fotografia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine https://www.carmillaonline.com/2024/08/03/il-rapporto-tra-parola-e-fotografia-nel-mondo-dellimmagine/ Sat, 03 Aug 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83459 di Gioacchino Toni

Cristina Casero, Federico Marzi, a cura di, D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, Postmedia books, Milano 2024, pp. 106, € 14,00

Derivato dall’omonimo seminario che si è tenuto nel maggio del 2023 presso il Centro per le Attività e le Professioni delle Arti e dello Spettacolo dell’Università di Parma, il volume D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, (Postmedia books 2024), curato da Cristina Casero e Federico Marzi, raccoglie una serie di contributi che indagano il complesso rapporto tra parola e fotografia nell’odierna società dell’immagine. In un [...]]]> di Gioacchino Toni

Cristina Casero, Federico Marzi, a cura di, D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, Postmedia books, Milano 2024, pp. 106, € 14,00

Derivato dall’omonimo seminario che si è tenuto nel maggio del 2023 presso il Centro per le Attività e le Professioni delle Arti e dello Spettacolo dell’Università di Parma, il volume D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, (Postmedia books 2024), curato da Cristina Casero e Federico Marzi, raccoglie una serie di contributi che indagano il complesso rapporto tra parola e fotografia nell’odierna società dell’immagine. In un panorama mediale come quello contemporaneo, in cui l’immagine fotografica sembra ambire a sostituirsi alla scrittura, indagare il rapporto tra i due linguaggi espressivi assume una particolare importanza anche alla luce delle inedite possibilità di manipolazione delle immagini offerte dal digitale.

Se da un lato l’immagine fotografica, per la sua immediatezza, risulta estremamente efficace dal punto di vista comunicativo, tanto da poter offuscare il testo, è altrettanto vero che l’interpretazione dell’immagine fotografica viene indubbiamente indirizzata dal testo che la accompagna. Che si tratti di una semplice didascalia o di un testo più corposo e complesso, nell’attuale contesto visivo la parola continua ad avere un ruolo importante nel suo confronto con l’immagine fotografica e, come è emerso dal seminario in questione, la sintesi di entrambi i linguaggi si rivela assolutamente essenziale per la costruzione di un significato autentico e profondo.

Passando in rassegna gli studi di Bertold Brecht, sul rapporto tra testo scritto e fotografia a proposito dei servizi giornalistici sulla seconda guerra mondiale, e di Walter Benjamin, sul ruolo della didascalia nella significazione fotografica, del proficuo rapporto tra scrittori e fotografi e delle esperienze artistiche basate sul rapporto tra le due pratiche comunicative, Roberta Valtorta evidenzia la complessità del rapporto fra l’immagine fotografica e la parola. La studiosa passa dunque in rassegna, nelle loro differenti modalità, sia diversi celebri rapporti che si sono dati tra scrittori e fotografi, che diverse modalità con cui gli artisti hanno fatto dialogare i due diversi sistemi espressivi. Per quanto riguarda il rapporto tra scrittori e fotografi, la studiosa ricorda i casi di: Elio Vittorini e Luigi Crocenzi, Cesare Zavattini e Paul Strand, James Agee e Walker Evans, Gianni Celati e Luigi Ghirri, Giorgio Messori e Vittore Fossati. Tra le esperienze artistiche incentrate su forme narrative verbo-visuali, su dialoghi o conflitti tra fotografia e parola, Vlatorta riporta i casi di alcuni protagonisti delle Prime e, soprattutto, delle Seconde avanguardie novecentesche: Joseph Kosuth, John Baldessari, Vito Acconci, Victor Burgin, Franco Vaccari, Luigi Ghirri, Duane Michaels, Barbara Kruger, Jochen Gerz, Sophie Calle o, in casi più recenti, in cui il rapporto tra immagine fotografica e parola scritto sembra complicarsi ulteriormente, come in Bianco-Valente, Claudio Beorchia, Joachim Schmid. In conclusione del suo intervento, in cui sono tratteggiate diverse modalità con cui i due linguaggi espressivi si sono confrontati tra loro, rifacendosi al convincimento di William John Thomas Mitchell – “There are no Visual Media” – Roberta Valtorta invita a chiedersi se davvero non sia il caso di abbandonare una volta per tutte l’idea che esista una specificità del visivo e prendere atto che «tutti i media sono misti, e un medium agisce nell’ambito di pratiche sociali complesse e non come qualcosa di specifico determinato da una qualche tecnologia che possa dotarlo di una speciale specificità».

Pensando al “fototesto” come a un ecosistema intermediale e retorico in cui sono compresenti linguaggio fotografico e verbale-letterario in un equilibrato rapporto di confronto e integrazione, Paolo Villa approfondisce la particolare e breve esperienza di interazione e sperimentazione fra fotografia, cinema, giornalismo e letteratura proposta dai “fotodocumentari” della rivista «Cinema Nuovo». Una volta analizzato il fototesto nei diversi elementi mediali e discorsivi che lo compongono, guardando tanto alle singole specificità che alle loro reciproche relazioni, e dopo aver tratteggiato il contesto italiano di metà degli anni Cinquanta in cui si collocata l’esperienza dei fotodocumentari (dal 1954 al 1956), Villa analizza questi ultimi attraverso l’enucleazione dei livelli strutturali e delle strategie comunicative che li contraddistinguono. Nonostante si sia trattato di un’esperienza decisamente minoritaria, indubbiamente «Cinema Nuovo», con i suoi fotodocumentari, caratterizzati da un’evidente matrice cinematografica, ha contribuito allo «sviluppo di una fotografia documentaria moderna e aggiornata al contesto internazionale, intesa come strumento autonomo di indagine sociale, dimostrato dal pieno riconoscimento autoriale assegnato ai fotografi».

Al ruolo del fotografo di scena, nato insieme al cinema, nel suo narrare il processo di realizzazione di un film rendendo pubblico e visibile il lavoro dietro e davanti alla cinepresa è dedicato il contributo di Sofia Panza. L’ingaggio di fotografi di scena risponde innanzitutto all’esigenza di supportare visivamente il film nelle sale, dunque nasce come strumento promozionale che, in Italia, si pone sul solco dei cineracconti diffusi sin dagli anni Venti del Novecento, in un crescendo che proseguirà sino agli anni Sessanta. Tipicamente italiano è poi il fenomeno dei cineromanzi, una forma narrativa ibrida tra cinema, letteratura e fotografia che raggiunge il suo culmine negli anni Cinquanta. Per quanto, come detto, l’origine della fotografia di scena sia promozionale e commerciale, non di meno, soprattutto negli ultimi tempi, è stata riconosciuta come fonte documentaria importante capace di rivelare importanti informazioni non solo circa il lavoro dei registi e degli attori, ma anche dalle più diverse maestranze che concorrono alla realizzazione dei film. L’archivio fotografico di Rodrigo Pais esaminato da Panza, può essere visto come importante esempio di documentazione visiva del mondo cinematografico indagato dal fotografo per oltre mezzo secolo.

Partendo dalla definizione di archivio, Federico Marzi si occupa del legame tra l’immagine fotografica e la parola scritta; due modalità comunicative che, per quanto differenti, all’interno dell’archivio fotografico risultano essere del tutto complementari nella ricostruzione di tracce che rimarrebbero altrimenti nell’ombra della storia. Indagando tre casi studio – Archivio Publifoto, Archivio Foto Vasari e Archivio Bruno Stefani – lo studioso mostra l’importanza del rapporto tra parola e fotografia in archivio nel fornire informazioni utili per la catalogazione e l’accesso alle collezioni fotografiche in formato digitale.

Al percorso artistico di Barbara Kruger, tra gli esempi artistici contemporanei in cui è più evidente la volontà di unire testo e immagine fotografica, è dedicato lo scritto di Alessandra Acocella. Analizzando in particolare alcune mostre tenute dalla statunitense in Italia tra il 1980 ed il 2002 – al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, al Castello di Rivoli, al Centro Pecci di Prato ed al Palazzo delle Papesse di Siena –, la studiosa indaga come l’artista sfrutti mirabilmente le potenzialità comunicative dell’immagine e della parola al fine di creare «dispositivi di riflessione e interrogazione sul significato» su tematiche come la costruzione delle identità e le dinamiche dei rapporti di potere.

Del rapporto tra testi e immagini nella costruzione di fake news si occupa Michele Smargiassi in un intervento in cui evidenzia come le fotografie, pur capaci di amplificare il potere persuasivo delle parole, a causa alla loro storica credibilità come “medium della realtà”, non siano in grado di smentire direttamente una falsità. Soffermandosi in particolare sull’ambito politico, lo studioso sottolinea come, lungi dall’essere riconducibili a “semplice” mancanza di accuratezza, le fake news siano divenute a tutti gli effetti una influente “strategia di comunicazione” utile ad aumentare l’identificazione del pubblico con una causa e un leader.

Giulia Conti individua nella fotografia e nel testo scritto le forme espressive dominanti nella modernità capaci di influenzare profondamente la socialità e la cultura. A superare l’idea che distingue nettamente le due forme comunicative, secondo la studiosa, provvede l’universo dei social network capace com’è di rendere il rapporto tra fotografia e testo decisamente complesso e dinamico, dando luogo a un continuum transmediale. Per quanto si voglia superata l’ingenua pretesa dell’obiettività delle fotografie, queste sembrano continuare ad offrire interpretazioni e narrazioni deformate della realtà. Conti propone dunque «una riflessione sociologica su come le affordance, le particolarità intrinseche dello spazio social, e le pratiche che ne derivano ci inducano a considerare il messaggio trasmesso attraverso i social come un costrutto olistico, in cui convergono semiotiche diverse, spesso inscindibili le une dalle altre». Dopo un breve excursus sulle caratteristiche della socialità online, la studiosa si concentra «su cosa significa usare foto e testi come grammatica estetica tipica di una delle dimensioni della nostra socialità», giungendo alla conclusione che fotografie e testo «si fanno parte organica dell’autopoiesi che i sistemi social(i) portano avanti».

A chiudere il volume è il contributo di Ylenia Caputo volto a mostrare come nei tempi recenti sia profondamente cambiata l’immagine della “celebrità” alla luce della demistificazione operata dalla televisione e dalle piattaforme mediatiche che hanno immensamente esteso la possibilità di fama, per quanto effimera possa essere, a soggetti a cui un tempo sarebbe stata preclusa. La sola immagine, scrive Caputo, «non basta per giustificare la rivoluzione del paradigma della celebrità. Anche la parola si rivela un elemento soggetto a forte metamorfosi, che contribuisce fortemente alla decostruzione della celebrità, avvicinandola al pubblico, ricollocandola nel mondo ordinario». Insomma, è il particolare rapporto che si è andato a creare tra parole a immagine, permesso dal digitale, che ha permesso, come mai prima, alla figura della celebrità di avvicinarsi al pubblico e inserirsi nella vita quotidiana.

