follia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il Re in Giallo: un libro di presagi https://www.carmillaonline.com/2024/07/04/il-re-in-giallo-un-libro-di-presagi/ Thu, 04 Jul 2024 18:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83121 di Sandro Moiso

Robert W. Chambers, Il Re in Giallo, con una prefazione di Christophe. Thill e una postfazione di Sunand Tryambak Joshi. Illustrazioni di Samuel Araya, L’Ippocampo, Milano 2024, pp. 320, 25,00 euro.

«Non posso dimenticare Carcosa dal cielo cosparso di stelle nere, dove nel pomeriggio si stende l’ombra dei pensieri degli uomini, dove i soli gemelli affondano nel lago di Hali, e il mio spirito sarà sempre ossessionato dal ricordo della Maschera Pallida.»

Non sono certamente mancate le edizioni italiane del classico di Robert Chambers, ma quella edita dalla casa editrice milanese L’Ippocampo, ripresa da [...]]]> di Sandro Moiso

Robert W. Chambers, Il Re in Giallo, con una prefazione di Christophe. Thill e una postfazione di Sunand Tryambak Joshi. Illustrazioni di Samuel Araya, L’Ippocampo, Milano 2024, pp. 320, 25,00 euro.

«Non posso dimenticare Carcosa dal cielo cosparso di stelle nere, dove nel pomeriggio si stende l’ombra dei pensieri degli uomini, dove i soli gemelli affondano nel lago di Hali, e il mio spirito sarà sempre ossessionato dal ricordo della Maschera Pallida.»

Non sono certamente mancate le edizioni italiane del classico di Robert Chambers, ma quella edita dalla casa editrice milanese L’Ippocampo, ripresa da quella uscita nel 2022 per le edizioni Callidor di Parigi, sembra essere la prima a rispettare, con il dovuto apparato di testi a cura di Christphe Till e S. T. Joshi, la ventina di illustrazioni di S. Araya e un racconto di Ambrose Bierce, l’importanza di un testo che, pur parzialmente estemporaneo nella produzione dell’autore, ha davvero segnato il cammino della letteratura fantastica e dell’orrore moderna.

Robert William Chambers (1865 -1933) nacque a Brooklyn, figlio dell’avvocato William P. Chambers e di Caroline Chambers, diretta discendente del fondatore di Providence, capitale del Rhode Island che avrebbe in seguito dato i natali al più celebre autore americano di romanzi e racconti weird: Howard Phlillip Lovecraft. Robert, di condizione economiche e sociali agiate, dopo essere entrato a vent’anni a far parte della Art Students’ League si recò a Parigi dove ebbe modo di studiare alla École des Beaux-Arts e all’Académie Julian tra il 1886 e il 1893. Periodo durante il quale, più che allo studio e al lavoro d’artista, si dedicò alla frequentazione della bohème del Quartiere Latino.

Al suo ritorno negli Stati Uniti, ebbe modo di lavorare come illustratore per importanti riviste. Solo successivamente, rivolse la propria attività in direzione della scrittura, con il suo primo romanzo, In the Quarter, pubblicato nel 1894. La sua opera letteraria più famosa, The King in Yellow, fu pubblicata l’anno successivo e riscosse immediatamente una straordinaria accoglienza, sia di pubblico che di critica. Facendo sì che la raccolta di dieci racconti, uniti tra di loro dalla presenza malefica di un libro terribile e di un’opera (teatrale) maledetta, venisse ristampata più volte, con grande sorpresa dell’autore stesso.

Dieci racconti in cui, con risultati alterni e non sempre pienamente riusciti, il decadentismo si intreccia con il weird nel binomio romantico di amore e morte, nella descrizione allucinata degli orrori della tomba e delle cripte, attraverso i volti biancastri e mollicci di individui dalla consistenza corporea simile a quella dei vermi che masticano i cadaveri, il desiderio di potere oppure, ancora, esperimenti scientifici prossimi ai sogni degli alchimisti più che ai risultati della scienza moderna. Invenzioni letterarie e artifici narrativi adeguati a mantenere lo sguardo e l’attenzione del lettore incollato alle pagine da cui questi “strani” avvenimenti scaturiscono.

Raggiunta, in questo modo, la popolarità, negli anni successivi Chambers continuò a produrre romanzi e raccolte di racconti che, toccando soprattutto i temi dell’amore romantico, spesso inserito in romanzi di carattere storico ambientati durante la guerra franco-prussiana, quella di secessione americana oppure all’epoca dei pirati e della guerra di indipendenza nei confronti dell’impero britannico, raramente tornarono ad occuparsi del mistero o di temi ricongiungibili al genere weird e quasi mai tornarono a sfiorare l’eleganza delle descrizioni e la tensione raggiunte nel Re in Giallo.

Nella lunga esperienza di scrittore successiva al Re, come afferma Christophe Thill nella sua prefazione al testo, Chambers diede prova di un perbenismo che avrebbe sempre caratterizzato le sue opere, raggiungendo vertici impensabili di insipidità, moralismo puritano, viscerale timore per ogni forma di cambiamento dell’ordine tradizionale dato e, in particolare, di autentica avversione nei confronti di qualsiasi movimento rivoluzionario. Sia che si trattasse della Comune di Parigi, che affrontò nel romanzo The Red Republic già nel 1895, o dei sindacalisti, socialisti, comunisti e anarchici americani o bolscevichi come fece in The Crimson Tide, pubblicato nel 1919 sulla rivista «Cosmopolitan», oppure ancora nel romanzo The Slayer of Souls, del 1920, in cui i rivoluzionari non sono altro che gli ultimi e odiosi discendenti di una setta satanica di origine orientale che affondava la proprie radici in tempi immemori. Probabilmente pre-umani.

Tema quest’ultimo di cui è possibile ritrovare anche traccia nell’opera di Lovecraft, in particolare nel racconto The Horror at Red Hook, e comunque riconducibile a quella Red Scare che attanagliò gli Stati Uniti a partire dalla rivoluzione bolscevica e dalla fine della prima guerra mondiale fino alla metà degli anni Venti. Grande paura dei “rossi”, di cui furono vittime esemplari gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, durante la quale le classi medio-alte americane unirono l’odio per la lotta di classe al timore per l’invasione aliena degli immigrati (soprattutto italiani). Eppure, eppure…

Nel testo ora ripubblicato da L’Ippocampo, l’autore sembra travalicare, a tratti, le proprie convinzioni, e anche se non è possibile separare il successo dell’opera da un’epoca, quella della fine del XIX secolo, in cui la moda per la cultura francese e la letteratura decadente alimentò sia il rifiuto del materialismo che della scienza che lo aveva prodotto, sia il rifiuto del viver borghese che assunse a tratti caratteristiche assolutamente antagonistiche, anche se spesso inconsapevoli, come nelle opere di Oscar Wilde oppure di Bram Stoker e Charles Baudelaire. Appare allora evidente, agli occhi di chi si trova a rileggerlo oggi, che tra le sue righe sono nascoste immagini destinate a rimanere a lungo nella mente di chi le scorre, drammaticamente anticipatrici di tematiche che avrebbero accompagnato a lungo l’immaginario americano, non soltanto letterario e gotico.

