Francesco Casetti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale delle/nelle immagini. Il cinema, il reale e l’immaginario negli articoli di Edgar Morin https://www.carmillaonline.com/2021/07/12/il-reale-delle-nelle-immagini-il-cinema-il-reale-e-limmaginario-negli-articoli-di-edgar-morin/ Mon, 12 Jul 2021 20:30:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67121 di Gioacchino Toni

«Come mai a volte la nostra realtà ci appare ovvia e familiare e a volte strana e sconosciuta? Come mai a volte la nostra realtà possiede una sua realtà assoluta e a volte invece ne ha così poca? Malgrado il sentimento indubitabile della nostra realtà, […] abbiamo a volte la sensazione della scarsa realtà della nostra realtà. Al cinema, invece, diamo una forte realtà ai personaggi e alle loro storie, e solo un piccolo barlume di vigilanza nella nostra mente non dimentica, durante la proiezione, che siamo spettatori seduti su [...]]]> di Gioacchino Toni

«Come mai a volte la nostra realtà ci appare ovvia e familiare e a volte strana e sconosciuta? Come mai a volte la nostra realtà possiede una sua realtà assoluta e a volte invece ne ha così poca? Malgrado il sentimento indubitabile della nostra realtà, […] abbiamo a volte la sensazione della scarsa realtà della nostra realtà. Al cinema, invece, diamo una forte realtà ai personaggi e alle loro storie, e solo un piccolo barlume di vigilanza nella nostra mente non dimentica, durante la proiezione, che siamo spettatori seduti su una poltrona. Da qui l’idea che la nostra realtà umana sia intessuta di immaginario: sogni a occhi aperti, fantasmi, immaginazioni, fantasie, desideri, romanzi, film, serie televisive e svaghi sono costitutivi della nostra realtà umana. L’immaginario collabora con il reale nelle arti dove si opera la nascita di un universo fantasma dotato di effetto di realtà. La missione del cinema è quella di affrontare questa doppia natura del reale. Obbliga gli spettatori a porsi domande fondamentali sulla loro vita, la loro società, il loro mondo, ossia sull’uomo stesso». (Edgar Morin)

Con queste parole si apre Le Cinéma, un art de la complexité (2018), di cui è appena uscita l’edizione italiana – Edgar Morin, Sul cinema. L’arte della complessità (Raffaello Cortina Editore, 2021) – tradotta da Anna Battaglia. Si tratta di un’ampia raccolta di articoli sul cinema stesi da Morin nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta – in buona parte pubblicati su riviste come la Revue internationale de filmologie e La Nef, oppure ritrovati in forma di bozze, dattiloscritti e manoscritti presso l’archivio del Centre Edgar Morin. Institut interdisciplinaire d’anthropologie du contemporain – proprio mentre lo studioso lavorava ad opere destinate a lasciare il segno come Le Cinéma ou l’homme imaginaire (1957), Les stars (1957) e L’Esprit du temps. Essai sur la culture de masse (1962).

A far da sfondo agli articoli riportati dal volume sono dunque le coeve riflessioni contenute in questi importanti saggi in cui Morin affronta la complessità dei fenomeni audiovisivi concependo l’immaginario come una parte costitutiva della realtà umana.

Le Cinéma ou l’homme imaginaire viene tradotto in italiano nei primi anni Sessanta faticando però ad incidere sul dibattito cinematografico nazionale, come ricostruisce puntualmente Francesco Casetti nell’introduzione all’edizione proposta da Feltrinelli nel 1982 e riportata in quella realizzata da Raffaello Cortina Editore nel 2016. In questo saggio Morin si concentra sul rapporto del cinema con il reale e l’immaginario evidenziando le relazioni con i processi profondi della psiche e della conoscenza.