Il volume curato da Cristina Casero e Federico Marzi ha il merito di guardare al complesso rapporto tra parola e fotografia nell’odierna società dell’immagine accantonando la semplicistica idea che vuole l’immagine tiranna assoluta dei nostri giorni.

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Narciso meccanico. Maurizio Maggiani fotografo https://www.carmillaonline.com/2023/12/05/narciso-meccanico-maurizio-maggiani-fotografo/ Tue, 05 Dec 2023 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79908 di Gioacchino Toni

Maurizio Maggiani si è fatto conoscere grazie a una lunga e fortunata serie di romanzi a partire da Màuri, Màuri (1989) per giungere a L’eterna gioventù (2021). Approdato alla narrativa dopo aver lavorato come maestro, rappresentante di pompe idrauliche, venditore di giradischi nel deserto d’Algeria e impiegato comunale, solo per citare alcune delle molteplici attività svolte, Maggiani ha coltivato sin da ragazzino la passione per la fotografia, come testimoniano alcune pubblicazioni fotografiche uscite in apertura del nuovo millennio in buona parte restate un po’ in sordina, fatta eccezione per Mi sono perso a Genova. Una guida (2007), che [...]]]> di Gioacchino Toni

Maurizio Maggiani si è fatto conoscere grazie a una lunga e fortunata serie di romanzi a partire da Màuri, Màuri (1989) per giungere a L’eterna gioventù (2021). Approdato alla narrativa dopo aver lavorato come maestro, rappresentante di pompe idrauliche, venditore di giradischi nel deserto d’Algeria e impiegato comunale, solo per citare alcune delle molteplici attività svolte, Maggiani ha coltivato sin da ragazzino la passione per la fotografia, come testimoniano alcune pubblicazioni fotografiche uscite in apertura del nuovo millennio in buona parte restate un po’ in sordina, fatta eccezione per Mi sono perso a Genova. Una guida (2007), che invece è riuscita a farsi conoscere.

Il volume di Maurizio Maggiani, Narciso meccanico. Una fotocamera per specchiarsi nel mondo (1971-2023), a cura di Archivi della Resistenza, Collana Verba Manent/Sguardi curata da Alessio Giannanti e Filippo Colombara – Edizioni ETS 2023, deriva dalla mostra fotografica retrospettiva tenutasi a Castelnuovo Magra (SP) tra giugno e novembre 2023 e presenta, a corredo dei tanti scatti, un’intervista in cui l’autore riflette sul suo rapporto con la fotografia.

Alla base di Narciso meccanico [spiegano Alessio Giannanti e Simona Mussini degli Archivi della Resistenza] vi è un lavoro di digitalizzazione e catalogazione dell’archivio fotografico di Maggiani, che in questa prima fase ha già riguardato circa 50.000 fotografie e non può ancora dirsi concluso. Il raggio della ricerca, infatti, si estende continuamente in ambiti e archivi culturalmente contigui, con nuove e inaspettate acquisizioni come, ad esempio, il recente rinvenimento degli audiovisivi girati negli anni Settanta dall’autore. La dimensione in progress e la continua ridefinizione dei confini della ricerca rendono questo lavoro di archeologia culturale, una delle esperienze più esaltanti in vent’anni di carriera dell’associazione Archivi della Resistenza.

I circa cinquant’anni di attività – dai primi negativi di inizio anni Settanta alle fotografie digitali scattate ai nostri giorni – che danno vita a questo archivio rappresentano non solo un percorso all’interno delle diverse stagioni e tecniche della fotografia italiana e delle tappe della narrativa di Maggiani, ma anche – sostengono Giannanti e Mussini – una carrellata di tematiche:

gli anni della contestazione e della ricerca di una nuova forma di vita liberata; gli esperimenti didattici nella scuola che si batte per l’inclusione; le lotte operaie e l’indagine sui lavoratori; il paesaggio e la città indagate in interiore homine, per comprendere le trasformazioni in atto; il ritratto sociale; gli affetti familiari; gli autoritratti; i viaggi; la guerra nella ex Jugoslavia; la fotografia naturalistica e, ancora, personaggi e fatti, fonti d’ispirazione per la sua narrativa.

Nella sezione Il lavoro (1978) sono raccolti in buona parte scatti appartenenti a una campagna fotografica commissionata dalla Cgil a sostengo delle lotte sindacali nel comparto spezzino dell’edilizia e del lapideo per conquistare il diritto a un pasto caldo da consumarsi in una mensa comune. Paradossalmente, ricorda Maggiani, quando i muratori e gli scalpellini misero piede in una mensa capirono immediatamente che a quei pasti caldi precotti erano preferibili le frittate portate da casa nella gamella. Il reportage, sostiene l’autore, ha contributo a fargli comprendere quanto l’essere umano non possa essere ricondotto esclusivamente al lavoro che svolge; non a caso buona parte degli scatti si sono concentrati sui volti dei lavoratori. Di questa sezione fanno parte anche fotografie riferite alla vita in fabbrica nella cantieristica navale spezzina alcune delle quali testimoniano l’Assemblea sindacale dopo il delitto Moro, del 10 maggio 1978, quasi a sancire il concludersi  di un’epoca.

Se la sezione La scuola (1974-1978) testimonia il periodo in cui l’autore, ventenne, ha lavorato come maestro nelle scuole elementari dei quartieri disagiati della sua città decidendo di portare tra i bambini la macchina fotografica e ricorrere agli audiovisivi nella sua attività didattica, La piazza, la politica (1971-1979) è invece dedicata agli anni della ribellione extraparlamentare. «Ho cominciato a fotografare le manifestazioni. Perché? Perché tutti dovevano vedere che eravamo tanti a lottare, questa era la mia fissazione». Oltre a momenti di lotta, gli scatti raccolti in questa sezione documentano la vita culturale e i momenti di socialità festosa di quella che si è rivelata essere una vera e propria comunità.

Attraversare questi cinquant’anni di fotografie – scrivono Giannanti e Mussini – offre anche l’occasione di leggere nelle fasi della società la filigrana di quelle personali e stilistiche. E parlando degli anni del riflusso, Maggiani ha dichiarato come questi abbiano coinciso con una profonda crisi personale (“agli anni Ottanta non mi sono mai abituato”), che da una parte lo ha portato a distanziarsi dalla fotografia militante e dall’altra a intraprendere la strada dello scrittore. Il suo debutto nel mondo letterario corrisponde di fatto a un periodo di sospensione dell’attività fotografica. Ricordando quel momento di svolta, Maggiani dice nell’intervista: “la fotografia non era sufficiente a imporre la mia storia sulla storia, mentre la narrazione del romanzo sì […]. Ero più libero, naturalmente la tastiera rende più liberi di una Leica”.

Le sezioni Paesaggi (1991-2001) e La città (1995-2004) documentano il ritorno di Maggiani alla fotografia coincidente con un mutato percorso stilistico e un nuovo modo di guardare alla realtà circostante: a interessarlo è ora il paesaggio da cui quasi scompare l’essere umano. Dunque, nell’ultima sezione, La nuova casa e dintorni (2010-2023), in cui introduce il colore e passa al digitale, l’autore sposta la sua attenzione sul paesaggio romagnolo, ove nel frattempo si è trasferito. Apertosi con l’osservazione naturalistica, questo ultimo capitolo della produzione fotografica di Maggiani torna a soffermarsi sui volti dei lavoratori, in questo caso della Cooperativa braccianti ravennati.

Il lavoro del bracciante io lo conosco, non è che non lo conosco […] secondo me quelle facce dicono di più e rendono più giustizia di quei braccianti, perché in quelle facce c’è il loro lavoro, certo che c’è […]. Quelle facce hanno il lavoro, ma c’è qualcosa di più, c’è la grandezza, la grandezza di una vita che non è ridotta solo alla mansione, di solito alienata, del lavoratore e questo lo capii già allora, perché quando andavo a sviluppare i rullini e mi mettevo e facevo i provini, vedevo che c’erano più le facce e questo mi è rimasto.

Gli ultimissimi scatti di Maggiani presenti sul volume sono dedicati alla recente alluvione che ha travolto la Romagna nel maggio 2023.

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Il reale delle/nelle immagini. La dimensione dell’oltrefotografia https://www.carmillaonline.com/2022/05/22/il-reale-delle-nelle-immagini-la-dimensione-delloltrefotografia/ Sun, 22 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71759 di Gioacchino Toni

È ancora possibile guardare alla fotografia e parlare di essa accontentandosi, in sostanza, di considerarla, al di là della distinzione analogico/digitale, soprattutto come modello privilegiato di rappresentazione della realtà? Inoltre, a quale realtà si intende far riferimento?

In un suo recente volume, Mauro Zanchi, La fotografia come medium estendibile (Postmedia, 2022), propone un ripensamento dei termini, dei limiti e delle logiche con cui si producono e condividono quelle che forse non si dovrebbero nemmeno più chiamare fotografie essendo ormai state inglobate nella “complessa macchina combinatoria dell’iconosfera” ove si intrecciano Web, [...]]]> di Gioacchino Toni

È ancora possibile guardare alla fotografia e parlare di essa accontentandosi, in sostanza, di considerarla, al di là della distinzione analogico/digitale, soprattutto come modello privilegiato di rappresentazione della realtà? Inoltre, a quale realtà si intende far riferimento?

In un suo recente volume, Mauro Zanchi, La fotografia come medium estendibile (Postmedia, 2022), propone un ripensamento dei termini, dei limiti e delle logiche con cui si producono e condividono quelle che forse non si dovrebbero nemmeno più chiamare fotografie essendo ormai state inglobate nella “complessa macchina combinatoria dell’iconosfera” ove si intrecciano Web, smartphone, piattaforme social, intelligenza artificiale, internet delle cose ecc.

Cosa è davvero stata in grado di cogliere la fotografia sino ad ora? Basti pensare, ricorda Zanchi, che, a quanto sostiene la scienza, ad ora si è stati in grado di vedere soltanto una piccolissima parte della materia esistente. È dunque a tale parte del visibile che ci si riferisce quando si parla di ciò che la fotografia è stata in grado di cogliere o, forse, c’è qualcosa in più che ha saputo e/o che potrebbe cogliere?

