidente del Senato, Francesco Cossiga, e anche lui promette. Consegnano la proposta il 25 luglio 1984 e la data non è casuale: «Il 25 luglio era caduto il fascismo, il 25 luglio 1984 speravamo che cadesse il segreto di Stato per le stragi».

Secci non vedrà la limitazione del segreto di Stato, che sarà legge nel 2007, durante il secondo governo Prodi. C’è chi semina perché altri raccolgano.

Il comportamento di alte autorità, compresi nomi considerati affidabili, è un misto desolante di disattenzione, pochezza o peggio. L’Associazione sollecita invano la discussione di interpellanze alla Camera; quindi, a marzo 1983, manda un telegramma alla presidente, Nilde Iotti:

Familiari vittime strage Bologna ritengono offensivo, mortificante e antidemocratico comportamento Camera da Lei presieduta che dal mese di luglio 1981 malgrado insistenti solleciti non ha trovato il tempo necessario alla discussione di cinque interpellanze sulla strage mentre per Sua decisione si giunge a programmare anche prossime sedute straordinarie notturne per svolgere discussione relativa al ritorno in Italia del signor Umberto Savoia[4].

La presidente è da una vita una dirigente del Pci e ha fatto parte della Costituente; però la strage fascista aspetta e si discute su un passo indietro rispetto alla Costituzione (e quanta dignità, in quel «signor» Savoia).

Le vittime scrivono più volte a Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro e in seguito presidente della Repubblica. Hanno buoni motivi: «In più di un’intervista Scalfaro, allora ministro degli interni, aveva fatto comprendere che le stragi non derivavano dalla deviazione dei servizi segreti ma dalle deviazioni del potere politico»[5]; però non c’è risposta. Gli scrivono ancora:

In un articolo del 30 gennaio [1988] Lei scrive di «colpevoli silenzi di fronte alla turbativa della verità sul terrorismo». A noi non risulta che Lei abbia ancora riferito ad alcun giudice quanto disse di sapere e di ciò La riteniamo gravemente colpevole. Noi pensiamo che chi conosce certe verità e non le denuncia favorisce il permanere del terrorismo e il ripetersi delle stragi. Per questa ragione l’Associazione Le rinnova l’invito a riferire alla magistratura tutto quanto è a Sua conoscenza che possa contribuire all’accertamento della verità, sulle trame eversive che si sono abbattute sulla democrazia nel nostro paese[6].

Neanche stavolta, Scalfaro risponde.

La correttezza è notevole. Per esempio, Secci, quando riceve lettere da un imputato della strage, le consegna agli avvocati di parte civile perché le diano ai magistrati. Le virtù non sono apprezzate, anzi:

La nostra richiesta di giustizia e verità era martellante e continua e a un certo momento per ostacolarla si cominciò a dire che coloro che chiedevano incessantemente giustizia erano dei «caini»[7].

Forse non c’è da stupirsi. Pochi anni fa, quando le vittime delle stragi belliche hanno chiesto giustizia, qualcuno ha accennato a imprecisati «sciacalli del dolore che fomentano superstiti e familiari nella richiesta risarcitoria»[8].

Naturalmente si fanno avanti possessori di verità. Nel 1983 Secci è avvicinato da un uomo che dice di essere un agente di un servizio segreto straniero e un giornalista; sostiene che a Bologna è stato usato un esplosivo speciale, piccolo come una moneta.

Sia singolarmente sia come Associazione, Secci pubblica sui giornali annunci a pagamento con frasi come «Sergio Secci – Morto in un giorno di sole / per una bomba incosciente. / Ma vive d’insana follia / chi mi ha negato il presente»; oppure «La giustizia senza forza è impotente, la forza senza giustizia è tirannia» (sono parole di Pascal); o ancora «Strage di Bologna 2 agosto 1980. Chi copre i terroristi è un terrorista». In seguito le pubblicazioni vengono rifiutate e le rimostranze non hanno risposta. Nel 1986 è «la Repubblica», dopo aver incassato il prezzo, a rifiutare la pubblicazione di: «Strage di Bologna. Sergio Secci, anni 24. Chi ha deciso di ammazzarlo?»; la domanda è elementare ma il quotidiano restituisce il denaro. Caparbio, il volume mostra la ricevuta.

Il processo e ciò che gli accade intorno svelano un abisso fra due Italie. Davanti alla Corte compare Francesco Pazienza:

Per ogni fatto cercava e tirava fuori dalla sua capace borsa un foglio, un documento che secondo lui lo scagionava. Pazienza chiamava sempre in causa personaggi importanti per darsi importanza, per influenzare favorevolmente la Corte. Con il suo mellifluo comportamento cercava di entrare nelle grazie di tutti[9].

Il name-dropping è tipico degli ambienti striscianti, del sottobosco che vuole emergere. Secci ha altre radici, le sue parole sanno di pulito e di necessario come il sapone:

L’operato di Francesco Pazienza da quanto è risultato dalle indagini giudiziarie e confermato da sentenze non è sostenuto da ideologia. È un soggetto partorito da una cultura intrisa di falso perbenismo, di massoneria, di affarismo e di costante ricerca di privilegi a danno degli altri, non lo hanno mosso né idee politiche né il dovere che incombe sul militare, ma ha agito solo per denaro e quindi non è altro che un «terrorista mercenario»[10].

Quando sfilano come testimoni i feriti c’è qualche amarezza:

Alla domanda rivolta dal presidente ai feriti se dopo sette anni erano guariti, rispondevano tutti affermativamente, anche quelli che portavano ancora evidenti i segni delle lesioni subite; perché vergognarsi di essere vittime?.

Già, perché? La coscienza retta di Secci si tormenta.

Quando poi è respinta un’istanza di libertà provvisoria del fascista Paolo Signorelli, e la difesa protesta, c’è una lettera degli avvocati di parte civile al presidente della Corte, ben precisa:

Appare chiaro che l’intolleranza verso la parte civile, che è una parte processuale che sta legittimamente esercitando il proprio diritto nel processo, così come manifestata dall’avv. Bordoni [difensore di Paolo Signorelli] è del tutto fuori luogo. […] Il processo fino ad ora si è svolto con un rispetto delle garanzie processuali degli imputati particolarmente accentuato, mai contrastato dalle parti civili[11].

Anche considerando il modo in cui le parti civili sono state trattate nei processi sulle stragi belliche, a partire dal primo caso in cui la Germania è stata chiamata in causa in sede penale per i risarcimenti, cioè dal processo del 2006 sulla strage di Civitella, si sente quanto vale la presenza di una parte civile risoluta[12].

Sempre al processo su Bologna, nel 1987, depongono anche pentiti e fascisti estranei al crimine ma al corrente di elementi utili; fra loro Angelo Izzo, colpevole del delitto del Circeo del 1975:

Detenuto per un orrendo crimine comune, molto intimo in carcere degli elementi di destra, tanto da raccoglierne le confidenze. Confermò e ampliò i suoi precedenti interrogatori, sgomberando il terreno da ogni dubbio sulla veridicità delle sue affermazioni[13].

Da una parte le vittime che si organizzano, col perito industriale Secci che sente le sue «modestissime possibilità» ma mette in pratica i suoi ideali contro egoismi e privilegi; dall’altra i conciliaboli fra uno stupratore assassino e i fascisti, che in carcere fanno comunella perché annusano a vicenda i loro trascorsi.

Se a fiutare aria cattiva sono le vittime, invece, si tirano indietro, a costo di rinunciare al palcoscenico. Nel 1985 sono invitate in televisione da Maurizio Costanzo e rifiutano:

Non abbiamo ritenuto di dover discutere del crimine della strage del 2 Agosto con il signor Costanzo, membro di quella Loggia P2 che dallo stesso Parlamento viene indicata come il centro occulto «che svolse opera di istigazione agli attentati» che hanno insanguinato il paese e che può ritenersi «in termini storico-politici gravemente coinvolta anche nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale»[14].

Il 16 aprile 1988 – dopo la requisitoria del pubblico ministero al processo, e prima delle arringhe delle difese – a Firenze c’è il convegno Massoneria e architettura, in cui il gran maestro Armando Corona esclude o minimizza le colpe di Licio Gelli. L’Associazione prende posizione:

Contrariamente a quanto da Lei affermato in merito all’estraneità, negli attentati e nelle stragi, di Licio Gelli, La informo che dai documenti riportati nella relazione della Commissione di inchiesta sulla Loggia P2 risulta che tale Loggia, dallo stesso Parlamento, viene indicata come il centro occulto che svolse opera di istigazione agli attentati che hanno insanguinato l’Italia, e che può ritenersi in termini storico-politici gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale. Recenti condanne confermano questo giudizio[15].

Magnifico per la fermezza contro tutte le ipocrisie, Cento milioni per testa di morto merita di essere riconsiderato, adesso che una nuova sentenza ha ribadito le colpe della P2, di fascisti e di livelli dello Stato nel massacro. Tutto ciò, a proposito di piduisti, tenendo presente che Secci ha fatto in tempo a vedere al governo il più ricco e potente di loro: un nome che oggi è un punto di riferimento per chi è al potere.

All’infinita autostima di Berlusconi, alla sua immagine smodata anche nell’età avanzata e nella morte, va contrapposta una cosa accaduta a Bologna, subito dopo l’eccidio:

Il numero dei morti si profilava talmente alto che si pensò subito di trasportarli all’obitorio con un autobus; la cosa sembrò straordinaria, fuori dalla realtà, ma poi risultò pratica e a tale scopo si adeguò l’autobus n. 4.030 della linea 37. I vetri erano stati internamente coperti da lenzuola, sul pavimento era stata gettata della segatura.

Il mezzo pubblico è adattato a un uso anomalo, con l’aiuto dei lavoratori. Dentro l’episodio ci sono un’intercambiabilità apparente di morte e vita (quella di chi usa i mezzi pubblici) e, più in profondità, un timbro che Aldo Capitini avrebbe chiamato compresenza dei morti e dei viventi. L’autobus della linea 37 che va dalla stazione all’obitorio, segnando la città, è un ultimo taglio e una prima sutura, una linea d’ombra: la comunità si prende carico, si muove, anche forzando le regole. Intanto le ricostruisce: chi era alla stazione usava un mezzo pubblico, e con un mezzo pubblico, insieme agli altri, si avvia per l’ultima volta. Proprio Capitini, vertiginoso, scrive: «Perché come si potrà apprezzare la liberazione se non saranno con noi anche i morti a festeggiare?»[16].

 

 

[1] Torquato Secci, Cento milioni per testa di morto. Bologna 2 agosto 1980, Targa Italiana Editore, Milano 1989, p. 144.

