fondamentalismo islamico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il dialogo rivoluzionario tra i molti mondi che insorgono https://www.carmillaonline.com/2021/10/01/il-dialogo-rivoluzionario-tra-i-molti-mondi-che-insorgono/ Fri, 01 Oct 2021 03:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68281 di Fabio Ciabatti

Massimiliano Tomba, Insurgent Universality: An Alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, New York, 2019, p. 304, € 24,21

Anche di fronte a una delle sue peggiori débâcle, la precipitosa fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti, l’Occidente non ha rinunciato a propagandare l’idea della sua superiorità. A tal fine i media mainstream di mezzo mondo hanno  aperto all’unisono i rubinetti delle lacrime, mostrando improvvisa e soverchiante preoccupazione per la sorte dei poveri afghani e, soprattutto, delle indifese afghane vittime della barbarie fondamentalista, surrettiziamente presentata come unica reale alternativa al dominio occidentale. [...]]]> di Fabio Ciabatti

Massimiliano Tomba, Insurgent Universality: An Alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, New York, 2019, p. 304, € 24,21

Anche di fronte a una delle sue peggiori débâcle, la precipitosa fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti, l’Occidente non ha rinunciato a propagandare l’idea della sua superiorità. A tal fine i media mainstream di mezzo mondo hanno  aperto all’unisono i rubinetti delle lacrime, mostrando improvvisa e soverchiante preoccupazione per la sorte dei poveri afghani e, soprattutto, delle indifese afghane vittime della barbarie fondamentalista, surrettiziamente presentata come unica reale alternativa al dominio occidentale. Peccato che, in quelle terre, la malapianta del fondamentalismo, ben lungi dall’essere il frutto autoctono di un preteso sottosviluppo, fu coltivata proprio dagli Stati Uniti, con l’aiuto dei loro alleati sauditi e pakistani, per infestare il cortile di casa del fu impero sovietico. La realtà dei fatti, però, deve essere rimossa dall’ideologia dominante che deve trasformare una prova contraria in una sorta di prova per assurdo per confermare l’idea di una “storia universale” destinata a viaggiare in un’unica direzione possibile, la modernità capitalistica. Come dimostra il caso afghano, infatti, l’unica alternativa possibile a questo percorso è un’assurda catastrofe.

L’idea di una storia universale, come ci spiega Massimiliano Tomba nel suo libro Insurgent universality. An alternative legacy of modernity (testo che ha avuto una nuova pubblicazione nel 2021 in formato paperback), ha una connotazione eminentemente eurocentrica dal momento che finisce per svalutare ogni possibile traiettoria storica qualitativamente differente da quella percorsa dalla modernità occidentale. Ogni forma sociale non statuale o non capitalistica diventa semplicemente pre-statuale e pre-capitalistica, destinata perciò a scomparire in quanto forma arretrata rispetto alla modernità occidentale.
Non sorprende dunque l’esigenza di Provincializzare l’Europa, come recita il titolo di un celebre libro di Dipesh Chakrabarty, per consentire ai paesi del Sud globale di sperimentare forme autonome di sviluppo. Senonché questa linea di pensiero, sostiene Tomba, ha finito per essenzializzare l’Occidente, ignorando, al pari dell’ideologia dominante, che nel suo ambito si sono espresse ripetutamente traiettorie storiche alternative per quanto fugaci e violentemente represse. Riportare al centro dell’attenzione queste possibili biforcazioni del tempo storico è il compito che si pone l’autore prendendo in considerazione quattro frangenti storici: la rivoluzione francese del 1789, la comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e l’insurrezione zapatista del 1994 in Messico.