È pertanto all’inesplorato che lo studioso propone di guardare e per fare ciò è necessario riconsiderare il potere evocativo dell’immagine allargando i confini ben oltre il suo essere “superficie delegata a testimoniare un referente reale”; l’immagine può essere un medium utile a “comprendere ciò che ancora non vediamo e che ci contiene”, oltre che per per “tornare a vedere ciò che non vediamo più o che non abbiamo ancora intuito”.

Si entra così nel regno della “oltrefotografia”, in una dimensione disorientante in cui occorre “ridefinire l’identità personale e collettiva, per contrastare la paura di trasformare un sistema di pensiero ereditato, che crediamo definisca il singolo individuo e il suo gruppo sociale”.

Non si tratta però, avverte lo studioso, di coglier una parte dell’invisibile attraverso qualche nuova tecnica o apparecchiatura. “L’oltrefotografia semmai è un campo per allenarsi a non pensare che l’atto del vedere sia assorbire in modo neutro qualcosa che sta lì di fronte bello e fatto, ad andare oltre i limiti del visibile, al di là delle entità che ancora non vediamo, oltre l’illusione che esista qualcosa che si possa sentire solo nella vista”.

Nell’epoca dell’info-iconosfera, di sovrabbondanza di figurazioni, sostiene lo studioso, è forse doveroso “attivarsi per preservare e proteggere le immagini di natura superiore, le visioni dal profondo, ciò che è prezioso come il respiro, che si rivela in determinati momenti della vita e porta piacere estetico”. Occorre, continua Zanchi, “saper coltivare e far crescere le immagini che hanno la capacità di nutrire i nostro bisogno di imparare e di fornire la dose giornaliera di acqua della nostra curiosità”. Quelle a cui si riferisce lo studioso sono immagini appartenenti alla “dimensione contemplativa, al sacro in sé, a ciò che non si conosce ancora ma lo si anela, all’esperienza epifanica, all’apparizione imprevista, alla visione dell’attimo caduco, ai riflessi dei momenti misterici”.

Nel volume vengono passate in rassegna alcune produzioni cinematografiche e televisive che, in qualche modo, si prestano a ragionamenti sull’oltrefotografia: 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick suggerisce una riflessione sulla periodica necessità che la fotografia muoia affinché possa rinascere “nell’istantaneità einsteiniana spaziotemporale”; Shining (1980) di Stanley Kubrick allude alla possibilità di vedere nella fotografia un “wormhole spaziotemporale”; Balde Runner (1982) di Ridley Scott consente di ragionare su come la fotografia possa esser un dispositivo di costruzione di realtà; Crocodile (2017) della serie Black Mirror ideata da Charlie Brooker, nel prospettare la possibilità di appropriarsi dei ricordi più intimi e di incidere su di essi, consente di ragionare sul ruolo che viene ad avere l’immagine fotografica nell’epoca della condivisione digitale nel mondo delle piattaforme digitali; A Ghost Story (2017) di David Lowery induce a pensare all’atto del guardare come “incontro tra il tempo e ciò che ne è al di fuori”; The Entire History of You (2011) della serie Black Mirror pone di fronte all’incidenza che le protesi mnemoniche artificiali possono avere sulla realtà degli esseri umani ecc.

Pur continuando ad essere importante ragionare su cosa sia la fotografia oggi, occorrerebbe, però, anche domandarsi cosa essa possa essere ed a cosa possa ambire. Sono domande coraggiose queste ultime perché implicano di guardare oltre quelle che ci si è abituati a dare per certezze. La fotografia come medium estendibile dimostra che al suo autore, Mauro Zanchi, tale coraggio non manca.


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

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Il reale delle/nelle immagini. Specchi, vampiri e narcisisti https://www.carmillaonline.com/2022/03/25/il-reale-delle-nelle-immagini-specchi-vampiri-e-narcisisti/ Fri, 25 Mar 2022 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70969 di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando ormai la fotografia è costretta a fare i conti la svolta digitale, vissuta all’epoca da diversi “addetti ai lavori” come una vera e propria invasione barbarica che avrebbe di lì a poco condotto a un’era “postfotografica”, nel trattare del diverso modo con cui si ritiene la fotografia si rapporti con la realtà, con un’efficace metafora, l’artista e saggista catalano Joan Fontcuberta, ricorre a due figure che manifestano nei confronti dello specchio un atteggiamento antitetico: il Vampiro che cerca di sottrarsi al riflesso e il Narciso che invece non [...]]]> di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando ormai la fotografia è costretta a fare i conti la svolta digitale, vissuta all’epoca da diversi “addetti ai lavori” come una vera e propria invasione barbarica che avrebbe di lì a poco condotto a un’era “postfotografica”, nel trattare del diverso modo con cui si ritiene la fotografia si rapporti con la realtà, con un’efficace metafora, l’artista e saggista catalano Joan Fontcuberta, ricorre a due figure che manifestano nei confronti dello specchio un atteggiamento antitetico: il Vampiro che cerca di sottrarsi al riflesso e il Narciso che invece non riesce a farne a meno.

Anche se la svolta digitale della fotografia sembra infrangere definitivamente lo specchio, ossia spezzare il cordone ombelicale tra realtà e immagine, questa non sembra smettere di fingersi «messaggera autorizzata del Vero», come scrive Michele Smargiassi nella sua presentazione al volume di Joan Fontcuberta, Il bacio di giuda. Fotografia e realtà (Mimesis, 2022), in cui sono raccolti otto saggi critici sulla fotografia scritti dal catalano a proposito della creazione delle immagini e della cultura che le vorrebbe espressione della verità e prova dell’esistente.

Nella fotografia Fontcuberta intravede la crisi del rapporto ultramillenario tra essere umano e immagini ed anziché domandarsi, come tanti, cosa la fotografia sia, preferisce indagare cosa essa faccia. Per il catalano, scrive ancora Smargiassi, «non è la fotografia che impone la propria veridicità con la apparente potenza del suo procedimento di raccolta meccanica di impronte del mondo fisico. È vero il contrario: sono i contesti ideologici intenzionali in cui la incontriamo a conferirle un’autorevolezza che da sola non avrebbe. La fotografia è la servizievole, efficiente collaboratrice di più ampi progetti di mascheramento del reale» (p. 9). La fotografia entra nella cultura moderna ricevendo

il mandato di naturalizzare l’ideologia del capitalismo e di tradurla in un’etica della visione che avesse l’indiscutibilità di una religione rivelata. Bene: quel mandato storico, ci svela Fontcuberta, pur essendo infondato, ebbe sicuramente successo; ma ora è terminato. Si è esaurito. Non serve più. Il sistema, ora, per poter garantire la continuità del proprio potere, ha bisogno di distruggere la fiducia dei cittadini nella possibilità di affermazioni vere, non più di imporre persuasivi realismi (pp. 9-10).

Anziché farsi da parte, la fotografia continua, imperterrita, a «fingersi modello privilegiato di rappresentazione della realtà, nascondendo la sua nuova funzione di simulazione come un cavallo di Troia» (p. 10). Al catalano non interessa smascherare i meccanismi di finzione adottati dalla pratica fotografica, il suo l’obiettivo è piuttosto «demolire radicalmente il fallace paradigma verosimilista con cui abbiamo finora guardato e usato le fotografie (o meglio, abbiamo lasciato che ci usassero)» (p. 11).

Uno spirito ragionevolmente scettico ci spinge a concludere che credere che la fotografia testimoni qualcosa implica, prima di tutto, proprio questo: il credere, l’avere fede. Il realismo fotografico e i valori che esso sottende sono una questione di fede. Perché non c’è alcun indizio logico convincente che garantisca che la fotografia, per sua natura, abbia più valore come promemoria di quanto ne abbia un nodo al dito o una reliquia. Il messaggio di Michelangelo Antonioni in Blow up, oltre a dirci che la manifestazione ordinaria del mondo nasconde altre realtà, si riassume nell’idea che tutto – inclusa la certezza fotografica – è pura illusione: nella sequenza finale del film un gruppo di mimi gioca a tennis con una pallina invisibile, fino a che questa oltrepassa la recinzione del campo e uno stordito Thomas, trasformato in complice di quella illusione, dovrà essere colui che recupererà la pallina invisibile affinché la partita possa continuare (pp. 68-69).

A lungo la fotografia è stata considerata come «il modo in cui la natura rappresentava se stessa» (31), una sorta di conseguimento diretto, naturale, senza mediazioni, della verità.

L’annoso dibattito su ciò che è vero e ciò che è falso è stato sostituito da quello che distingue tra “mentire bene” e “mentire male”. La fotografia è una finzione che si presenta come veritiera. A dispetto di ciò che ci hanno inculcato, a dispetto di ciò che siamo soliti pensare, la fotografia mente sempre, mente per istinto, mente perché la sua natura non le permette di fare diversamente. Ciò che conta, però, non è quell’inevitabile menzogna. Ciò che conta è il modo in cui se ne serve il fotografo, con che proposito la usa. In sostanza, ciò che conta è il controllo esercitato dal fotografo per dare una direzione etica alla propria menzogna. Il buon fotografo è quello che mente bene la verità (p. 23).

Insomma, la fotografia, sostiene Fontcuberta, è po’ come il bacio di Giuda: «un amore fasullo venduto per trenta denari» (p. 25).


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

 

 

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Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta https://www.carmillaonline.com/2021/12/23/fotografia-e-femminismo-nellitalia-degli-anni-settanta/ Thu, 23 Dec 2021 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69726 di Gioacchino Toni

Nel corso degli anni Settanta, analogamente a quanto accade in altri paesi, anche in Italia molte donne, più o meno legate ai movimenti femministi, si incontrano con la pratica fotografica secondo molteplici direzioni che spaziano dall’ambito documentaristico a quello artistico, secondo modalità che, anche quando non direttamente militanti, con una consapevolezza del tutto nuova del proprio operare e del proprio ruolo, concorrono a sviluppare tanto una riflessione identitaria, quanto una testimonianza circa la condizione femminile nella società italiana del periodo.

Nel corso del 2020 il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo ha organizzato il convegno di studi [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel corso degli anni Settanta, analogamente a quanto accade in altri paesi, anche in Italia molte donne, più o meno legate ai movimenti femministi, si incontrano con la pratica fotografica secondo molteplici direzioni che spaziano dall’ambito documentaristico a quello artistico, secondo modalità che, anche quando non direttamente militanti, con una consapevolezza del tutto nuova del proprio operare e del proprio ruolo, concorrono a sviluppare tanto una riflessione identitaria, quanto una testimonianza circa la condizione femminile nella società italiana del periodo.

