Forza Nuova – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pandemia, economia e crimini della guerra sociale. Stagione 2, episodio 1: la schiuma https://www.carmillaonline.com/2020/10/28/pandemia-economia-e-crimini-della-guerra-sociale-stagione-2-episodio-1-la-schiuma/ Wed, 28 Oct 2020 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63263 di Sandro Moiso, Maurice Chevalier e Jack Orlando

“L’unico attore sociale che ancora mancava nella crisi più clamorosa della modernità è dunque arrivato in scena, presentandosi a Napoli: è il ribellismo che scende in piazza […] contro tutto, la Regione, il governo, le regole, la prudenza, la paura, in quanto è fuori dal sistema, alla deriva in un luogo sconosciuto della politica dove anche il contratto tra lo Stato e i cittadini pare non avere più valore […] Come Napoli ha anticipato, qualcuno fa i conti con il costo di questa emergenza [...]]]> di Sandro Moiso, Maurice Chevalier e Jack Orlando

“L’unico attore sociale che ancora mancava nella crisi più clamorosa della modernità è dunque arrivato in scena, presentandosi a Napoli: è il ribellismo che scende in piazza […] contro tutto, la Regione, il governo, le regole, la prudenza, la paura, in quanto è fuori dal sistema, alla deriva in un luogo sconosciuto della politica dove anche il contratto tra lo Stato e i cittadini pare non avere più valore […] Come Napoli ha anticipato, qualcuno fa i conti con il costo di questa emergenza infinita, questa precarietà permanente, questa instabilità costante, scopre che il costo è alto almeno quanto il rischi del contagio, e presenta il saldo al potere. Ognuno ha il suo conto privato da protestare sul tavolo del governo, non c’è al momento una cambiale nazionale da far scadere in piazza, dunque non c’è un disegno unitario capace di raccogliere i diversi reclami, trasformandoli in una ‘causa generale, quindi in un’occasione politica. […] Così i ragazzi che pedalano sulle biciclette delle consegne a domicilio si trovano accanto in piazza i pizzaioli che temono la chiusura, i disoccupati dei Bassi, le badanti, i venditori di souvenir a cui hanno chiuso i banchetti nei vicoli: ognuno con una rabbia distinta di categoria, con una rivendicazione peculiare di mestiere, con un credito di lavoro specifico, in una collezione di risentimenti separati uniti soltanto dal momento della ribellione. […]
Un elemento unificante in realtà esiste, ed è la delusione generale per i buchi che ognuno scopre ogni giorno nella copertura sanitaria di base […], oltre ai mezzi pubblici sovraffollati che trasportano infezione. La sensazione è quella dell’abbandono per il cittadino lasciato solo, […] mentre il potere pubblico – Stato e Regioni – ha sprecato l’estate in uno scaricabarile di responsabilità che è un’altra conferma della scomposizione del Paese, a partire dal potere pubblico”.

Chi è a scrivere queste parole? Un estremista esponente dei centri sociali o dell’ultradestra? Un camorrista interessato a diffondere l’ordine criminale sui territori? No, è l’ex-direttore del quotidiano la Repubblica, sulle pagine dello stesso, nell’editoriale di lunedì 26 ottobre: Il virus della ribellione. Un articolo che manifesta in maniera piuttosto esplicita il timore dell’establishment nei confronti di una rivolta generalizzata, come ha già ventilato la ministra degli interni Lamorgese e come il governo ha già cercato di anticipare non solo con l’uso delle forze dell’ordine distribuite sulle piazze, certo non soltanto per impedire la movida (vista la chiusura anticipata dei bar dei locali di ritrovo alle ore 18), ma anche con ciò che il Dpcm del 25 ottobre prevede in tema di manifestazioni pubbliche: ovvero il permesso per le manifestazioni statiche (sit-in) e il divieto per tutte quelle mobili (cortei).

L’ex-direttore del quotidiano nazionale non viene poi meno al suo ruolo insinuando, anche contraddittoriamente, che le proteste sono «sfruttate dalla camorra che nel declino dell’economia ufficiale vede crescere la sua economia parallela e il mercato dell’usura».
Rimuovendo così il fatto che è proprio nella povertà e nella miseria estrema, che i farlocchi provvedimenti anti-virus potrebbero provocare, che questa potrebbe prosperare molto meglio che contribuendo a rinvigorire le proteste. Ma sono ormai abituali le rimozioni del mondo reale dal discorso mediatico, mentre il solito Roberto Saviano, pur parlando di Napoli come esempio della «disperazione del Sud che sta scoppiando», non rinuncia comunque a sottolineare gli interessi criminali che potrebbero stare alle spalle delle proteste.

Non stupisce che Saviano, l’informazione e i media istituzionalizzati, le forze politiche parlamentari tornino a rispolverare le tesi sugli infiltrati, la criminalità e l’estremismo senza volto, insieme a quella sinistra che, in quasi tutte le sue smorte gradazioni di opinione e colore (dal rosa pallido al rosso spento), assume lo stesso atteggiamento, sventolando il pericolo rappresentato dagli utili idioti di Casa Pound e Forza Nuova (utili tanto alla Destra che alla Sinistra per poter urlare al lupo) indicandone il presumibile coinvolgimento nelle manifestazioni, per allontanare da sé lo spettro della rivolta (che ancora una volta si aggira per l’Italia e per l’Europa) e poter continuare a dormire sugli allori delle sconfitte passate e non doversi assumere alcuna responsabilità politica.

Stupisce invece come anche all’interno dei movimenti, tra tante singole soggettività che pure proprio per le esperienze vissute non dovrebbero avere dubbi sul solito schema dei buoni e cattivi, si sia aperto un dibattito particolarmente presente in rete, come già avvenuto con i “gilet jaunes”, che fa propria la propaganda mediatica e delle anime belle della sinistra, che ripropone la solita minestra riscaldata sulla violenza o si scandalizza perché i giovani hanno attaccato e si sono impadroniti delle merci, come a Torino, di Gucci, dell’Apple Store e del negozio Geo e non dei beni di prima necessità, come ha dichiarato un noto intellettuale torinese in un intervista al quotidiano La Stampa : «Rappresenta una novità per una città che ha conosciuto grandi momenti di rivolta, ma mai con l’accaparramento di merce di lusso. Sarebbe una corruzione della storia».

Nelle rivolte, la composizione delle piazze e delle lotte non la si può certo definire a tavolino: non lo si poteva fare negli anni ’70, quando l’organizzazione di cui lo stesso intellettuale faceva parte fu invece tra le prime a cogliere la novità delle rivolte di Reggio Calabria, nelle carceri oppure per la casa e le occupazioni di massa che ne seguirono1, e non lo si può fare oggi quando i fermati e gli arrestati minorenni, di Milano soprattutto, ci parlano in maniera meno formale e forbita del livore delle periferie.

Periferie che da Torino, città con uno dei tassi più alti di povertà in Italia, a Milano, fino a Parigi e a Filadelfia, ci raccontano oggi la medesima storia: l’impossibilità di rappresentarne il disagio reale per tutte le forze politiche tradizionali e l’inevitabile esplosione che ne consegue. L’emarginazione economica e sociale delle aree suburbane, nonostante le belle parole spese, è molto più fuori controllo del virus2 e questo fa davvero paura perché le manifestazioni di questi giorni sono probabilmente soltanto l’antefatto di quelle che verranno, quando la “vera classe operaia”, di cui molto si ostinano a parlare senza più conoscerla, sarà risvegliata dal suo torpore dalla fine dei fondi destinati alla cassa integrazione (il 31 gennaio 2021) e del blocco dei licenziamenti. Forse è per prevenire questo che il governo e tutti gli apparati dello Stato e dell’informazione stanno già cercando di giocare d’anticipo criminalizzando il dissenso, nelle teste e nelle piazze. Anche se è chiaro ormai per tutti che il problema sociale è ormai globalizzato. Specialmente in Europa, dove il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in un’intervista, sempre a La Stampa, alla vigilia del vertice in videoconferenza fra i 27, ha potuto affermare che : “La Ue deve agire compatta per evitare disordini e rivolte sociali”.