Perché non è soltanto l’allucinata poesia posta in apertura a fornire la cifra della dimensione onirica della narrazione, poi ripresa e ampliata da scrittori successivi quali Howard P. Lovecraft, August Derleth, Abraham Merritt, Clark Ashton Smith e infiniti altri fino a Michael Moorcock negli anni Settanta del XX secolo.

Le nuvole si infrangono come onde lungo la costa,
I Soli gemelli affondano nel lago
Mentre le ombre si allungano
A Carcosa.

Strana è la notte dove si levano stelle nere,
E lune mai viste solcano i cieli
Ma ancora più misteriosa
è la perduta Carcosa.

Le Iadi canteranno canzoni,
Dove si agitano al vento i cenci del Re
Ma qui moriranno inascoltate
Mentre Carcosa si spegne.

Canto dell’anima mia, la mia voce è morta;
Muori anche tu, silenzioso, come lacrime mai piante
Destinate a seccarsi e perire
Nella perduta Carcosa.

Da La canzone di Cassilda in Il Re in Giallo, Atto I, Scena 2.

Non è soltanto il richiamo ad Ambrose Bierce, che già nel dicembre del 1886 aveva pubblicato sul «San Francisco Newsletter» un allucinato racconto dal titolo Un cittadino di Carcosa, ripubblicato nell’attuale edizione del Re in Giallo. Carcosa, il cui nome Thill fa risalire ad una sorta di storpiatura nella pronuncia americana del nome della città francese di Carcassonne, dalle imponenti mura medievali conservatesi fino ad oggi, e che può inserirsi bene nella moda decadente e francesizzante della fine del XIX secolo, di cui nei dieci racconti che compongono l’opera restano abbondanti resoconti mediati dalle memorie parigine dello stesso Chambers.

E non è soltanto l’invenzione di un’opera maledetta (Il Re in Giallo, appunto) destinata a rovinare la vita e la mente di chiunque ne entri in possesso o le legga, che rinvia immediatamente al Necronomicon dell‘arabo pazzo Abdul Alhazred ideato successivamente da Lovecraft oppure al De Vermis Mysteriis iinventato da Robert Bloch e, ancora una volta ripreso, dallo scrittore originario di Providence che, comunque, nel corso della sua opera avrebbe citato più volte il romanzo di Chambers. Non soltanto nel suo saggio sulla letteratura del soprannaturale, ma anche nel corso stesso dei suoi romanzi e racconti.

No, non è soltanto tutto questo, perché vi è nelle pagine di alcuni racconti contenuti nel libro l’avvento di quel misto di fantastico e fantascientifico, di cui Lovecraft nel giudizio di Sunand Tryambak Joshi, massimo esperto della vita e delle opere del solitario di Providence, sarebbe stato poi maestro e decisivo fondatore, che avrebbe caratterizzato la migliore letteratura weird del secolo appena trascorso.

Ma si ritrova anche, in tanti dei dieci racconti, quella presenza incancellabile della Morte come destino, sia dei singoli che degli imperi e delle società, che a partire da una concezione puritana e colpevolizzante della Vita e della Storia ha segnato pesantemente la letteratura americana da Poe, Melville e Hawthorne fino a Lovecraft, Hemimgway, Twain e McCarthy.

Senso della morte che si trova fin dalle prime pagine del primo dei racconti, Il Riparatore di Reputazioni (uno dei migliori a giudizio di chi scrive), ambientato in un’America del 1920 in cui è appena terminato un conflitto di carattere imperialistico con la Germania e in cui, come forma di società utopistica, è stata appena inaugurata una sorta di Casa della Morte, in cui i cittadini infelici possono chiedere di ricevere la stessa come ultimo premio e definitiva consolazione.

Un immaginario in cui i temi della follia, della perversione, della morte e dell’arte “maledetta”, tipici della migliore tradizione decadente, si intrecciano con i temi di un imperialismo già in nuce e proiettato su scala mondiale, anche se la vera prima guerra “mondiale” degli Stati Uniti e delle loro forze armate, in questo racconto presenti come in pochi altri della raccolta, quella con la Spagna per il controllo di Cuba e del Pacifico attraverso le Filippine sarebbe venuta soltanto tre anni dopo la sua pubblicazione, nel 1898.

Un libro di presagi, dunque, che vanno ben al di là di quanto, ancora una volta, l’autore avrebbe mai potuto immaginare, dimostrando così che la letteratura e l’immaginario fantastico, spesso, possono rivelarsi superiori, nel definire la realtà che ci attende, al “realismo” più trito e scontato. Ma la modernità del Re in Giallo sta anche nell’intrecciarsi dei racconti, in cui gli eventi e i personaggi non si richiamano soltanto attraverso la citazione dell’opera maledetta, ma per mezzo di un rimescolio di nomi, luoghi e rimandi che sarà il lettore a dover riconoscere e individuare.

Con quest’opera, insieme a Il grande dio Pan di Arthur Machen, sempre accompagnato dalle splendide illustrazioni di Samuel Araya, ispirate soprattutto all’opera del tedesco Arnold Böchlin (1827-1901), l’editore milanese ha iniziato la ripubblicazione di alcuni classici del decadentismo fantastico nella collana Collector; operazione encomiabile sia per il valore letterario delle scelte operate che per l’eleganza della veste grafica, cui non resta che augurare il successo di pubblico e critica.

Non prendiamoci gioco dei folli;
La loro pazzia dura più della nostra…
La differenza è tutta qui.

(Francais Adolphe d’Houdetot)

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Scorci di apocalisse nel cinema di Tarkovskij https://www.carmillaonline.com/2023/08/16/scorci-di-apocalisse-nel-cinema-di-tarkovskij/ Wed, 16 Aug 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78601 di Paolo Lago

Spesso, nel cinema di Tarkovskij, si spalancano come baratri degli scorci di apocalisse che lasciano intravedere lembi di distruzione e di autodistruzione dell’umanità. Le immagini e i suoni, in tali occasioni, riescono ad aprire dei varchi verso territori indistinti, segnati da un disastro e da un annichilimento emergenti come un flusso magmatico che si spande in sonorità dalle connotazioni oniriche ed inquietanti. È lo spettro della guerra, e di conseguenza un annientamento pressoché totale dell’umanità, a rappresentare, in diverse occasioni, una possibile caduta nel vuoto di un’apocalisse annunciata.

Pensiamo a [...]]]> di Paolo Lago

Spesso, nel cinema di Tarkovskij, si spalancano come baratri degli scorci di apocalisse che lasciano intravedere lembi di distruzione e di autodistruzione dell’umanità. Le immagini e i suoni, in tali occasioni, riescono ad aprire dei varchi verso territori indistinti, segnati da un disastro e da un annichilimento emergenti come un flusso magmatico che si spande in sonorità dalle connotazioni oniriche ed inquietanti. È lo spettro della guerra, e di conseguenza un annientamento pressoché totale dell’umanità, a rappresentare, in diverse occasioni, una possibile caduta nel vuoto di un’apocalisse annunciata.