Nel corso del 2020 il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo ha organizzato il convegno di studi intitolato “Rispecchiamento, indagine critica, testimonianza. Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni ’70”, curato da Cristina Casero, docente di storia della fotografia e di arte contemporanea. L’iniziativa milanese ha inteso riflettere sull’importanza che la pratica fotografia “in mano alle donne” ha assunto nel panorama italiano degli anni Settanta. Il Convegno, moderato da Cristina Casero e Giovanna Calvenzi, attraverso i contributi di studiose da tempo impegnate nell’indagare il rapporto tra fotografia e femminismo (Linda Bertelli, Lara Conte, Elena Di Raddo, Laura Iamurri, Lucia Miodini, Federica Muzzarelli e Raffaella Perna) ha approfondito le ricerche di alcune fotografe italiane impegnate nell’elaborazione di una riflessione del tutto nuova sulla donna.

È dai contributi esposti durante il Convegno che deriva il volume di Cristina Casero (a cura di), Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza (postmedia books, 2021) in cui sono raccolti saggi delle studiose che hanno preso parte all’iniziativa milanese, oltre che contributi e testimonianze di Paola Agosti, Isabella Balena, Marina Ballo Charmet, Liliana Barchiesi, Giovanna Calvenzi, Marcella Campagnano, Paola Di Bello, Bruna Ginammi, Gabriella Guerci, Silvia Lelli, Marzia Malli, Paola Mattioli, Donata Pizzi, Agnese Purgatorio e Livia Sismondi.

Riflettendo sulla sua esperienza personale di donna alle prese con la fotografia tra anni Sessanta e Settanta afferma Giovanna Calvenzi:

molte di noi si sono trovate con una macchina fotografica in mano. Eravamo tante. Venivamo da storie ed esperienze diverse eppure le intenzioni, i progetti, i sogni e l’impegno erano comuni. Alcune di noi erano legate ai gruppi extraparlamentari, altre al femminismo. In breve siamo diventate una gruppo forte e solidale. Frequentarci significava discutere di fotografia e di femminismo, fare progetti insieme. Io fotografavo in modo molto mediocre, non volevo diventare una fotografa ma amavo lavorare con le mie amiche (p. 137).

Le parole di Calvenzi evidenziano come la pratica fotografica delle donne nel corso di una delle più radicali stagioni di lotte sia stata anche una pratica collettiva, di una comunità solidale, oltre che un momento di riflessione ed analisi individuale.

Cristina Casero, curatrice del volume, oltre a ricordare come la fotografia sia stata uno degli strumenti privilegiati di proposta di un’immagine “altra” della realtà rispetto a quella “ufficiale”, maschile, evidenzia come donne artiste e fotografia si siano trovate ad essere accomunuate da un’analoga dimensione “alternativa”: le prime nei confronti del potere culturale degli uomini che tendenzialmente tendeva ad escluderle, e l’altra nei confronti della pratica pittorica a cui spettava una sorta di ruolo privilegiato, se non egemone, in ambito artistico. Da un certo punto di vista si è trattato di un incontro tra “visioni alternative” al potere. Mettere in relazione la tecnica, storicamente dato culturale maschile, con l’occhio della donna ha significato innanzitutto mettere in discussione quella rappresentazione del mondo maschile imposta come assoluta.

Le modalità con cui nel corso degli anni Settanta in Italia le donne hanno fatto ricorso alla pratica fotografica sono indubbiamente varie: in alcuni casi si è trattato di coniugare la pratica femminista, anche di autoanalisi, con quella artistica (es. Paola Mattioli e Verita Monselles), in altri è piuttosto stato indagato il ruolo della donna nella società contemporanea (es. Paola Agosti, Lisetta Cerati, Giovanna Nuvoletti, il Collettivo Donne Fotoreporter ecc.), oppure vi sono autrici che in maniera meno diretta hanno comunque contributo a scalfire il “dominio visivo maschile” proponendo una “visione di parte”, femminile, sul reale (es. Letizia Battaglia, Silvia Lelli, Maria Mulas, Marialba Russo ecc.). Scrive Cristina Casero:

Sono, dunque, numerosi gli aspetti che rendono quasi fisiologico il connubio tra alcune delle istanze femministe e la fotografia. Essenziale è pure il fatto che essa permette di lavorare sull’immagine e quindi sull’immaginario collettivo, che veicolando una figura femminile costruita su cliché rinforza stereotipi sul corpo delle donne, il luogo dell’identità e della differenza. Attraverso la prassi fotografica è possibile dare visibilità a una nuova immagine della donna, nata dallo sguardo del “soggetto imprevisto”, come dice Lonzi, da un occhio che si muove al di fuori degli schemi per proporre, attraverso il racconto del reale, un nuovo racconto di sé, del proprio corpo, nel quale sia finalmente possibile riconoscersi (p. 31).

Nel suo intervento Federica Muzzarelli si sofferma sull’incontro tra esigenze femministe e fotografia sottolineando come «ciò che fa di una fotografia un’immagine femminista è il suo opporsi alla visione monolitica dominante e monodirezionale sui ruoli di genere, dell’identità di genere e dei desideri di genere, se insomma una fotografia femminista si oppone a una visione sessista dei rapporti e del mondo, allora l’estetica femminista di una fotografia è sempre al contempo una dichiarazione politica in sé» (p. 44).

Raffaella Perna ricostruisce il contesto in cui, nel 1976, escono due libri importanti nella storia del neofemminismo italiano: Donne Immagini di Marcella Campagnano, edito dalla casa editrice milanese Moizzi, e Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne di Paola Agosti, Silvia Bordini, Rosalba Spagnoletti, Annalisa Usai, dato alle stampe dall’editore romano Savelli. Entrambi i volumi sono caratterizzati dalla volontà di dare espressione a quei valori emersi nell’ambito dei gruppi femministi italiani ripensando «i canoni della rappresentazione fotografica del corpo della donna», riflettendo «sullo sguardo che le donne rivolgono su se stesse e sul mondo» (p. 63). Al di là delle analogie, Perna mette in evidenza le profonde differenze che caratterizzano le due pubblicazioni, che non mancano di ribadire le differenze tra il movimento romano e quello milanese, a partire dal diverso modo di concepire il medium fotografico e una differente concezione del libro fotografico.

Lucia Miodini approfondisce la produzione di Carla Cerati nelle sue modalità di raccontare le donne tra reportage e sperimentazioni narrative.

Per Carla Cerati la fotografia ha rappresentato un mezzo di riappropriazione di sé, le ha offerto la possibilità di tenere insieme le dimensioni complementari del corpo e della mente, ma soprattutto è stata la sua stanza tutta per sé. Allo stesso tempo la macchina fotografica è stata un diaframma tra sé e gli altri, un oggetto mimetico, quasi invisibile, che è diventato anche strumento di conoscenza e mediazione. […] Narrando la città, i personaggi che la abitano o la attraversano, Cerati racconta se stessa (p. 77)

Laura Iamurri analizza la pubblicazione alfabeta, scritta e illustrata nel 1975 da Cloti Ricciardi durante il suo periodo di militanza nel Movimento Femminista Romano in cui approda dopo aver preso parte all’esperienza di Rivolta Femminile. Scrive Ricciardi a proposito della pubblicazione «il libricino alfabeta fu per me un’esperienza molto interessante e anticipatoria sotto molti aspetti, c’erano fotografie, ritratti, parole, la modificazione del quotidiano. Per noi la riflessione su quello che vivevamo era costante, l’autocoscienza ci portava ad essere analitiche, il rapporto tra le parole e le immagini era fondamentale, una riflessione quotidiana» (p. 94). Sebbene a metà anni Settanta la fotografia non rappresenti un ambito privilegiato nella produzione di Ricciardi, è comunque presente intrecciandosi con con elementi verbali e grafici.

Lara Conte prende in esame una serie di proposte fotografiche legate alla città di Genova e alle questioni di genere realizzate da Lisetta Carmi nel corso degli anni Settanta preoccupandosi di tracciare «una possibile genealogia nelle vicende non lineari del rapporto tra arte, fotografia e femminismo in Italia negli Settanta, in cui militanza e politicità definiscono sovente una dimensione che parte dal sé, nella profonda relazione tra privato e pubblico, al di là di una effettiva adesione da parte delle artiste a gruppi e movimenti femministi» (p. 108).

Il termine “femminista”, scrive Conte, applicato all’opera di Carmi assume la dimensione di uno “sguardo altro” attraverso cui osservare il mondo.

Più volte Lisetta Carmi ha ribadito che la fotografia “è un modo diverso per capire il mondo ed entrare nel mistero dell’umano”. La fotografia è per lei la definizione di una nuova prospettiva che fa emergere il marginale, il minoritario, il rimosso. Grazie ai suoi reportage Lisetta Carmi dà voce a quello che Rosi Braidotti ha definito “soggetto nomade”. Un soggetto che mette in crisi i rapporti di forza e di oppressione del sistema capitalistico e della cultura patriarcale, deegemonizzando le narrazioni, alla conquista di una libertà e di un’individualità non sottomessa alle rigide codificazioni dei generi (p. 108).

Focalizzandosi sulla produzione di Ketty La Rocca, Elena di Raddo si sofferma invece sul tema della “Grande Madre” ripreso da numerose artiste nel corso degli anni Settanata; «l’archetipo che definisce con varie sfumature, nelle diverse epoche e civiltà, il principio generativo della donna, il suo rapporto privilegiato con la natura, espressione quindi non tanto della singolarità, ma di un principio femminile che accomuna tutti i generi, al di là della semplice distinzione maschile femminile» (p. 121).

Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta rappresenta davvero un’importante ricostruzione di come lo sguardo e la sensibilità delle donne abbiano fatto uso della fotografia in un periodo in cui, non accontentandosi della dimensione critica o del politicamente corretto, si volevano davvero cambiare le cose. La pratica fotografia “in mano alle donne” nel corso dei Settanta è certamente un altro sguardo sul mondo, ma è anche un’altra proposta di mondo.

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Il reale delle/nelle immagini. L’evento visivo nel mutante rapporto tra visione e realtà https://www.carmillaonline.com/2021/06/16/il-reale-delle-nelle-immagini-levento-visivo-nel-mutante-rapporto-tra-visione-e-realta/ Wed, 16 Jun 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66750 di Gioacchino Toni

Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 422, € 24,00

Nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, quando le tecnologie digitali, i media interattivi, i sistemi di realtà virtuale e di visione aumentata iniziavano a riscrivere quel rapporto tra visione e realtà che, sebbene tutt’altro che immutato nel corso dei secoli, avrebbe condotto ad una trasformazione la cui portata era stata forse soltanto parzialmente percepita, negli ambienti accademici cresce il bisogno di non limitare gli studi [...]]]> di Gioacchino Toni

Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 422, € 24,00

Nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, quando le tecnologie digitali, i media interattivi, i sistemi di realtà virtuale e di visione aumentata iniziavano a riscrivere quel rapporto tra visione e realtà che, sebbene tutt’altro che immutato nel corso dei secoli, avrebbe condotto ad una trasformazione la cui portata era stata forse soltanto parzialmente percepita, negli ambienti accademici cresce il bisogno di non limitare gli studi a qualche specificità mediale o allo statuto di alcuni tipi di immagine ma di estendere il campo di interesse all’intero spettro degli eventi visivi focalizzandosi magari sulle strategie con cui la vita quotidiana viene messa in immagine.