[2] Ivi, p. 50.

[3] Ivi, p. 104.

[4] Ivi, p. 102.

[5] Ivi, p. 142.

[6] Ivi, p. 158.

[7] Ivi, p. 120.

[8] Sono parole di Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, lanazione.it.

[9] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 146.

[10] Ivi, p. 154.

[11] Ivi, pp. 148-149.

[12] Mi permetto di rinviare a Luca Baiada, La sentenza della Corte costituzionale del 2014, la giurisprudenza italiana e una storia aperta, in Luca Baiada, Elena Carpanelli, Aaron Lau, Joachim Lau, Tullio Scovazzi, La giustizia civile italiana nei confronti di Stati esteri per il risarcimento dei crimini di guerra e contro l’umanità, Editoriale Scientifica, Napoli 2023, pp. 106-108.

[13] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 157.

[14] Ivi, pp. 124-125.

[15] Ivi, p. 160.

[16] Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Ponte Editore, Firenze 2018, p. 225.

 

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Esterno notte, di Marco Bellocchio – parte prima https://www.carmillaonline.com/2022/06/01/esterno-notte-di-marco-bellocchio-parte-prima/ Wed, 01 Jun 2022 20:18:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72192 di Mauro Baldrati

E’ una serie thriller classica. C’è tutto: la trama, le armi, i morti ammazzati. Viaggia con un evento, un importante uomo politico rapito e tutto ciò che ne consegue. Appartiene alla family delle serie decontestualizzate, non per i fatti, che sono iper-contestualizzati, ma per un certo distacco dagli stessi ottenuto/causato dalle maschere dei personaggi, lo stile che qua e là transita nella parodia, in una atmosfera aliena calata in un tempo parallelo. E’ una consorella di certe opere in cui la CIA, che è, deve esserlo, il “du [...]]]> di Mauro Baldrati

E’ una serie thriller classica. C’è tutto: la trama, le armi, i morti ammazzati. Viaggia con un evento, un importante uomo politico rapito e tutto ciò che ne consegue. Appartiene alla family delle serie decontestualizzate, non per i fatti, che sono iper-contestualizzati, ma per un certo distacco dagli stessi ottenuto/causato dalle maschere dei personaggi, lo stile che qua e là transita nella parodia, in una atmosfera aliena calata in un tempo parallelo. E’ una consorella di certe opere in cui la CIA, che è, deve esserlo, il “du coté de chez” i buoni, è anche un nido di vipere, di fanatici guerrafondai stragisti (vedi la recente “Condor”). E i cattivi, per esempio i terroristi palestinesi, hanno le loro buone ragioni. Bellocchio fa un passo in più. Ci fa entrare in una parte di mondo popolato dai suoi abitanti, con abitudini e dialoghi propri, senza giudizi, senza condanne né redenzioni. Potrebbero essere i Masai, impegnati a fronteggiare un furto di buoi, o gli Inuit alle prese con la caccia ai narvali, o gli aborigeni minacciati dai coloni inglesi, invece sono i democristiani del 1978, sui quali precipita, come una bomba a frammentazione, il rapimento di Aldo Moro. Sono uomini marmorizzati, avvolti da un’aura buia e torbida, devastati dall’insonnia, dalla sterilizzazione dell’anima che si ripercuote nella quasi totale assenza di gesti e di espressioni. Ma la natura si ribella, e l’istinto vitale, se non viene totalmente soffocato, si fa sentire, sotto lo schermo che li protegge/imprigiona. Il personaggio che rappresenta Cossiga è uno svitato, ossessionato dalle premonizioni, dai segni, dalle macchie dell’età che vede spuntare sul dorso delle mani. E’ un ministro che quasi non parla, non si muove, organizza incontri coi consulenti, l’unità di crisi, che ascolta, con la faccia immobile, ma non decide, sembra provare solo commiserazione verso quella manica di buoni a nulla, oppure, più probabilmente, ha la testa altrove. Si anima e prende luce solo di fronte al consulente americano, che gli spiega che noi in Italia siamo ossessionati dalla seconda, terza, quarta concausa, finché tutto naufraga in un caos totale. Si dichiara amico fraterno e discepolo di Aldo Moro, che vorrebbe liberare a tutti i costi, ma si scontra con la vera mente del partito, Andreotti, che ha un solo obiettivo: lo Stato che non si arrende, la sua tenuta, e quindi il suo/loro potere. Nessuna trattativa, nessuna concessione. E in questo è affiancato da un altrettanto pietrificato Berluinguer, il capo dei “comunisti”, irriducibile teorico della “fermezza”, perché ossessionato dal timore che qualcuno possa insinuare una parentela tra il PCI e le Brigate Rosse. C’è anche un papa, vecchio, saggio e malato, a sua volta tormentato dalle ossessioni parassite: nei momenti particolarmente difficili vorrebbe fare “la via crucis”, cioè caricarsi sulle spalle la croce di Cristo, aiutato dall’onnipresente, vecchissimo segretario, ma è troppo pesante, rischia di cadere. Allora prova con una più piccola, ma il risultato è identico, per cui si deve accontentare di un semplice crocifisso, sebbene di grandi dimensioni. Ma non basta, il suo desiderio di mortificazione e di riscatto lo porta a indossare il cilicio, che gli provoca gravi lesioni sulla pancia (dettaglio confermato, riferito al modello reale del personaggio, Paolo VI). Grande amico di Moro, cerca di intavolare una trattativa coi rapitori, segreta vista la rigidità dei democristiani e dei comunisti (e dei fascisti del MSI). La affida al cappellano di un carcere, don Curioni, che fa sobbalzare sulla sedia il “seriefilo”, perché riconosce immediatamente l’attore Paolo Pierobon, che in Squadra antimafia interpretava il diabolico Filippo De Silva. Poi c’è Lui, che si staglia sullo skyline dei totem democristiani, un uomo grande, un uomo buono, uno che sa, che capisce, uno che vuole: Aldo Moro. L’interpretazione dell’attore Fabrizio Giffuni è memorabile: in alcune inquadrature vediamo il vero Moro, con le sue impercettibili espressioni facciali, la sua mitezza. Si affianca ad altre performances leggendarie, Elio Germano ne Il giovane favoloso e Volevo nascondermi, Pierfrancesco Favino ne Il traditore e Hammamet, naturalmente Toni Servillo ne Il divo (che qui fa anche Paolo VI). Anche lui ha il demonietto sulla spalla che gli soffia nelle orecchie le ossessioni: lavarsi le mani “con cura” ogni volta che si entra in casa, e naturalmente l’insonnia, la malattia professionale dei democristiani (con la sole esclusione, forse, di Andreotti, che immaginiamo riesca a dormire anche sotto i bombardamenti). Lo seguiamo mentre, coi suoi modi dimessi, piega un’assemblea del suo partito infuriata per il progetto di alleanza della DC coi “comunisti”. E qui il film fa sorgere una riflessione, non affermata né suggerita ma neanche esclusa dagli sceneggiatori. Al di là del pericolo leninista della “casamatta”, ovvero un avamposto sovietico in uno dei paesi Nato, Moro ha un progetto preciso, un progetto che non s’ha da fare: creare un capitalismo etico, rispettoso delle regole, dei diritti del lavoro, attraverso l’accordo di governo col PCI. Sarebbe una forzatura pericolosa, da contrastare con ogni mezzo. Il capitalismo, attraverso i suoi sistemi operativi, legali e clandestini, ha scatenato due guerre mondiali, ha finanziato e organizzato dei colpi di stato, tre attentati terroristici in Italia, non potrà mai tollerare una svolta che metterebbe in pericolo la sua fede monoteista nel profitto. Infatti al progetto arriva l’opposizione, minacciosa, degli “amici americani”. Ma Moro non recede. A suo modo è un eroe, va avanti con la sua missione, come Parsifal dal cuore puro, e paga di persona per il suo coraggio e la sua determinazione. Ma non è solo il demiurgo capitalista che vuole impedire il progetto, anche chi lo combatte. Le Brigate Rosse considerano il compromesso storico un accordo che allungherebbe la vita al regime, perché lo ammanterebbe di falso progressismo, e quindi soffocherebbe la giusta conflittualità rivoluzionaria delle masse proletarie. Per motivi opposti le BR sono determinate a sabotarlo, proprio come lo sono l’America e la Nato. Così, con uno dei suoi magistrali colpi di scena, che è tale anche se sappiamo che arriverà, deflagra il rapimento e lo scontro a fuoco. Da qui in poi Bellocchio ci scaraventa nel secondo step: la segregazione di Moro, l’attività incessante dei democristiani per trovare una soluzione, o forse per negarla, visto che l’imperativo della fermezza sembra inviolabile. Arrivano le prime lettere del rapito, che creano scompiglio tra i democristiani, per cui, consigliati dall’ineffabile americano, decidono di definirlo “impazzito”, in quanto prigioniero e, chissà, torturato. In questa prima parte i brigatisti li intravediamo appena, ma più che i cattivi sembrano i nichilisti di Dostevskij, arrabbiati oltre ogni limite, disposti a tutto. Gridano, si agitano, spalancano le bocche, dimenano i pugni, il polo opposto dell’immobilità spettrale dei democristiani; hanno i capelli lunghi, le barbe, il lato oscuro delle facce rasate e dei corpi rigidi dei loro nemici. E qui termina la prima parte della serie divisa in due film, la seconda verrà proiettata a partire dal 9 giugno, poi in autunno in televisione. E noi speriamo di entrare nella prigione, di vedere e ascoltare i brigatisti, condividere da spettatori le loro mosse e contromosse, di seguire l’ostaggio, il suo dramma, la sua forza e la sua debolezza, il protagonista di una tragica vicenda apparentemente casuale, in realtà dominata da forze contrapposte ma ugualmente totalitarie e spietate.

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Il nemico interno/4 https://www.carmillaonline.com/2020/05/16/il-nemico-interno-4/ Sat, 16 May 2020 07:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60029 di Alexik

Finalmente è arrivata la fase due, e come promesso appaiono i primi timidi segnali di ritorno alla normalità. Nella classifica dei ‘nemici pubblici della nazione’ cominciano a scendere verso il fondo della graduatoria i frequentatori di spiagge e giardinetti, gli appassionati di jogging e quelli che portano a spasso il cane, categorie che hanno calamitato negli ultimi due mesi gran parte dell’odio sociale e dell’arbitrio poliziesco.