L’ineffabile direttore di un Tg serale, martedì 27 ottobre, ha avuto almeno il merito di dire ciò che tutto questo mondo di benpensanti, così compassionevoli con i migranti quando non si ribellano oppure affogano in silenzio e con i poveri quando mendicano un lavoro qualsiasi o un tozzo di pane, pensa realmente di ciò che sta avvenendo e del protagonismo giovanile, spesso di immigrati di seconda generazione, nella ribellione delle periferie: si tratta della “schiuma”, ha detto rivolgendosi ai telespettatori per introdurre le notizie riguardanti le proteste. Separando, naturalmente, quelle pacifiche dei tassisti e dei proprietari dei bar e dei ristoranti da quelle dei disoccupati e dei lavoratori impiegati nelle stesse aziende che, a differenza dei loro datori di lavoro, non potranno certo godere dei ristori promessi dal governo.

Ma vediamo insieme cosa sta avvenendo. Come nella prima fase3, anche ora è proprio da Napoli che è iniziata la lotta, con la manifestazione serale di venerdì 23 ottobre in cui è esplosa la rabbia della città.
Il giorno dopo, nel pomeriggio, sempre a Napoli, c’erano cassaintegrati, disoccupati, operai degli stabilimenti di Pomigliano e della Whirlpool e molti altri, giovani o meno, pesantemente toccati e danneggiati dalla crisi e dai provvedimenti governativi. Che tutto ciò faccia paura al Governo, a Confindustria, ai media asserviti così come anche alle confederazioni sindacali della Triplice è nel normale gioco delle cose. Soprattutto la mancanza di una rappresentanza unica collettiva con cui sia possibile trattare e mediare, ma per caso non è che anche alla sinistra zombificata faccia altrettanto paura?

I giorni successivi hanno visto una mobilitazione dal sud al nord di tutto il paese e le manifestazioni di Torino e Milano, dove la rivolta è esplosa con una forte presenza di giovani, in particolare delle periferie urbane senza futuro, con pratiche di riappropriazione delle merci in Via Roma, la via del lusso torinese, e con la determinazione di attaccare i simboli della politica come a Milano il grattacielo della regione Lombardia.

I manifestanti di Milano, definiti come “uno sciame di vespe che pungeva dove capitava” da un investigatore di lungo corso4 costituiscono forse il più chiaro esempio di ciò che sta avvenendo ai margini della narrazione del mondo ufficiale. Tra i 28 fermati ci sono infatti 18 italiani e 10 stranieri, di cui 13 minorenni. Tutti provenienti dalla periferia di via Padova, via Porpora o dall’hinterland fin da Cernusco sul Naviglio. Più che chiedersi chi ha organizzato o infiltrato quelle centinaia di ragazzi e ragazzini, lo Stato e i suoi apparati dovrebbero forse chiedersi cosa ribolle nella pentola sociale di cui si finge di ignorare, o forse proprio si ignorano, le necessità e i bisogni. Non risolvibili soltanto sul piano della cultura con cui, troppo spesso, politici ed intellettuali si sciacquano la bocca non sapendo cos’altro proporre oppure non riuscendo nemmeno ad immaginare altre soluzioni che non siano quelle legate alla repressione e all’emarginazione economica e sociale.

A rafforzare questa ipotesi c’è il fatto che su Tik Tok, Instagram e altri social tipicamente giovanili stanno rimbalzando le immagini degli scontri di Torino e Milano, con l’indicazione a replicarli ovunque. Indicazione che non arriva da qualche soggetto politicizzato, ma proprio da quei giovani che tanto i cosiddetti boomer quanto i compagni, attribuivano paternalisticamente ad una gioventù disinteressata, passiva e irrecuperabile, mentre invece questi hanno colto il dato assolutamente politico di quei riot e si sono identificati nei loro simili. Inizia così ad emergere un nuovo soggetto politico, i cui contorni sono ancora invisibili, anche se probabilmente saranno ben più radicali; non perché fanno gli scontri e i saccheggi, ma perché sono i veri figli della catastrofe neoliberista e non possono nemmeno rivendicare la delusione del futuro negato. Non lo hanno mai avuto il futuro e il loro presente è assai più crudo di quello che le generazioni precedenti dei trentenni e quarantenni hanno vissuto.

Nelle piazze di Napoli, e in tutte le altre, c’è tutto e il contrario di tutto, le istanze sono reazionarie e comuniste allo stesso tempo, le distinzioni di destra e sinistra nello sguardo comune sono azzerate (certo, se uno si presenta esplicitamente facendo saluti romani e dicendo di essere di Forza nuova, la distinzione si fa un po’ troppo palese e il gioco non dura), così come le divisioni di classe: abbiamo fianco a fianco imprenditori (piccoli, medi o grandi non è qui importante) con lavoratori subordinati. E’ ovvio che le condizioni e le istanze siano differenti per ciascuno e siano in contraddizione, nonché pongano un serio problema: ovvero quello dell’egemonia piccolo borghese (come mentalità non come classe) che spinge in direzione di un orizzonte di immaginario e rivendicazione assolutamente lavorista e corporativista. Questo è per ora un pericolo da scongiurare, ma non per questo ci si può esimere dal comprendere come una delle novità del movimento attuale sia proprio costituita dalla convivenza tra soggetti e rivendicazioni del tutto incompatibili fino a ieri.

L’antagonismo, nella maggioranza dei casi, è arrivato in ritardo al suo appuntamento con la storia (o forse non ci è arrivato proprio), non perché non ha chiamato per primo alle piazze, né perché non ha saputo rispondere al lockdown di marzo, ma perché sono vent’anni almeno che ha smesso di accarezzare il sogno dell’assalto al cielo e della resa dei conti con il nemico storico.
Si tratta quindi, per chi vuole comprendere il presente andando oltre i limiti del Novecento, di essere attenti a queste lotte, a questa tendenziale rivolta generalizzata con cui i discorsi liberal progressisti, il neo-togliattismo, le camarille politiche non hanno più nulla a che spartire, per poter affrontare una questione urgente e profonda: quella della ricomposizione di un soggetto sociale e politico, nemico del presente, che non può più essere riassunto soltanto in facili formule sociologiche e politiche.

Questo possibile movimento non uscirà vincitore conquistando un palazzo d’inverno ormai ridotto a rudere, ma soltanto quando sarà emersa una nuova generazione di ribelli e rivoluzionari, una nuova modalità della politica che abbia al suo centro non la vittimità, ma la volontà di potenza collettiva.
Forse è vero che a manifestare in maniera più radicale il proprio scontento e disagio sia oggi la schiuma, ma non quella immaginata dai benpensanti dell’informazione e della politica, ma piuttosto quella della Grande onda di Kanagawa dipinta da Katsushika Hokusai nel 1831.
Quella di uno tsunami che potrebbe travolgere il modo di produzione vigente, perché, proprio come per i veri tsunami, ha origini telluriche profonde nei movimenti della tettonica a zolle sociale, che nessun congiurato o infiltrato potrà mai davvero mettere da solo in movimento e che mai nessuna barriera di contenimento o repressiva potrà mai definitivamente impedire.


  1. Era l’epoca dello slogan, lanciato da Lotta Continua nell’autunno del 1970, Prendiamoci la città!  

  2. Come anche il magnifico film I miserabili di Ladj Ly (qui https://www.carmillaonline.com/2020/08/26/i-dont-live-today-2-la-guerra-nelle-periferie/ ) dovrebbe aver insegnato anche ai ciechi intellettuali che pur si riempiono la bocca delle parole cultura e cinema  

  3. Fu proprio a Pomigliano che, il 10 marzo scorso, iniziarono quelle agitazioni operaie e quei blocchi della produzione che costrinsero, almeno formalmente, il Governo a dichiarare un fermo di tutte le attività produttive. E fu proprio da Pomigliano che iniziarono le ribellioni e gli scioperi spontanei che poi si diffusero al resto delle fabbriche d’Italia, soprattutto in Piemonte e Lombardia  

  4. I. Carra, Milano scopre i suoi ragazzi della banlieue. “Uno sciame di vespe”, la Repubblica Milano, 28 ottobre 2020  

]]>
L’Italia nera https://www.carmillaonline.com/2019/08/08/litalia-nera/ Thu, 08 Aug 2019 21:02:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54021 di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra [...]]]> di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra estrema italiana, oltre che a far comprendere quella particolare area politica, le sue idee, i suoi progetti ed il suo operato nel corso degli anni, possa contribuire anche ad approfondire in controluce momenti importanti della storia repubblicana. L’autore sceglie di limitare il più possibile il ricorso alle note e alle citazioni, in tal modo rendendo molto scorrevole ed agile la lettura del libro ed inserisce, distribuendolo in modo omogeneo nel corpo del testo, una sorta di glossario dei termini e dei concetti chiave necessari per la comprensione del fenomeno del neofascismo italiano.