È di fronte a quella che già sul finire dello scorso millennio si presentava come una vera e propria proliferazione inarrestabile del visivo, alla consapevolezza dell’insufficienza degli strumenti di cui si disponeva per comprendere e governare la trasformazione in atto e all’urgenza di creare nuove tattiche focalizzate sul visuale come luogo in cui si creano e dibattono i significati, che si è sviluppata la visual culture. Tra gli esponenti di spicco nell’ambito di tale approccio figura Nicholas Mirzoeff di cui recentemente è stato riproposto in italiano, dopo alcune precedenti edizioni, la sua celebre Introduzione alla cultura visuale (Meltemi, 2021) stesa allo scadere del vecchio millennio.

«La nostra vita ha luogo sullo schermo», sostiene Mirzoeff, la quotidianità è vissuta sotto la sorveglianza di telecamere, i ricordi sono affidati a strumenti di cattura delle immagini, il lavoro e il tempo libero – ammesso si tratti ancora di due ambiti distinguibili – sono imperniati sui media visivi, mai l’esperienza umana è stata «più visuale e visualizzata» di ora. Questo è il contesto già percepibile sul finire del Novecento. «In questo turbinio di immagini, vedere è molto più che credere. Non è solo una parte della vita quotidiana, è la vita quotidiana stessa» (p. 41). Sono parole di Mirzoeff anche se sembrano uscite da Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, film che, in ampio anticipo rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), ricorrendo ad una marcata instabilità enunciativa, si proponeva come film-riflessione sulle potenzialità e sulle aberrazioni insite nel desiderio di consumo tecnologico [su Carmilla].

La prima parte di Introduzione alla cultura visuale spiega come la logica formale Settecentesca, con qualche anticipazione nel secolo precedente e prolungamento nei primi decenni del successivo, abbia aperto la strada alla logica dialettica dell’immagine nell’epoca moderna, a sua volta messa poi in discussione dall’avvento dell’immagine virtuale nell’ultimo scorcio del Novecento.

L’immagine tradizionale obbediva a regole proprie, che erano indipendenti dalla realtà esterna. Il sistema prospettico, ad esempio, si basa sull’osservatore che esamina l’immagine da un unico punto di vista, usando soltanto un occhio. Nessuno effettivamente fa questo, ma l’immagine risulta coerente al suo interno, e perciò credibile. Mentre la pretesa della prospettiva di rappresentare la realtà perde terreno, il film e la fotografia creano un rapporto nuovo, diretto con la realtà, così da farci accettare la “verità” di quello che vediamo nell’immagine. […] La prospettiva cercava di rendere il mondo comprensibile per quella figura che si trovava nel punto specifico da cui era stata tracciata la prospettiva stessa. Le fotografie offrivano una mappa visuale del mondo molto più democratica. Oggi, l’immagine fotografica o filmica non indica più la realtà, perché tutti sanno che può essere manipolata dai computer senza che nessuno se ne accorga ((p. 51).

La virtualità dell’immagine contemporanea sembra invece produrre una crisi del visuale:

il postmodernismo segna un’era in cui le immagini visive, e la visualizzazione di cose che non sono necessariamente visive, hanno subito un’accelerazione così drastica che la circolazione globale dell’immagine è diventata fine a se stessa, svolgendosi a grande velocità nella Rete. Il concetto di immagine-mondo non è più in grado di analizzare questa situazione mutata e in via di mutamento. La straordinaria proliferazione di immagini non può essere racchiusa in un’unica immagine per essere osservata dall’intellettuale. La visual culture, in questo senso, è la crisi dell’overload informativo e visivo nella vita quotidiana e cerca di trovare il modo in cui lavorare all’interno di questa nuova realtà (virtuale). […] la visual culture esplorerà le ambivalenze, gli interstizi e le aeree di resistenza, nella vita quotidiana postmoderna, dal punto di vista del consumatore (p. 54).

Mirzoeff si proporne pertanto contribuire alla ricostruzione delle modalità con cui la visualità ha finito per assumere centralità nella vita moderna. Allo studioso non interessa però andare alla ricerca delle “origini” della visualità moderna nel passato; il suo obiettivo è piuttosto quello di giungere a «una reinterpretazione strategica della storia dei moderni media visivi concepita collettivamente, piuttosto che frammentata in unità disciplinari come cinema, televisione, arte e video» (p. 59). Non è lo specifico mezzo ad interessare la visual culture, quanto piuttosto l’evento visivo, cioè l’interazione tra il segnale visivo, la tecnologia che origina e supporta quel segnale, e l’osservatore.

Nel corso della trattazione Mirzoeff nota come l’esperienza del sublime, del piacere nel dolore derivante dal tentativo fallimentare dell’immaginazione di rappresentare l’irrappresentabile, si adatti alla visualizzazione inarrestabile e ubiqua postmoderna intenzionata a catturare l’intera esistenza compresa quella che ancora sfugge al visibile, conducendo così, come sottolinea Giancarlo Grossi nell’introduzione, la visione tanto al suo apogeo quanto alla sua crisi. A proposito dei processi di visualizzazione, Mirzoeff individua tre paradigmi: tradizionale, moderno e postmoderno.

Il primo si fonderebbe sulla prospettiva rinascimentale, «un sistema di organizzazione percettiva dello spazio coerente in sé stesso ma slegato tanto dalla realtà quanto dall’effettivo funzionamento fisiologico della visione umana» (p. 14). Il secondo andrebbe a coincidere con l’avvento della fotografia e del cinema, sistemi in grado di carpire e registrare gli eventi del passato per poi presentarli come attuali mentre l’avvenuta “presenza” dell’evento funge da causa e da referente delle loro immagini. Con l’avvento del digitale la relazione dell’immagine con il reale si farebbe invece decisamente problematica potendo l’immagine essere “costruita” prescindendo da enti esterni. In tale statuto della visione, scrive Grossi nella prefazione, «a essere espulsa è la stessa possibilità del sublime: i dati non possono più infatti sottrarsi alla visualizzazione e, al contempo, l’eccesso di immagini rende sempre più intricata una comprensione immediata dell’evento » (p. 15).

Il voluminoso libro, a riprova di come Mirzoeff affronti complessivamente l’evento visivo, è suddiviso in tre parti distinte seppure per certi versi intrecciate: la prima, di estremo interesse, è dedicata alla “visualità” e qua vengono passate in rassegna le specificità della cultura visuale incentrata sulla prospettiva rinascimentale, dunque dell’epoca cine-fotografica e, infine, della nascente epopea del virtuale (la sezione più bisognosa di aggiornamenti). La seconda parte, dedicata alla “cultura”, presenta una serie di acute riflessioni relative a produzioni audiovisive su questioni di ordine transculturale e identitario. L’ultima parte è invece dedicata alla visual culture all’interno del rapporto “Globale/Locale” a partire dal “caso Diana” che ha a lungo infestato i media audiovisivi inglesi ed internazionali.

La visual culture proposta da Mirzoeff rispondeva a un’urgenza tattica: quella di ritrovare il senso delle immagini in un contesto culturale dominato da una visualizzazione tanto imperante quanto paralizzante. È questa stessa impostazione a riconoscere come alla mutevolezza di paradigmi, contesti, tecnologie e rappresentazioni debba corrispondere, di necessità, una continua rimodulazione degli strumenti interpretativi dell’evento visivo. Vent’anni dopo, in un orizzonte radicalmente mutato, rimanere fedeli al metodo di Mirzoeff significa comprendere quali siano i paradigmi di visualizzazione dominanti oggi e quali le tattiche più efficaci per renderne conto (p. 15).

Così scrive Giancarlo Grossi nella prefazione al volume. Tante, davvero tante, cose sono cambiate da quando è stato steso il testo: nel frattempo la cultura visuale ha subito la sorprendente portata omologante della globalizzazione, si è data un’accelerazione nel processo di convergenza mediale forse inaspettata un paio di decenni fa, la serialità televisiva e le sue modalità narrative si sono sviluppate secondo modalità diverse da quelle indagate dall’autore, i social media hanno proiettato la vita sociale degli individui sempre più atomizzati all’interno di uno schermo popolato da “immagini-ambiente” che separano e connettono con il mondo, l’interattività dell’immagine attorno a cui si imperniava il ragionamento sulla realtà virtuale a fine anni Novanta ha nel frattempo lasciato il posto al concetto di immersività.

Alla luce del “progetto tattico” di Mirzoeff di «creare nuovi strumenti di alfabetizzazione visiva per gestire strategie di visualizzazione» (p. 19) viene da interrogarsi, alla luce della repentinità dei mutamenti, circa la reale possibilità di fornire in tempo utile strumenti di lettura critica del visuale prima che tutto cambi nuovamente. Torna allora alla mente l’efficace paragone proposto dallo studioso Andrea Rabbito [su Carmilla] tra la situazione dello spettatore al cospetto delle “nuove immagini” e quella di un surfista costretto contemporaneamente a concentrarsi per mantenere l’equilibrio e ad assecondare le onde. In effetti si è in una situazione in cui l’eccessiva attenzione all’analisi critica delle immagini rischia di compromettere il necessario lasciarsi trasportare da esse al fine di trarne godimento ma l’assecondarne il flusso comporta il rischio di accettare passivamente la nuova cultura visuale. Se tentare di “guardare da fuori” l’attuale sistema visuale è impraticabile, resta da trovare il modo per esserne al contempo parte di esso, godendo del godibile, e contro, nel contrastare quanto occorre contrastare. Insomma, nel domandarsi “Che fare?”, a maggior ragione ora, occorre contemplare anche il visuale.


Il reale delle/nelle immagini – serie completa 

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Hai vissuto o no? Il viaggio fotografico di Stefano Erasmo Pacini https://www.carmillaonline.com/2021/05/07/hai-vissuto-o-no-il-viaggio-fotografico-di-stefano-erasmo-pacini/ Thu, 06 May 2021 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66232 di Luca Cangianti

Stefano Erasmo Pacini, Figli dei fiori e figli del vento, Bam, 2021, pp. 130, € 15,00.