L’illusione di realtà prodotta dal cinema, secondo il francese, risulta inseparabile dalla coscienza della sua illusorietà da parte del pubblico. Lo spettatore vive il cinema in uno stato di doppia coscienza: da una parte viene posseduto dalla magia delle immagini e dall’altro è cosciente di assistere ad uno spettacolo immaginario. All’illusione di realtà si sovrappone la coscienza dell’illusione. Il cinema, dunque, secondo Morin, permette allo spettatore di godere della “vertigine del doppio”, della duplicazione del reale, permettendogli di immettersi in questo simulacro sottraendosi dal reale. Lo spettatore, durante la fruizione del film in sala, entra a far parte di un universo nuovo senza sentirsi spaesato: è attraverso una trasfigurazione di ordine estetico che esso scopre il mondo.

Nella prefazione all’edizione del 1977 de Il cinema o l’uomo immaginario il francese sottolinea come reale ed immaginario si intersechino a partire dall’era cine-fotografica:

l’unica realtà di cui siamo sicuri è la rappresentazione, cioè l’immagine, cioè la non-realtà, dato che l’immagine rimanda a una realtà sconosciuta. Certo, queste immagini sono vertebrate, organizzate, non solo in funzione degli stimoli esterni, ma anche della nostra logica, della nostra ideologia, e cioè anche della nostra cultura. Tutto il reale percepito passa quindi per la forma immagine. Poi ricompare sotto forma di ricordo, vale a dire come immagine di immagine. Il cinema, come ogni figurazione (pittura, disegno), è un’immagine di immagine ma, come la fotografia, è un’immagine dell’immagine percettiva e, più della foto, è un’immagine animata, cioè viva. Proprio perché rappresentazione di rappresentazione viva, il cinema ci chiama a riflettere sull’immaginario della realtà e sulla realtà dell’immaginario1.

Ed ancora:

l’immagine non è solo il punto di incontro tra reale e immaginario ma è l’atto costitutivo radicale e simultaneo del reale e dell’immaginario. A questo punto si può concepire il carattere paradossale dell’immagine-riflesso o “doppio”, che da una parte esprime un potenziale di oggettivazione (distinguendo e isolando gli “oggetti”, permettendo il distacco e la presa di distanza) e contemporaneamente, dall’altra, esprime un potenziale di oggettivazione (la virtù trasfigurante del doppio, il “fascino” dell’immagine, la fotogenia…). Bisogna quindi arrivare a concepire non solo la distinzione ma anche la confusione tra reale e immaginario; non solo la loro opposizione e concorrenza, ma anche la loro complessa unità e complementarità2.

Sempre nel corso degli anni Cinquanta lo studioso pubblica Les stars (1957), ove approfondisce i processi psichici e affettivi di proiezione e identificazione e mette in relazione la dimensione economica con l’immaginario collettivo, invitando a leggere il divismo come un prodotto della società capitalistica e al contempo come una risposta a bisogni antropologici profondi riconducibili addirittura al mito ed alla religione.

Ciò che invece Morin delinea nel successivo L’Esprit du temps. Essai sur la culture de masse (1962), ripubblicato nel 2017 in italiano da Meltemi in un’edizione tradotta da Claudio Vinti, curata da Andrea Rabbito ed impreziosita da un’introduzione di Ruggero Eugeni, si rivela utile ad una comprensione critica del potere delle nuove immagini proposte dalla scena mediatica contemporanea.

È in tale contesto di riflessioni sul cinema e sull’immaginario condotte nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta che Morin scrive gli articoli raccolti nel volume Sul cinema. L’arte della complessità. Questi suoi pezzi partono pertanto dalla convinzione che la realtà umana sia intessuta di immaginario; che si tratti di sogni a occhi aperti, fantasmi, desideri, romanzi o film, l’immaginario collabora con il reale ogni qual volta si dà vita a «un universo fantasma dotato di effetto di realtà»3. Il cinema, nell’affrontare questa doppia natura del reale, obbliga gli spettatori a «una riflessione, una presa di coscienza, un’apertura al pensiero che interroga, al pensiero che cerca»((Ivi., p. X.)), dunque a porsi domande sulla vita, sulla società, sul mondo, in definiva sull’essere umano stesso.