Pensiamo a Lo specchio (Zerkalo, 1974), in cui dietro le ambigue e vampiresche parvenze dell’arte di Leonardo da Vinci si celano baratri che spalancano orrori. Una vera e propria esplosione, anche musicale, accompagna in questo film l’improvvisa apparizione dell’immagine del leonardesco ritratto di Ginevra Benci dietro al quale si cela l’orrore della guerra che ha inghiottito nelle sue spire di morte il personaggio del padre. D’altra parte, lo spettro della guerra compare sullo schermo anche sotto la forma di immagini di repertorio che mostrano i soldati dell’Armata Rossa che avanzano nel fango trascinandosi dietro armi e cannoni, strumenti di morte che decreteranno il loro stesso annientamento. Sempre in un contesto di immaginario di guerra compare anche l’inquietante ricordo della fanciulla dai capelli rossi: il protagonista, infatti, rammemora i momenti in cui da ragazzo, in tempo di guerra, era costretto ad esercitarsi col fucile. Nella campagna invernale, fra gli alberi, a un certo punto vede una ragazza segnata da una ferita sanguinante alle labbra, terribile e affascinante apparizione vampiresca. Nel contempo, ecco riemergere di nuovo la presenza inquietante dell’arte sotto le vesti dei Cacciatori nella neve di Pieter Brueghel il Vecchio. La macchina da presa, allora, si esibisce in una carrellata ravvicinata sul quadro mentre in sottofondo sentiamo una musica tagliente dagli accenti metallici che quasi connota il paesaggio del dipinto, i personaggi, gli alberi e gli uccelli presenti in esso come i possibili messi di un’apocalisse incipiente.

In Stalker (1979), l’orrore di una possibile apocalisse compare nella volontà del personaggio dello scienziato di distruggere la Stanza, il luogo della Zona (un territorio misterioso forse provocato dal passaggio di extraterrestri; il film è infatti lontanamente ispirato al romanzo di fantascienza dei fratelli Strugackij, Picnic sul ciglio della strada) dove possono essere esauditi tutti i desideri, mediante un piccolo ordigno nucleare. Nell’immagine dello scienziato che vuole distruggere un luogo onirico e misterioso intravediamo l’orrore di Tarkovskij per una scienza e una tecnologia che appaiono come le basi di una “civiltà che minaccia di distruggere l’umanità” (secondo le parole dell’autore), come leggiamo nel “piccolo dizionario tarkovskijano” posto all’inizio del “Castoro” dedicato al regista1. Di fronte all’insondabile e all’inesplicabile, al mistero forse giunto da altri mondi, l’essere umano tecnologico, l’uomo a una dimensione di marcusiana memoria non conosce altro che la distruzione, spinto verso una irrefrenabile volontà di annientare l’altro da sé. Ciò che non si conosce, che non si comprende – sembra voler affermare il regista – deve essere distrutto. D’altra parte, scorci di distruzione operata dall’industrializzazione e dall’inquinamento indiscriminato sono presenti ovunque nel mondo ‘normale’, al di fuori della Zona. Se quest’ultima, infatti, nell’immaginaria trasposizione tarkovskjiana del romanzo dei fratelli Strugackij, era connotata da un ambiente naturale quasi intatto, sfolgorante di intricata vegetazione, il mondo fuori della Zona è squallidamente rappreso in ambienti spogli e tetri, come il bar in cui si ritrovano i personaggi all’inizio e alla fine del viaggio, o in lande malinconiche e fangose percorse da jeep militari e da soldati armati, emblema dello spettro di un pervasivo controllo e di una guerra che si trovano sempre in agguato. Al di fuori della Zona vi è un mondo squallido e inesorabilmente perduto nei suoi ritmi di quotidianità scontata e allucinante: basti guardare la sequenza in cui lo stalker porta sulle spalle la sua bambina che non riesce a camminare perché nata con una malformazione congenita. Lo sfondo è una grigia periferia industriale, solcata da nebbie e da ciminiere, da tetri treni merci, da fabbriche e industrie che inquinano e devastano l’ambiente. Lo squallore e la devastazione che aleggiano ogni dove sono rimarcati da una musica sinistra e tagliente che accompagna come un lugubre requiem l’incedere peregrino dello stalker.

In Nostalghia (1983), l’orrore si cela ancora una volta dietro la forza dirompente dell’arte. Il protagonista Gorçakov, un poeta sovietico giunto in Italia per seguire le orme di un musicista russo del ‘700, rifiuta infatti di recarsi a vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, emblema di quell’arte italiana che contemporaneamente affascinava e inquietava il regista. Secondo un aneddoto riportato da Francesco M. Cataluccio, infatti, il regista, agli Uffizi, riusciva a vedere soltanto le prime sale, la pittura sacra medievale, mentre doveva fermarsi all’inizio della pittura rinascimentale2. La Madonna del Parto irrompe sulla scena quasi come la Ginevra Benci ne Lo specchio, trasmettendo al protagonista orrore ed angoscia. Ma gli scorci di apocalisse, in Nostalghia, affiorano soprattutto nei momenti in cui il poeta si incontra con Domenico, un ex internato che appartiene al mondo ‘acquatico’ della follia e della ‘disragione’, per utilizzare un termine foucaultiano ricalcato sul francese “déraison”. Secondo lo studioso francese, infatti, “la follia è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”3. Egli emerge da un lungo internamento in manicomio ed è attratto dall’acqua, dalle pozze, dagli anfratti acquorei e dalla pioggia che penetra ogni dove nella sua casa, dalla vasca termale della piazza del paese di Bagno Vignoni, luogo al giorno d’oggi oggetto di una folle gentrification e turisticizzazione e che nel film possiamo contemplare ancora silente ed intatto, immerso nei suoi ritmi antichi e medievaleggianti. Il suo internamento manicomiale segue un altro lungo, stavolta volontario, internamento durante il quale aveva tenuta segregata in casa la sua famiglia per sette anni per proteggerla dalla “fine del mondo”, un’apocalisse che sarebbe stata provocata probabilmente da quella “rocciosa ragione” alla quale egli si oppone. Ecco che nella casa del ‘folle’ Domenico si fronteggiano il poeta ed il pazzo, il primo intrappolato nella sua lancinante nostalgia, il secondo impietrito da un’angoscia provocata da un profondo orrore per la ragione in tutti i suoi aspetti, mentre un suono meccanico e ossessionante si fa largo sullo sfondo sonoro come un vitreo ed evanescente fantasma.