Al loro posto in compenso ritorna in pole position un evergreen: gli anarchici sovversivi. Una scelta che sa di tradizione, di [...]]]> di Alexik

Finalmente è arrivata la fase due, e come promesso appaiono i primi timidi segnali di ritorno alla normalità.
Nella classifica dei ‘nemici pubblici della nazione’ cominciano a scendere verso il fondo della graduatoria i frequentatori di spiagge e giardinetti, gli appassionati di jogging e quelli che portano a spasso il cane, categorie che hanno calamitato negli ultimi due mesi gran parte dell’odio sociale e dell’arbitrio poliziesco.

Al loro posto in compenso ritorna in pole position un evergreen: gli anarchici sovversivi.
Una scelta che sa di tradizione, di un ritorno ai classici ed alle vecchie abitudini consolidate.
E questo non solo in tema di montature contro gli anarchici, di cui la storia offre esempi a piene mani, da Sole e Baleno a Valpreda, e ancor più a ritroso fino a  Sacco e Vanzetti.
Ma anche per la riedizione aggiornata del vecchio arnese dei reati associativi e dello spauracchio del terrorismo.
Che è un po’ come dire:

È vero, abbiamo prodotto innovazioni impensabili fino a pochi mesi fa.
A colpi di decreto abbiamo costretto metà del paese agli arresti domiciliari e l’altra metà al lavoro forzato.
Abbiamo trasformato le italiche strade in un’immensa fiera dello sbirro dove, in assenza di testimoni, ogni abuso è diventato lecito .
Abbiamo istigato milioni di persone (per la verità già predisposte) alla delazione, all’odio e all’aggressione contro il “folk devil” di turno, nascosto nei panni di ogni ignaro passante, potenziale untore in base alla mera appartenenza al genere umano.
Abbiamo sviluppato sistemi di tracciamento che permetteranno di immagazzinare su server gestiti da noi, o dai nostri appaltatori, i dati decriptabili sulle persone che ogni singolo abitante della penisola incontra durante il giorno. Sistemi che verranno accolti col plauso del Belpaese in nome della sicurezza sanitaria.
Abbiamo sospeso il diritto di sciopero.
Abbiamo ostacolato e represso con nuovi efficaci strumenti ogni forma di protesta di piazza, proibito ogni riunione in luogo pubblico o privato che potesse agevolarne l’organizzazione, additando le trasgressioni come un pericolo per la salute pubblica.

E lo abbiamo fatto [Geniale!] sventolando a giustificazione i dati sui morti che noi stessi abbiamo prodotto, dopo aver tagliato per 30 anni la sanità, dopo aver trasformato gli ospedali e le case di riposo in epicentri di contagio, e costretto milioni di persone ad assembrarsi ogni giorno sui luoghi di lavoro e di trasporto al lavoro.

In linea con quanto succedeva nel resto del mondo, abbiamo approfittato di una terribile epidemia per trasformare la penisola in un immenso esperimento di controllo sociale, dei cui risultati godremo in maniera permanente.
Ma non pensiate che  tutto questo abbia soppiantato l’eredità teorica e pratica, la varietà dei dispositivi e la ricca strumentazione giuridica accumulata durante secoli di sviluppo del potere poliziale1.

L’innovazione avveniristica che ha impresso in questi mesi un enorme salto di qualità alle tecniche di controllo e pacificazione2 si evolve sostenuta da solide e profonde radici, capaci di trarre ancora nutrimento dal positivismo giuridico, dal codice penale fascista e dalle stratificazioni di legislazioni emergenziali che si sono susseguite fino ad oggi dagli anni ’70 in poi.
Nessuno degli strumenti utilizzati nel corso della storia dai poteri costituiti, al fine di piegare individui, gruppi e popolazioni riottose, viene mai accantonato.
Ed è così che viene rispolverato dal cassetto, come un vecchio attrezzo ormai consunto dall’uso, l’art. 270bis del codice penale, il reato di  associazione sovversiva con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, nel tentativo di accollarlo a sette anarchic* di Bologna, arrestati il 13 maggio scorso e deportati in varie carceri italiane in regime di alta sicurezza. Altr* cinque vengono attualmente sottopost* all’obbligo di dimora.

Pillole di storia

Evoluzione del fascistissimo art. 270 ereditato dal codice Rocco, che punisce l’associazione sovversiva semplice, l’art. 270bis entra a far parte della famiglia dei reati associativi grazie alla Legge Cossiga del 1980, col fine specifico di colpire i  movimenti di lotta.
Viene usato per la prima volta (retroattivamente) nel processo 7 aprile contro l’Autonomia Operaia3, e poi in maniera intensiva per buona parte degli anni ’80.
Nel 1998 serve a condurre al suicidio Sole e Baleno, e a portare in giudizio Silvano Pellissero, nel primo processo contro l’opposizione al TAV in Val di Susa4.
Lo ritroviamo in seguito nel processo “sud ribelle” per le manifestazioni contro il Global Forum ed il G8 di Napoli e Genova del 2001, ed è utilizzato ancora contro i No Tav nel 2012, e numerose volte contro gli anarchici.

La duttilità dello strumento in mano alle Procure sta nel fatto che, per trovarselo sul gobbo, non occorre la presenza di armi, o la formazione di un gruppo clandestino, e neppure la realizzazione di atti effettivamente idonei a terrorizzare alcuno, o di tale portata da sovvertire realmente l’ordine costituito.
Perché “gli atti concreti non sono importanti, ciò che conta è individuare il fine ultimo, quindi stabilire nessi logici, interpretare la personalità e le convinzioni delle persone sospette, sì da rinvenire la “fattispecie terroristica5.
Il 270bis agevola la moltiplicazione di teoremi giudiziari fondati su congetture contorte che trasformano insiemi di fatti spesso leciti, o di illeciti lievi, in gravissime ipotesi di reato, fondando castelli accusatori sulla base della personalità e del credo politico del ‘reo’, valutando quindi “non l’offensività del fatto, ma la “nemicità” di chi l’ha commesso. Si può parlare a tal proposito anche di “diritto penale d’autore”, nel senso che più del fatto conta l’autore e il ruolo che il suo livello di politicizzazione ha giocato nella commissione del reato6.
All’interno dei teoremi assurgono al rango di fatti criminosi le pratiche normali dei movimenti, come descrive questo compagno di Bologna, inquisito nell’inchiesta Mastelloni del 1985/86:

Siamo accusati, io ed altri 33, di aver fatto cose che mai nessuno avrebbe pensato potessero essere dei reati o segni di reati; come l’aver partecipato a manifestazioni o conferenze, o l’aver avuto parte organizzativa in riviste, radio locali o cooperative di movimento. Sembra che gli inquirenti abbiano passato mesi a spiarci (spendendo non poco denaro in nastri magnetici e in carta da rapporti) per scoprire cose che tutti sapevano e che nessuno si sarebbe mai sognato di nascondere7.

Date simili premesse, capita spesso che le costruzioni accusatorie cadano come castelli di carta, o si ridimensionino fortemente.
Succede nel 2002 a Silvano Pellissero, con una condanna che esclude il terrorismo, e che prevede una pena più breve della carcerazione cautelare già subita. Succede agli imputati del processo “sud ribelle”,  iniziato con venti arresti nel 2002 e concluso con le assoluzioni definitive del 2012. Succede ai No Tav, quando cade l’accusa di terrorismo nel “processo del compressore”, e spesso succede agli anarchici:

le indagini aperte negli ultimi anni per associazione sovversiva ai danni di anarchici sono spesso cadute alla prova del processo: l’inchiesta “Ixodidae” di Trento ha portato ad un’assoluzione piena già in primo grado, l’operazione “Ardire” di Perugia è stata bocciata in sede di udienza preliminare con un “non luogo a procedere”, l’accusa di 270 bis nell’ambito del processo “Brushwood”, partito a Terni, non ha retto in appello, anche l’operazione “Mangiafuoco” a Bologna si è conclusa con un niente di fatto, infine nel 2012 sono stati assolti dal 270 bis anche 19 anarchici fiorentini gravitanti intorno a Villa Panico e Asilo Occupato8.

Ma allora perchè Procure e Tribunali si ostinano a utilizzare il 270bis, se i risultati finali sono così fallimentari?
In realtà il vecchio attrezzo, grazie al riferimento al terrorismo, serve eccome, perché permette di ampliare a dismisura gli strumenti di indagine a disposizione delle Procure, in termini di intercettazioni, pedinamenti, perquisizioni e, per il futuro prossimo, utilizzo dei Trojan di Stato.
L’ampiezza delle possibilità di indagine e della loro durata permette, come afferma Xenia Chiaramonte in riferimento alle inchieste sui No Tav, la “formazione di un sapere sul movimento, propedeutico oltre che al controllo preventivo anche alle dinamiche che porteranno ad altri e diversi processi9
Il fatto che spesso non si arrivi a delle condanne viene compensato dalla possibilità di infliggere lunghe custodie cautelari in carcere (ossia l’incarceramento dell’imputato prima della sentenza definitiva), fatto che costituisce la regola e non l’extrema ratio come avviene per i reati comuni e può avere durata molto lunga (fino a 6 anni)10.
I reati che si richiamano al terrorismo offrono enormi possibilità di criminalizzazione mediatica, che sempre precede e accompagna questo tipo di inchieste, provocando danni duraturi sulle persone coinvolte al di là di ogni possibile assoluzione, seminando diffidenza e allontanamento della gente nei confronti dei loro gruppi e movimenti di appartenenza.
Infine questo tipo di accuse impegnano necessariamente le energie dei movimenti e dei gruppi nel contrasto alla criminalizzazione mediatica e giudiziaria, energie che vengono sottratte in questo modo alle lotte sociali, e tolgono gli arrestati dal vivo dell’attività politica per mesi o anni.