Per farsi un’idea di come Morin traduca le sue riflessioni generali relative al rapporto tra cinema, immaginario e realtà nel “quotidiano” di brevi articoli per qualche rivista riferiti a singoli film o alle poetiche autoriali, si possono prendere in considerazione, tra i tanti contenuti nel volume, gli scritti Elogio del Grido e Ingmar Bergman. L’uomo che pone domande.

Nello pezzo relativo al film del 1957 di Michelangelo Antonioni – pubblicato originariamente in La Nef, gennaio 1959 – Morin sottolinea come la sua bellezza derivi da

una combinazione intima tra il senso profondo di una storia, questa stessa storia e i mezzi formali di una tecnica raffinata. Questa raffinatezza dell’immagine e anche del montaggio sembra a priori mal adattarsi all’esiguità, alla semplicità della vicenda. Eppure è proprio questa dissonanza a emozionarci fino in fondo, a darci quell’emozione che solo una grande opera può procurare: un’emozione che non si riduce all’emozione estetica, ma che non potrebbe sgorgare senza l’emozione estetica4.

La scelta di ambientare il film tra i paesaggi invernali di un’Italia settentrionale periferica coperta da un cielo uniformemente grigio, secondo lo studioso si rivela in grado di conferire al film la sua vita interiore. «Questo paesaggio sarà l’anima stessa del film, l’anima svuotata del protagonista del film: l’operaio Aldo»5. L’intera vicenda è contenuta tra il momento in cui l’uomo è «colpito a morte» – quando Irma, la donna con cui vive, lo lascia – «e il momento in cui cade» morendo «senza neanche compiere un gesto attivo nel suicidio, lasciandosi cadere dall’alto della torre della raffineria dove lavorava»6, dopo aver rivisto, a distanza di tempo, la donna amata che nel frattempo si è costruita un’altra vita senza di lui. Tra questi due terminali c’è il girovagare di Aldo, che diserta il lavoro e cerca di riempire in qualche modo le sue infinite e vuote giornate.

È dunque, di fatto, la storia di un’agonia che dura un anno o due, ma un’agonia intima, di cui nulla ci è mostrato esteriormente. È dalla fatica sempre più grande, dall’indebolimento progressivo dei riflessi di Aldo, che noi capiamo che lui si sta svuotando delle ultime riserve biologiche. Una successione di episodi, sulla sua strada, distraggono lo spettatore dalla visione permanente di ciò che di fatto è un pellegrinaggio di morte. Potremmo anche lasciarci prendere da questo rosario di incontri pittoreschi, di piccoli casi fortuiti, di piccoli avvenimenti, se non ci fosse permanentemente il cielo grigio e il fiume snervato, lento, che con la sua presenza sempre uguale ci fa entrare nell’anima di un uomo. Il film è intriso di una vita interiore suggerita dal paesaggio7.

Antonioni, sostiene Morin, mantiene per tutto il film una “distanza clinica” nei confronti della soggettività del protagonista osservandolo con un’apparente non-partecipazione. Il film ci mostra un essere umano

schiacciato da forze che lo sovrastano, e alla fine domato o distrutto. […] Nulla può essere più doloroso dello spettacolo di un uomo ridotto ad automa, quando ogni sua intima risorsa si è spezzata, e quando si è esaurita ogni sua energia vitale. […] Ne Il grido non si tratta di un automa convenzionale: è l’uomo automatizzato che rimane quando ogni autonoma spinta si è spenta in lui e quando l’energia vitale si è prosciugata in lui. Che cosa straordinaria e rara sullo schermo, la sofferenza silenziosa di un uomo! Diciamo anche soltanto la sofferenza d’amore di un uomo. Il fatto è che il cinema attribuisce sempre solo alle donne i temi profondi dell’amore. Si vedono, è vero, uomini che si suicidano per amore, ma per un gesto di nobiltà o per sacrificio, e sono personaggi, del resto, secondari. Non si è mai visto un uomo agonizzare d’amore per tutto un film. Eppure, i fatti di cronaca dimostrano che anche gli uomini sono capaci di disperazione e di follia. E non sono neanche uomini particolarmente deboli o particolarmente provati e neanche frustrati. Sono come Aldo, degli esseri condotti all’estrema debolezza, all’estrema frustrazione, perché hanno perso ciò che era essenziale per la loro vita. Ne Il grido ci troviamo proprio lì, nell’universo dei fatti di cronaca. Nella cronaca gelida e nebbiosa dell’inverno italiano che riesce a darle musicalità, pur mantenendoci nello “spaccato di vita”. È solo alla fine del film, quando Aldo torna a morire sui luoghi della felicità di un tempo, è solo allora che il fatto di cronaca si trasforma in tema da romanzo, persino romantico8.