Concentriamoci per ora sulla storia europea. I tre episodi rivoluzionari mostrano alcuni elementi comuni. In opposizione alla centralizzazione statuale del potere che caratterizza la traiettoria storica dominante, i sanculotti, i comunardi parigini e i rivoluzionari russi hanno sostenuto e praticato una concezione dell’organizzazione sociale che prevedeva una incomprimibile pluralità di poteri: club, sezioni cittadine, soviet ecc. Una simile pratica portava con sé l’impossibilità di comprimere il conflitto mantenendo sempre aperta la possibilità di imprevisti sviluppi.
L’universalità insorgente è costituita da soggettività collettive che praticano direttamente i propri diritti e le proprie libertà sperimentando nuove forme di organizzazione sociale e politica. Lo stato moderno, invece, si afferma come potere centralizzato perché prevede un’assenza di organizzazioni intermedie. Esso dunque governa su una massa di individui atomizzati, trattati sempre come potenziali vittime che, per esercitare diritti e libertà, devono essere tutelate e limitate dal potere statale.
L’universalità insorgente non circoscrive a priori il suo raggio d’azione perché ha una natura intrinsecamente espansiva: si pensi alla repubblica universale presagita durante la rivoluzione francese e ripresa dalla Comune, o alla “Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato” del 1918 che non fa appello a un’identità nazionale o etnica predeterminata, ma a un soggetto che vuole abolire ciò che definisce la sua stessa identità, il rapporto sociale di sfruttamento. Il potere moderno, invece, per definirsi deve chiamare in causa un’alterità per poi escluderla. La cittadinanza moderna lascia fuori per necessità chi non appartiene alla nazione.
Durante i tre episodi rivoluzionari vengono messi in discussione i rapporti di proprietà capitalistici anche quando, come nel caso dei due eventi francesi, non si abbraccia direttamente la pratica dell’espropriazione dei più ricchi. Nelle società moderne la proprietà privata non è soggetta, come in passato, a un insieme articolato di limiti e obblighi, ma diventa diritto assoluto ed esclusivo di disporre dei propri beni. Nel corso degli avvenimenti rivoluzionari viene invece posto il problema di quanto la proprietà privata sia compatibile con la democrazia. Ne consegue la necessità di riorganizzare la fabbrica sociale nel campo della produzione e della riproduzione attraverso la riproposizione aggiornata di concetti come quelli di dominium utile o di possesso/utilizzo come distinto dalla proprietà. Emerge, in sintesi, un concetto di socializzazione dei mezzi di produzione che è cosa diversa da quello di statalizzazione perché si incentra sulla restituzione del controllo dei mezzi di produzione, in primo luogo la terra, nelle mani delle collettività organizzate.

Un ulteriore aspetto, centrale nell’argomentazione di Tomba, è quello dei diversi strati temporali che si intrecciano nel corso degli eventi rivoluzionari. Le comunità insorgenti fanno frequentemente ricorso ad arcaismi, cioè tradizioni, memorie e istituti del passato, come guida per il presente. Per esempio l’istituzione medievale del mandato imperativo riemerge nelle esperienze dei sanculotti, dei comunardi e dei Soviet. Tomba precisa che “non si tratta di mettere in contrasto la tradizionale temporalità delle forme comunitarie con quella dello stato nazione e del modo di produzione capitalistico. Questa opposizione rimane astratta o romantica”.1 La tensione generata dall’attrito tra differenti strati temporali genera infatti nuove e inedite configurazioni di un preesistente materiale giuridico, politico ed economico. Il passato presenta se stesso come un arsenale di possibili futuri che possono riemergere perché i soggetti insorgenti rendono attuale ciò che sarebbe potuto essere, ma è stato represso.
Questa repressione può essere attuata dalle classi dominanti, come nel caso della Comune, ma anche da alcune componenti delle forze rivoluzionarie: i giacobini con il Terrore mettono la pietra tombale sull’“eccesso democratico” rappresentato dai sanculotti; i bolscevichi intraprendono una “guerra contro il tempo” per superare l’”arretratezza” russa facendosi portatori di una centralizzazione del potere nelle mani dello stato e di una taylorizzazione delle forze produttive a discapito delle forme di autogoverno contadine e della pluralità dei poteri rappresentata dai soviet.