Pillole di attualità

Il 13 maggio a Bologna sette compagni e compagne del circolo anarchico “Il Tribolo” sono stati arrestat* e altr* cinque sottopost* ad obbligo di dimora con l’accusa abnorme di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.
Si tratta di compagni e compagne che si sono distint* nella solidarietà e nel sostegno ai detenuti, pienamente intern* al movimento anticarcerario trasversale che ha ricominciato ad esprimersi negli ultimi mesi nei presidi sotto il carcere Dozza e nelle iniziative in città.
Tutta l’operazione contro di loro assume caratteristiche di abnormità: dai pedinamenti con i droni (perché, con la caccia ai runners in via di esaurimento, in qualche modo bisognerà pure utilizzarli), all’irruzione nelle case dei carabinieri in tenuta antisommossa, con caschi e scudi (una tenuta da ordine pubblico, mai usata, che io sappia, per perquisizioni e prelievo di arrestati dal loro domicilio).
Abnormi i trasferimenti nelle sezioni di alta sicurezza di Piacenza, Alessandria, Ferrara, Vigevano.
Abnormi al confronto dell’unico reato specifico contestato: il danneggiamento di un ponte ripetitore, la cui attribuzione ovviamente è tutta da dimostrare, ma che ricorda, tristemente, montature di altri tempi in Val di Susa.
Ma è soprattutto il  comunicato stampa della Procura  che assume il ruolo di un documento politico, quando afferma il carattere preventivo dell’intervento “volto ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla particolare descritta situazione emergenziale, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato”, in linea con la direttiva emanata dal ministro Lamorgese ai prefetti per prevenire il “manifestarsi di focolai di espressione estremistica”.
Un documento politico, quello della Procura, che contesta agli indagati la loro opposizione ai centri per la deportazione forzata dei migranti (CPR) ed il sostegno alle campagne anticarcerarie, considerando come fatti eversivi l’organizzazione di manifestazioni non preavvisate, le scritte sui muri, la realizzazione e diffusione di opuscoli, articoli e volantini.
Pratiche consuete e diffuse di tutti movimenti di lotta,  da chi difende i territori dalle devastazioni ambientali, a chi si muove per affermare il diritto alla casa, al reddito, agli spazi sociali, alla dignità del lavoro.
Pratiche che ci appartengono, come ci appartengono quest* compagn*, che vanno  difes*, sostenut*, liberat*.

Note:

La solidarietà è un’arma.
Chi volesse portare la propria solidarietà anche attraverso il sostegno economico alle compagne e ai compagni arrestat*  a Bologna qui può trovare le coordinate per contribuire.
Per chi volesse scrivere alle compagne e ai compagni in carcere:
Elena Riva e Nicole Savoia, Str. delle Novate, 65, 29122 Piacenza.
Duccio Cenni e Guido Paoletti, Via Arginone 327, 44122, Ferrara.
Giuseppe Caprioli e Leonardo Neri, Strada statale 31, 50/A – Loc. San Michele – 15121 Alessandria (AL)
Stefania Carolei, Via Gravellona, 240, 27029 Vigevano, PV
Chi volesse rimanere aggiornato può seguire il blog della Rete bolognese anticarceraria.
Qui un’intervista a Radio Onda Rossa.

 

 


  1. Il termine è usato nell’accezione di M. Neocleous che definisce come ‘poliziale’ una vasta gamma di poteri aventi come funzione la fabbricazione  coercitiva dell’ordine sociale. 

  2. Il termine ‘pacificazione’ è usato nell’accezione di M. Neocleous, nel senso di ridurre con vari mezzi una popolazione conflittuale ad una sottomissione pacifica. 

  3. Per approfondire: Dario Fiorentino, Xenia Chiaramonte, Il caso 7 aprile. Il processo politico dall’Autonomia Operaia ai No Tav, Mimesis, 2019, pp.52/64. 

  4. Tobia Imperato, Le scarpe dei suicidi . Baleno Sole e Silvano e gli altri, Autoproduzioni Fenin!, Torino 2003, p. 193. 

  5. Luther Blisset Project, Nemici dello Stato. Criminali, “mostri” e leggi speciali nella società di controllo, capitolo 2. 

  6. Prison Break Project, Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, Edizioni Bepress, 2017, p.109. 

  7. Dalla guerriglia semiotica al carcere speciale, in “Senza censura”, aprile-maggio 1986. 

  8. Prison Break Project, op. cit, p. 133. 

  9. Xenia Chiaramonte, Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No Tav, Meltemi, 2019. 

  10. Prison Break Project, op. cit, p. 108. 

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Sport e dintorni – Storie di politici dell’Italia repubblicana alle prese col calcio https://www.carmillaonline.com/2020/02/11/sport-e-dintorni-storie-di-politici-dellitalia-repubblicana-alle-prese-col-calcio/ Tue, 11 Feb 2020 22:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57899 di Gioacchino Toni

I rapporti tra calcio e politica sono di lunga data; d’altra parte era inevitabile che uno sport capace di appassionare ed intrattenere come pochi altri non risultasse appetibile anche per chi ha legato le sue sorti politiche al consenso. Fabio Belli e Marco Piccinelli, che in un volume precedente – Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista (Rogas edizioni, 2017) – si erano interessati ad alcune storie del calcio oltrecortina capaci di segnare l’immaginario ad Est come ad Ovest, in La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto (Rogas edizioni, Roma, 2019) hanno [...]]]> di Gioacchino Toni

I rapporti tra calcio e politica sono di lunga data; d’altra parte era inevitabile che uno sport capace di appassionare ed intrattenere come pochi altri non risultasse appetibile anche per chi ha legato le sue sorti politiche al consenso. Fabio Belli e Marco Piccinelli, che in un volume precedente – Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista (Rogas edizioni, 2017) – si erano interessati ad alcune storie del calcio oltrecortina capaci di segnare l’immaginario ad Est come ad Ovest, in La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto (Rogas edizioni, Roma, 2019) hanno scelto di raccontare undici storie di politici dell’Italia repubblicana – a volte influenti protagonisti, altre vere e proprie meteore balzate alla cronaca per poi sparire senza lasciare traccie di sé se non nelle aule dei tribunali e nei conti non saldati – che in qualche modo hanno corteggiato, non sempre dotati di genuina passione, l’universo pallonaro del Belpaese.

Il volume si apre passando in rassegna il rapporto tra Presidenti della Repubblica e mondo del calcio raccontando in particolare di Giuseppe Saragat, che riceve al Quirinale la Nazionale campione d’Europa nel 1968 e quella che due anni dopo perde la finale dei mondiali messicani contro il Brasile di Pelè, di Giovanni Leone, tifoso dichiarato del Napoli, di Sandro Pertini, protagonista mediatico della vittoria azzurra dei mondiali spagnoli del 1982, di Francesco Cossiga, che oltre a palesare il suo sostegno alla Juventus in piena foga da picconatore non ha mancato di inveire contro la “giustizia sportiva” alle prese con Calciopoli nel 2006, di Carlo Azeglio Ciampi, affezionato ai colori della sua Livorno, per poi arrivare a Sergio Mattarella che, nonostante la riservatezza, pare seguire con un certo interesse le sorti del Palermo e dell’Inter.

Un capitolo è dedicato al caso del tutto particolare di Achille Lauro che lega la sua storia al calcio sin dal periodo fascista individuandone un importante strumento di consenso per poi proseguire nel dopoguerra, quando le vicende politiche personali – passando dalle liste monarchiche a quelle del Movimento sociale – si intrecciano con quelle che lo vedono gestire la società del Napoli Calcio con spavalde scelte imprenditoriali.

I rapporti dei politici comunisti col calcio sono invece raccontati attraverso la storia di Marco Rizzo che si intreccia, in giovane età, con quella della curva dei tifosi del Torino tra le fila del gruppo Ultras Granata, mentre in un’altra sezione del libro si parla del legame con la squadra degli Agnelli di alti esponenti del Pci a partire da Palmiro Togliatti, passando poi per Luciano Lama ed Enrico Berlinguer, con un’appendice post-Pci dedicata al tifoso juventino Walter Vetroni pragmaticamente attento però a non inimicarsi il tifo romanista.

Spazio è concesso anche a Ciriaco de Mita, la cui fortuna politica coincide con quella dell’Avellino nella massima serie durante gli anni Ottanta. Quanto diretta sia stata l’influenza del democristiano sulle sorti della squadra irpina è difficile da dire, tuttavia, si sostiene nel libro, «il rapporto tra De Mita e l’Avellino fu una sorta di amore pensato, in cui la presenza costante non fu mai accompagnata da esternazioni che nel mondo di oggi si potrebbero considerare quai d’obbligo per un esponente politico così in vista […] Non è un mistero che la Democrazia Cristiana, nell’espressione della sua nomenclatura, non disdegnasse operare dietro le quinte, e magari l’influenza demitiana la ricordano con più efficacia ad Avellino e dintorni, piuttosto che a livello nazionale» (pp. 43-44).

Inevitabilmente gli autori si soffermano sul rapporto tra Giulio Andreotti e la Roma, dagli stretti rapporti prima con Franco Evangelisti e poi con Dino Viola, a sostengo della quale interviene direttamente per l’ampliamento del centro sportivo di Trigoria e nelle trattative per portare in giallorosso il brasiliano Paulo Roberto Falcão. Andreotti non manca nemmeno di adoperarsi personalmente per il salvataggio della Lazio sull’orlo del fallimento dopo le gestioni di Giorgio Chinaglia e Franco Chimenti e persino nelle vicende del Frosinone, visto come importante bacino elettorale.

Un caso curioso riguarda la figura di Giovanni Di Stefano, avvocato che intreccia la sua storia con quella del Campobasso Calcio e con le vicende della guerra in Jugoslavia tra debiti insoluti e loschi affari in giro per il mondo. Celebri sono restate alcune sue dichiarazioni, come quella in cui accredita l’allenatore Levkovic, da lui portato al Campobasso, di un passato alla guida nientemeno che del Macnhester United, ma che da quelle parti nessuno ha mai sentito nominare, o come il suo millantare di essere segretario del Partito nazionale italiano, formazione politica di cui non vi è traccia negli archivi. Attualmente, pare, Di Stefano si trova a fare i conti con la giustizia inglese per reati di frode, truffa, riciclaggio e via dicendo.

Anche la parabola politica di Bettino Craxi si intreccia in qualche modo con il mondo del pallone. Milanese ma tifoso granata, probabilmente ammaliato dal fascino del Grande Torino. «Craxismo e Torinismo si sfiorarono a lungo, ma si intersecano solamente in una fase. Alla fine degli anni Ottanta il segretario socialista è al termine della sua esperienza di presidente del Consiglio, ma gli anni della Milano da bere, che dureranno a lungo, sono ancora all’apice. Craxi continua a seseguire il Torino con passione ed interesse, ha un figlio milanista, Bobo, e un amico, Silvio Berlusconi, al quale nel 1986 ha consigliato di prendere in mano le sorti della squadra rossonera, potenziale veicolo di grande popolarità» (p. 81). A quelle date il Torino non se la passa bene, tanto che nel giugno del 1989 finisce in Serie B ed è a questo punto che Craxi decide di intervenire supportando Gian Mauro Borsano, una sorta di ambizioso Berlusconi in scala ridotta. La parabola di Borsano al Toro è di breve durata ed esaurita la propulsione elettorale la squadra viene smantellata mentre Craxi si trova alle prese con ben altri problemi.