Le scelte estetiche del regista ferrarese, continua lo studioso, si adattano a questo racconto sin dalla scelta di mettere lo spettatore nell’incapacità di comprendere esattamente ciò che sta accadendo pur sapendo che qualcosa di tragico accadrà. «Nell’attesa abbiamo gli eventi di superficie» che potrebbero far dimenticare il nulla interiore di Aldo.

E invece Il grido è un film riuscito proprio perché sono queste descrizioni periferiche a rivelarci quel nulla. Nella vita di Aldo non c’è più niente che quella cinepresa possa trattenere, come scene di vita lungo una strada che si percorre velocemente. Le impressioni si succedono tanto per noi spettatori, quanto per il protagonista, ormai passivo, spettatore anche lui9.

Dopo il lento trascinarsi dello svuotamento di Aldo, sul finale Antonioni interviene bruscamente ricorrendo agli strumenti del teatro, del romanzo, della sinfonia:

Aldo arriva nella sua borgata. È assediata dai carabinieri. La folla è in agitazione. Questo tumulto teatrale e sinfonico viene spiegato: vogliono espropriare il comune per costruire un aerodromo. Ma, esteticamente, siamo entrati nel turbine della tragedia o dell’opera da cui sgorgherà il grande tema romanzesco e musicale: la fine che si ricongiunge con l’inizio, il grande ritorno al punto di partenza. Lo spettatore si accorge a stento di questa mutazione, perché il grande grido di orrore che irrompe è stato preparato, lungo tutto il film, come dentro una crisalide10.

Morin accosta la pellicola di Antonioni a quelle di altri registi – Sogni di donna (1955) di Bergman, Senso (1954) di Visconti, Una vita (1958) di Astruc (1958), Gli amanti (1958) di Louis Malle – che, per quanto diversissime tra loro, possono essere accomunate, secondo il francese, dalla comune volontà di approfondire il tema dell’amore in maniera più amara, realistica e tragica.

Tutto ciò, del resto, va di pari passo con l’indebolirsi dei temi sociali e politici che, intorno al 1936 in Francia e nell’immediato dopoguerra in Europa occidentale, attiravano i registi non conformisti. In altre parole, all’avanguardia che significava rivoluzione succede un’avanguardia che significa amore. La promozione del tema dell’amore non è affatto da deplorare, come fanno alcuni critici; ciò che bisogna deplorare è la scomparsa della questione sociale11 .

Nello pezzo relativo a Bergman – pubblicato originariamente in La Nef, n. 27, aprile 1959 – Morin sottolinea come l’originalità del regista svedese risieda sopratutto nella sua capacità di superare, pur mantenendolo,

il piano del racconto, della descrizione, della tesi, per rimanere costantemente al livello dell’interrogazione […] Ciò che mi colpisce in Ingmar Bergman è ch’egli interroga […] tutto. Il reale e il sogno, (il teatro, i guitti), la vita e la morte, il dolore e la felicità, l’uomo e la donna. […] L’interrogazione permanente di Bergman ritorna spesso a posarsi sul volto femminile, come se fosse lì, dietro quel volto, che risiedono i segreti più preziosi che si stanno cercando, come se le verità più profonde si manifestassero attraverso il volto […] La domanda che Bergman pone ai volti di donna non è “Cos’è la donna?”, è “Cos’è l’umanità?”. L’interrogativo di Bergman privilegia la donna, ma la domanda è generale: come vivere? Cosa significa vivere?12.