Insurgent universality è un libro originale e ambizioso. L’affresco storico-filosofico di Massimiliano Tomba merita di essere approfondito da tutti coloro che non vogliono rassegnarsi a un presente spacciato come unico esito possibile della storia universale ma, nello stesso tempo, devono fare i conti con le macerie di quella che è stata per molto tempo la tradizione rivoluzionaria dominante, finendo per apparire come l’unica possibile. Per questo può essere utile interloquire idealmente con l’autore su alcuni punti che meriterebbero un approfondimento. Per iniziare, si può concordare sul fatto che il concetto di storia universale, così come ci viene generalmente presentato, sia il frutto di una filosofia della storia unilineare che, concretamente, si è imposta grazie a “una robusta dose di violenza economica e extraeconomica”. Una precisazione, però, può essere opportuna: la storia universale ha cominciato ad esistere realmente dal momento in cui il capitalismo ha iniziato ad espandersi su tutto il globo. E tale espansione non è stato soltanto il frutto “di una pretesa superiore efficienza della proprietà privata sulla proprietà comune”2. Il capitalismo, infatti, ha avuto l’effettiva capacità di sviluppare, in misura mai vista prima, quelle forze produttive che si sono rivelate la base materiale sia per il trionfo definitivo delle politiche di potenza degli stati moderni sia per la riproduzione, sempre più allargata, di uno sfavillante mondo delle merci dall’indubbio fascino planetario.
Ciò non si significa sostenere che il capitalismo sia stato un gradino necessario dello sviluppo storico, ma soltanto che la sua comparsa, dovuta a fattori storico-geografici contingenti, ha finito per determinare un salto storico a livello globale, ponendo condizioni nuove e ineludibili con cui si deve confrontare l’universalità insorgente. Per evitare fraintendimenti si precisa che per salto storico, come nota Tomba, non si deve intendere un’accelerazione verso un esito predeterminato, ma un cambio di traiettoria che pone la storia su un percorso imprevisto.
Si potrebbe anche ipotizzare che sia possibile parlare di universalità insorgente solo dopo questo salto storico. Forse la scelta è casuale, ma sta di fatto che la narrazione di Tomba parte dal 1789, cioè dalla prima rivoluzione che fa dell’universalismo borghese la sua bandiera proclamando tutti gli uomini liberi e uguali. In questo frangente storico, ci dice Tomba, le donne, i poveri e gli schiavi di Haiti obiettano che quel concetto di “uomo” non li rappresenta. Ma, precisa l’autore, non si è trattato di una negazione pura e semplice del valore universale dei diritti dell’uomo proclamati dalla rivoluzione. Il termine “uomo”, utilizzando un linguaggio che non appartiene all’autore, diventa un significante vuoto il cui significato è conteso dai differenti attori sociali in conflitto. In altri termini, più vicini a quelli del testo, il significato di “uomo” viene reinterpretato dalle comunità insorgenti facendolo diventare il vettore di una nuova universalità capace di presagire una forma sociale diversa da quella borghese. Insomma, l’universalità insorgente è in qualche misura debitrice dell’”universalismo emaciato” della borghesia.

A questo punto una domanda si impone. Perché qualificare le soggettività insorgenti come universalità? Opponendosi a una pretesa storia universale, non dovrebbe farsi valere la loro natura irrimediabilmente particolare come vorrebbe un approccio post-colonial o postmoderno? Il dubbio viene rafforzato quando leggiamo che l’universalità insorgente costituisce un esperimento incompleto e che proprio questa incompletezza può essere condivisa. In realtà l’autore argomenta lungo tutto il libro che questi esperimenti hanno qualcosa in comune. Essi certamente parlano lingue diverse, ma tra loro traducibili. C’è un legame significativo, sostiene Tomba, tra traducibilità e universalità anche quando ci occupiamo della reciproca comprensione tra differenti culture e pratiche sociali. Queste, ci ricorda l’autore citando Gramsci, possono comunicare tra loro perché rappresentano differenti risposte a problemi storici sostanzialmente comuni. Si può allora aggiungere che questa traducibilità è rafforzata dal fatto che i differenti soggetti insorgenti si trovano per la prima volta nella storia ad affrontare lo stesso nemico, il capitalismo che si fa storia universale.
Tutto ciò è confermato dall’esperimento Zapatista che si afferma in un contesto storico e geografico assai diverso da quello europeo. “Gli Zapatisti hanno intrapreso la strada che fu abbandonata in Russia dai Bolscevichi: la strada lungo la quale la politica rivoluzionaria si unisce con le comunità indigene”.3 Nonostante la pratica zapatista sia profondamente radicata nella cosmologia, nella epistemologia, nel rapporto con la natura dei popoli indigeni del Chiapas, è possibile ravvisare molti punti di contatto con le rivoluzioni europee: la pluralità dei poteri, la proprietà collettiva delle comunità contadine, il mandato imperativo ecc. “Il mondo che vogliamo contiene molti mondi”, ci dicono gli zapatisti. Mondi in grado di dialogare tra di loro, possiamo aggiungere.