Un capitolo del volume è dedicato alla ricerca del consenso politico-calcistico nella Roma della Seconda Repubblica, quando i riflettori calcistici sembrano tra i pochi strumenti in grado di dare visibilità a figure di candidati sindaci in un’epoca segnata dal rigetto della politica da parte dei cittadini. In apertura di millennio nascono addirittura liste come Avanti Lazio e Forza Roma gravitanti attorno a Dario Di Francesco, liste elettorali “a schieramento variabile” che si ripresentano a più riprese fino al 2016. Del mondo capitolino degli ultimi decenni, sul libro viene descritta anche la grottesca corsa dei politici a mostrarsi vicini al popolare capitano giallorosso Totti.

Altro personaggio appartenente al teatrino della Capitale a cui Belli e Piccinelli dedicano qualche pagina è il Cavaliere della Repubblica Italiana, nonché fondatore e segretario nazionale di Italia Morale, Mario Auriemma. Candidatosi sindaco nel 2015 a Roma, costui è stato negli anni Novanta presidente delle società dilettantistiche di Civitavecchia e Pomezia, oltre che amministratore del Giorgione Calcio e patron dell’Avellino negli anni Ottanta: tutte società fallite sotto la sua direzione.

La Repubblica nel pallone si chiude su Silvio Berlusconi, per oltre un trentennio proprietario del Milan, nonché, una volta “sceso in campo” direttamente in politica nei primi anni Novanta, a lungo riveste la carica di Presidente de Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana ed ancora, pur “trascinandosi in campo”, attivo nel mondo politico attuale. Sul legame calcio-politca (e televisione) è stato scritto tanto ma su un aspetto, sostengono gli autori del libro, ci si è soffermati poco: «quello del Berlusconi “tattico”, amante del calcio più di quanto lo sia stato del Milan» (pp. 121-122). Le ultime pagine di Belli e Piccinelli sono proprio dedicate all’eterna insoddisfazione, costantemente e pubblicamente esplicitata, dall’uomo di Arcore a partire da quando alla sua prima squadra, il Torrescalla, presto ribattezzata Edilnord in onore della sua società di costruzioni, insoddisfatto della conduzione tecnica della squadra, si è trovato costretto a sollevare dall’incarico allenatori come Marcello dell’Utri e Vittorio Zucconi.

Fabio Belli e Marco Piccinelli, La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto, Rogas edizioni, Roma, 2019, pp. , € 13,70


Sport e dintorni

 

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benito.it https://www.carmillaonline.com/2018/11/18/benito-it-2/ Sun, 18 Nov 2018 18:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49696 di Alessandra Daniele

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“L’Italia ha avuto soltanto due ministri dell’Interno: Marco Minniti e Francesco Cossiga” – Generale Mario Mori, ex comandante del ROS e direttore del Sisde, a “In Onda”, La7 .

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7 – Alla calvizie aggiungi un tic, un modo di fare tipico del Benito originale per suscitare riconoscimento istintivo.
Annuire ripetutamente alle proprie affermazioni come se le avesse appena fatte qualcun’altro.

8 – Scegli un capro espiatorio a cui dare tutta la colpa dei danni che tu e la tua classe di sfruttatori avete inferto al paese.
Gli immigrati.

9 – Scegli un modello di Soluzione Finale.
Campi di concentramento in Libia e nel Sahel.

10 – Scegli i tuoi alleati principali nell’operazione.
Cancellierato tedesco.
Governo francese filo tedesco.

11 – Accetta norme e termini di servizio:
Né il PD, né benito.it potranno essere considerati penalmente, civilmente, o politicamente responsabili degli ulteriori danni e delle vittime causate dalla deriva fascista. Di tutto si darà la colpa al suddetto capro espiatorio.
Accetto.

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Complimenti. Il tuo benito.it è pronto a competere cogli altri.

Originariamente pubblicato l’8 ottobre 2017

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Il Pistola Elettrico https://www.carmillaonline.com/2018/09/02/il-pistola-elettrico/ Sun, 02 Sep 2018 17:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48441 di Alessandra Daniele

È evidente quanto Matteo Salvini ci tenga ad essere considerato il ministro dell’Interno più carogna del dopoguerra. In realtà, al confronto con tanti dei suoi predecessori – Scelba, Andreotti, Tambroni, Cossiga, lo stesso Minniti, allievo di Cossiga – Salvini è appena un bulletto, la cui boria è resa ancora più grottesca dall’inefficacia. Quasi tutti i migranti che ha cercato di respingere finora sono sbarcati e rimasti in Italia. La sua Operazione Spiagge Sicure è stata un fallimento avvilente. La promessa di abolire la legge Fornero al primo Consiglio dei [...]]]> di Alessandra Daniele

È evidente quanto Matteo Salvini ci tenga ad essere considerato il ministro dell’Interno più carogna del dopoguerra. In realtà, al confronto con tanti dei suoi predecessori – Scelba, Andreotti, Tambroni, Cossiga, lo stesso Minniti, allievo di Cossiga – Salvini è appena un bulletto, la cui boria è resa ancora più grottesca dall’inefficacia. Quasi tutti i migranti che ha cercato di respingere finora sono sbarcati e rimasti in Italia. La sua Operazione Spiagge Sicure è stata un fallimento avvilente. La promessa di abolire la legge Fornero al primo Consiglio dei ministri non s’è realizzata neanche al dodicesimo.
Non solo Salvini non è il ministro dell’Interno più duro del dopoguerra, ma a ben vedere non è neanche un ministro dell’Interno.
È un’arma di distrazione di massa. Una Mossa Kansas City vivente.
Un Cazzaro.
Però, quando il sole è al tramonto, anche i nani proiettano lunghe ombre.
E gli androidi sognano pistole elettriche.
Berlusconi è tornato a proiettare la sua lunga ombra sul governo, assicurandosi il commissario straordinario alla ricostruzione del ponte Morandi, Giovanni Toti, filo-Benetton. E congratulandosi con Salvini per il suo avviso di garanzia, in sintonia con Di Maio, che ha confermato la nuova linea garantista del Movimento 5 Stelle, dicendo che il socio deve assolutamente rimanere al suo posto.
In effetti un ministro dell’Interno indagato per arresto illegale e sequestro di persona è proprio quello che ci vuole per le Forze dell’Ordine italiane.
Salvini sembra uno di quei Cattivi da B movie che minacciano sfracelli planetari, ma alla fine riescono solo a torturare qualche poveraccio inerme, per dimostrare al pubblico quanto sono cattivi, così che esulti quando il Buono li disintegra.
I gialli 5 Stelle sono i suoi Minions. Ci somigliano anche, soprattutto Toninelli.
Salvini ha pure un nick sfigato: “il Capitano”. Data la sua concezione delle leggi del mare, il riferimento dev’essere Capitan Uncino.
Oggi la vulgata mediatica è che tutto gli giovi, tutto gli porti consenso: fallimenti, denunce, prese per il culo, figure di merda, che comunque la sua popolarità possa solo aumentare.
Stronzate.
Salvini è un prodotto, e come tale ha una data di scadenza.
La tigre che sta cavalcando non è né fedele, né paziente.
E alla fine disarciona sempre.
I rais come lui hanno tutti la stessa parabola: prima il Capitale li adopera per controllare le masse. Poi li abbatte, le stesse masse che li hanno acclamati li linciano, e tornano a farsi sfruttare come prima, grate del ripristino della Democrazia.
Salvini cadrà, abbattuto innanzitutto dagli sponsor che lo hanno creato, trasformando un fancazzista da telequiz nel Duce Verde. Al momento giusto basterà un’intercettazione, una casa di Montecarlo, e tutto il peso delle promesse non mantenute gli crollerà addosso, schiacciandolo.
Gli stessi che oggi lo acclamano, lo seppelliranno, passando al rais successivo.
E tutto ricomincerà da capo.

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benito.it https://www.carmillaonline.com/2017/10/08/benito-it/ Sun, 08 Oct 2017 18:08:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40312 di Alessandra Daniele

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3 – Scegli tre caratteristiche vincenti.
Arroganza. Doppiezza. Opportunismo.
Hai scelto la stessa combinazione del tuo Cazzaro. Complimenti per la coerenza, attenzione però, se il tuo cazzaro.it e il tuo benito.it dovessero entrare in conflitto potrebbero causare un crash, quindi il primo dovrà essere disinstallato.

4 – Scegli un personaggio storico recente di riferimento.
Francesco Cossiga

5 – Inserisci una credenziale pubblica.
“L’Italia ha avuto soltanto due ministri dell’Interno: Marco Minniti e Francesco Cossiga” – Generale Mario Mori, ex comandante del ROS e direttore del Sisde, a “In Onda”, La7 .

6 – Inserisci una credenziale riservata.
[box criptato]

7 – Alla calvizie aggiungi un tic, un modo di fare tipico del Benito originale per suscitare riconoscimento istintivo.
Annuire ripetutamente alle proprie affermazioni come se le avesse appena fatte qualcun’altro.

8 – Scegli un capro espiatorio a cui dare tutta la colpa dei danni che tu e la tua classe di sfruttatori avete inferto al paese.
Gli immigrati.

9 – Scegli un modello di Soluzione Finale.
Campi di concentramento in Libia e nel Sahel.

10 – Scegli i tuoi alleati principali nell’operazione.
Cancellierato tedesco.
Governo francese filo tedesco.

11 – Accetta norme e termini di servizio:
Né il PD, né benito.it potranno essere considerati penalmente, civilmente, o politicamente responsabili degli ulteriori danni e delle vittime causate dalla deriva fascista. Di tutto si darà la colpa al suddetto capro espiatorio.
Accetto.

12 – Inserisci il tuo numero di carta di credito.
[box criptato]

Complimenti, il tuo benito.it è già pronto per governare.
Ovviamente, non ha bisogno di passare dalle elezioni.

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Uomini che sapevano tutto. Vite parallele di Giulio Andreotti e Elio Ciolini https://www.carmillaonline.com/2013/06/17/uomini-che-sapevano-tutto-vite-parallele-di-giulio-andreotti-e-elio-ciolini/ Mon, 17 Jun 2013 21:55:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6339 di Girolamo De Michele papa_nero A proposito di: Antonella Beccaria, Il faccendiere. Storia di Elio Ciolini, l’uomo che sapeva tutto, Saggiatore, Milano 2013, pp. 238, € 15.00; Michele Gambino, Andreotti. Il Papa Nero. Antibiografia del divo Giulio, Manni, Lecce 2013, pp. 216, € 16.00; Antonella Beccaria, Giacomo Puccini, Divo Giulio. Andreotti e sessant’anni di storia del potere in Italia, Nutrimenti, Roma 2012, pp. 288, € 14.00; Aldo Moro, “Memoriale” (Commissione Moro, 149-155, Commissione stragi, II, 360-380).