La tesi che Vercelli espone fin da subito nell’Introduzione è che la storia della destra radicale e neofascista italiana sia il “reciproco inverso” della storia della Repubblica, cioè della democrazia nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Paradossalmente il neofascismo italiano, dopo la sconfitta del 1945, trova la sua ragion d’essere nel proprio opposto, ovverosia nella natura parlamentare, democratica, pluralista ed antifascista delle nuove istituzioni repubblicane, che prendono in mano la guida di quel paese che era stato la culla del fascismo. Pertanto, riflette Vercelli, nonostante le diverse forme assunte dal neofascismo italiano, dal 1945 – quando prevalgono ancora nostalgia per il passato prossimo e rancore contro i nemici – fino ad oggi – quando le formazioni dell’estrema destra più seguite, come Casa Pound, parlano di “fascismo del terzo millennio” – la «radice comune è la posizione antisistemica, ossia l’intenzione di mutare […] il “sistema” istituzionale, politico e finanche culturale della democrazia contemporanea. Negandone la radice egualitaria, che il neofascismo denuncia come una perversione dell’ordine naturale delle cose» (p. 9).

Nonostante la sconfitta nella guerra ed il crollo subiti tra il 1943 e il 1945, il fascismo ha continuato ad essere un soggetto politico presente nel nostro paese per tre ragioni fondamentali: in primo luogo, un’esperienza politica e poi un regime così duraturi come quelli mussoliniani non potevano scomparire improvvisamente, poiché troppo profondo era stato il loro radicamento nel paese. In secondo luogo, dopo il ’45 ciò che rimaneva del fascismo attira le attenzioni di quelle componenti conservatrici della società italiana che fasciste non sono, ma che coi reduci del fascismo intendono formare un “blocco d’ordine” capace di arginare i cambiamenti in atto nel paese. Infine, la contrapposizione tra i due blocchi della guerra fredda e la volontà, interna ed esterna al paese, di evitare lo spostamento italiano su posizioni apertamente filocomuniste, produce l’effetto della mancata epurazione e – come insegna Pavone – della netta prevalenza della “continuità” politico-istituzionale dello Stato rispetto al “cambiamento” auspicato dalle forze resistenziali partigiane. A questo si aggiunga che, come cent’anni fa, ancora oggi il neofascismo pretende di essere riconosciuto come forza politica rivoluzionaria: una rivoluzione che assume la forma della “reazione”, o meglio, si potrebbe dire, quella del “ritorno”, del “recupero” di un passato puro (in realtà mitico ed astorico) e di un presunto stato “naturale” sconvolto dalla corruzione della modernità, che avrebbe prodotto la democrazia, l’egualitarismo, il cosmopolitismo, considerati disvalori e perversioni della società. Al materialismo, al pragmatismo utilitaristico, all’economicismo, alla quantità equivalente della democrazia devono contrapporsi la qualità elitaria dell’aristocraticismo, lo spiritualismo, l’eroismo disinteressato del guerriero, la tradizione, il radicamento. Insomma una politica fatta più di evocazione suggestiva del mito e di estetica del gesto e dello stile esistenziale che di analisi razionale della realtà materiale, storica e sociale.

Nella prima parte del libro vengono considerati i primi anni dopo il crollo della Repubblica sociale e l’avvento della Repubblica e della democrazia. Per i fascisti italiani è il tempo del disorientamento, della difficoltà – per i più coinvolti con il regime di Salò – di nascondersi, di scappare, di cambiare identità o anche solo di passare inosservati, aspettando l’evoluzione della situazione interna al paese. Ma è anche il tempo della rivendicazione delle proprie convinzioni e dei primi tentativi di riorganizzazione, così come della accusa di codardia verso i “traditori” del 25 luglio e della elaborazione della figura del “proscritto”, cioè di colui che viene, ma soprattutto vuole, essere messo al margine della nuova società democratica ed antifascista che disprezza. La condizione del proscritto, rivendicata come segno distintivo ed elettivo, è quella che maggiormente accomuna i reduci di Salò e che ne rinserra le file. Figure di riferimento di quel primo periodo sono innanzi tutto Pino Romualdi, collaboratore di Pavolini e vicesegretario del Partito repubblicano fascista, che fin da subito cerca di stabilire contatti con i servizi segreti americani in funzione anticomunista e il “principe nero”, Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas. Il luogo dove il neofascismo inizia ad organizzarsi è Roma, in cui la presenza di un clero disposto ad aiutarli e a nasconderli, permette ai reduci di Salò di sfuggire alla cattura. Le prime azioni sono soprattutto atti velleitari e dimostrativi, che intendono recuperare lo spirito dell’arditismo e delle provocazioni squadriste in stile futurista del fascismo delle origini. Ma poco dopo comincia ad emergere anche un altro atteggiamento, quello che non disdegna l’idea dell’avvicinamento ai partiti conservatori del nuovo arco costituzionale e alla Democrazia cristiana in particolare; indirizzo che poi sfocerà nella fondazione del partito neofascista legalitario, il Movimento sociale italiano (MSI).

Il neofascismo italiano nasce in ogni caso dal trauma della sconfitta, che impone un processo di metabolizzazione e di ripensamento complessivo dell’esperienza del regime, che conduce i neofascisti a giudicare il fascismo regime come una “rivoluzione mancata”, soprattutto a causa delle componenti conservatrici della società italiana, che avrebbero usato solo strumentalmente il fascismo; oppure come “terza via” tra collettivismo comunista e liberismo capitalista; oppure, infine, come “rivolta” contro la modernità. Nel secondo e nel terzo caso c’è evidentemente la volontà di smarcare il fascismo dal suo passato per dargli la possibilità di rappresentare un’opzione politica per il futuro.  Tra il 1945 e il ’46 i neofascisti più disposti ad imboccare la via legalitaria individuano nell’anticomunismo la merce di scambio da offrire alle forze conservatrici in cambio di un allentamento dei provvedimenti penali e punitivi contro gli ex repubblichini. Spiega di seguito Vercelli come gli eventi del giugno 1946, il referendum istituzionale e il varo dell’amnistia Togliatti, mettano i neofascisti nella condizione di tornare ad agire più scopertamente rispetto ai mesi precedenti, separandosi definitivamente dai monarchici (che fondano un loro partito) e avvalendosi della scarcerazione di molti militanti che tornano a fare attivismo politico e si impegnano nella fondazione dell’MSI del dicembre del 1946.

Ma accanto alle iniziative politicamente legali, Vercelli richiama l’attenzione su una miriade di opuscoli, giornali, riviste, semplici fogli, pubblicazioni di ogni genere e tipo, inizialmente clandestini, a cui si aggiungono gruppi, altrettanto illegali, come l’Esercito Clandestino Anticomunista (ECA) o i FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), fondati da Romualdi stesso.  La prolificità editoriale dell’estrema destra neofascista, che si affianca a quella dei gruppi dell’attivismo politico militante, è un tratto costante del neofascismo italiano, dalle sue origini fino ad oggi, anche nei momenti di oggettivo e netto svantaggio, quantitativo e qualitativo, politico, culturale e sociale rispetto alla sinistra parlamentare ed extraparlamentare e attesta la presenza e la permanenza nel nostro paese di un’area politica, di un pezzo di società e di una parte dell’opinione pubblica inequivocabilmente fascisti, che, pur assumendo forme parzialmente diverse a seconda del mutare dei tempi e del contesto sociale, tengono fermo il riferimento al fascismo storico e ai suoi principi fondamentali.