In conclusione, si può notare che sarebbe stato interessante approfondire maggiormente l’organizzazione militare degli zapatisti e le condizioni che hanno reso possibile il suo consolidamento. Questa organizzazione, senza rinunciare alle caratteristiche proprie dell’universalità insorgente, è un tentativo contemporaneo di rispondere ad alcune esigenze pratiche che ogni rivoluzione ha dovuto affrontare per non soccombere. La centralizzazione del potere nelle mani dello stato è certamente frutto di scelte politiche figlie di una specifica visione del mondo. Tomba ci ricorda, per esempio, “L’ossessione [dei bolscevichi] di correre avanti in modo da accelerare l’esito socialista trasformò lo stato in un apparato estremamente centralizzato e modellò l’industria in un laboratorio tayloristicamente disciplinato”.4 Ma occorre aggiungere che le scelte di cui stiamo parlando sono sottoposte a una notevole forza di inerzia perché rispondono a problemi oggettivi: l’urgenza di rispondere in maniera più efficiente agli immancabili attacchi dei nemici interni ed esterni; un compito che porta con sé l’impellenza di ripristinare il funzionamento della fabbrica sociale, inevitabilmente sconvolta dagli eventi rivoluzionari anche in considerazione del fatto che gli embrioni di una nuova organizzazione necessitano di tempo per germogliare. Riuscire ad immaginare come una rivoluzione possa consolidarsi senza che le esigenze militari schiaccino le istanze di libertà e di autogoverno è un passo necessario per capire come l’universalità insorgente si possa sottrarre a quello che sembra il suo tragico destino: squarciare ripetutamente il cielo come un lampo glorioso che, ogni volta, viene rapidamente inghiottito dall’oscurità della reazione.


  1. M. Tomba, Insurgent Universality, Oxford University Press, New York, 2019, p. 9. Traduzione mia, come le seguenti. 

  2. Ivi, p. 224. 

  3. Ivi, p. 211. 

  4. Ivi, p. 123. 

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Le due facce della modernità secondo Robert Kurz https://www.carmillaonline.com/2018/06/10/le-due-facce-della-modernita-secondo-robert-kurz/ Sat, 09 Jun 2018 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46193 di Paolo Lago

Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 210, € 18,00.

Già da diversi anni un gruppo di studiosi, dediti alla diffusione delle idee della critica radicale degli autori tedeschi raccolti attorno alle riviste “Exit” e “Krisis” (fra i quali si può ricordare non solo Robert Kurz ma anche Ernst Lohof o Norbert Trenkle), sta operando con passione per tradurre e diffondere in Italia diversi testi di tali autori. Samuele Cerea è uno di questi, il quale – assieme a [...]]]> di Paolo Lago

Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 210, € 18,00.

Già da diversi anni un gruppo di studiosi, dediti alla diffusione delle idee della critica radicale degli autori tedeschi raccolti attorno alle riviste “Exit” e “Krisis” (fra i quali si può ricordare non solo Robert Kurz ma anche Ernst Lohof o Norbert Trenkle), sta operando con passione per tradurre e diffondere in Italia diversi testi di tali autori. Samuele Cerea è uno di questi, il quale – assieme a Massimo Maggini e Riccardo Frola – da anni si dedica alla cura e traduzione delle opere di questi autori tedeschi. Non possiamo perciò che essergli grati (ed essere grati all’opera di diffusione portata avanti da questi appassionati, grazie anche alla rivista online “L’anatra di Vaucanson”) per la recente traduzione, per i tipi di Mimesis – editore presso il quale sono precedentemente usciti anche altri testi di tali autori – del saggio di Robert Kurz intitolato Il collasso della modernizzazione (Der Kollaps der Modernisierung), uscito in Germania nel 1991. Kurz è infatti un autore fondamentale per comprendere le contraddizioni della modernità e della contemporaneità, uno studioso che purtroppo è stato spesso trascurato o incompreso. Prematuramente scomparso nel 2012, Kurz è uno dei fondatori della rivista e del gruppo tedeschi “Krisis” e, successivamente, fautore della scissione del gruppo “Exit”. Fra le opere più significative degli autori del Gruppo Krisis è doveroso ricordare il Manifesto contro il lavoro, uscito nel 1999 e, nel 2003, in traduzione italiana per “DeriveApprodi” [su Carmilla].

La tesi centrale di questo libro di Robert Kurz di recente traduzione italiana è basata su una interpretazione della modernità come una specie di “Giano bifronte”, a due facce. Giano, infatti, era il dio “degli inizi” (nonché il dio della porta) della religione romana, raffigurato con due volti perché può guardare il passato e il futuro, l’interno e l’esterno. In un saggio uscito qualche anno fa per Mimesis (ma successivo a Il collasso della modernizzazione), Ragione sanguinaria, sempre tradotto dallo stesso Cerea, la razionalità illuministica del capitalismo borghese è interpretata come dispensatrice di irrazionalità e di violenza: «Il Capitalismo sta trionfando fino alla morte, sia sul piano materiale che su quello ideale. Quanto più brutalmente questa forma di riproduzione, trasfigurata a società globale, devasta il mondo, tanto più micidiali sono le ferite che si autoinfligge e tanto più seriamente essa mette a repentaglio la sua stessa esistenza».