Interrogando la vita, puntualizza Morin, il regista svedese interroga la morte. Nonostante il cinema sia pieno di morti a mancare in esso è proprio la morte e Bergman per parlarne direttamente

è obbligato a ricorrere al mito supremo della morte, alla Morte-Personaggio, allo Spettro, al Doppio. Cioè a una faccia della morte che sia quella dell’uomo, misteriosa quanto la faccia dell’uomo e per la quale l’uomo non possiede alcuna risposta. Dio è invocato solo come un’impossibile possibilità. È l’interrogazione bergmaniana che ha la prima e l’ultima parola. Il rifiuto della Salvezza non è una sfida. È l’atto stesso del pensiero che interroga. Eppure in questa opera senza Dio e senza Salvezza, senza Provvidenza, senza ricompensa, la disperazione non si chiude in se stessa. Non si chiude proprio per il fatto che quest’opera è innervata dalla permanenza stimolante dell’interrogazione, da quel cortocircuito innescato dalla curiosità appassionata e attenta che nega la disperazione stessa. Non si chiude anche perché è costantemente interrotta da qualcosa di affascinante e stupefacente che è il gioco, anzi il doppio gioco tra il sogno e la realtà, il teatro e la vita. […] Bergman inserisce spesso un teatro nel teatro, ed è in questo doppio della vita, della sua quintessenza, in questa vita recitata e rappresentata, in questa sorta di ebbrezza che, malgrado le infelicità, i dolori e le domande senza risposta, la vita è finalmente accettata e assunta13.

In chiusura Morin invita a riflettere sui motivi per cui, nonostante Bergman goda dell’ammirazione incondizionata della critica, i suoi film non siano riusciti ad entrare nel grande circuito commerciale pur toccando, in molti casi, problemi quotidiani che gli spettatori conoscono in prima persona. Si può incolpare la stoltezza di molti distributori e proprietari di sale ma, conclude amaramente il francese, si può

anche pensare che lo spettatore sia talmente pavlovizzato dal cinema tradizionale da essere incapace, oggi, di aderire a un cinema senza provvidenza, un cinema che interroga, un cinema dove non è il pubblico a proiettare i propri sogni, le proprie sofferenze, la propria sete ardente di felicità e di avventura, ma che proietta, lui, cinema, sul pubblico, la mediocrità e la follia della vita – senza offrirgli la risposta salvifica14.

 


Il reale delle/nelle immagini – serie compelta


  1. Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Raffaello Cortina Editore, 2016, pp. 6-7. 

  2. Ivi. p. 7. 

  3. E. Morin, Sul cinema. L’arte della complessità, Raffaello Cortina Editore, 2021, p. IX. 

  4. Ivi., p. 195. 

  5. Ivi., 196. 

  6. Ibidem. 

  7. Ivi., pp. 196-197. 

  8. Ivi., pp. 197-198. 

  9. Ivi, pp. 199-200. 

  10. Ivi., p. 200. 

  11. Ivi., p. 201. 

  12. Ivi., pp. 204-206. 

  13. Ivi., pp. 207-208. 

  14. Ivi., p. 209. 

]]>
La maniera liquida del cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2016/12/02/la-maniera-liquida-del-cinema-italiano/ Fri, 02 Dec 2016 22:30:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34621 di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua [...]]]> di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua introduzione all’opera, Roberto De Gaetano sostiene che essendo i sentimenti a definire l’orientamento nel mondo di un individuo e di una comunità, se questi non danno forma a comportamenti finiscono col riversarsi nelle forme di rappresentazione. Secondo lo studioso l’elaborazione dei sentimenti popolari operata dal cinema italiano, soprattutto attraverso la commedia ed il melodramma, ha provveduto a dare espressione a sentimenti e stati d’animo altrimenti privi di espressione. «Nella nostra tradizione si viene dunque a determinare una frattura decisiva tra le forme del sentire e quelle dell’azione. Le prime, non trovando risposta efficace nelle seconde, trapassano nelle forme di espressione, a partire dal cinema, che diventano i veri operatori di una individuazione senza identità (nazionale), della creazione di uno stile di vita, di un modo di immaginare e abitare il mondo» (Vol. I, p. 9).