Fin da subito, la prima distinzione interna alla destra estrema si sviluppa sull’alternativa tra l’accettazione «almeno formale e di circostanza, del parlamentarismo e delle istituzioni repubblicane» (p. 43), salvo prefiggersi lo scopo ultimo di sovvertirle se e quando possibile e la scelta eversiva della lotta senza quartiere ed esclusione di colpi contro l’assetto democratico della Repubblica italiana. La distinzione tra “eversione” e “legalità” va poi ulteriormente dettagliandosi, anche all’interno dello stesso partito ammesso alla legalità parlamentare, per esempio nelle posizioni dei reduci veri e propri, dei nostalgici del regime e della repubblica di Salò, i quali andranno via via perdendo posizioni, sia per evidenti ragioni generazionali sia per la passività e l’inconcludenza della posizione sul piano politico. Segue poi la posizione dei sostenitori della sola via legale, che si concretizza nel partito il quale però è chiamato ad affrontare fin da subito evidenti contraddizioni: i suoi dirigenti sono prevalentemente settentrionali e reduci di Salò, mentre l’elettorato è di gran lunga più consistente al Sud e legato al ricordo del «fascismo di regime, quello dai connotati notabiliari, fortemente conservatori» (p. 57). Sul piano ideologico poi, la “sinistra”, che recupera il programma di “socializzazione” di Salò, la suggestione della “terza via” e che si colloca su posizioni “antiamericane”, si scontra con le posizioni moderate aperte all’”atlantismo”, che sfoceranno più tardi nel collateralismo alla DC. Infine si configura anche la posizione, sostanzialmente eversiva, degli “spiritualisti”, ovverosia di coloro per i quali il fascismo come “idea” trascende le sue manifestazioni storiche particolari e si presenta come una “visione del mondo” che valorizza l’aspetto “spirituale” dell’uomo di contro a quello “economico-materiale” e pertanto individua i propri principi fondamentali nella “tradizione”, nella “comunità” e nella “identità” – vale a dire nella “razza” – nel “nazionalismo”, nella “gerarchia” come ”ordine naturale” che si regge sulla “disciplina”, nel rifiuto della modernità e dell’intero suo portato politico e culturale. Si tratta di quella parte dell’estrema destra neofascista che ha gravitato per molto tempo attorno a Julius Evola e che ancora oggi continua a richiamarsi a quel bagaglio di idee e che individua l’essenza e l’eccentricità del fascismo nella figura estetico-esistenziale del “legionario”, cioè del militante disciplinato, virile e combattivo che è «pronto a trasformare la propria esistenza in una continua impresa indirizzata al combattimento» (p. 47). È il “soldato politico”, parte di una élite aristocratica che si distingue dalla massa per destino, prima ancora che per volontà.

Ai suoi esordi il programma dell’MSI si concentra sull’anticomunismo, sul nazionalismo, sul richiamo ai progetti sociali della RSI, sull’idea di Stato forte e sul rifiuto della democrazia. Dopo pochi mesi di segreteria di Giacinto Trevisonno, durante la fase di gestione collegiale del partito e non potendo Romualdi assumere incarichi per ragioni giudiziarie, è Giorgio Almirante che dal giugno del ‘47 ricopre la carica di segretario della giunta esecutiva e di seguito quella di segretario del partito. Almirante intende mantenere un forte legame con l’esperienza della RSI e ripropone i temi dell’anticapitalismo e dell’antiamericanismo. Gli ultimi anni ’40 sono quelli dell’assestamento per l’MSI e nel frattempo i governi democristiani chiudono definitivamente la fase delle comunque blandissime epurazioni. Con la fine della segreteria Almirante (gennaio 1950), che viene sostituito da De Marsanich, è la parte moderata del partito a prevalere, per poi stabilizzarsi definitivamente con la scelta della linea del collateralismo nei confronti della DC, operata tanto dallo stesso De Marsanich, fino al 1954, quanto da Michelini, che guida il partito per ben quindici anni, fino al 1969. Neppure l’ingresso e l’assunzione di incarichi nel partito da parte di Rodolfo Graziani e di Junio Valerio Borghese, salutati con speranze sia dalla sinistra sociale dell’MSI sia dalla destra tradizionalista e spiritualista evoliana, producono un cambiamento della rotta politica moderata, ed è in questo contesto che nel 1956, Pino Rauti, su posizioni di tradizionalismo evoliano, esce dal partito e fonda l’associazione politico-culturale Centro Studi Ordine Nuovo (CSON).

Per Rauti – spiega Vercelli – «si trattava di trovare nuovi riferimenti alla tradizione culturale, ai simbolismi e alla mitografia neofascista. Ne derivarono alcuni risultati, destinati a lasciare un lungo segno. Il primo fu la piena e definitiva nobilitazione dell’impostazione evoliana, quella sospesa tra aristocraticismo, tradizionalismo, ed esoterismo» (p. 75). Il materialismo, l’edonismo, il consumismo, che trovano il loro equivalente giuridico-politico nel parlamentarismo democratico, devono essere combattuti attraverso forme di militanza politica che si richiamano ai movimenti legionari di estrema destra, come quello della Guardia di Ferro di Codreanu, nella Romania degli anni Trenta e Quaranta. Per superare la logica dell’alternativa tra Oriente e Occidente, viene elaborata la teoria dell’”Europa Nazione”, che – fa notare Vercelli – riprendendo l’idea nazista della “Fortezza Europa”, sfocia in una sorta di “europeismo suprematista”, che declina l’idea nazionalistica sul piano continentale europeo. Quando nel 1969, con il ritorno di Almirante alla segreteria del Movimento sociale, Rauti decide di rientrare nel partito, la componente più intransigente di Ordine Nuovo non sposa questa scelta rautiana e fonda il Movimento Politico Ordine Nuovo (MPON). Complessivamente l’esperienza di Ordine Nuovo, riflette Vercelli, costituisce «una pietra miliare nella storia della destra estrema italiana» (p. 75), sia perché molte delle sue idee sopravvivono all’organizzazione stessa e ricompaiono in altre formazioni e gruppi del neofascismo italiano fino ad oggi, sia perché «la sua traiettoria operativa s’incrociò più volte con lo strutturarsi di quel livello parallelo e non ufficiale di attività militare, lo Stay-behind, che in Italia già dal 1956 implicò la nascita dell’organizzazione Gladio» (pp. 78-79). Pertanto Ordine Nuovo è stato parte essenziale ed attore tra i principali di quella “strategia della tensione” che si è poi concretizzata nello “stragismo”, in stretta collaborazione con servizi segreti deviati ed appartati occulti dello Stato, tra gli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, da piazza Fontana alla Stazione di Bologna.

Gli anni Sessanta della destra eversiva italiana si aprono con la fondazione di una nuova organizzazione – Avanguardia nazionale – ad opera, tra gli altri, di un rautiano già coinvolto nelle attività di CSON: Stefano Delle Chiaie. Osserva Vercelli che «Avanguardia nazionale si rifaceva alla RSI come a diversi aspetti del nazionalsocialismo, giudicando fattibile una battaglia contro la democrazia solo attraverso la formazione di militanti tanto disciplinati quanto animati da un fideismo totale, nello “stile legionario” che doveva contraddistinguere le avanguardie della “rivoluzione nazionale”» (pp. 82-83). L’organizzazione di Delle Chiaie e poi di Adriano Tilgher è apertamente favorevole a soluzioni golpiste ed intrattiene rapporti coi regimi militari dell’America latina, di Spagna, Portogallo e soprattutto Grecia. Si impegna negli scontri di piazza e all’interno del mondo studentesco e universitario; il suo coinvolgimento nelle trame eversive e terroristiche di quegli anni è tale che nel 1976 viene dichiarata fuori legge. Altri eventi rilevanti di quel decennio sono il cosiddetto “piano Solo”, ovvero il tentato colpo di Stato ordito dal comandante dell’Arma dei Carabinieri, il generale Giovani de Lorenzo; l’uscita dall’MSI di Junio Valerio Borghese (1968), che dà vita al Fronte Nazionale, che due anni dopo sarà in prima fila nell’organizzazione del cosiddetto “golpe Borghese”. Una formazione politica dai progetti velleitari – tanto quanto il tentativo fallito di sovvertimento dell’ordine costituito – che, osserva Vercelli, ripropone vecchi cliché politici, che non vanno al di là della nostalgia del fascismo storico, proprio in un momento in cui, anche nell’area dell’estremismo di destra, sorgono nuovi fermenti e soprattutto l’esigenza di ripensare la militanza politica neofascista in modo indipendente dal passato.