Una interpretazione siffatta della modernità deve naturalmente molto agli studi di Horkheimer e Adorno e alla loro Dialettica dell’Illuminismo. Tuttavia, Kurz si spinge al di là delle teorie dei due filosofi, cercando, con sguardo critico, di ‘scavalcare’ il loro pensiero. In conclusione del volume, Kurz afferma infatti che non si tratta di realizzare una sorta di «uomo nuovo» «come pensavano Horkheimer e i suoi», ma di esercitare «una ragione pratica assolutamente immanente, che dovrà quindi limitarsi al superamento di questa specifica situazione storica, senza più rivendicare la pretesa assolutistica dell’ormai irreale “ragione universale” borghese-illuministica».

Ma procediamo con ordine. Il libro, scritto tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta (è uscito in Germania nel 1991), all’indomani del crollo del regime sovietico, vuole essere una lucida e spietata analisi della struttura sociale ed economica di questo regime, il quale altro non è, appunto, se non l’altra faccia dello statalismo occidentale e, successivamente, della società capitalistica. Kurz analizza abilmente il crollo economico del regime per dimostrare come, alla fine, la crisi investa l’intera società capitalistica e come lo stesso capitalismo, ormai, non sia solamente preda di una crisi passeggera, ma sia invece entrato in un processo inesorabile di autodistruzione e autodissolvimento. Lo strale critico dello studioso è dapprima scoccato contro il «lavoro astratto come macchina fine a se stessa». Il lavoro astratto (marxianamente, in contrapposizione al «lavoro concreto», un lavoro umano slegato dagli aspetti qualitativi e dall’utilità, unicamente volto alla realizzazione del valore di scambio), infatti, non fu una prerogativa esclusiva dell’ideologia borghese, ma caratterizzò anche il marxismo del movimento operaio. A questo proposito, Kurz ricorda anche una significativa frase di Thomas Mann il quale, riflettendo nei suoi Diari sulla composizione del suo romanzo La montagna incantata, osserva che «la differenza etica tra il capitalismo e il socialismo è irrilevante, poiché per entrambi il lavoro è il principio supremo, l’assoluto». Non c’è quindi da meravigliarsi «che nel socialismo reale ricompaiano tutte le categorie capitalistiche di base: salario, prezzo e profitto (guadagno aziendale)». Il modello concreto di capitalismo di stato, cui guarda l’Unione Sovietica, è la Germania di Bismarck, dalla quale deriva anche la militarizzazione della società. Contemporaneamente, un altro modello tenuto presente è il giacobinismo della rivoluzione francese, per cui – osserva Kurz – «la violenza eccezionale della modernizzazione borghese sovietica è dovuta al fatto che essa concentrò un’epoca bisecolare in un intervallo di tempo estremamente breve: mercantilismo e rivoluzione francese, processo di industrializzazione ed economia di guerra imperialista, tutto in un colpo solo». E, in questo processo, la Germania orientale fu «più sovietica dei sovietici»: «Nella Repubblica Democratica economia al passo dell’oca e socialismo da caserma diedero vita a un’evoluzione aberrante della modernizzazione capitalistica; in termini biologici, un vero e proprio “incubo darwiniano”».

La vera crisi per il socialismo sovietico (come il movimento operaio marxista, incapace di «percepire con chiarezza» la testa di Giano della modernità) iniziò dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’entrata in crisi del sistema capitalistico fordista e con l’introduzione di sempre nuovi processi di automazione, fino ai più recenti sviluppi della microelettronica e dell’informatica. La profonda irrazionalità del sistema capitalistico è stata profondamente introiettata dal socialismo reale e dalla sua «economia di guerra». Un produttore può produrre indifferentemente torte al cioccolato, ordigni nucleari o scavare buche per poi riempirle: tutto ciò non è importante, ciò che conta è solo l’astratto interesse monetario. Vincitore è perciò chi sperpera forza-lavoro e materiale manifestando la massima indifferenza per i propri prodotti, creando la maggior quantità possibile di valore. Specchio di questo sistema, nell’economia di Stato sovietica, è la costruzione di ‘cattedrali nel deserto’, di edifici grandiosi perfettamente inutili «la cui realizzazione si trascina indefinitamente nel tempo, come per le cattedrali medievali». Ma di questo non dobbiamo stupirci se anche nel sistema capitalistico – si potrebbe aggiungere – questa è la norma. Per ricordare esempi vicini a noi, basti citare la costruzioni di inutili infrastrutture la cui realizzazione si prolunga indefinitamente, come ad esempio la realizzazione della TAV in Val di Susa.