Il ribelle e il rom: chi rifiuta la norma sociale e chi per vicissitudini storiche ne è rimasto ai margini. Per questa condizione liminare entrambi scorgono orizzonti possibili che vanno oltre la miseria della vita sprecata, entrambi ne pagano un prezzo doloroso. È questa la connessione metaforica che attraversa Figli dei fiori e figli del vento, il nuovo libro fotografico di Stefano Erasmo Pacini.

Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso un’ondata di [...]]]> di Luca Cangianti

Stefano Erasmo Pacini, Figli dei fiori e figli del vento, Bam, 2021, pp. 130, € 15,00.

Il ribelle e il rom: chi rifiuta la norma sociale e chi per vicissitudini storiche ne è rimasto ai margini. Per questa condizione liminare entrambi scorgono orizzonti possibili che vanno oltre la miseria della vita sprecata, entrambi ne pagano un prezzo doloroso. È questa la connessione metaforica che attraversa Figli dei fiori e figli del vento, il nuovo libro fotografico di Stefano Erasmo Pacini.

Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso un’ondata di contestazione culturale, politica ed esistenziale investì ogni ambito della vita sociale spingendosi ben oltre i centri urbani. Arrivò ad esempio in Maremma e l’autore di questo volume – come racconta in forma romanzata in Educazione maremmana – ne fu travolto. Questa sua internità risalta fin dalla prima carrellata di ritratti, quasi una schedatura fraterna di sguardi che alludono ad altre dimensioni di desiderio e di libertà.
L’estetica fotografica aspira a cogliere un istante decisivo, capace di schiudere nuovi significati: decine di ragazze e di ragazzi dai capelli lunghi sorridono, suonano la chitarra, si abbracciano. Sono figli di contadini, di operai e di minatori, ma non credono più all’etica del sacrificio dei propri genitori. Hanno vestiti ampi, scialli, jeans sdruciti, polacchette consumate; fumano stravaccati, amoreggiano in un fienile, siedono di fronte a una tenda canadese e con lo zaino in spalla partono per il viaggio archetipico della vita. Quando i loro occhi lucidi incontrano i nostri ci interrogano: “Che cosa hai fatto dei tuoi anni? Dove hai sepolto il tuo tempo migliore? Hai vissuto o no?” Pacini antepone al suo testo introduttivo queste parole di Dostoevskij perché gli scatti raccolti nel libro assomigliano al ripercorrere junghiano della prima parte della vita. Senza mai cadere nella nostalgia, il fotografo ritiene infatti che la memoria e la riflessione sul passato siano il tessuto immaginario di ogni progetto di liberazione, personale e collettiva.

Poi ci sono le immagini dedicate ai rom che curvano in modo originale la rete di significati della prima sezione: torme di bambini i cui schiamazzi sembrano uscire dalle foto, una sposa vestita di bianco in una roulotte, anziani seduti davanti a mura di foratino senza intonaco, uomini baffuti, lamiere di metallo. Dai non luoghi delle aree di sosta anche questi volti ci chiedono con impertinenza: “sei felice?”, “se ti guardi indietro, qual è il tuo bilancio?”
Noi guardiamo loro, loro ci guardano dentro, e in questa spirale possiamo avvertire la vibrazione lontana di quello “stato di grazia” in cui tutto sembrava possibile. I potenti ne ebbero grande paura, serrarono le fila, ristrutturarono le fabbriche, disciplinarono la società e, dopo un attento lavoro di rabbia e di scienza, ebbero la meglio. Non soddisfatti aggredirono anche la memoria, affinché di quel periodo restasse solo il colore della notte.
Sfogliando Figli dei fiori e figli del vento possiamo invece vedere quale giornata di sole vi fosse prima del buio, e tornare a immaginare le imprese che verranno.

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Isabella e il revival magico https://www.carmillaonline.com/2020/09/12/isabella-e-il-revival-magico/ Sat, 12 Sep 2020 21:19:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62736 di Franco Pezzini

“The most unusual magazine ever published”: così veniva presentata, all’uscita mezzo secolo fa nel 1970, Man, Myth & Magic: An Illustrated Encyclopedia of the Supernatural, in forma di settimanale da edicola, probabilmente la prima e comunque la più leggendaria rivista mai apparsa in materia.

A trattare di antropologia religiosa, mitologia e appunto – in abbondanza – magia, sotto la cura di Richard Cavendish (storico inglese specializzato nel filone dell’occulto, 1930-2016), per la bellezza di un migliaio di articoli, sono più di duecento autori accademici e non, alcuni [...]]]> di Franco Pezzini

“The most unusual magazine ever published”: così veniva presentata, all’uscita mezzo secolo fa nel 1970, Man, Myth & Magic: An Illustrated Encyclopedia of the Supernatural, in forma di settimanale da edicola, probabilmente la prima e comunque la più leggendaria rivista mai apparsa in materia.

A trattare di antropologia religiosa, mitologia e appunto – in abbondanza – magia, sotto la cura di Richard Cavendish (storico inglese specializzato nel filone dell’occulto, 1930-2016), per la bellezza di un migliaio di articoli, sono più di duecento autori accademici e non, alcuni di notorietà ultraconsacrata: e scorrerne l’elenco fa un certo effetto. Vi troviamo letterati come Robert Graves e Christopher Isherwood, un’autorità dell’archeologia preistorica del calibro di Stuart Piggott, un sociologo specialista in fanatismo religioso come Norman Cohn, occultisti quali Ambelain e Kenneth Grant e studiosi di storia dell’occulto come Francis King e Ribadeau Dumas, cultori di studi arturiani come Ashe, e poi sociologi e folkloristi, criminologi e teologi, critici d’arte e botanici… e tantissimi altri, perché lo spettro tematico è giustamente ampio e gli articoli (in uno stile comprensibile al grosso pubblico) presentano comunque taglio enciclopedico.

A supportare Cavendish sono esperti di consacrata notorietà: nell’editorial advisory board figurano l’etnografo Cottie Arthur Burland del British Museum, l’archeologo gallese Glyn Daniel editor di Antiquity, il leggendario grecista E. R. Dodds (autore, per dire, del famoso I greci e l’irrazionale), l’antropologo religioso Mircea Eliade dalle brutte frequentazioni politiche ma senz’altro di immensa erudizione, e l’importante  psichiatra William Sargant; mentre quali educational board consultants sono John Symonds, esecutore testamentario di Aleister Crowley e autore della sua (discussa) prima biografia nonché di altri testi sull’occulto, R. J. Zwi Werblowsky, docente di Comparative Religion a Gerusalemme e specialista in cabala e misticismo ebraico, e il cattolico Robert Charles Zaehner, studioso di religioni orientali. Art director di una rivista oltretutto molto illustrata – dove l’ampiezza delle pagine e il molto colore annunciano il passaggio alla grafica dei Settanta – è Brian Innes, già percussionista della band The Temperance Seven attivissima nel decennio precedente.

I centododici fascicoli usciti per i tipi BPC Publishing, Ltd. verranno poi riuniti in un monumentale volume in seguito variamente riproposto (e per esempio l’edizione 1995 avrà una serie di nuovi consulenti e contributori).

Ripetiamolo, 1970: e una simile clamorosa intrapresa era stata preparata da un paio d’anni di effervescenza in tema mitico-magico su carta e sugli schermi. Fin dall’inizio degli anni Sessanta simili suggestioni avevano prosperato underground, o in forme appartate, o attraverso la libertà di riletture artistiche (letteratura compresa), quasi in controcanto alla ripresa industriale e alle paure atomiche; ma con Sessantotto, rivoluzione sessuale e diffusione di massa delle utopie, da ogni tombino o semplice fenditura del suolo occidentale era parso eruttare qualcosa di magico. L’uscita di Man, Myth & Magic rappresenta dunque una sorta di ufficiale presa d’atto di un revival epocale dell’occulto: un fenomeno il cui impatto al tempo e la cui variegata latitudine può difficilmente arrivare a percepire chi non la ricordi, tanto pervasiva era la forma assunta. Giornali di ogni tipo, infiniti volumi (sia di case editrici nate apposta, sia delle grandi che cercano di cavalcare il fenomeno senza cadute), programmi televisivi, film; e poi discorsi tra amici, sedute spiritiche… Se quella stagione di febbri dell’immaginario terminerà a fine anni Settanta, la sua eredità arriva ai giorni nostri e – al di là di maggiori o minori fortune – sembra destinata a non conoscere un’estinzione.

Ma che senso può avere parlare oggi di questi temi, tanto più su una testata come Carmilla? In questione non è certo un dato di convinzioni soggettive sulla fondatezza o meno di fenomeni “magici” (usiamo il termine con tutta la latitudine del caso) o l’adesione a una filosofia di vita che li comprenda o giustifichi. Ciò accederebbe – anche in forme alte, pensiamo a certe riflessioni di Jung – a una dimensione di idee più o meno personali nel cui merito non ha senso entrare in questa sede. O comunque in questo pezzo.

Più interessante sembra il fatto che, a prescindere dalla natura “sostanziale” di alcuni fenomeni, il linguaggio mitico-magico possa risultare congruo a esprimere realtà profonde della nostra vita interiore. Una fictio, se vogliamo, o piuttosto un efficace teatro, di volta in volta simbolico o metaforico, utile a comunicare coi nostri sottoscala, a dar parole a concetti sfuggenti o inaccettabili, a innescare reazioni del singolo o della comunità. Qualcosa che attiene all’immaginario, con tutta l’ambiguità del concetto – nel senso di immaginario subìto, agito o un misto dei due.

Ciò che non riguarda soltanto l’etnopsichiatria o gli studi antropologici su terre remote (peraltro nell’insidioso rapporto tra osservatore e fenomeno): si tratta di realtà che impattano sul sentire dell’uomo comune qui e ora. Del resto lo sappiamo, per esprimere alcune realtà abbiamo bisogno di linguaggio mitico-magico: se parliamo d’amore non possiamo ricorrere al gergo delle neuroscienze, mentre ne utilizziamo un fortemente simbolico, pieno di mito e di magia. La discesa negli inferi di cui prima o poi quasi tutti facciamo esperienza ben prima della morte fisica è una realtà psicologica – ma vorrei dire esistenziale – serissima e molto concreta. Ma gli esempi sono infiniti, e una certa ritualità appartiene a prassi di liberazione che riguardano anzitutto il nostro modo profondo di comunicare. “Siamo simboli e viviamo in essi” ha scritto da qualche parte Emerson.