Proprio per queste ragioni, in quegli anni hanno successo anche in Italia le idee di Jean-Francǫis Thiriart, fondatore nel 1962 di Jeune Europe, teorizzatore del “comunitarismo”, vale a dire di una confusa visione politica che intende proporsi come sintesi e quindi superamento dell’opposizione fascismo-comunismo, che riprende e corrobora l’idea di Europa Nazione, come “terza via” possibile nel mondo della contrapposizione tra blocchi, che, assumendo posizioni di antiamericanismo ed antisionismo, intende tanto opporsi al neoimperialismo, appoggiando i paesi non allineati o simpatizzando per il “guevarismo”, quanto rifiutare il materialismo edonistico ed il meticciato privo di radici, rappresentati dal modello statunitense. Idee che attraggono i giovani italiani cresciuti nell’area della destra radicale, in cerca di idee alternative tanto a quelle del conservatorismo legalitario dell’MSI, quanto a quelle del golpismo vecchio stampo. È da qui che iniziano a dipanarsi i fili di un percorso politico di lungo periodo, che ancora oggi è chiaramente presente nelle posizioni “rosso-brune” variamente espresse di volta in volta da Forza Nuova o da Casa Pound.

Il decennio 1969-1979, che Vercelli definisce “La stagione delle bombe”, è contraddistinto dai tentativi sempre più evidenti della destra estrema italiana di tagliare il cordone ombelicale col fascismo storico vissuto in modo nostalgico, perché «paralizzante rispetto a qualsiasi concreta azione politica» (p. 103). Da queste premesse prendono il via diverse linee di sviluppo politico: una è quella che si rifà al nazionalsocialismo e ad altre forme di fascismo di movimento e di militanza legionaria come le già ricordate Guardie di Ferro rumene o le Croci Frecciate ungheresi, perché ritenuto più capace di fornire una visione globale ed organica del mondo, il primo, e un modello valido di militanza, di fatto molto simile a quello evoliano del “soldato politico”, le seconde. Si tratta di idee che sostanziano le posizioni radicalmente eversive di Franco Freda, che con il suo “La disintegrazione del sistema”, ricorda Vercelli, diviene una figura carismatica di primissimo piano per il mondo dell’ultra destra italiana. Il passaggio successivo è quello della costituzione di nuove formazioni eversive, che prendano il posto delle ormai tramontate formazioni storiche (Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), che rompano definitivamente – almeno nelle dichiarazioni – con l’MSI, considerato ormai come un partito di delatori, rinnegati, traditori compromessi col sistema che dovrebbero combattere e infine che, anche nel tentativo di competere con la forza superiore delle organizzazioni della lotta armata comunista, intraprendano la via dell’eversione terroristica, da interpretare nel modo più violento e duro possibile. Da queste premesse nascono sia Terza Posizione, di Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri, sia i Nuclei Armati Rivoluzionari, gruppo eversivo esclusivamente terroristico che in Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti trova l’esponente più rappresentativo della sua essenza criminale.

Sul piano ideologico Terza posizione ripropone la prospettiva “nazionalrivoluzionaria” e mescola idee vecchie e nuove del fascismo e del neofascismo italiani: allo “Stato organico” come superamento dei conflitti di classe, al fascismo come “terza via” e al “socialismo nazionale”, alla difesa della “tradizione”, al ruolo politico delle “avanguardie consapevoli”, si aggiungono la teoria dell’Europa Nazione, il rifiuto dell’atlantismo missino, il coinvolgimento popolare nella lotta rivoluzionaria, l’attenzione per le marginalità sociali e per il mondo giovanile e di conseguenza il radicamento nel territorio e nei quartieri con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione e protesta, il sostegno alle lotte di liberazione nazionale, ma in quanto interpretate come movimenti di salvaguardia delle tradizioni dei popoli. Delle due anime dell’organizzazione, una – precisa Vercelli – più spontaneista e una invece (quella di Fiore e Adinolfi) che ritiene «indispensabile dotarsi di una filiera gerarchica e paramilitare per garantire la continuità organizzativa» (p. 131), è la seconda a prevalere nettamente, mentre lo spontaneismo armato e violento trova nei NAR le condizioni ideologiche e pratiche per la sua realizzazione compiuta. «I NAR, quindi, si svilupparono da subito, di contro all’esperienza di Terza Posizione, come una struttura aperta e acefala, una sorta di sigla-brand sotto la quale potevano riconoscersi soggetti anche molto diversi, ma accomunati dall’identità fascista e dalla disposizione al ricorso alle armi» (p. 134). Fioravanti, la Mambro e tutti gli altri si rifanno, aggiornandola ed adattandola al contesto degli anni in cui i NAR sono operativi (1977-1982), alla tradizionale idea fascista del primato della prassi sulla riflessione, dell’azione che fonda e giustifica se stessa, della violenza come mezzo di lotta politica non solo lecito, ma assolutamente necessario, in quanto atto che permette l’affermazione della forza guerriera degli individui superiori e che pertanto ristabilisce il naturale ordine della disuguaglianza. L’esaltazione della violenza, del ricorso necessario alle armi, della spontaneità autogiustificante dell’atto di forza, da un lato e la debolezza e la labilità ideologiche, dall’altro, conducono i NAR ad intrattenere relazioni sempre più strette con organizzazioni della malavita comune, come la banda della Magliana o la mala del Brenta. Insomma, spiega Vercelli, l’esperienza politico-terroristica dei NAR si sviluppa in direzione di un nichilismo individualistico destinato a concretizzarsi in un bagno di sangue privo di alcun senso, cioè del tutto fine a se stesso. E ancora una volta sono suggestioni evoliane, quelle dell’ultima fase della riflessione del filosofo fascista, che impregnano e supportano l’agire della più violenta tra le formazioni dell’estrema destra eversiva italiana.

In quegli stessi anni, nell’area dell’estrema destra legale e in collegamento con il partito, si sviluppano però anche altre iniziative, che, di fronte alle difficoltà di conseguire concreti risultati politici, spostano l’asse della loro azione sul piano sociale e soprattutto culturale, cioè “metapolitico”, secondo l’espressione usata a destra e in questo contesto rientrano le esperienze dei tre Campi Hobbit (1977, 1978, 1980), che per la prima volta promuovono il fenomeno della musica e dei gruppi musicali di destra, oppure di esperienze e sperimentazioni artistiche, grafiche e comunicative che possano rappresentare forme nuove di aggregazione e mobilitazione per i giovani dell’estrema destra, stanchi delle modalità tradizionali missine e che in qualche modo possano emulare le forme aggregative dell’estrema sinistra, per competere con esse.

Con il passaggio al decennio successivo, in un quadro complessivo di riflusso e declino generalizzato della partecipazione e della militanza politiche, è proprio il piano “metapolitico” quello su cui a destra si lavora con più convinzione, attraverso un consistente numero di iniziative editoriali, spesso di bassissima tiratura e di effimera durata, ma che dimostrano in ogni caso una certa vivacità dell’area politica del neofascismo italiano, che si avvale anche delle idee della cosiddetta Nuova Destra di Alain de Benoist, che dalla Francia approdano in Italia. Il bagaglio ideologico rimane sostanzialmente sempre lo stesso degli anni e dei decenni precedenti, ma si lavora soprattutto sul piano “metapolitico” e “culturale”, anche attraverso il filtro della letteratura e dell’immaginario del genere fantasy e con il fine ultimo di conquistare una posizione di “egemonia culturale”, «intesa come capacità di influenzare in maniera decisiva l’opinione pubblica, orientandone gli atteggiamenti, le preferenze e, in immediato riflesso, le scelte» (p. 156).

L’ultima parte dell’interessante saggio di Vercelli è dedicata al periodo 1992-2019, dalla fine della prima Repubblica ad oggi, in cui va profilandosi lo scenario di un nuovo neofascismo, con la diffusione innanzi tutto del fenomeno dei gruppi skinhead (Azione Skinhead, Circolo Ideogramma, Veneto Fronte Skinhead, ecc) e con la loro capacità di infiltrazione delle tifoserie calcistiche ultras e poi con l’attivismo via via crescente delle due formazioni politiche più dinamiche in questi anni: Forza Nuova e Casa Pound Italia. La prima, nota Vercelli, è più evidentemente legata all’ex militanza e all’esperienza politica di Terza Posizione di Fiore ed Adinolfi e mantiene un’impostazione ideologica decisamente più dogmatica ed ortodossa che si incentra su tradizionalismo, vetero cattolicesimo, antisemitismo, omofobia, identitarismo, sovranismo, avversione per lo straniero e rifiuto del meticciato, antimondialismo, anticapitalismo, ma da intendersi non tanto come messa in discussione delle strutture del modo di produzione capitalistico, quanto piuttosto come avversione nei confronti del sistema bancario e finanziario internazionale (associato al sionismo). La seconda, seppur il suo armamentario ideologico non si discosti poi più di tanto e in modo sostanziale da quello di Forza Nuova, si propone come una formazione politica meno rigida e dogmatica, più capace di muoversi sul piano “metapolitico” e su quello del radicamento nel territorio e nei quartieri, con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione sociale. Nonostante che sul piano elettorale nazionale, entrambe le formazioni politiche abbiano raccolto esiti del tutto irrilevanti (diverso è il discorso riguardante le aree tradizionalmente di maggior radicamento), anche grazie alle recenti e sempre più frequenti relazioni di Casa Pound con la Lega di Salvini, gli obiettivi dei neofascisti di ottenere una posizione di maggiore visibilità e rilevanza e di “occupare” un’area dell’opinione pubblica e dell’immaginario diffuso con alcune delle idee fondamentali dell’estrema destra, sembrano purtroppo essere stati conseguiti. Ma questo è un discorso che merita maggiori approfondimenti e più accurate analisi, essendo una pagina ancora aperta e in fieri della storia “nera” italiana che dura esattamente da un secolo.