In questo calderone irrazionale, guardare all’Ovest, per il socialismo sovietico, si trattò soltanto di passare dalla padella alla brace: «La crisi dell’Est si mescola in maniera diabolica alla crisi dell’Ovest e in questo dilemma tra Scilla e Cariddi si evidenzia con cupa chiarezza come per il sistema produttore di merce non esista più alcuna via di scampo». Collassato una volta per sempre il vecchio sistema, quello nuovo si dimostra essere ancora più disumano: l’apertura all’esterno di questi mercati vedrà come unica conseguenza la distruzione delle industrie locali e la loro invasione da parte degli imprenditori occidentali. Mentre in Occidente si manifestava per la prima volta il limite di sfruttamento astratto di forza-lavoro e si determinava una crescente disoccupazione di massa, l’Unione Sovietica dovette «trasformare l’intera società in una macchina da lavoro astratto, governata in modo quasi militare, così da imporre la logica del capitale». Gli ex cittadini dell’est, aspirando quindi ad una nuova forma di ‘libertà’ economica e sociale, non possono fare altre che unirsi a quei soggetti del denaro senza denaro che compongono la gran parte della popolazione mondiale, costrette a vivere in un lazzaretto sociale che si sta estendendo su tutto il pianeta.

Il saggio di Kurz, in alcuni momenti, suona anche lucidamente e terribilmente profetico, quando leggiamo, ad esempio, una frase come questa: «Il “mondo unico”, finalmente realizzato e riconosciuto come tale, confinato nella forma feticistica del sistema della merce in dissolvimento sotto i colpi della crisi, getta la maschera, rivelando il volto orribile e terrorizzante di una guerra civile mondiale ai suoi inizi, senza più fronti ben definiti, ma solo esplosioni di violenza cieca ad ogni livello». Ed è doveroso riportare anche quest’altra riflessione, un po’ più lunga:

Ma le istituzioni, i poteri e i rappresentanti (o i portabandiera politici) di questo «mondo unico» non sembrano affatto intenzionati a mettere in discussione l’automatismo del processo del mercato mondiale. Essi invece vogliono imporre la conservazione di queste regole mediante l’ultima ratio della forza militare. Ora però non possono più legittimarsi mediante il vecchio conflitto sistemico con il presunto «impero del male». Devono intervenire, come forza di polizia internazionale, contro le rivolte della fame, le esplosioni di disperazione, le campagne di vendetta e gli attacchi terroristici della schiera dei miliardi di perdenti, ma anche contro tutte quelle forze e quelle figure, tutt’altro che filantropiche che, nella battaglia globale per la spartizione della sempre più esigua massa di valore, perseguendo interessi particolari, si spacceranno per vendicatori degli oppressi.

L’immagine tratteggiata è alla fine quella di una sorta di Impero romano in piena decadenza, con le sue frontiere settentrionali e orientali invase da migrazioni di popoli. All’interno di questo quadro (in cui tra l’altro, osserva Kurz, «il fondamentalismo islamico conquisterà il potere in altri paesi», pronto a devastare con armi anche atomiche le metropoli occidentali), delineato nel 1991 dal lucido studioso tedesco, hanno poco senso, quindi, nel 2018, le politiche xenofobe di un Trump o di un Salvini o dei movimenti e regimi destrorsi e xenofobi forti anche in Europa. Si tratta inequivocabilmente di una condizione reale che non si può modificare, tutto sta a prenderne lucidamente atto. È necessario, inoltre, prendere atto del fatto che i settori vincenti, in Occidente, non fanno altro che scavarsi la fossa da soli anche a causa del potenziale di distruzione ecologica del sistema della merce. La dialettica tra Stato e mercato, fra statalismo sovietico e mercato capitalista – che ha percorso le riflessioni più pungenti di questo saggio – non ha più ragione di essere: entrambi sono inesorabilmente falliti. E l’invito a una lucida presa di coscienza di questo stato di cose ci viene adesso da queste spietate e profetiche pagine di Robert Kurz.

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