Domenico, però, non appare esclusivamente imprigionato nelle dinamiche intime e ‘private’ di una solitaria angoscia ma si fa latore di una possibile via di fuga dall’universo carcerario della follia nel quale era stato relegato da un sistema basato su una presunta ‘normalità’. A Roma, sul Campidoglio, il personaggio organizza una manifestazione alla quale partecipano – sembra – molti altri ‘folli’ come lui, presumibilmente degli ex internati usciti dagli ospedali psichiatrici tra fine anni settanta e inizio anni ottanta (il film è del 1983) in seguito alla legge Basaglia. Domenico grida ai folli ormai liberi – parafrasando una frase di René Char – di esercitare la loro “legittima stranezza”: per scongiurare una catastrofe, una guerra nucleare, forse l’avvento di nuovi campi di sterminio di massa – dice Domenico – è necessario tornare uniti, è necessario che i cosiddetti ‘normali’ si mescolino ai cosiddetti ‘pazzi’, ai ‘diversi’. Pensiamo a come suona significativo l’appello del folle Domenico oggi che sono trascorsi anni in cui sono scoppiate guerre (e ancora scoppiano e sono in corso), in diverse parti del mondo (un mondo – bisogna dire – preda del distruttivo meccanismo capitalistico), a causa dell’odio di matrice etnica, a causa dell’incapacità di non riconoscere come simile il proprio ‘vicino di casa’, abitante di un territorio confinante. I ‘folli’, allora, non sono ‘folli’ ma sono forse gli unici capaci di riconoscere un fratello, un amico, un vicino anche in ciò e in chi appare come totalmente diverso. Se i normali e i folli non si rimescoleranno – dice Domenico – il mondo si autodistruggerà perché è giunto ormai già sull’orlo della catastrofe.

Una catastrofe che, alla fine, avviene davvero in Sacrificio (Offret / Sacrificatio, 1986), testamento cinematografico di Tarkovskij, in cui il protagonista Alexander, interpretato da Erland Josephson, lo stesso attore che impersonava Domenico, muovendosi lungo il baratro dell’apocalisse, verrà internato in manicomio per aver dato fuoco alla sua casa nel tentativo di salvare non soltanto la propria famiglia come Domenico, ma l’umanità intera. Nel giorno del suo compleanno, giunge infatti la notizia dello scoppio di una guerra nucleare che molto probabilmente condurrà all’estinzione totale dell’umanità. Anche Alexander, come Domenico, si oppone alla “rocciosa ragione” e, ergendosi a difensore dei valori umani e naturali (nel film è presente una forte impronta ecologista), riuscirà a scongiurare la distruzione e l’apocalisse mediante il rituale del fuoco. Anche in Sacrificio è l’arte rinascimentale, rappresentata ancora una volta da Leonardo, ad aprire squarci di inquietudine. L’autore, secondo l’aneddoto sopra ricordato, agli Uffizi riusciva a vedere soltanto l’arte medievale mentre il Rinascimento per la prima volta liberava la strada alla “rocciosa ragione”, rappresentata dalla tecnica, dalla precisione, dal mercantilismo e dagli scambi commerciali che si stavano sempre più diffondendo nell’intera Europa, per non parlare degli incontri con i ‘diversi’ al massimo grado, gli abitatori delle nuove terre dove era approdato il conquistatore europeo. Se pensiamo alla frase pronunciata dal personaggio di Harry Lime (Orson Welles) ne Il terzo uomo (The Third Man, 1949) di Carol Reed, l’arte di Leonardo appare inserita in una curiosa – parafrasando Adorno e Horkheimer – “dialettica del Rinascimento”: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Leonardo da Vinci apparirebbe quindi, dialetticamente, come l’altra faccia della guerra, del terrore e dell’omicidio. È L’adorazione dei magi, in Sacrificio, a introdurre lo scenario d’apocalisse; si tratta di un quadro, tra l’altro, menzionato dallo stesso regista nei suoi diari come particolare conduttore di una personale e distruttiva sindrome di Stendhal4. La riproduzione del quadro presente nella casa di Alexander, su cui si muove lentamente la macchina da presa inquadrandola attraverso una sottile membrana vitrea (il vetro della cornice o la superficie della finestra), in modo che appaia come visto ‘dall’esterno’, appare quasi come l’estremo lembo di una terra di nessuno nella quale possono avvenire inenarrabili catastrofi.

Nelle inquadrature iniziali vediamo il personaggio annaffiare un albero secco in compagnia del suo bambino ed esibirsi in un monologo-dialogo con quest’ultimo (simile, per certi aspetti a quello di Domenico) sulla necessità di una comunanza dell’uomo con i suoi simili e, soprattutto, con la natura. Così leggiamo in un racconto dal titolo Sacrificio che riprende diverse frasi e momenti del film (ma che non si può considerare una sceneggiatura): “La prima cosa che l’uomo ha provato nel momento in cui si è sentito un uomo è stata la paura. Aveva paura di tutto – delle belve, della tempesta e del buio. Ma, invece di imparare a vivere con la natura, a condividere con lei la sua sorte, a esserle amico, l’uomo ha preferito difendersi”5. Come già notato, il cinema del regista russo dispiega, in certi momenti, l’apertura a una comunanza con la natura e l’ambiente che possiede alcuni aspetti di matrice ecologista che non sono stati ancora indagati a fondo. Sempre nella parte iniziale del film, in una sequenza onirica che appare ad Alexander, vediamo una strada in preda al disfacimento e un’automobile rovesciata, mentre gruppi di persone si muovono disordinatamente, in fuga. Su un giornale abbandonato per strada è forse possibile leggere la parola “Černobil”, con un probabile riferimento al disastro alla centrale nucleare sovietica avvenuto appunto nel 1986, anno di uscita del film. L’apocalisse affiora dal magma di una “rocciosa ragione” che, illuministicamente, allontana sempre di più l’uomo dalla natura, poiché quest’ultimo si percepisce come un corpo estraneo sia alla natura che all’ambiente i quali vengono progressivamente trasformati in strumenti d’uso e di consumo, fino all’attuale sistema di produzione capitalistico. Anche dall’allontanamento dell’uomo dalla natura emergono le catastrofi, come la guerra nucleare che avviene nel film. Nel momento in cui la televisione, prima di spegnersi del tutto, annuncia l’inizio del conflitto, i personaggi, nel salotto di casa che molto ricorda certi interni ‘teatrali’ di Bergman (tra l’altro il film è stato girato in Svezia), assumono una posa granitica, preda di una ragione che sì è rocciosa ma che anche può trasformare in pietra, può rendere gli esseri umani tetri automi e burattini della paura e dell’angoscia. Nel contempo, il suono di sottofondo assume connotazioni devastanti: sentiamo infatti i rumori dei motori di cacciabombardieri in assetto di guerra che sfrecciano provocando sommovimenti tellurici che ad altro non preludono se non ad un’autodistruzione della società umana.

Di fronte a questa pietrificazione, a quest’orrore annichilente provocato dall’uomo, il personaggio oppone il movimento incessante del fuoco, un fuoco immerso in catartiche volute che distruggono quella stessa casa abitata dall’angoscia e dalla paura, dall’orrore del passato e del presente, da lembi di lancinanti ricordi. Il personaggio effettua in bicicletta un percorso sinuoso e serpentino nelle nordiche e nebbiose lande per recarsi dalla ‘strega’ Maria e scongiurare la catastrofe, come suggerito dal postino Otto. Alexander in bicicletta si muove in bilico su quegli stessi scorci di apocalisse, mentre in sottofondo risuonano cupe sirene di navi, e giunge alfine a compiere un atto erotico con la ‘strega’ che appare come un salvifico ricongiungimento con la natura. Dall’eros al fuoco: è il fuoco a espandersi e a levarsi in alto come in molti film di Tarkovskij. È la catarsi che avviene, una salvezza da un’apocalisse che comunque resta sempre in agguato, coi suoi borborigmi ctonii. E Alexander alfine si consegna alla mostruosa disragione e quindi agli abissi della follia e dell’internamento scegliendo per sempre il silenzio, unica risposta che una società basata sul controllo e sulla punizione può offrire a chi ha danzato sui baratri dell’apocalisse, dell’autodistruzione dell’umanità e, muto, annichilito dalla silente prigionia, adesso non può neppure riferirne l’orrore.