]]>
Fratture https://www.carmillaonline.com/2019/05/24/fratture/ Thu, 23 May 2019 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52682 di Jack Orlando

Piedi che scalciano e calpestano furiosamente pane, bocche rabbiose che riversano insulti su di una madre, proclami al vetriolo contro i nemici dell’Italia, le lacrime di un’attempata maestra allontanata dal posto di lavoro. Le immagini producono sensazione, pathos, immedesimazione, danno il sapore alla storia e alla realtà che circondano l’osservatore ben più di qualsiasi analisi sociopolitica. È per questo che se ne nutrono i media e sempre di più gli anchormen della reality-politik all’italiana: prendere immagini, modellarle come cera, utilizzarle a proprio piacimento, confezionare narrazioni belle e pronte all’uso [...]]]> di Jack Orlando

Piedi che scalciano e calpestano furiosamente pane, bocche rabbiose che riversano insulti su di una madre, proclami al vetriolo contro i nemici dell’Italia, le lacrime di un’attempata maestra allontanata dal posto di lavoro.
Le immagini producono sensazione, pathos, immedesimazione, danno il sapore alla storia e alla realtà che circondano l’osservatore ben più di qualsiasi analisi sociopolitica. È per questo che se ne nutrono i media e sempre di più gli anchormen della reality-politik all’italiana: prendere immagini, modellarle come cera, utilizzarle a proprio piacimento, confezionare narrazioni belle e pronte all’uso da gettare all’opinione pubblica per agitare fantasmi e babau che poi rientrino nel cappello del prestigiatore così come ne sono usciti.
Ma può accadere che i fantasmi escano dallo schermo, si riproducano in un proliferare incontrollato di immagini stereotipate che finiscano poi per narrarsi da sole, per creare da sé la loro realtà fuori dalle mani degli apprendisti stregoni.
Hanno evocato lo spettro della guerra tra poveri, quello del neofascismo, quello dei nazionalismi che schiumano livore ed ora che gli spettri sono stati evocati e vagano tra i vivi, non si sa più come gestirli. Lo specchio della realtà a forza di essere attraversato da immagini frenetiche ha finito per non reggere e inizia a mostrare le sue crepe. Fratture che vanno allargandosi e al cui interno già si scorge il futuro oltre lo specchio.

Le grottesche scene di Casal Bruciato, a Roma, con una dozzina di neonazisti e qualche accolito del luogo che per due giorni tengono ostaggio una famiglia rom intimandogli di abbandonare la casa, hanno campeggiato sui giornali e sulle bocche da talk show per un paio di settimane buone, ma per lo più ci si è limitati a scandalizzarsi davanti ad un subumano che minaccia di stupro una madre di famiglia con una bimba in braccio.
Niente di così speciale, tra l’altro, visto che sono le parole di neofascista: un uomo che, non solo appartiene ad un partito non nuovo alla violenza sessuale, ma che difende le antiche tradizioni del popolo italico, non da ultima quella dello stupro e della dominazione maschile che ha sempre rappresentato uno dei capisaldi della vita sociale del Bel Paese.

Cos’è invece che si è mosso attorno a questo banalissimo coglione? CasaPound, i neofascisti in generale, non sono nuovi ad avventure simili da dare in pasto ai media, specialmente sotto elezioni; è una tattica assodata ed ormai anche un po’ scontata. Osare, fare scandalo e spingere l’asticella del discorso sempre un po’ più a destra; fare notizia per campeggiare sui quotidiani nazionali e dipingersi come grande forza politica, bucare lo schermo per raggiungere nuovi affiliati con le stesse tristi passioni, provocare scompiglio per tastare il polso della situazione e sondare i margini di manovra e soprattutto, apparire, ergersi al centro delle cronache per narrare la propria verità, per dimostrare la propria esistenza e calamitare tutto l’odio e il rancore che albergano nelle metropoli. Creare un precedente che renda tangibile, concreto, ripetibile il messaggio dei figli del nero.

Per quasi 72 ore i camerati hanno stazionato sotto le case popolari minacciando di sfrattare, se non di bruciarla viva, un’intera famiglia di etnia rom, rea di aver ottenuto l’assegnazione di una casa popolare. Persone accusate banalmente di usufruire di un lecito diritto hanno subito una pressione psicologica dura da gestire e dolorosa da metabolizzare nel tempo.
Di primo acchito verrebbe spontaneo domandarsi: ma se non vanno bene nei campi, non vanno bene nelle case, allora bisognerebbe rispolverare le vecchie soluzioni di hitleriana memoria per gli zingari? Ancora non lo si dice apertamente, ma di questo passo, a spingere sempre più a destra la percezione politica e culturale del paese non è lontano il tempo in cui si potrà dire senza timore e con fare guascone che la soluzione sarebbe alloggiare i rom nelle vasche di un saponificio.

Per 72 ore questo teatrino squallido è andato avanti con una nutrita scorta di polizia: un cordone di celere che isolava le tartarughe frecciate dal più folto presidio antifascista e si rendeva spudoratamente connivente di una serie di reati che spaziano dall’istigazione all’odio razziale alla violenza privata, dalle minacce allo stalking. A lasciare perplessi non è tanto la gestione politica della piazza quanto, proprio, quella giuridica.
Ora, non che ci interessi di fare i legalitari, ma è bene osservare e prendere atto delle forme che sta assumendo il rapporto tra il neofascismo ed il potere politico che le forze dell’ordine rappresentano.
Un connubio sempre più stretto ed esplicito in virtù della retorica ben più spinta del sovranismo rispetto al vedo-non-vedo della socialdemocrazia.

Lo si è visto, in maniera più sottile, anche alla Sapienza di Roma dove Roberto Fiore e il suo partito in ansia da competizione hanno voluto far sapere al mondo che esistono ancora, dichiarando platealmente che avrebbero marciato sull’ateneo per impedire un dibattito con quel Nemico d’Italia che è Mimmo Lucano.
Lasciando da parte la magra figura della marcetta dei trenta lombrosiani figuri su di uno spartitraffico a parlare ad un pubblico di camionette, bisogna notare anche qui il sostanziale silenzio accondiscendente a questa manifestazione da buona parte del mondo politico ed accademico, infine trascinato per le orecchie dalla mobilitazione di studenti e professori e costretto a mettersi di traverso fino a far vietare il corteo fascista che, comunque, ha bonariamente sfilato un po’ nascosto e a disagio.
Mesi fa, nella tragica occasione della morte di una ragazza, sempre Forza Nuova aveva indetto un corteo per entrare nel quartiere San Lorenzo a sventolare i tricolori dove prima c’era lo straccio rosso. Una provocazione pesante rilanciata, stavolta, sul terreno di una università dal passato marcatamente antifascista. Provocazione che, come al solito, trova nella polizia il garante (poco garantista però) di quel democraticissimo diritto di consentire a chiunque di manifestare il suo pensiero.
Il vento soffia in loro favore, è il momento buono per osare, per lanciarsi nella mischia, per imprimere a fuoco le loro parole d’ordine ed allargare la loro egemonia.