Un certo linguaggio offre parole-chiave potenti, metafore che ne fanno scattare altre a profondità diverse del nostro cervello, in chiave di vere e proprie macchine per pensare. Cifre linguistiche adeguate per definire poteri che dominano singoli o masse umane, e non sono riproducibili tout court in laboratorio; per denunciare fantasmi che restano insidiosi anche se la loro natura è diversa da quella postulata dai medium, e non infestano soltanto l’interiorità del singolo ma intere società; per sottolineare l’azione di vampiri che succhiano energie vitali – e ai fini pratici poco importa se si tratti di chissà quali misteriose risacche energetiche o invece di qualcosa molto più banale, psicologico o magari socioeconomico. O ancora, ci permette di parlare di certi entusiasmi: e badiamo che il termine entusiasmo già la dice lunga, perché etimologicamente implica un’idea di possessione (ἐνθουσιασμός, cioè ἐν/“in”, θεός/“dio” e οὐσία/“essenza”, insomma l’essere posseduti dall’essenza di un nume, come Apollo o Dioniso). Quindi magia come linguaggio efficace, potente, con tutte le traslazioni metaforiche del caso. In ciò la fictio mitico-magica è un po’ simile a quella della letteratura o del teatro: per rivelarci verità sostanziali, umanissime, queste arti devono mentire, o almeno recitare bene una parte. Altrimenti non coinvolgono le aree giuste del cervello, o – forse meglio – le giuste emozioni.

Il che d’altra parte traghetta anche a dimensioni più storiche, sociologiche e persino politiche. Il pensiero mitico-magico e la sua storia hanno un peso serissimo a livello culturale, e coinvolgono da un lato scienza e arti (letteratura compresa) e dall’altro ideologie e dinamiche di una vita collettiva. Possiamo e dobbiamo essere orgogliosi di una serie di categorie del pensiero illuminista, ma solo una versione inaccettabilmente asfittica sottovaluta oggi il peso concreto di alcuni fenomeni: studi sul Sabba o sui benandanti come quelli di Carlo Ginzburg – per fare solo un nome tra i tanti – hanno scrostato un certo provincialismo di approccio, che peraltro non è estinto. Un’opera come Il mattino dei maghi (affascinante, per quanto datata e non priva di alcune ambiguità) ha fatto conoscere al grande pubblico il rapporto che il nazismo aveva coltivato con il magico; anche se a quel punto si è banalizzato il tutto in chiave Indiana Jones, dimenticando per esempio la persecuzione scatenata dal regime, da una certa fase in poi, contro lo stesso sottomondo esoterico. Ciò per dire che i rapporti dei fascismi col magico sono meno idilliaci di quanto a volte ci venga fatto credere.

Resta il fatto che l’approccio rigoroso e problematico di un Ginzburg non è, su grandi numeri, quello numericamente prevalente per esempio in certa pubblicistica italiota, tra banalizzazioni New Age e tentativi ideologici di annessione del magico tout court da parte dell’ultradestra. Se fenomeni culturali mitico-magici non sono storicamente estranei a prassi libertarie o decisamente di liberazione (si pensi solo ai vari sincretismi magico-religiosi frutto dell’incontro di culture diverse tra i due lati dell’Atlantico), il revival magico degli anni Settanta si legava a grandi numeri – in forme anche confuse e velleitarie, per carità – proprio a movimenti antiautoritari.

Con le ambiguità che ne costituiscono anche il fascino e impongono un approccio consapevole, il linguaggio magico impatta comunque sull’intero ventaglio delle arti – tutte a loro modo forme di magia, dicono gli occultisti. E accantonando per il momento la grande storia dell’arte visionaria del passato, tra i mille possibili esempi vorrei in questa sede considerare il lavoro di una eccellente fotografa di giovane generazione. Un’artista cioè che all’epoca del revival magico non era nata, e il cui lavoro comunque non è confinato entro rigide barriere tematiche – non è tout court un’artista “esoterica”. Ma le sue fotografie rendono splendidamente un magico come anzitutto linguaggio, simbolo, metafora, al di là di qualunque significato ulteriore.

Isabella Quaranta nasce a Torino nel 1985, e dopo gli studi avvia un’attivissima carriera di fotografa. Pur concentrando una parte importante del proprio lavoro sull’autoritratto e il ritratto, e inseguendo il filo conduttore di una ricerca interiore, persegue parallelamente anche altre declinazioni professionali, come fotografa di scena e di eventi. Collaborando tra l’altro dal 2014 con il TOHorror Film Fest – e in questo contesto chi scrive ha potuto conoscere la sua attività.

Quaranta ha pubblicato su varie riviste ed esposto sia in Italia che all’estero. Tra gli otto artisti selezionati per rappresentare l’Italia alla Biennale JCE (Jeune création européenne) 2019-2021, oltre a una serie di collettive ancora negli ultimi mesi, ha tenuto una bipersonale nel 2019 al Duomo di Pietrasanta e una personale – Physikà kai Mystikà a cura di Enzo Biffi Gentili – tra dicembre e gennaio ultimi presso il Muses, Museo delle essenze di Savigliano. Sue opere sono presenti in collezioni anche pubbliche, e vanta parecchi riconoscimenti e premi al proprio attivo.

Ma al di là di tale aspetti scintillanti di curriculum, ciò che interessa in questa sede è il contenuto di un lavoro. Dove la fotografia quasi sfuma nella pittura (anche per un senso del colore che accentua le profondità) e nella narrazione, aprendo ipotesi sulle storie evocate dalle singole tavole. E ciò attraverso effetti visivi di grande interesse, ma senza compiacimenti facili o manierismi estetizzanti: anche le soluzioni elaborate non risultano forzate. In scena è spesso una figura femminile, per cui si avvale di amiche danzatrici tra cui con frequenza l’ottima Elisa Spagone, che proprio sul corpo gioca nei propri spettacoli e qui asseconda fluidamente il progetto; in altri casi è la stessa autrice che si autoriprende. I corpi in scena – che restano tali, con una loro avvertibile fisicità, al di là del contesto onirico in cui possono essere collocati – sono comunque offerti all’obiettivo fotografico con grande delicatezza e pudore.

I soggetti variano sensibilmente. Tutto un filone di immagini suggerisce situazioni d’immersione in chiave onirica e visionaria nell’esperienza della natura, in una profondità di selve, vento vorticoso, acque profonde, barbagli di luce in un bosco: ma la chiave offerta, badiamo, non è un facile New Age. Per chi ama un certo filone letterario, è possibile pensare ad alcuni romanzi tra fine Otto e primi decenni del Novecento, dove giovani protagoniste si scoprono improvvisamente parte del flusso naturale, e vi si abbandonano smarcandosi dai rigori sociali (post)vittoriani in un vago trasalire di potenze elementali. Ma si può andare anche più indietro, visto che una sorta di lezione preraffaellita – più suggestioni tematiche, in realtà, che citazioni – emerge in più di una tavola, tra Ophelie e incantatrici danzanti. Tuttavia la lettura non è necessariamente retro, e la natura evocata potrebbe essere persino quella in pieno trouble dell’odierno Chthulucene (come lo chiama Donna Haraway nei suoi studi sul pianeta infetto), a suggerire poeticamente forme di con-vivenza tra specie, trasformazioni danzate in radici o in ragni.

In altre serie, il riferimento all’identità è offerto attraverso giochi di maschere, di bozzoli o crisalidi: certo qui il nesso con la ricerca interiore è anche più diretto – ma la suggestione ha la libertà di un linguaggio musicale, e la tavola ci è offerta quasi come uno specchio onirico, per interpellare su una risposta che riguarda anzitutto noi. Anche qui il riferimento al magico e al simbolico è molto forte: in particolare nell’allusione – lieve ma avvertibile – a elementi di ritualità, in suggestioni di veggenza, in echi di pratiche incantatorie.

In altri casi ancora, le coordinate ambientali sono quelle di costruzioni antiche e magari fatiscenti, cappelle in rovina o muri stretti dal sapor di labirinto. Per esempio, la serie Quarantine feelings, realizzata proprio durante la clausura pandemica rielaborando immagini e autoscatti precedentemente realizzati (tranne un paio di tavole realizzate ad aprile 2020), evoca con efficacia una serie di emozioni, di angosce e speranze, di un tempo sospeso, di fantasmi che inabitano il lockdown.

Ecco, di fronte a queste tavole dalla liberissima poetica recuperiamo anche un po’ il sogno di quel revival lontano all’insegna di Man, Myth & Magic: non solo titolo di rivista ma cifra e tipo d’approccio. Non insomma le rivoluzioni conservatrici di certo esoterismo da strapaese, i tradizionalismi pelosi, l’arruolamento asfittico della magia in nome di vecchi poteri, ma il recupero creativo di un linguaggio che richiama alla complessità e parla a dimensioni profonde di noi, in chiave di libertà.

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Il reale delle/nelle immagini. Gli occhi dei fratelli Jacob e di Josefa https://www.carmillaonline.com/2020/02/23/il-reale-delle-nelle-immagini-gli-occhi-dei-fratelli-jacob-e-di-josefa/ Sat, 22 Feb 2020 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57967 di Gioacchino Toni

Michele Guerra, nel suo recente libro Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini (Raffaello Cortina Editore, 2020) affronta le modalità attraverso cui si è sino ad ora tentato di mostrare l’orrore dei lager nella convinzione che l’immagine della Shoah si trovi costretta a riflettere sulla propria limitatezza. É a partire da tali ragionamenti che, inevitabilmente, lo studioso finisce con il porsi domande a proposito del mutante rapporto tra vedere, immaginare e sapere.

Una parte dell’analisi di Guerra è dedicata alla fotografia ritraente i fratelli Sril (Israel) e Zelig Jacob, rinvenuta insieme ad altri scatti realizzati dai nazisti [...]]]> di Gioacchino Toni

Michele Guerra, nel suo recente libro Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini (Raffaello Cortina Editore, 2020) affronta le modalità attraverso cui si è sino ad ora tentato di mostrare l’orrore dei lager nella convinzione che l’immagine della Shoah si trovi costretta a riflettere sulla propria limitatezza. É a partire da tali ragionamenti che, inevitabilmente, lo studioso finisce con il porsi domande a proposito del mutante rapporto tra vedere, immaginare e sapere.

Una parte dell’analisi di Guerra è dedicata alla fotografia ritraente i fratelli Sril (Israel) e Zelig Jacob, rinvenuta insieme ad altri scatti realizzati dai nazisti a Birkenau (“Album Auschwitz”). Secondo lo studioso tale immagine, oltre a contenere  una traccia dell’arrivo dei due bambini nel lager, manifesta la lacuna della fotografia: la sparizione del contesto, del fuoricampo.