  1. Cfr. T. Masoni, P. Vecchi, Andrej Tarkovskij, Il Castoro Cinema, Milano, 1997, p. 7. 

  2. Cfr. F. M. Cataluccio, Tarkovskij e l’Occidente, il Il fuoco, l’acqua, l’ombra. Andrej Tarkovskij: il cinema tra poesia e profezia, a cura di P. Zamperini, La Casa Usher, Firenze, 1989, pp. 34-35. 

  3. Cfr. M. Foucault, L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 1, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996 p. 74. 

  4. Cfr. A. Tarkovskij, Diari. Martirologio, a cura di A. A. Tarkovskij, Edizioni della Meridiana, Firenze, 2002, p. 274. 

  5. A. Tarkovskij, Racconti cinematografici, Garzanti, Milano, 1994, p. 279. 

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Un libro di denuncia e di battaglia contro il manicomio diffuso contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2018/05/21/un-libro-di-denuncia-e-di-battaglia-contro-il-manicomio-diffuso-contemporaneo/ Sun, 20 May 2018 22:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45554 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo [...]]]> di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo no alla miseria del mondo» (Franco Basaglia)

Come fa notare Pier Aldo Rovatti nella prefazione, “libertà”, “rivoluzionario”, “radicale” e “iatrogeno” sono le parole chiave attorno alle quali ruota l’intero discorso portato avanti da Cipriano nel suo ultimo libro “di denuncia” e “di battaglia”, ricorrendo nuovamente alle parole di Rovatti.

Tanto per essere chiari sin dall’inizio: nel suo nuovo libro Cipriano non si limita, in odor di ricorrenze, a rendere il giusto merito a Franco Basaglia per quel che ha saputo fare ma intende anche denunciare quel che è successo dopo-Basaglia e, soprattutto, portare avanti una battaglia di libertà qui ed ora. Non è tipo da semplici e comode commemorazioni il nostro “psichiatra riluttante”.

Fatta questa premessa veniamo al libro, anzi, a dire il vero si tratta di due libri in uno. La prima parte del volume è dedicata a una breve storia della follia e dell’anti-follia, cioè di quella che da poco più di due secoli si chiama psichiatria. Si badi bene, precisa Cipriano sin da subito, riprendendo Basaglia, che quando si parla di storia della psichiatria si parla sostanzialmente di psichiatri, di diagnosi, di terapie e di repressione e non delle storie di chi l’ha subita. La seconda parte del volume concede invece la parola ad alcuni compagni di viaggio con cui costruire un immaginario e pratiche capaci di portare ad una “nuova 180”.

In apertura la ricostruzione della storia della follia e dell’anti-follia prende il via, come suggerito dalla Storia della follia scritta da Michel Foucault, da un editto francese del Seicento che prescrive l’ammasso presso il Grand Hôpital Géneral parigino di tutti i devianti: «Dai mentecatti ai libertini, alle donne di facili costumi, agli alcolizzati». Un secolo dopo Philippe Pinel «separa i fuori di testa dai fuori di legge». Da una parte i rei, dall’altra i folli. Chi deve scontare una pena da una parte, chi deve sostenere una cura dall’altra. Il carcere per gli uni, l’ospedale psichiatrico per gli altri. Poi si cimenteranno sui folli gli asportatori di brandelli di cervello, gli inoculatori di malaria e i dispensatori di scariche elettriche sino all’arrivo degli spacciatori di psicofarmaci e dei prestigiatori semantici: gli psichiatri. È lungo questo percorso che si arriva ad incastrare a vita una persona: attraverso una diagnosi e una molecola.

Eccoci allora a Basaglia, cioè a colui che negli anni Sessanta del Novecento trova la forza, il coraggio e l’umanità per fare quello che né i padri nobili della psichiatria psicodinamica (Freud, Joung, Adler e Janet), né i fenomenologi (Jaspers, Minkowski, Binswanger ecc.) hanno mai fatto: «mettere in discussione il mezzo con cui la psichiatria opera: il manicomio, ovvero la malattia istituzionale, la iatrogenesi di cui lo psichiatra è responsabile» (p. 20). Ed è proprio a Basaglia che è dedicato il secondo capitolo del libro, ossia a colui che può essere considerato sia politicamente che scientificamente un rivoluzionario. È grazie a persone come lui che viene messo in crisi il paradigma scientifico secondo cui il manicomio è terapeutico. In realtà la distruzione del manicomio è la condizione necessaria affinché si possano porre le basi per una psichiatria terapeutica e non repressiva.

Rispetto ad altre pratiche alternative, secondo Cipriano, l’originalità dell’esperienza goriziana consisterebbe nell’inversione di ruoli: «il vero direttore è diventato il malato». In una relazione del 1964 passata alla storia, così Basaglia stesso riassume le tappe della sua rivoluzione copernicana: 1. Introduzione dei farmaci, grazie ai quali è possibile eliminare le contenzioni; 2. Rieducazione umana del personale; 3. Riannodamento dei legami con l’esterno; 4. Abbattimento delle barriere fisiche: reti e grate; 5. Apertura delle porte; 6. Creazione di un ospedale diurno; 7. Organizzare la vita dell’ospedale secondo lo stile di una comunità terapeutica. Insomma una guerra aperta tra «il principio di libertà» e il «principio di autorità». In concreto, sottolinea Cipriano, nel settimo punto basagliano occorre leggere la necessità che la vita comunitaria diventi assembleare.

Ad inizio anni Sessanta escono diversi libri poi rivelatisi importanti punti di rifermento per il gruppo basagliano nella battaglia contro i manicomi: Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz; L’io diviso (1961) di Ronald Laing.
Con l’intento di far conoscere quanto si sta sperimentando a Gorizia, sul finire del decennio viene fatto uscire il libro corale L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968) nel quale Basaglia pubblica un contributo intitolato Le istituzioni della violenza in cui sostanzialmente muove una critica a trecentosessanta gradi nei confronti di tutte le istituzioni fondate sulla rigida distinzione di piani: famiglia, carcere, ospedale, università, fabbrica, scuola… Già in questo suo intervento, sostiene Cipriano, emerge

la figura dell’intellettuale non più universale – quello che restandosene fuori dal mondo non solo engagé, à la Sartre, non solo organico, à la Gramsci, ma l’intellettuale tecnico di un sapere pratico che si immerge nelle istituzioni per cambiarle, o per distruggerle: quello che Rovatti definisce intellettuale riluttante. Ecco, Basaglia e i goriziani sono stati gli antesignani di questo nuovo tipo di intellettuale calato nelle istituzioni (p. 62).

Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge 180. Quella che ancora oggi, tanto dai detrattori, quanto dagli entusiasti, viene indicata come una svolta radicale in senso libertario a proposito di sofferenza mentale, all’epoca viene percepita dal gruppo di Basaglia come un compromesso se non, in qualche modo, una sconfitta. In particolare a suscitare perplessità sono il Trattamento Sanitario Obbligatorio e l’apertura di piccoli reparti psichiatrici negli ospedali. È pur vero che quella Legge 180 (successivamente assorbita all’interno della Legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale), o legge Basaglia (anche se nei fatti non è di certo sua la stesura), scrive Cipriano, forse rappresenta il massimo ammesso da quel contesto storico-culturale; una riforma più radicale avrebbe necessitato di una società più avanzata rispetto a quella dell’epoca.
Nel volume ci si sofferma anche su Le conferenze brasiliane da cui, secondo Cipriano, emerge quanto

Basaglia non sia stato rivoluzionario perché ha fatto la comunità terapeutica a Gorizia, che pure è stata una bomba che poi ha portato a Trieste e che gli altri goriziani esodati hanno portato in altri manicomi per deflagrarli, e neppure sia stato un rivoluzionario perché ha ispirato la scrittura della legge che li ha messi fuori legge, questi luoghi atavici, la sensazione è che davvero rivoluzionario Basaglia lo sia diventato da quel momento in poi. Come Che Guevara che cerca la Bolivia perché non si accontenta di ciò che ha fatto, come un Fanon che cerca la rivoluzione fuori dal manicomio, lui pure sembra cercare un terreno rivoluzionario e va in Brasile a coinvolgere i tecnici psi, e non solo, l’intero popolo brasiliano. (p. 82)

Basaglia, continua Cipriano, era un rivoluzionario anche sul piano politico «apolide e apartitco, probabilmente a suo modo anarchico. Inviso al PCI per la sua troppa carica libertaria […] Inviso all’Università, all’establishment, ai direttori di manicomio e ai manicomiali a cui toglie il potere dalle mani. Inviso per per la sua capacità pragmatica di portare fino in fondo questo suo impegno di uccidere il manicomio» (p. 85). Inviso pure, si badi bene, anche a tutti quegli “antipsichatri” che amavano scagliarsi contro il manicomio più a parole che con i fatti.
Anche sul farmaco la posizione di Basaglia è chiara. Non si tratta tanto di dirsi a sfavore di tutti i farmaci sempre e comunque; si tratta di vedere l’utilizzo che ne viene fatto e la finalità con cui li si somministra:

Noi dobbiamo dire che usiamo i farmaci, Ma cosa significa usarli? Normalizzare mentre stiamo facendo un discorso di liberazione? A me pare che dobbiamo riconoscere che la scoperta di alcune sostanze i grado di diminuire l’aggressività di una persona sia un fatto di lotta contro la natura, e questo discorso non mi scandalizza, perché questi prodotti offrono, ad alcune persone, una possibilità alternativa di esistenza, una contrattualità con l’altro, la possibilità di un rapporto. In realtà il farmaco ha una doppia faccia: terapeutica da un lato, e quindi strumento di liberazione, cronicizzante dall’altra, e quindi elemento di repressione. (Basaglia, Conferenze brasiliane – riportato a p. 86)

Nel terzo capitolo viene ricostruito il dopo Basaglia e qua Cipriano ripercorre lo sviluppo della cura mentale degli ultimi decenni riprendendo quanto approfondito nei suoi saggi precedenti: La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016). Se aprire i manicomi e liberare i reclusi è stata una lunga e dura battaglia, molto più ardua pare la battaglia per aprire i “nuovi manicomi”:

Aprire il DSM, inteso come Manuale Diagnostico e Statistico, e liberare le persone dalle etichette diagnostiche e del farmaco che pressoché inevitabilmente consegue all’etichetta […] Le due cose, i due manicomi moderni, se così vogliamo definirli, etichette e farmaci, che ne creano uno davvero difficile da aggredire, sono a tal punto embricati che è, e sarà sempre più difficile, distinguere la follia dal suo doppio, il disturbo psichico essenziale dal suo doppio, da tutto ciò che sembra disagio psichico e invece è iatrogenia (p. 119).

Nel libro vengono dunque ricostruite le tappe che hanno portato alla deriva farmacologica della psichiatria ed il ruolo assunto dalla diagnosi, ormai piegata totalmente a una logica che considera malattia qualsiasi disagio psichico. Tutti noi possiamo divenire pazienti psichiatrici: basta manifestare uno stato emotivo forte per vedersi prescritto uno psicofarmaco che, non di rado, diviene responsabile di un nuovo disagio che a sua volta richiede nuovi psicofarmaci in una spirale totalmente illogica se non per le industrie farmaceutiche che si assicurano così un paziente-cliente per lungo tempo, se non a vita.

Il quarto capitolo è dedicato alla necessità di una nuova 180 e al panottico digitale che sembra ormai fare capolino. Sul finire del 2017 i senatori Nerina Dirindin e Luigi Manconi hanno presentato un disegno di legge dal titolo Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180. Si tratta, sostiene Cipriano, di una sorta di 180 bis e se la 180 è derivata dalla battaglia di Basaglia, gli ispiratori di questa 180 bis si possono individuare in Franco Rotelli e Peppe Dell’Acqua. Tale proposta di legge intende intervenire su alcuni aspetti su cui la 180, in quanto legge quadro, non ha dato indicazioni attuative. Si tratta di una «legge-che-ribadisce», che intende far applicare una legge stesa sul finire degli anni ’70 e restata in parte inapplicata. Nel frattempo, però, l’istituzione manicomiale ha assunto nuove e molteplici forme che necessitano di essere messe in discussione.

Viviamo in una società caratterizzata da un nuovo panottico: il web in cui quotidianamente immettiamo informazioni su noi stessi, offriamo la nostra identità permettendo, se non chiedendo, ad altri di “tenerci d’occhio”, di “valutarci” e noi stessi finiamo a nostra volta, sentendoci gratificati da questo, per essere controllori e valutatori. Si tratta di un nuovo manicomio, un manicomio di tipo digitale che però si intreccia facilmente con quello concentrazionario, con quello chimico e quello diagnostico.

Un esempio del manicomio che ci aspetta Cipriano lo individua nell’inquietante progetto Proteus Digital Health a cui sta lavorando la Food and Drug Administration americana.

Il farmaco che deve essere immesso nel corpo di chi ne ha bisogno è l’antipsicotico ora più in auge, l’ultima molecola ritenuta antidoto alla psicosi: l’aripiprazolo commercializzato come Abilify. Tra i più costosi, si capisce. Proteus sarebbe in grado di inserire un sensore attaccato alla compressa, un sensore ingeribile quindi, che comunica con un altro sensore posto su un cerotto computerizzato indossato dal paziente o inserito sottopelle, di modo che il medico prescrittore dal suo tablet possa controllare l’intero percorso de farmaco, dall’ingestione all’assorbimento. Questo perché? Per contrastare la riluttanza delle persone con disturbo psichico ad assumere gli antipsicotici – scarsa compliance, viene definita – o l’assunzione a dosaggi inferiori alla prescrizione. Questo partendo dall’assunto – non provato – che non prendere antipsicotici inevitabilmente porti a ricadute (p. 166)

Per prospettare dove ci potrebbero portare sperimentazioni come Proteus, Cipriano prende spunto da un episodio della serie Balck Mirror intitolato Arkangel in cui si narra dell’impianto di un microchip nel cervello di una bambina in modo che la madre possa monitorarla costantemente intervenendo a distanza, attraverso un un tablet, per censurare agli occhi della figlia tutto ciò che potrebbe urtare la sua serenità. Così la figlia finisce per vivere in una sorta di realtà virtuale pilotata dal genitore attraverso il microchip Arkangel.