È da notare, oltre gli equilibri di potere del fronte reazionario, la risposta a queste sortite che è stata prodotta dai movimenti: la reattività alle mobilitazioni neofasciste indica che il livello d’attenzione si è finalmente alzato ed è in grado di produrre controffensive sui territori che coinvolgono soggettività militanti assai diverse e altrimenti inconciliabili.
Certo è che nei quartieri di periferia l’iniziativa e la centralità dell’azione è stata in mano a quelle strutture che del radicamento e dell’azione quotidiana sui territori basano la loro strategia; senza di queste il terreno sarebbe stato sgombro o per lo meno assai scivoloso. L’internità costante ai soggetti di riferimento è uno dei nodi essenziali ma anche, ci si conceda, scontati.
La mobilitazione della Sapienza ha invece mostrato aspetti più interessanti: due migliaia di persone hanno dato vita ad un corteo che in quell’ateneo non si vedeva ormai da anni e che presentava al suo interno una composizione estremamente eterogenea: al corpo militante e dell’associazionismo si è affiancato un numero considerevole di docenti e soprattutto studenti.

È stridente la differenza tra questa partecipazione, probabilmente facilitata dalla figura di Lucano, e la diserzione generale dei momenti di lotta o di socialità autonoma entro lo spazio universitario, ma non solo. Come stridente era anche la differenza di postura tra chi, ormai professionalizzato al rituale della piazza, attraversa il corteo con un fare distaccato e quasi indolente, conscio dell’obbiettivo di impedire la piazza fascista, e la maggior parte degli studenti che vive invece la dimensione di una manifestazione allegra, pacifica, colorata e un po’ ingenua di chi difende la cultura dall’ignoranza, la democrazia dal fascismo.
È evidente allora tanto lo spazio vuoto che il milieu antagonista ha lasciato tra sé e i suoi referenti negli ultimi tempi, quanto il fatto che questa terra di nessuno può essere occupata oggi proprio grazie all’antifascismo.

A sondare le piazze che si sono prodotte in questo uggioso maggio c’è da notare come, senza ombra di dubbio, la marea nera, vuoi reale o pompata dai media, così come le imprese del ministro degli interni, abbiano prodotto una frattura nel tessuto sociale, dividendo tra chi è ormai pronto allo scontro di civiltà (o di barbarie) e chi è legato alle sue tradizioni democratiche (si fa per dire). Ma dal nostro lato della barricata c’è ancora, evidentemente, più materiale di quanto ci si aspettasse.
Se i camerati si sentono forti è in virtù anche della posizione che ricoprono nella strategia salviniana. Ma quest’ultima, finora sembrata uno schiacciasassi in grado di passare agilmente sopra qualsiasi impasse, ha mostrato in questa campagna elettorale il suo essere una tigre di carta.
Salvini è una figurina da social network, poco più che un meme, ed è in quella dimensione che funziona e sa far lievitare i consensi; sul terreno materiale la realtà è invece assai diversa.

Ce lo dicono il comizio sul balcone di Forlì sommerso di fischi e insulti, i pochi contestatori che lo mandano nel pallone a Settimo Torinese, le sue piazze dall’uditorio micragnoso surclassate clamorosamente dalle controinziative antifasciste, la battaglia degli striscioni che infuria sui balconi di mezza Italia, quella dei selfie combattuta a sfottò e baci saffici, Firenze e Napoli che provano a entrare a spinta nella piazza.
È evidente che, uscita dal modo fatato dei social, la punta di diamante del revanscismo italiano ha fatto male i suoi calcoli e si è trovata di fronte più contestatori che followers (d’altronde un follower mette i like ai post, mica scende in piazza).
Ed in mezzo a quelle contestazioni, sempre noi, i cattivi, gli antagonisti, gli autonomi dei centri sociali che tutto l’arco politico vorrebbe vedere estinti una volta per tutte.
Eppure ancora qui, ancora in grado di stare in piazza a seminare zizzania nonostante le ripetute sconfitte, ancora in grado di alzare, almeno un po’, il livello di conflitto.

Tuttavia, nonostante sia questa l’anima dietro le mobilitazioni, il risultato rischia di essere incassato da quella che un tempo sarebbe stata definita, fin troppo benevolmente, socialdemocrazia e dalla sua battaglia di consensi. Ad esclusione di un abbronzato Fassina, di qualche rappresentante dei partigiani e forse di qualche altra anima bella, nessun parlamentare, consigliere, militante di base o altro del PD o della Sinistra si è mai visto in piazza, pena l’esserne cacciato in malo modo; ma è sempre loro l’ultima parola al termine della giornata. Fanno eccezione, notare, le giornate in cui sono volate torce, transenne e manganelli.

Ed è proprio su quest’egemonia del discorso che si apre l’altra frattura, quella essenziale. La socialdemocrazia, anche una volta dismessi i panni del comunismo togliattiano e berlingueriano e indossati quelli delle riforme neo-liberiste, è una vecchia volpe che spinge l’elettore dritto dritto nella sua tana mostrandogli le fauci del lupo sovranista.
Senza stare a rivangare tutti i cadaveri che si porta appresso questa meschina creatura basti, ad esempio, guardare come si strappano le vesti per la maestra sospesa dal scuola per aver paragonato il Decreto Sicurezza alle Leggi Razziali, mentre solo due anni fa invocavano giustizia esemplare per quell’altra maestra che, a Torino, aveva insultato i poliziotti che proteggevano CasaPound caricando selvaggiamente e a più riprese il corteo antifascista, maestra che ha poi perso definitivamente la sua professione per il sollazzo dei salotti bene.
O magari si può parlare di tutti gli striscioni sequestrati, degli appartamenti perquisiti e delle botte gratuite nelle piazze quando parlava Renzi.
Ripetiamolo ancora, qualora non bastasse, fascismo e democrazia sono le due facce della stessa civiltà del dominio, le due teste della medesima Idra.

Allora non ci basta cacciare il PD dalle piazze per toglierci questo vampiro di dosso, che mina qualsiasi possibilità di allargare le fratture della società e vuole far passare l’idea che l’opposizione attiva si faccia a colpi di selfie e umorismo e pace sociale.
È necessario adesso imporre un nuovo ordine del discorso, una differente drammaturgia della piazza.
Bisogna uscire dal campo della democrazia, delle libertà civili e attraversare quello della radicalità rivoluzionaria. Se la mobilitazione antifascista oggi è in grado di rivitalizzare piazze dormienti allora si sia antifa fino in fondo!
Se alla Sapienza gli studenti mostravano una postura simile a quella dei primi licei durante l’onda, vuol dire che si è di fronte ad una tabula rasa, un foglio bianco su cui è possibile disegnare il volto della nuova militanza, quella militanza che viene, figlia del secondo millennio dei nazionalismi e della crisi permanente, della democrazia autoritaria e dell’Occidente che muore.
Tocca tracciare il profilo della nuova resistenza a questo presente iniziando a sfruttare ogni momento in cui è dato a quest’entità di mostrarsi.

Sottrarre l’antifascismo alla “sinistra” e scagliarlo nella direzione del conflitto sociale e della lotta di classe ci impone, ora che i riflettori sono puntati su queste piazze, di attraversarle e dare in pasto alle telecamere qualcosa di indigesto e potente che non possano ignorare.
La narrazione mainstream antifascista è affamata, per ora, di studenti che cantino sorridenti Bella Ciao, diamo loro gli studenti, ma che cantano con un fazzoletto rosso a coprire il volto, che camminano tra il fumo delle torce che fa rabbrividire la buona borghesia pensando agli ultras, che impattano, laddove possibile, sugli scudi dei tutori dell’ordine.

Devono parlare di noi per continuare a esistere, allora che ne parlino, ma le parole le stabiliamo noi!
Muoversi in una piazza con calcolata radicalità e lucida forza per inquinare la narrazione nemica ed iniziare, anche da qui, ad imporre un immaginario irriducibile a questa democrazia.
Tastare palmo a palmo, ogni volta, fin dove può spingersi il nostro agire e quanto sia possibile acutizzare le coscienze. Non bisogna pensare di risolvere il tutto in una nuova estetica del conflitto in cui ci si mette, a favore di telecamera, a rappresentarsi come cavalieri dell’apocalisse quando dietro, assieme al fumo dei lacrimogeni, c’è solo la fumosità del movimento. La telecamera è uno strumento del nemico e non ci si può regalare alle sue fauci ma si deve torcere quest’arma a nostro vantaggio. La nostra è una tradizione partigiana e i partigiani combattono sempre con le armi prese al nemico.