“È naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e [...]]]> di Girolamo De Michele papa_nero

A proposito di: Antonella Beccaria, Il faccendiere. Storia di Elio Ciolini, l’uomo che sapeva tutto, Saggiatore, Milano 2013, pp. 238, € 15.00; Michele Gambino, Andreotti. Il Papa Nero. Antibiografia del divo Giulio, Manni, Lecce 2013, pp. 216, € 16.00; Antonella Beccaria, Giacomo Puccini, Divo Giulio. Andreotti e sessant’anni di storia del potere in Italia, Nutrimenti, Roma 2012, pp. 288, € 14.00; Aldo Moro, “Memoriale” (Commissione Moro, 149-155, Commissione stragi, II, 360-380).

“È naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e del potere costituzionale dello Stato e di assoluta indifferenza per quei valori umanitari i quali fanno tutt’uno con i valori umani. Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. E questi è l’On. Andreotti, del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini”[Aldo Moro, 1978]

“La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato far credere al mondo che non esiste, e come niente… sparisce” [Keiser Soze, I soliti sospetti]

 

La morte di Giulio Andreotti è caduta a brevissima distanza tra la pubblicazione di due libri resi ancor più emblematici dal decesso del Divo: l’antibiografia dello stesso Andreotti ad opera di Michele Gambino, e la ricostruzione, col consueto taglio controinformativo e un’attentissima lettura delle fonti, di Elio Ciolini, uno dei più inquietanti inquilini del “Residence Faccendieri” in cui abita il peggio della storia della repubblica (senza ordinali) da parte di Antonella Beccaria, che pochi mesi prima, assieme a Giacomo Pancini, aveva pubblicato una rilettura della storia della Repubblica attraverso la biografia politica del sette volte presidente del Consiglio.

Tanta ricchezza informativa fa da contraltare all’incredibile “leggerezza”, al limite dell’elogio servile, con la quale gran parte della stampa italiana ha delicatamente glissato sulle peggiori pagine della nostra storia nel momento in cui, morto Andreotti, sarebbe stato imperativo un bilancio non formale della sua carriera politica. C’è voluto “Il Post” di Luca Sofri perché venisse ripubblicata – con scarsa cura per i refusi – la durissima pagina del Memoriale in cui Aldo Moro, dalla galera brigatista, tracciava un ritratto a lettere di fuoco della statura politica e morale dell’ex amico di partito.

Se Andreotti è persona nota, Elio Ciolini risulta invece ignoto ai più. E, come mostra il lavoro di Antonella Beccaria, resta ignoto anche a chi lo ha conosciuto.
Chi è davvero questo personaggio che sembrava saper tutto della strage del 2 agosto e della strategia stragista di Cosa Nostra nella primavera-estate del 1992? Un agente segreto infiltrato nell'”Organizzazione Terroristica” responsabile della strage alla Stazione di Bologna? E se sì, di quale servizio: italiano o francese? «Un guardaspalle di Gelli»? Un uomo talmente vicino a Stefano Delle Chiaie da condividerne alcuni segreti? «Un “delinquentello”, un po’ mitomane e megalomane, ma fondamentalmente onesto», iscritto alla Loggia Montecarlo? «Uno strano e pittoresco personaggio che andava gridando ai quattro venti: “So tutto della bomba” [della stazione di Bologna]»? «Un “pataccaro” che spaccia “patacche”»? (Faccendiere pp. 65, 92, 153, 197)

Forse tutte queste cose, forse nessuna. Sta di fatto che nel dicembre 1981 un presunto piccolo truffatore detenuto nel carcere di Champ-Dollon, in Svizzera, inviò al console italiano un primo memorandum sulla strage della Stazione, cui seguirono altre “rivelazioni” (il virgolettato è d’obbligo). In breve, esisteva, secondo Ciolini, un’organizzazione terroristica internazionale denominata OT, collegata alla Trilateral e diretta da una loggia massonica denominata “Loggia Riservata” che «non ha niente in comune con la loggia massonica “P2”, anzi è la vera P2». Al vertice di questa Loggia Riservata ci sarebbero stati i «fratelli fondatori»: Giulio Andreotti, Gianni Agnelli, Roberto Calvi (allora presidente del Banco Ambrosiano), Attilio Monti, il “cavalier Artiglio” proprietario di giornali e petroliere, Umberto Ortolani e Licio Gelli, e Angelo Rizzoli (ancora proprietario del “Corriere della Sera”).
In questo contesto era maturata la decisione, presa da Gelli, di un eclatante attentato terroristico alla stazione di Bologna, la cui esecuzione era stata affidata a Stefano Delle Chiaie, per distrarre l’opinione pubblica dalla scalata finanziaria all’ENI.

faccendiereSi trattò di una raffinata operazione di depistaggio. Ciolini infatti falsificava il quadro complessivo mescolando elementi veri, verosimili e falsi, e lanciava al tempo stesso messaggi obliqui. La Loggia P2 veniva ridimensionata nel momento in cui era stato scoperto l’elenco dei suoi affiliati, ma al tempo stesso veniva ipotizzata l’esistenza di una più alta Loggia. La strage veniva attribuita ai fascisti, ma a quelli “sbagliati”, facendo il nome di Delle Chiaie, che con la strage non c’entrava, ma era impigliato in una fitta rete di sospetti (e aveva avuto per qualche tempo al suo fianco, in Sud America, lo stesso Ciolini, presentatosi come ufficiale dei carabinieri). E soprattutto: dagli accertamenti bancari non emerse alcuno spostamento significativo di fondi destinati alla presunta scalata all’ENI. Ma le indicazioni fornite da Ciolini sfioravano in modo allusivo quel “Conto Protezione” aperto nel 1978 da Silvano Larini presso l’Union Banques Suisses di Lugano, il “tesoro” del Partito Socialista di cui nel 1981 non si aveva notizia, e che sarebbe emerso solo nel 1993 con l’inchiesta “Mani Pulite”; un conto – il n. 633369 – sul quale erano transitati «in più tranche anche i soldi dell’ENI diretti al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e tangenti varie. Di esso si parlava a bassa voce nei corridoi del potere italiano, e la sua presunta esistenza, per quanto sussurrata, avrebbe potuto costituire un fattore usato per condizionare l’andamento della politica italiana nel decennio che precedette Tangentopoli» (Faccendiere, p. 74). Un conto sul quale, nel 1989, stavano indagando Carla Del Ponte e Giovanni Falcone, al tempo dell’attentato all’Addaura.

Se le date hanno un significato, il memoriale-Ciolini compare a sette mesi di distanza da un celeberrimo editoriale vergato di proprio pugno da Bettino Craxi, nel quale il segretario socialista paragonava Gelli a «un attivissimo arcidiavolo, un Belfagor dalle mille risorse, dai mille contatti, intese, dossier, trappole e anche ricatti». Insomma, una specie di «grand commis dell’organizzazione, […] un uomo molto abile, una volpe, ma non un capo […]. Belfagor resta una specie di segretario generale di Belzebù. E se c’è Belzebù, ognuno se lo potrà immaginare come meglio crede, sforzandosi di dargli una fisionomia, una struttura, un nome» (Belfagor e Belzebù “Avanti!”, 31 maggio 1981; Divo Giulio, p. 139). Come se all’io so (l’identità di Belzebù) si volesse rispondere con un anch’io so (del conto aperto dal tuo uomo Larini a Lugano).
Anni dopo, alla domanda di Michele Gambino se ritenesse Andreotti essere Belzebù, Giovanni Falcone, con quella sua saggezza degna delle migliori creazioni letterarie di Leonardo Sciascia, rispondeva, con una battuta degna del Keiser Soze de  I soliti sospetti che «per quanto gli riguardava lui non poteva dire nemmeno se Belzebù, inteso come diavolo, esistesse o meno». Aggiungendo che «certe domande erano sbagliate, perché semplificavano argomenti complessi» (Papa Nero, pp. 75-76).

Ancor più interessante la vicenda della Loggia di Montecarlo, «un organismo super che la P2 al confronto deve considerarsi zero», dichiara Federico Federici, personaggio inestricabilmente legato a Ciolini, che si attribuisce la responsabilità («purtroppo», aggiunge) di averlo fatto entrare nella Loggia Riservata: «”al suo interno c’era anche ‘il grande babbo’ [che] è uno dei fondatori […], ma è tanto potente in Italia e all’estero che nessuno ha il coraggio di toccarlo”. Del resto, continuò ironico [Federici] alludendo chiaramente a Giulio Andreotti, “al grande babbo la gobba gli porta fortuna”» (Faccendiere, p. 99).
Una super-Loggia riservata? Bisognerà tenere a mente che personaggi come Licio Gelli, Francesco Pazienza, il generale Pietro Musumeci hanno costituito il “vero” servizio segreto attraverso la loro “infiltrazione” nei servizi di Stato. L’esistenza di una super-Loggia implicherebbe allora l’esistenza di un servizio segreto di livello superiore, quantomeno come ipotesi logica. E infatti Licio Gelli lo ammise: «Andreotti sarebbe stato il vero “padrone” della P2? Per carità… Cossiga aveva Gladio, io la P2 e Andreotti l’Anello» (Divo Giulio, p. 260; Papa Nero, p. 162).
Ma di questo a suo tempo.
Torniamo a Ciolini.