L’immagine pone così al cospetto dell’inenarrabile, di ciò che sta osservando Siril, che ignoriamo, e di ciò a cui presta lo sguardo il fratello, Zelig: il nazista che lo sta immortalando ed allo stesso tempo noi che osserviamo la fotografia e con essa gli occhi del bambino, occhi che, continua lo studioso, sono l’immagine-lacuna, quella che Georges Didi-Huberman chiama immagine-sparizione e Jacques Rancière soppressione.

In veste di direttore del Museo memoriale di Auschwitz-Birkenau, Piotr Cywiński, trovandosi a scegliere il logo per tale istituzione, si è reso conto che nel pensare a quel campo di sterminio con “l’occhio della mente” si tende a vedere un panorama di torrette di guardia, filo spinato e baracche. Si resta pertanto all’interno di quella visibilità del campo di Auschwitz derivata dalla narrazione che di esso è stata fatta, ma ciò su cui varrebbe davvero la pena concentrare lo sguardo e il pensiero è il dispositivo di disumanizzazione. Pertanto, sostiene Guerra, Cywiński si rende conto che «al fondo della nostra idea di Auschwitz c’è un’impossibilità di vedere […] Proprio perché nessuno di noi ha visto e può vedere quell’orrore, abbiamo bisogno di fissarlo attraverso segni vicari che sistematizzino quel che la nostra ragione non può accogliere diversamente.» (p. 37).

Il dettaglio degli occhi di Zelig può essere visto come radicalizzazione di quell’impossibilità. «Noi non vederemo mai Auschwitz, in nessuna fotografia, in nessun film, in nessun resoconto. Ma non rimarremo ciechi se comprenderemo cosa vuol dire tenre fissi gli occhi nell’inenarrabile» (p. 38). Ecco perché Cywiński sceglie come logo del museo proprio il dettaglio degli occhi di Zelig.

Qualcosa di simile, sostiene Guerra, è ravvisabile anche in alcune fotografie contemporanee che toccano l’orrore di altre realtà ed altri dispositivi di potere: si pensi ad esempio ad un paio di fotografie scattate alla camerunense Josefa durante le operazioni di salvataggio della nave Open Arms nei pressi delle coste libiche nel luglio del 2018.

In una foto realizzata da Pau Barrena (AFP/Getty), Josefa è ripresa in campo medio tra alcuni operatori che la stanno portando in salvo e qua il fulcro dell’immagine risiede negli occhi della donna che sembrano “aperti sul vuoto”, sul buio, sulla notte, tutte metafore ricorrenti nella letteratura sulla Shoah funzionanti ciascuna come anti-medium, come dispositivo che non media la visione e non permette di vedere distintamente. Non si saprà mai cosa stesse guardando Josefa in quel momento, così come non saremo mai in grado di sapere cosa guardasse Siril giunto nel lager.

In una seconda fotografia, scattata da Juan Medina (Reuters), Josefa è ripresa in primo piano con gli occhi sbarrati che sembrano testimoniare il farsi strada di un barlume di consapevolezza circa la tragedia avvenuta. Sono gli occhi descritti da Primo Levi, suggerisce Guerra, gli occhi «che hanno visto qualcosa che l’umano non avrebbe dovuto assistere e sopravvivere» (p. 41). Ecco, questa fotografia di Josefa è un esempio attuale di immagine-lacuna, di immaginie-sparizione.


Per una riflessione più articolata sull’importante volume di Michele Guerra si rinvia allo scritto: G. Toni, “L’immagine lacuna. Riflessioni sulle condizioni di visibilità della Shoah”, Il lavoro culturale, 05/02/2020.

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Il reale delle/nelle immagini. Splendori e miserie del vedere contemporaneo… e una copertina che proprio non si guarda https://www.carmillaonline.com/2019/09/02/il-reale-delle-nelle-immagini-splendori-e-miserie-del-vedere-contemporaneo-e-una-copertina-che-proprio-non-si-guarda/ Mon, 02 Sep 2019 21:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54336 di Gioacchino Toni

Mark Cousins è conosciuto per la realizzazione di due monumentali opere sul cinema: The Story of Film: An Odyssey (2011), quindici ore di documentario in altrettanti episodi, e La storia del cinema (Utet, 2017), volume di oltre cinquecento pagine. Più recentemente Cousin ha presentato al Festival di Cannes The Eyes of Orson Welles (2018) e il libro Storia dello sguardo (Il Saggiatore, 2018). In quest’ultima prova editoriale l’autore nord-irlandese passa in rassegna alcuni tra i momenti più significativi della storia visiva riflettendo sulle modalità con cui il modo di guardare è mutato nel corso dei secoli e sui [...]]]> di Gioacchino Toni

Mark Cousins è conosciuto per la realizzazione di due monumentali opere sul cinema: The Story of Film: An Odyssey (2011), quindici ore di documentario in altrettanti episodi, e La storia del cinema (Utet, 2017), volume di oltre cinquecento pagine. Più recentemente Cousin ha presentato al Festival di Cannes The Eyes of Orson Welles (2018) e il libro Storia dello sguardo (Il Saggiatore, 2018). In quest’ultima prova editoriale l’autore nord-irlandese passa in rassegna alcuni tra i momenti più significativi della storia visiva riflettendo sulle modalità con cui il modo di guardare è mutato nel corso dei secoli e sui motivi per cui ciò è accaduto. L’atto del guardare è indagato dallo studioso sia ragionando su alcuni momenti visivi dalla sua storia personale, sia attraverso le tappe che nel corso dei secoli hanno condotto all’attuale modalità di guardare. Lungo un percorso che si sofferma sulla questione del potere dello sguardo e delle immagini nella prima modernità del Cinque e Seicento e sul ruolo della visione nel mondo di Versailles e nell’epoca illuminista, Cousin giunge a ragionare sul diffondersi della fotografia e del cinema per poi arrivare ai nostri giorni.

L’analisi dello sguardo novecentesco si apre con la celebre immagine che mostra una mano armata di rasoio che si appresta a lacerare l’occhio di una donna tratta da Un chien andalou (1929) di Luis Buñuel. La scena in cui, attraverso un montaggio alternato, si passa dall’occhio femminile alla lacerazione del bulbo oculare di un vitello morto, viene efficacemente scelta da Cousin come «metafora del violento accrescersi del volume delle immagini osservabili in quegli anni». La diffusione di apparecchi fotografici leggeri e relativamente economici che si ha in apertura di Novecento inaugura una crescita esponenziale delle immagini disponibili che raggiungerà numeri incredibili ai nostri giorni. E se in apertura del XX secolo «lo tsunami delle immagini era più simile a un’invasione dell’occhio piuttosto che a una fuoriuscita da esso», sostiene Cousin, ben presto «le persone comuni, quelle che gran parte della storia dell’umanità erano state esclusivamente consumatrici visive, iniziarono a produrre immagini». L’inizio del Novecento presenta anche altri cambiamenti importanti nella storia dello sguardo; nella narrazione proposta da Cousins l’atto del vedere si incontra con i ragionamenti di Albert Einstein su spazio e tempo, con le particolari fotografie di Arthur Eddinghton, con gli studi sui colori e la luce di Niels Bohr, con le ricerche sulla visione microscopica e atomica, fino a giungere all’accresciuta importanza della visione negli ambiti politici e sociali nel XX secolo.

Una parte del volume è dedicata alle pratiche di sorveglianza visiva che vantano una lunga storia. Lo studioso ricorda il millenario ricorso a nicchie di osservazione nei palazzi del potere, l’istituzione di agenzie e apparati di controllo della popolazione nella Francia della Rivoluzione, il controllo della corrispondenze nel Regno Unito negli anni Quaranta dell’Ottocento, la schedatura fotografica delle suffragette inglesi negli anni Dieci del secolo successivo, le censure delle lettere dal fronte nel corso dei due grandi conflitti mondiali, la diffusione delle riprese a circuito chiuso negli anni Sessanta e Settanta e via dicendo. Se la visione votata al controllo ha una lunga storia, resta il fatto che negli ultimi decenni questa ha raggiunto livelli prima impensabili; se per gli Stati Uniti si parla di una media di una videocamera di sorveglianza ogni dieci abitanti, a ciò si devono aggiungere i sistemi di localizzazione satellitare, le mappature fotografiche disponibili in internet.

Nella parte finale del volume, l’autore, oltre a denunciare i pericoli insiti nell’ipertrofia visiva contemporanea, intende però evitare il catastrofismo mettendone in evidenza anche aspetti positivi.

Forse guardiamo troppe cose, questo tipo di sguardo sta sostituendo altri generi di esperienze vitali, più naturali o capaci di arricchirci? Le nuove scoperte riguardanti la neuroplasticità sembrerebbero indicare che chi ha usato gli smartphone a partire dalla preadolescenza e che, grazie alla fibra ottica e ai satelliti, ha una sensazione più limitata dell’altrove, stia subendo dei mutamenti celebrali. Se ciò fosse vere si tratterebbe di una notizia preoccupante, forse, ma probabilmente è troppo presto per fare valutazioni del genere e gli interessati dovrebbero cercare di non abbandonarsi a millenarie fobie legate allo sguardo. Sì, c’è un’inondazione in corso; sì, vediamo nei modi più svariati, come mai prima d’ora, ma si tratta di un cambiamento anche tipologico? Il vedere così tante cose minaccia le nostre coscienze o le innalza a un nuovo livello?

Storia dello sguardo non ha il rigore di un saggio vero e proprio sull’argomento; si tratta piuttosto di un affascinante racconto sulla visione che, nonostante la mole, si legge tutto d’un fiato e che non manca di fornire acute suggestioni che invitano all’approfondimento.

Un’ultima annotazione a proposito dell’insolita copertina dell’edizione italiana dotata di occhi da pupazzo mobili e in rilievo: ecco, verrebbe da dire che questa copertina proprio non si guarda. E se il “fastidio” provato nell’osservare la copertina fosse generato non tanto dal suo aspetto kitsch, ma dal sentirci guardati da essa? Torna allora alla memoria la vicenda del celebre dipinto  Colazione sull’erba (1863) di Manet respinto dalla giuria del Salon non tanto per la presenza di un nudo contemporaneo (privo del consueto filtro mitologico), quanto piuttosto per l’ostentata fuoriuscita dalle consuetudini pittoriche;  pare persino essere il quadro a osservare, indispettito, lo spettatore. Alla critica dell’epoca era così stata sfacciatamente tolta l’esclusiva dello sguardo indagatore. Ecco allora che gli occhi kitsch con cui l’edizione italiana del libro di Cousin ci osserva sembrano volerci ricordare che proprio noi che, attraverso le pagine del libro, ci apprestiamo ad indagare la storia dello sguardo, siamo a nostra volta (sempre) osservati. Quei banali occhi da pupazzo ci svelano allora la mise en abyme che si cela dietro l’angolo (dell’occhio).

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