Secondo De Gaetano quello italiano «è un cinema che, contrariamente alla letteratura, non si è di fatto mai posto un problema di identità nazionale, ma è stato sempre vicino alla vita sentita e pensata oltre le forme della società civile, dello Stato, della nazione e della storia» (Vol. I, p. 11).

Se l’America può dirsi coincidere con il suo cinema in quanto questo risulta direttamente iscritto nel dispositivo produttivo capitalista, non si può invece dire che l’Italia sia il suo cinema nonostante questo possa definirsi profondamente italiano avendo raccontato, nel corso della sua storia, quella “nascita mai avvenuta di una nazione” attraverso il suo essere radicato nella realtà.

lessico_del_cine_546e10358a219«Da Roma città aperta a Salò, dalle torture dei nazisti a quelle dei fascisti, è un arco di tempo che dal 1945 al 1975 non solo segna un trentennio in cui il cinema italiano, proprio essendo specificamente italiano, ha avuto capacità e forza di conquistare (per credito e fama) il mondo intero, ma segna il momento in cui il dispositivo cinematografico, interno alla macchina capitalista, rivela il suo rovescio. Se il capitalismo è un sistema produttivo e culturale che agisce sulla sfera di una potenza sempre continuamente attualizzata, che tende a non lasciare varchi né faglie ma a suturare infinitamente tutto (e di cui il denaro è il segno distintivo), e se Hollywood ha rappresentato la forma stessa di questa saturazione progressiva, nei modi di un’adozione infinita, attiva e passiva, di immaginari e stili di vita, il cinema italiano ha rappresentato l’altro lato di questa potenza pura, non quella di cui si è appropriato il capitale, svuotandola in una perenne alimentazione di sé, ma quella che, smascherando il dispositivo di appropriazione e rivelandone le falle interne, ha avuto la capacità di affermare, anche in forme esagerate, la potenza eccedente ogni attualizzazione (di cui è immagine icastica e cliché insuperato l’otium italiano). E se il neorealismo lo ha fatto […] affermando lo splendore, sia pur nel dramma, della contingenza, e una certa commedia lo ha fatto riconsegnando alla maschera la capacità di scartare da se stessa (è il caso di Sordi), questa affermazione, dopo il passaggio attraverso il “libero indiretto” degli anni sessanta, giunge a Pasolini, dove la potenza svincolata dall’atto viene a coincidere con la morte. Il cerchio si è chiuso: le torture di Salò svuotano il corpo di ogni potenza, lo abbandonano come cosa inerte, lo separano da sé riconsegnandocelo come “nuda vita”, invertendo il percorso avviato da Roma città aperta, dove il corpo torturato era comunque redento dal suo sacrificarsi per la rinascita e la libertà di una comunità, e diventava dunque il corpo di un martire, come quello della Magnani caduto a terra inseguendo l’uomo amato prelevato dai tedeschi, o come quello dei resistenti torturati e uccisi, come don Pietro, sotto gli occhi dei bambini-testimoni» (Vol. I, pp. 30-31)