Passano dieci anni, e Ciolini è di nuovo al centro dell’attenzione. Di nuovo dall’interno di un carcere – questa volta Sollicciano, condannato per calunnia e truffa ai danni dello Stato – il Faccendiere torna a scrivere dell’esistenza di una struttura internazionale anticomunista con legami con la Chiesa cattolica. E il 4 marzo 1992, otto giorni prima dell’assassinio di Salvo Lima, in una lettera al giudice di Bologna Grassi, intitolata «nuova strategia della tensione in Italia», preannuncia che:

Nel periodo marzo-luglio avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come:
esplosioni dinamitarde intente [sic] a colpire persone “comuni” in luoghi pubblici
sequestro ed eventuale “omicidio” d’esponente politico Psi, Pci, Dc
sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro presidente della Repubblica
Tutto questo è stato deciso a Zagabria – Yu – (settembre ’91) nel quadro di un “riordinamento politico” della destra e in Italia è intesa a un nuovo ordine “generale” con relativi vantaggi economico-finanziari (già in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine-deviato-massonico politico culturale, attualmente basato sulla comercializzazione degli stupefacenti! La “storia” si ripete – dopo quasi quindici anni ci sarà un ritorno delle strategie omicide… (Faccendiere, p. 179)

Di nuovo mescolando il vero, il verosimile e il falso, Ciolini fornisce anticipazioni impressionanti: tra marzo e luglio Cosa Nostra salda i conti con Salvo Lima, assassina i giudici Falcone e Borsellino, e di fatto crea le premesse perché la candidatura di Andreotti alla presidenza della Repubblica sia irrimediabilmente compromessa: «Il sette volte presidente del Consiglio ha sempre attribuito alla strage siciliana la perdita della partita per il Quirinale, e probabilmente non ha torto: i processi per mafia e omicidio erano ancora di là da venire, e tuttavia nell’Italia ferita dalla morte di uno dei suoi eroi, l’elezione a capo dello Stato del protettore della “famiglia politica più inquinata della Sicilia”, come diceva Dalla Chiesa, era un boccone troppo grosso per l’opinione pubblica» (Papa Nero, p. 201).

Il diavolo ci mise la coda, facendo fare ad Andreotti la stessa fine di Moro (quasi certo prossimo presidente della Repubblica al momento del rapimento, e al quale si fa riferimento in modo neanche troppo velato col «ritorno delle strategie omicide»), pur senza il «sequestro e “omicidio”». Sembra quasi sentire un’eco (voluta?) del “commiato” di Moro ad Andreotti, al termine del “Memoriale”: «Le auguro buon lavoro, on. Andreotti, con il Suo inimitabile gruppo dirigente, e che Iddio Le risparmi l’esperienza che ho conosciuto, anche se tutto serve a scoprire del bene negli uomini, purché non si tratti di presidenti del Consiglio in carica». A questa precisa sequenza temporale va aggiunta – dislocata nel tempo, con il tipico movimento depistante di nascondere il vero nel falso – la consapevolezza dell’avvio della strategia stragista di Cosa Nostra del 1993.
All’elenco del Faccendiere manca solo l’appendice di settembre, l’uccisione di Ignazio Salvo: ma Ignazio Salvo era già, come si dice, “un morto che cammina”. Lima e Salvo erano i due “garanti” presenti, secondo il racconto dei pentiti, all’incontro tra Andreotti e Totò Riina, il 20 settembre 1987:

«Vero o falso, se questa storia fosse un film, l’incontro narrato dagli otto pentiti sembrerebbe quello che nel gergo degli sceneggiatori si chiama “punto di svolta”: il ministro incontra il mafioso per garantirgli un rinnovato interessamento ai guai giudiziari della cosca, alla presenza di due garanti. Il mafioso registra la promessa e la riferisce ai picciotti. Anni dopo, quando la promessa si rivelerà vuota, i due garanti presenti nella stanza con Riina e Andreotti – Salvo Lima e Ignazio Salvo – pagheranno con la vita la mancata promessa, secondo le regole di Cosa Nostra» (Papa Nero, p. 105).

Vero o falso (o verosimile) che sia l’incontro tra Andreotti e Riina, è un fatto che nel marzo 1992 un omicidio eccellente a Palermo era non solo possibile, ma atteso: si trattava solo di sapere se sarebbe toccato a Lima o a Mannino. E alla notizia dell’esecuzione di Lima, alcuni limiani provarono per qualche giorno l’esperienza – così comune tra i militanti della sinistra rivoluzionaria da piazza Fontana in poi – di non rientrare a casa, di dormire da qualche amico senza avvertire le famiglie, di rendersi irreperibili.

Ciolini voleva preannunciare o mettere in guardia? A chi lanciava segnali di così immediata decifrazione? Poter rispondere significherebbe poter rispondere alla domanda iniziale: chi è davvero Elio Ciolini? Resta che a distanza di vent’anni e dopo vicende giudiziarie e processuali non ancora concluse possiamo dire che le bombe – secondo il documenti-Ciolini già pianificate prima del 12 marzo, e non dopo la “reazione dello Stato” – «avevano uno scopo, recavano con sé un messaggio, “fare la guerra per fare la pace”, come disse Totò Riina […]. Ma il messaggio non era solo quello. Per usare un’espressione tributata ad altre stragi […], si voleva destabilizzare il paese per raggiungere un accordo che riportasse la calma» (Divo Giulio, p. 198-99). Un accordo che oggi è noto come “trattativa Stato-mafia”; una ben strana trattativa nella quale non è chiaro chi, e a che titolo, abbia rappresentato una delle due parti (per la mafia il delegato fu Vito Ciancimino): se a trattare non furono ministri o dirigenti delle forze dell’ordine, con chi avrà trattato Ciancimino? E soprattutto: di cosa e su cosa si trattava?

divo_giulioQuali che fossero le sue intenzioni, collegando Andreotti con i suoi referenti mafiosi, la mafia stragista e le lobby politico-massoniche, Ciolini forniva tutti gli elementi per ricordare l’intreccio Gelli-Sindona-Calvi-Andreotti ai tempi in cui Andreotti aveva «non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale [=Cosa Nostra] ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi» (sentenza 2001, Papa Nero, p. 121). Queste relazioni non si limitavano alla supervisione della corrente “Primavera” capeggiata da Salvo Lima, o agli incontri tra Andreotti e il capo della mafia Stefano Bontate, ma anche, come risulta dai documenti processuali, al sostegno alle candidature all’assemblea regionale di “uomini punciuti” quali Raffaele Bevilacqua (capo della famiglia di Barrafranca) e Giuseppe Gianmarino (inserito nei quadri di Cosa Nostra) (Divo Giulio, p. 198).

Sulla storia di Michele Sindona ormai sappiamo quasi tutto. Il “banchiere mandato dalla Provvidenza” ebbe accesso, grazie alla firma di Paolo VI, ai fondi vaticani, in particolare quelli dello IOR (Istituto Opere Religiose), con i quali mise in piedi un giro di scatole cinesi nelle quali entrarono anche le disponibilità liquide di Cosa Nostra provenienti dalla produzione e smercio di eroina. Con Cosa Nostra, peraltro, Sindona era in affari sin dai tempi del sacco di Palermo, all’indomani del famoso summit organizzato da Lucky Luciano all’Hotel delle Palme di Palermo nell’ottobre 1957, quando fu sancita la pax mafiosa tra le cosche palermitane, furono regolati i rapporti tra le famiglie americane e siciliane, regolamentato il traffico di eroina tra le due aree, e decisa l’eliminazione di Albert Anastasia a New York.

A Sindona, caduto in disgrazia, subentrerà Roberto Calvi, fino all’epilogo sotto il Ponte del Black Friars a Londra, al culmine di una vicenda nella quale chiunque fosse in possesso di informazioni moriva prematuramente: Boris Giuliano, le cui indagini avevano dapprima scalfito, e poi intersecato, Sindona; Giorgio Ambrosoli, liquidatore del Banca Privata Italiana di Sindona; l’ambiguo giornalista Pecorelli; gli stessi Sindona, avvelenato in carcere, e Calvi, impiccato a Londra; a cui si aggiunge Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano, scampato al tentato omicidio da parte di uno dei capi della banda della Magliana Danilo Abbruciati; e Aldo Moro, che nel suo “Memoriale” ricorda il ruolo avuto da Andreotti nell’ascesa di Sindona:

«Che cosa ricordare di Lei [on. Andreotti]? […] Ricordare la Sua, del resto confessata, amicizia con Sindona e Barone? Il Suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona malgrado il contrario parere dell’Ambasciatore d’Italia? La nomina di Barone al Banco di Napoli?».

Sindona consulente finanziario del Vaticano e della Mafia palermitana, dunque; mentre Gelli, secondo quanto riferito al pentito Mannoia da Stefano Bontate, era l’uomo dei corleonesi: «Come Gelli faceva investimenti per conto di [Pippo] Calò, [Totò] Riina, [Francesco] Madonia e altri dello schieramento corleonese, Sindona faceva investimenti finanziati per conto di Bontate e Inzerillo» (Divo Giulio, p. 156).

Questo spiega perchè «la Chiesa ha sostenuto e protetto in molto modi l’uomo politico ad essa più fedele; in cambio Andreotti ha militato a tutti gli effetti nel mondo laico come un soldato della Chiesa, fin dall’inizio, quando da sottosegretario di De Gasperi faceva da ambasciatore tra il governo e la Santa Sede, e si occupava di censurare la produzione di Cinecittà e di polemizzare con i registi del neorealismo in nome della morale cattolica e del buoncostume». Come confermava Cossiga, Andreotti «è un grande statista del Vaticano. Il segretario di Stato permanente della Santa Sede, da Pio XII a Giovanni Paolo II… mai visto un uomo con tali capacità di governo. Crocianamente, per lui come per la Chiesa l’unica moralità della politica consiste nel saperla fare» (Papa Nero, p. 199).

Ma c’è un altro filo che collega Andreotti a Vaticano, Cosa Nostra e Loggia P2: l’anticomunismo.

«Se guardiamo bene, tutti i rapporti inconfessabili con cui si è sporcato le mani il sette volte presidente del Consiglio hanno la matrice comune dell’anticomunismo: la mafia con cui Andreotti “dialoga” fino all’omicidio Mattarella è la stessa cui gli americani si sono appoggiati dopo lo sbarco in Sicilia, la stessa che da Portella delle Ginestre in poi ha stroncato le gambe al movimento contadino, e ha portato voti spesso decisivi alla Dc, sottraendoli ai partiti di sinistra. I generali golpisti cui Andreotti ha fatto da sponda e da copertura tramano contro le istituzioni e contro i cittadini in nome del pericolo anticomunista, così come il Noto servizio, sorto nell’ombra intorno ad Andreotti, è formato da reduci della Repubblica di Salò dal dente avvelenato; la P2 è una congrega di arrivisti e affaristi che hanno in comune la fede anticomunista, e infatti gode nei suoi primi anni di un imprimatur e di appoggi anche finanziari della destra americana. Anche i rapporti con Sindona e Calvi, hanno al fondo una matrice “politica”: Sindona si muove come un agente degli americani su un territorio nemico, stringe patti con la mafia, vagheggia avventure separatiste in Sicilia. Calvi subentra nel ruolo a Sindona e prima di morire simbolicamente impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri compie il miracolo di reinvestire i soldi dei corleonesi di Pippo Calò nell’appoggio alle dittature sudamericane minacciate dai movimenti di liberazione e nel finanziamento a Solidarnosc, il movimento anticomunista polacco di Lech Walesa che in prospettiva storica è la prima crepa nel blocco dei Paesi della Cortina di Ferro» (Papa Nero, pp. 199-200).

operazione-via-appiaEd eccoci all’ultimo punto: il “Noto Servizio”, o “Anello”, un servizio segreto al di sopra dei servizi, creato e diretto da Andreotti sin dalla fine della guerra, poi evolutosi in Ufficio Zone di Confine nella Venezia-Giulia, una struttura coperta di cui Andreotti era a capo, e poi tramutatosi in Servizio Speciale Riservato, secondo la dizione che lo stesso Andreotti gli dà in un libricino in forma di romanzo, Operazione via Appia, pubblicato nel 1998.