Questa drammaturgia della piazza è un’arte da affinare non perché è in piazza che si vince, ma perché è ciò che ci consente, nel deserto che attraversiamo, di imprimere una percezione del reale nelle menti di chi osserva o attraversa dati momenti, testimoniare una presenza che è altra e forte a dispetto di quanto si dica; inoculare un dato immaginario che faccia presa e sappia plasmare una potenziale soggettività militante. Questo è però solo un piccolo tassello, la reale posta in gioco si trova sul livello dell’organizzazione, della capacità di produrre conflitto e autonomia, dell’inchiesta militante; su quel livello, insomma, che è il lavoro grigio e quotidiano della rivoluzione e che deve oggi ritrovare slancio, passione, attrattiva.
Ogni passo che viene mosso deve contenere in sé la prassi, la teoria, la strategia, la propaganda, l’avanzamento della coscienza, la ridefinizione dei rapporti di forza.
Non dobbiamo combattere una guerra delle immagini, ma dobbiamo sapere che l’immagine produce percezione e cultura. Ed è sul terreno della percezione che si combatte la battaglia preliminare, quella che sottende al grande scontro.
Non c’è politica rivoluzionaria senza cultura della rivoluzione e non c’è cultura rivoluzionaria che non provenga dal livore delle strade.

]]>
Fascismo manifesto https://www.carmillaonline.com/2017/09/06/40484/ Tue, 05 Sep 2017 22:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40484 di Armando Lancellotti

Era il 1944 quando il Nucleo di Propaganda del Minculpop, che gestiva la progettazione e la produzione di volantini e manifesti, ne realizzò uno a colori – di 34.5 x 24.5 cm, con lo slogan Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia – che in questi giorni è assurto agli onori delle cronache perché pedissequamente riproposto da Forza Nuova, che in tal modo ha facilmente centrato almeno un paio di obiettivi: far parlare di sé e corroborare il già forte stereotipo che identifica stranieri-migranti e stupratori.

Di certo vi è una buona dose di [...]]]> di Armando Lancellotti

Era il 1944 quando il Nucleo di Propaganda del Minculpop, che gestiva la progettazione e la produzione di volantini e manifesti, ne realizzò uno a colori – di 34.5 x 24.5 cm, con lo slogan Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia – che in questi giorni è assurto agli onori delle cronache perché pedissequamente riproposto da Forza Nuova, che in tal modo ha facilmente centrato almeno un paio di obiettivi: far parlare di sé e corroborare il già forte stereotipo che identifica stranieri-migranti e stupratori.

Di certo vi è una buona dose di citazionismo nostalgico decisamente rétro nella scelta di riesumare un manifesto dalla grafica e dall’estetica superate; nostalgismo indirizzato a quei “camerati” che nei propri incontrollabili vagheggiamenti onirici desidererebbero forse più di ogni altra cosa un ritorno ad un ormai lontano passato in cui si poteva – o meglio, si doveva – discriminare, arrestare e consegnare gli ebrei; internare e deportare i “barbari slavi” nei Balcani; approfittare delle “faccette nere”, trasformate in “sciarmutte” e “madame”, nelle colonie africane dai soldati italiani.

Ma se citazioni repubblichine e nostalgie “in camicia nera” si rivolgono ad un destinatario tutto sommato politicamente e quantitativamente ridotto, il “contenuto” del messaggio del manifesto del ’44 riproposto dai fascisti di oggi è in grado di raggiungere, invece, una platea ben più allargata e pericolosamente in continua, rapida ed esponenziale crescita: un destinatario che del Minculpop del Ministro Ferdinando Mezzasoma e del capo di gabinetto Giorgio Almirante potrebbe anche sapere poco o nulla, così come della storia della Rsi, ma che sempre più si sta convincendo che sia in atto una “invasione” del paese e che ci si debba mobilitare e difendere dal pericolo di una qualche “conquista allogena”, o dalla “sottomissione” agli “stranieri”, se non addirittura da una fantomatica ed apocalittica “sostituzione etnica”.

Non c’è da stupirsi, allora, che i militanti di Forza Nuova e del neofascismo italiano in generale abbiano come riferimenti ideologici il nazionalismo, lo sciovinismo, il razzismo, il maschilismo machista e paternalista (difendere madri, mogli, sorelle e figlie è lavoro da uomo risoluto e forte, avvezzo all’uso del manganello, insomma da fascista) che traboccano da un manifesto di propaganda di settant’anni fa e che costituiscono l’armamentario ideale di ogni fascismo, passato e presente; c’è da preoccuparsi piuttosto che quelle idee bislacche, quelle sbracate deduzioni ed infami associazioni ormai circolino diffusamente, al punto da costituire quasi un automatismo mentale irriflesso.

I curatori del catalogo della mostra La menzogna della razza (Grafis edizioni, Bologna, 1994) scrivevano: «chi ha progettato il manifesto riteneva che la raffigurazione dello stupro avrebbe guadagnato in atrocità proprio sottolineando la diversità etnica di chi lo perpetra. Così il soldato nero ha sguardo lubrico, bocca e labbra ingigantite, mani ad artiglio, è tutto proteso nella brama di possesso simboleggiata dalla vampa di fuoco che sembra emanare dal suo corpo, materializzazione dello smodato desiderio erotico che il pregiudizio razzista ha spesso attribuito alle genti di colore. La donna bianca viene rappresentata come il suo opposto speculare: il volto atteggiato a severo sdegno ma composto nella sua dignità ferita, la veste candida della purezza, il corpo disperatamente teso nel virtuoso sforzo della repulsione» (p. 202).

Certo, allora, nel 1944, il pericolo era individuato nel soldato americano di colore ed “invasore”, ma basterebbe sostituire la camicia verde militare e il cappello tipo ranger con una moderna felpa con cappuccio ed ogni eventuale residuo ostacolo all’innesco dell’associazione straniero-nero-migrante = stupratore di donna-bianca-italiana verrebbe agevolmente superato.

E a proposito di automatismi irriflessi o parole senza pensiero, non è stata forse la Presidente del Friuli Venezia Giulia ed esponente di primo piano del Partito Democratico Debora Serracchiani a sostenere a maggio scorso che «la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese» (il manifesto, 14 maggio 2107) ? E come se non fosse bastato, per parare le critiche che le sono piovute addosso, la stessa Serracchiani ha maldestramente affermato di avere detto semplicemente «cose di buon senso».

Di certo non si tratta di “buon senso”, di quel bon sens che Cartesio definiva come la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso e che – un po’ troppo ottimisticamente – riteneva essere la cosa nel mondo meglio ripartita; ma forse si tratta di senso comune, di un tanto generalizzato e pervasivo quanto acritico e stereotipato modo di giudicare senza pensare. Un senso comune italiano di inizio XXI secolo di cui rigurgiti razzisti, velleità nazionalistiche e sovraniste, rivendicazioni identitarie pseudoculturali-religiose, innescate da crisi economica, pauperizzazione crescente, disorientamento sociale e politico, costituiscono una parte essenziale.

Allora forse non ci si dovrà stupire se tra qualche settimana o qualche mese Forza Nuova et similia ripescheranno dagli archivi della memoria repubblichina altre immagini o manifesti, come quest’altro, che si presterebbe precisamente a fare da supporto al teorema della sottomissione culturale-religiosa, dopo un’opportuna e semplice operazione di maquillage, per la quale ci si potrebbe rivolgere agli stessi che un anno fa hanno preparato per il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, il manifesto propagandistico per il Fertility Day.
Nel manifesto di 100 x 70 cm disegnato da Gino Boccasile – Un soldato U.S.A. nero depreda una chiesa – «il soldato afro-americano, i cui tratti vengono contorti dal disegnatore in un grottesco ghigno satanico ed insieme subumano, diventa qui saccheggiatore di chiese, sacrilego nemico della religione nel nome del guadagno. È accovacciato in un angolo del manifesto, che così viene tragicamente dominato dalla figura di questo Cristo biondo e arianizzato, più corpo rattrappito che statua di culto, quasi ad incarnare una “razza bianca” pura ed innocente abbattuta dagli “inferiori”» (La menzogna della razza, cit, p. 202).
Si pensi di svestire l’uomo di colore di uniforme ed elmetto statunitensi e di fargli indossare abiti che lo connotino immediatamente come musulmano e il manifesto è pronto per il riutilizzo, magari in occasione di una delle sempre più frequenti mobilitazioni di cittadini contro il trasferimento e l’insediamento di migranti.

]]>