Arkangel è ciò che Protus potrebbe fare tra qualche anno. Un meccanismo per cui tutto accade per via digitale. Lo psichiatra fa la diagnosi. Prescrive. Il chip controlla. Il paziente non può più trasgredire. Questo è un mondo futuro, dove il cittadino modello è una sorta di androide, l’androide descritto immaginato narrato da Philip K. Dick, il cittadino modello dei regimi totalitari. Vivremo in una democrazia in ci tuttavia, come scrive Han, “la libertà sarà stata un episodio”. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. Si immagini un collegamento tra il sistema Proteus che monitora l’assunzione del farmaco e il profilo Facebook […] della persona stessa. Prendere il farmaco premiato dal like, non prenderlo sanzionato dal dislike. Essere puntuali nell’assunzione premiato da decine di love, o haha, o wow, disattendere l’assunzione sanzionato da sigh o peggio da grr […] sembra un po’ ridicolo a scriverlo, tutto ciò, eppure lo stiamo già facendo […] una semplificazione lessicale ed emotiva che rassomiglia alla neolingua immaginata da Orwell in 1984, la semplificata neolinuga […] funzionale a semplificare il pensiero (pp. 169-170)

Eccoci di fronte ad un immenso panottico che determina una sorveglianza reciproca. Occorre forse iniziare a pensare davvero a come uscire da questa manicomio diffuso entro cui ormai siamo tutti rinchiusi. E qua si entra nella seconda parte del volume. Una volta tratteggiata la storia della psichiatria, ora l’autore tenta di rispondere ad alcuni interrogativi:

ma chi sono, oggi, i nuovi operatori della salute mentale, gli intellettuali riluttanti, gli inventori di nuove pratiche di salute mentale? E che cosa pensano? Cosa ne pensano, soprattutto, di questa storia della psichiatria e cosa pensano del fatto che con gli studi e i diplomi e le patenti che hanno conseguito hanno scelto di calarsi, di sono calati, si stanno calando, stanno entrando in questa sotiria? Cosa pensano di fare? Come pensano di cambiarlo il corso di questa storia della psichiatria? (pp. 198-199)

Dunque il libro si apre alla coralità, la parola viene in qualche modo lasciata alle tante voci che possono contribuire alla messa in discussione delle vecchie e nuove forme manicomiali e ad un ripensamento delle modalità con cui affrontare la sofferenza mentale. Qua inizia un lungo viaggio in cui ci si imbatte in quelli che l’autore definisce rispettivamente gli “inventori”, gli “impazienti” e i “narratori”. A loro viene data la parola.

Tra coloro che cercano nuove strade per affrontare il disagio mentale, tra gli inventori di nuove pratiche di salute mentale, ci imbattiamo: in uno psicologo che allo studio preferisce l’orto ove lavora con migranti e disabili psichici; in una filosofa che ha operato in un day-hospital senza essere né medico né psicologo scoprendo che i tecnici, con le loro pratiche, si rivelano per lo più incapaci di relazionarsi con le persone; in un infermiere testardamente contrario alle fasce ed all’elettrochoc e in diversi altri operatori non convenzionali.

Poi, dopo gli inventori, la parola passa agli impazienti, agli esigenti, a quelli

dall’altra parte del muro di vetro che divide i sani di testa dai disturbati di testa, quelli che chiamano i pazienti, ma sono sempre meno pazienti, si sono fatti esigenti ed è giusto giustissimo che siano esigenti, c’è chi li chiama ancora utenti, ma non mi piace utente, malato mi piace ancora meno […] c’è chi li chiama ancora matti, chi folli, folle per esempio è bello, teste pieno di vento e di sogni, è un modo romantico ancora di raccontare la sragione, oppure chi li chiama semplicemente vittime della psichiatrica. E quanti di loro vogliono un soccorso. Un rapporto. E non gli piace di essere trattati così, oggettificati cosificati reificati, un numero, io sono una storia non un numero (p. 198)

Infine, nello spazio di mezzo, tra chi non è né malato né terapeuta, Cipriano ci porta tra narratori come Paolo Virzì, Nicola Lagioia, Silvano Agosti e Pierpaolo Capovilla, tra

quelli della società che suole dirsi civile, che sono capaci di pensare e di raccontare, con la propria arte, il mondo della follia e dell’anti-follia, quelli che sono artisti, sono narratori, sono registi, sono poeti, sono attori, sono musicisti, sono cantanti (p. 198)

Ed a proposito di narratori, il volume si conclude con un’intervista impossibile, con Basaglia che incontra Bolaño e con Cipriano che, di nascosto, prende nota.

Terminata la lettura di questo libro “di denuncia” e “di battaglia” ci rende conto come all’interno del manicomio diffuso contemporaneo si passi con estrema facilità dal ruolo di vittime a quello di carnefici.  Quella che continua a portare avanti testardamente Cipriano è una battaglia di libertà che ci tocca davvero tutti e tutte.


A proposito del libro Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018) si veda su Carmilla: Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano

 

 

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Lo sguardo non banale della follia https://www.carmillaonline.com/2018/05/12/lo-sguardo-non-banale-della-follia/ Sat, 12 May 2018 21:23:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45533 di Paolo Lago

Charles Folie e Iuri Lombardi, Il Vice Presidente venne dopo sette secondi (racconti), 96, rue de-La-Fontaine Edizioni, Torino, 2016, pp. 136, € 12,00.

Dopo Freud – scrive Michel Foucault – la follia è diventata una “prodigiosa riserva di significati”, una lingua che non dice niente proprio perché è dotata di un doppio linguaggio. Condotta al di fuori della reclusione manicomiale, la follia si è insinuata nelle pieghe del discorso, della voce, della parola, fino a divenire negazione della parola stessa. “Amici patetici, che appena mormorate, andate con la lampada spenta [...]]]> di Paolo Lago

Charles Folie e Iuri Lombardi, Il Vice Presidente venne dopo sette secondi (racconti), 96, rue de-La-Fontaine Edizioni, Torino, 2016, pp. 136, € 12,00.

Dopo Freud – scrive Michel Foucault – la follia è diventata una “prodigiosa riserva di significati”, una lingua che non dice niente proprio perché è dotata di un doppio linguaggio. Condotta al di fuori della reclusione manicomiale, la follia si è insinuata nelle pieghe del discorso, della voce, della parola, fino a divenire negazione della parola stessa. “Amici patetici, che appena mormorate, andate con la lampada spenta e rendete i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza”: così suona una frase di René Char citata da Foucault nella prefazione della sua Storia della follia. I personaggi della stupefacente raccolta di racconti, Il vicepresidente venne dopo sette secondi di Charles Folie e di Iuri Lombardi sviluppano la loro legittima stranezza nella forma della narrazione, di una contingenza di situazioni raccontate che si situano come negazione della normale parola, della banalità del discorso, del lato più scontato della voce. Perché, come leggiamo nell’esergo da Flaubert, “in ogni cosa c’è un lato inesplorato” e “la minima cosa contiene un punto d’ignoto”. Probabilmente, riuscendo a guardare con il peculiare punto di vista di questa “follia” “riserva di significati”, si riesce anche ad esplorare i numerosi punti di ignoto ancora presenti nella realtà che ci circonda.