Nel cinema italiano, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’60, si è sviluppata una tendenza inaugurata dai generi popolari come il “western all’italiana”, che mette in scena un sentimento scettico e cinico della vita lontano dal moralismo della commedia e, a tal proposito, sostiene De Gaetano che nel cinema dei generi popolari, e soprattutto nel western all’italiana, «L’uniforme diventa un’esplicita, ironica e grottesca veste che non si modella più sulla vita sociale ma sulle derive di un immaginario cinematografico scaturito dalla grande tradizione americana. Dal mito dell’America, avviato dall’antologia del 1941 di Vittorini, poi ripreso nel secondo dopoguerra dal neorealismo, dal boogie, dal piano Marshall, da Nando Mericoni, dalla Hollywood sul Tevere, si giunge con il western all’italiana a ribaltare dall’interno quel mito, smascherando il motore del capitalismo americano: l’adozione, non più di stili di vita […] ma di un immaginario svuotato, restituito in forma esagerata e ironica. […] nel western all’italiana viene svelato ed esautorato il motore stesso del capitalismo americano, la sua pratica adottiva, ridotta all’esposizione ironica e grottesca di un immaginario non più simbolizzabile. Il “nudo immaginario” di Leone (e del western all’italiana), grado estremo di un’adozione vuota, fa da pendant alla “nuda vita” di Pasolini, e getterà un ponte verso il futuro, con un potere d’anticipazione straordinario. È qui che il nostro cinema popolare di genere comprende cosa resta di un immaginario triturato da forme di vita perennemente alimentate e bruciate dal consumo e dalla spettacolarizzazione di tutto, dove il cinismo dell’eroe del western all’italiana diviene immagine di un disincanto profondo nei confronti del mondo, e la forma si trasforma in un campo d’azione meramente ludico» (Vol. I, pp. 34-35).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volDunque, il “nudo immaginario” che attraversa il cinema italiano dai film di Leone fino al citazionismo di Sorrentino, sostiene De Gaetano, si pone come alternativa al filone avviato dal neorealismo. Questo cinema nazionale che ha preso il via con il western all’italiana appare «caratterizzato da uno “strizzare l’occhio” allo spettatore, che diviene l’indice più rilevante di una scrittura ironica, che liquida il debito nei confronti di qualsivoglia tradizione (italiana in primis), si estromette dalla Storia, fagocita e denuda immaginari privi di mondo, come privi di mondo, e perfino di nome, sono i suoi protagonisti» (Vol. I, p. 37).

Tale direttrice di cinema ha finito col dare forma ad un immaginario sempre più disincantato. «Un cinema fatto da un popolo senza uniforme, che se in politica ha significato attitudine ad indossarne molte, e dunque al trasformismo, in arte e nelle forme di vita quotidiana ha riguardato vicinanza alla potenza e ambivalenza della vita, che è stata anche la ragione per cui, pur essendo singolarmente e specificatamente italiano, il nostro cinema è stato universale. È stato il rovescio del cinema americano, ha espresso le profonde contraddizioni di una società e di un sistema culturale incapace di assimilare potere economico e potenza della vita (come nel pieno capitalismo). Tutte le contraddizioni di un sistema di vita e culturale che il cinema americano ha saputo raccontare in forma impareggiabile, ma rimanendo sempre all’interno di quella “assimilazione”, per cui la vita e la sua potenza tendono ad essere suturati dal potere e dall’azione (anche immaginaria) del capitale, si sono trasformate nel cinema italiano in opportunità impareggiabili per far emergere nel e attraverso il cinema qualcosa che eccede e scarta quest’assimilazione, rivelando attraverso stasi ed esagerazioni lo stallo non solo dell’azione (Antonioni), ma anche di una società divenuta spettacolo (Fellini) e perfino della civiltà stessa (nelle visioni apocalittiche di un Pasolini e di un Ferreri)» (Vol. I, p. 38).

Da tali considerazioni del curatore prende il via Lessico del cinema italiano ove, attraverso ventuno voci affrontate dai diversi autori, il cinema italiano viene indagato con nuove modalità. Ognuna di queste voci viene affrontata passando in rassegna venticinque film a partire da un’opera recente.

Secondo Francesco Casetti, che con la sua Postfazione chiude il Terzo volume e l’intera opera, «ciò che caratterizza il cinema nazionale non è uno stile, né una storia ricorrente, né un canone [quanto piuttosto] una sorta di abbandono al flusso dell’esistenza, un’allergia a delle regole condivise, un’unità che si costruisce come difficile ricomposizione di singolarità, una diffidenza nei confronti delle istituzioni, una capacità di risposta che nasce dalla situazione concreta […] il cinema italiano preferisce il rischio di stare attaccato alle cose piuttosto che il piacere di una formula espressiva condivisa e stabile; in esso il flusso della vita vale più delle forme che dovrebbero catturarlo. Ciò gli consente una straordinaria apertura “all’esteriorità del mondo e all’incompiutezza che lo definisce”» (Vol. III, p. 474).