Ricapitolando, in Italia ci sono stati tre servizi segreti, dei quali uno – SIFAR, SID o SISMI, a seconda delle epoche – al di sopra degli altri, e attivamente impegnato in ogni operazione sporca, dall’approvvigionamento clandestino di armi alla schedatura di politici, sindacalisti, giornalisti riconducibili all’opposizione, fino all’appoggio – quantomeno di suoi alti esponenti -, in forma di fornitura di armi, copertura o depistaggio, delle stragi di Stato o delle manovre golpiste. All’interno di questo servizio, in particolare negli anni del governo Andreotti-Cossiga-Berlinguer, esisteva un organigramma non ufficiale, che ridisegnava le gerarchie in funzione dell’appartenenza alla Loggia P2. Al di sopra di questo, il Noto Servizio che afferiva a Giulio Andreotti.

Ha ancora senso chiedersi se Andreotti fosse Belzebù, il vero capo della P2, o se esistesse una Loggia Montecarlo al di sopra della Loggia P2? O non è più sensata l’osservazione di Giovanni Falcone: che certe domande erano e sono sbagliate, perché semplificano argomenti complessi?

Decostruire gli apparati dello Stato, portare la luce negli uffici e negli archivi è opera fondamentale per giornalisti, magistrati, e ovviamente investigatori: su questo non ci piove.
Ma al tempo stesso, fare di questa decostruzione il fine ultimo di un’analitica del potere rischia di ridurre tutto a una dimensione spionistica o thrilleristica di second’ordine. Perché quello di fondamentale che rischia di essere perso è la funzione che questi dispositivi di potere hanno avuto, al di là degli organigrammi e dei funzionigrammi. Come scrive Gambino in conclusione del suo libro,

«Sarebbe stupido addebitare a Giulio Andreotti i mali del Paese, ma di essi egli è la più perfetta cartina di tornasole, per aver guidato l’Italia più a lungo di tutti, e per essere stato, tra tutti i politici italiani, il più influente e il peggiore. Forse senza di lui la storia del Paese non sarebbe stata migliore, ma certo sarebbe stata una storia più ricca di speranza e meno avvelenata dal cinismo» (Papa Nero, pp. 209-210).

Il cinismo, la sistematica distruzione di ogni moralità, l’individualismo implicito nella scorciatoia dell’appoggio politico e della raccomandazione, la prevalenza dell’economico su ogni altro valore, la corruzione inoculata in ogni angolo della società: questi metodi e strumenti di governo hanno contribuito a quella degradazione antropologica degli italiani che Pasolini indicava come uno dei crimini per i quali Andreotti e almeno una dozzina di dirigenti democristiani avrebbero meritato di essere trascinati sul banco degli imputati in un pubblico processo penale, in assenza del quale era «inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese» (Pier Paolo Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi Dc, “il Mondo”, 28 agosto 1975; Perché il Processo, “Corriere della sera”, 28 settembre 1975). Questi metodi e strumenti di governo hanno contribuito a forgiare la coscienza dell’italiano medio attraverso la percezione d’impotenza di fronte ad apparati indecifrabili, coi quali conviene trovare un accordo o un modus vivendi

«Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. [Lei] durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia», scriveva nell’ultima pagina del “Memoriale” Aldo Moro. Dimostrando di non aver compreso la vera natura del demonio, nel crederlo Persona.

Andreotti è passato, l’andreottismo no: la beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato far credere al mondo che non esiste, e come niente… sparisce.

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Demokristian https://www.carmillaonline.com/2010/08/23/demokristian/ Mon, 23 Aug 2010 09:13:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=3592 di Alessandra Daniele

Kristian.JPGDopo la sua morte, quattro lettere postume di Cossiga sono state recapitate alle principali cariche dello Stato. Carmilla ha ricevuto la quinta. Eccola:

Care Zecche, se state leggendo queste righe, significa che siete morti. So che finora vi siete illusi del contrario, ma questo è soltanto un altro degli innumerevoli errori di valutazione della vostra patetica esistenza. Vi siete illusi d’essere sopravvissuti agli anni settanta, rifugiandovi in un vostro limbo immaginario, ma in realtà siete tutti morti durante le cariche dei blindati che hanno macellato il vostro cosiddetto Movimento, o in carcere subito dopo. E’ un risultato di [...]]]> di Alessandra Daniele

Kristian.JPGDopo la sua morte, quattro lettere postume di Cossiga sono state recapitate alle principali cariche dello Stato. Carmilla ha ricevuto la quinta. Eccola:

Care Zecche,
se state leggendo queste righe, significa che siete morti. So che finora vi siete illusi del contrario, ma questo è soltanto un altro degli innumerevoli errori di valutazione della vostra patetica esistenza. Vi siete illusi d’essere sopravvissuti agli anni settanta, rifugiandovi in un vostro limbo immaginario, ma in realtà siete tutti morti durante le cariche dei blindati che hanno macellato il vostro cosiddetto Movimento, o in carcere subito dopo.
E’ un risultato di cui sono molto fiero, e che a tutti i miei colleghi consiglio sempre di perseguire, come ribadivo anche l’anno scorso: “il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale.”
Come aggiungo sempre, a questo proposito ho un solo rammarico: che qualcuno sia scampato, e diventato terrorista. Anche da quella vicenda però io e i miei colleghi siamo riusciti a trarre il meglio.
Suppongo che siate delusi da questa rivelazione, che vi aspettaste invece la soluzione a qualcuno dei tanti misteri d’Italia: chi ha abbattuto l’aereo di Ustica; perché la P2 è ancora in piena attività trent’anni dopo il suo presunto smantellamento; come funzionava la Gladio; cosa tiene in vita da secoli Andreotti; dove ha originariamente preso Berlusconi i miliardi per pagare tanti mercenari e mercenarie; qual’è l’origine del micidiale potere menagramo di Walt Veltroni; cos’è davvero l’oscura cortina fumogena che da sempre occulta la verità sulle stragi di Stato; perché l’Italia continua a scivolare indietro nel tempo verso il ventennio fascista.
Care Zecche, ancora una volta non avete capito nulla. La soluzione dei misteri non ha nessuna importanza. Ciò che conta sono le relazioni, restare tutti insieme. Le relazioni che consentono ai miei colleghi di restare tutti insieme al potere, come sempre. Magari dandosi ogni tanto il cambio alla guida, ma sempre tra loro, proprio come si fa durante una gita in macchina fra amici.
Non vi resta che prendere finalmente coscienza d’essere morti, e noi vi aiuteremo a farlo, anche a costo di usare le maniere forti.
Accettate il trapasso, e andate verso la Luce.
Tranquilli, è solo un altoforno.

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L’asso nella natica https://www.carmillaonline.com/2008/10/26/lasso-nella-natica/ Sun, 26 Oct 2008 02:37:00 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=2823 di Alessandra Daniele

HannoLaFaccia1.jpgLa stampa italiana in questi anni ha saputo costruirsi una solida e meritata reputazione. Una particolare sintesi di servilismo e sciacallaggio fra L’asso nella manica e Fantozzi subisce ancora. In questi giorni però alcuni giornali — o presunti tali — hanno sentito il bisogno di dare un forte segnale di rinnovamento. Grafico.

Hanno la faccia come L’Unità Meno male che alla direzione de L’Unità c’è una signora come Concita De Gregorio, altrimenti chissà che campagna pubblicitaria becera ci sarebbe toccata per il lancio del restringimento del giornale. Magari il solito culo di velina, con contorno di doppisensi tra [...]]]> di Alessandra Daniele

HannoLaFaccia1.jpgLa stampa italiana in questi anni ha saputo costruirsi una solida e meritata reputazione.
Una particolare sintesi di servilismo e sciacallaggio fra L’asso nella manica e Fantozzi subisce ancora.
In questi giorni però alcuni giornali — o presunti tali — hanno sentito il bisogno di dare un forte segnale di rinnovamento.
Grafico.

Hanno la faccia come L’Unità
Meno male che alla direzione de L’Unità c’è una signora come Concita De Gregorio, altrimenti chissà che campagna pubblicitaria becera ci sarebbe toccata per il lancio del restringimento del giornale. Magari il solito culo di velina, con contorno di doppisensi tra L’Unità e la figa, tipo “bella”, “libera”, “generosa”… quello stesso ticket culo-figa che da quarant’anni tutti i più “originali” e “innovativi” pubblicitari usano per vendere qualsiasi cosa, dai jeans, alla colla sigillante. Ci sarebbe toccato un culo sbattuto in faccia. O forse qualcosa di molto più osceno: una faccia da culo del PD.

HannoLaFaccia2.jpgQuei bravi ragazzi
Insieme al restyling, Il Riformista ha orgogliosamente esibito anche due nuovi giovani e promettenti collaboratori: Giampaolo Pansa e Francesco Cossiga. Sì, quel Cossiga che ha appena dichiarato:
“Il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale.”
Prossimamente Antonio Polito presenterà anche gli altri suoi analoghi nuovi acquisti: Erich Priebke curerà la rubrica di politica internazionale e diritti umani; Charles Manson si occuperà di cinema e celebrità; e Hannibal Lecter ovviamente di cucina.

HannoLaFaccia3.jpgLa torre di Guardian
La testata de Il Giornale viene adesso stampata in negativo, bianco su blu, come quella del britannico The Guardian. Il bollettino dei Testimoni di Silvio, diretto da Mario Giordano (noto doppiatore dei Puffi – ecco spiegato il blu), che già svetta nel panorama giornalistico mondiale, ne guadagnerà ulteriormente in stile e autorevolezza. I suoi titoli e i suoi editoriali del tipo “I negri puzzano”, “I comunisti sono tutti froci” o “Gli zingari vogliono incularsi tua figlia” suoneranno di certo molto più equilibrati ed eleganti. In arrivo anche una rubrica dal titolo: “L’Italia che ci crede”.
Sottotitolo “Che imbecille”.

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