Nel corso della sua storia il cinema italiano ha saputo sfruttare diversi modelli senza che questi giungessero mai a stabilizzarsi secondo un canone definito. Secondo lo studioso si può parlare di formule ricorrenti che scompaiono e ricompaiono in altri modi. «Le formule non mancano, ma la loro tenuta fa problema; sono pronte a riapparire, ma anche a squagliarsi. Il sentimento della vita è ciò che entra nel cinema attraverso queste faglie, queste rotture. È ciò che emerge quando una formula, anziché consolidarsi e diventare un canone, comincia a sbriciolarsi o a ristrutturarsi in altre condizioni» (Vol. III, p. 475).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-vol-3Le formule della cinematografia nazionale sembrano presentarsi come “nonformule”, come un insieme di variazioni su un tema. Il cinema italiano «si è costantemente trovato a mal partito con i generi che riposano su un forte processo di astrazione, o che si appoggiano a degli schemi ideali. In particolare, il cinema italiano sembra incapace di praticare da un lato la tragedia, dall’altra il melodramma (nel senso anglosassone del termine). La coesistenza di due opzioni entrambe necessarie ma incompatibili, e che dunque non lasciano via d’uscita (tragedia), o il conflitto tra due modelli di condotta tra cui un soggetto è obbligato a scegliere, perdendo comunque una parte di sé (melodramma), non fanno parte dei plot ricorrenti […] La versione italiana della tragedia è Il sorpasso, in cui la corsa verso la morte è guidata non dal destino, ma dal caso; così come la versione italiana del melodramma non è tanto il filone di Catene e Tormento, quanto C’eravamo tanto amati, in cui sono i fatti della vita a modellare gli ideali cui ispirarsi, e non viceversa» (Vol. III, pp. 477-478).

Se da una parte la blanda formalizzazione nel cinema italiano ha permesso al sentimento della vita di emergere, ciò non vuol dire, puntualizza Casetti, che non sia possibile individuare “maniere” italiane, ma storicamente queste sono state individuate soprattutto da “occhi stranieri”. La “maniera” italiana «non fornisce una collezione di formule fatte e finite; semplicemente testimonia il desiderio di formalizzare un’espressione che altrimenti sarebbe informe. È una “maniera” che appunto abita i piani bassi del cinema e che subito emigra altrove, una maniera “dislocata”. È spesso anche una maniera che funziona da “abbozzo”, da riprendere e da rilavorare, con nuovi accenti e nuove prospettive. È una maniera che si presta a improvvise rifondazioni e a successive ricodificazioni, una maniera “liquida”» (Vol. III, p. 481).

Di seguito la successione con cui in milleseicento pagine Lessico del cinema italiano procede nell’indagare Forme di rappresentazione e forme di vita. Volume I (2014): Introduzione del curatore. Amore (Roberto De Gaetano), Bambino (Emiliano Morreale), Colore (Luca Venzi), Denaro (Marcello Walter Bruno), Emigrazione (Massimiliano Coviello), Fatica (Federica Villa), Geografia (Francesco Zucconi). Volume II (2015): Habitus (Giacomo Manzoli), Identità (Roberto De Gaetano), Lingua (Fabio Rossi), Maschera (Bruno Roberti), Nemico (Daniele Dottorini), Opera (Francesco Ceraolo), Potere (Gianni Canova). Volume III (2016): Quotidiano (Carmelo Marabello), Religione (Alessio Scarlato), Storia (Christian Uva), Tradizione (Luca Malavasi), Ultimi (Alessia Cervini), Vacanza (Ruggero Eugeni), Zapping (Alessandro Canadè). Postfazione di Francesco Casetti.

]]>
Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

]]>