Se la follia è presente persino nel nome francesizzante, pseudonimo di uno degli autori, Carlo Follia (traduzione italiana, appunto, del nome francese) è anche il protagonista di uno dei racconti di Charles Folie, I Cacciatori del Tempo. Follia, “insegnante presso l’asilo nido dell’Ateneo La Sapienza di Roma”, vive sommerso dai libri e si immerge in una lettura tutta personale della Recherche proustiana, avendo forse scoperto il varco verso quel “punto d’ignoto”, verso una lettura non banale della realtà e della letteratura stessa, della narrazione, probabilmente in modo più autentico e misterioso di quanto non facciano i professori universitari che gli affidano i propri figli per recarsi alle lezioni, perduti in vuote e prefabbricate interpretazioni della cultura e dell’arte. Legato all’universo della follia è anche il racconto successivo di Folie, Non voglio morire solo, in cui il folle Flammery, all’interno di una struttura di degenza, ossessionato dalla paura di morire da solo, è forse capito veramente soltanto da Saviers, un altro internato che si crede psichiatra, colui che scavalca le rigide “griglie” psicanalitiche freudiane (per dirla con il Deleuze e Guattari de L’Anti-Edipo) per un approccio più umano e spontaneo con la malattia mentale.

Il racconto che apre la raccolta (e che le dà il titolo), sempre di Charles Folie, mette in scena una situazione dominata da un assurdo straniante: il Vice Presidente Responsabile del Consiglio di Amministrazione di una azienda se ne va in giro in una freddissima giornata di novembre cercando di fare acquisiti con una banconota da cinquecento, unico denaro che ha in tasca. Questo racconto, a mio avviso possiede un’impronta – mi si passi il termine – profondamente ‘marxista’ in quanto si incentra sui meccanismi del potere economico che regolano la società e sui rapporti fra gli individui di diverse classi sociali. Il Vice Presidente è ingessato nella sua immagine di uomo di potere (e di potere economico) per il modo di vestire, per l’arroganza e il cinismo con cui tratta chiunque, ma soprattutto per il suo mettere in mostra continuamente e in maniera quasi feticistica quella famigerata banconota da cinquecento (il tipo di moneta, tra l’altro, non viene mai specificato, ma questo alla fine non conta). L’esposizione spettacolare del potere economico avviene così di fronte a due anziani baristi, a un tassista, a un cameriere-cuoco di un povero ristorante del quartiere operaio, a un albergatore, a un altro barista e a un gruppo di avventori ubriachi. In tutto questo infernale e assurdo rondò, l’autore ripete quasi fino alla nausea il ruolo sociale del protagonista, quella parola “Vice-Presidente”, nauseante di burocrazia e di potere, che finisce per non assumere più nessun significato nel vortice picaresco di incontri e avventure nel quartiere operaio. E non è un caso, credo, che una buona parte delle vicende del racconto si svolga in questa peculiare ambientazione, caratterizzata, ancora una volta marxisticamente, dall’aggettivo “operaio”. Il protagonista si muove all’interno di questa realtà come in un mondo alieno, lontano da sé, un mondo che osserva con uno sguardo distaccato e quasi ‘schifato’. La bravura dell’autore sta nel farci osservare spaccati di mostruosità sia nel protagonista e nella sua classe di appartenenza, vuota e cinica, sia nell’universo proletario e suburbano che il personaggio si ritrova a percorrere, abbandonato a se stesso e attraversato da plaghe irrisolte di crudeltà e di violenza.

Il racconto successivo, firmato dall’altro autore, Iuri Lombardi, e intitolato Iuri dei miracoli, ci conduce all’interno di una dimensione più intimistica e introspettiva. La sapiente e magica scrittura di Lombardi allestisce un ritratto autobiografico in chiave di riflessione sul proprio passato e sulla propria esperienza. Ma la dimensione di realtà che dovrebbe essere sottesa al genere dell’autobiografia viene completamente scardinata da un impianto onirico e visionario. Il sé così raccontato non è immerso nella realtà, ma in una dimensione parallela nella quale si possono scorgere con più chiarezza i lati più inesplorati dell’esistenza. Ancora una volta si distende sul mondo uno sguardo non banale, si apre l’impronta di una follia creativa e immaginifica che prelude a non scontati orizzonti. Con uno stile poetico che mi ha fatto pensare all’Ecce Homo di Nietzsche, Lombardi costruisce un intarsio magico di ricordi, di momenti, di situazioni legati alla figura del sé che sta mettendo in scena e questa figura del sé è costruita mediante un chiaro impianto di formazione. Quasi come un visionario Bildungsroman, profondamente venato di afflati poetici (mi sono venute in mente anche certe composizioni di Dino Campana), il racconto dispiega uno scenario e una ambientazione contemporaneamente reali e fantastici, venati di magia, come le descrizioni della campagna e di una Firenze irretita dal gelo della nevicata dell’85. Numerosi personaggi, accanto alla figura del sé, si avvicendano nelle pagine del racconto e scaturiscono dalla scrittura come tante appendici del paesaggio e dell’ambiente e quasi in sinergia con esso. Ambiente, cose e persone sono l’inequivocabile tessuto ritmico del racconto, un filo che si dipana in immagini che si dipingono di significativa poesia visionaria.

Non meno pervaso di poesia è un altro, interessante racconto di Lombardi presente nella raccolta, Roma, che si apre con l’arrivo di una carovana di giostrai nella campagna romana. Questi ultimi, quasi messi di una follia che nega la banalità della parola in nome di inenarrabili corrispondenze, sono i sovvertitori dell’ordine quotidiano, culturale e sociale, creatori di un nuovo ordine sociale, mentre dintorno il paesaggio si accende di un “barlume di allegria” e di “spensieratezza”. Alfieri di una nuova e visionaria rivolta sociale, come il predicatore friulano Giovanni che si aggira nei dintorni della Capitale, i giostrai sono i ‘nomadi’ giunti da un altrove, sono figure quasi dionisiache che mirano a perturbare l’ordine stanziale della quieta e balzana borghesia, rappresentata dal marchese Annibale De Caro Da Roccasecca e da don Giuseppe, prete del Vaticano, ma anche da Alba Satriani, annoiata signora borghese che cerca conforto fra le braccia dei sottoproletari dai nomi latineggianti di Attilio e Tiberio. Non a caso, i giostrai verranno allontanati, scacciati dalla città (come succede agli indesiderati campi rom nelle nostre città) per essere ricollocati in un luogo lontano, dove, con la loro smagliante ‘diversità, non possono più disturbare la perbenista banalità del quotidiano. Lo stesso Giovanni, “il pazzo saccente, il nuovo messia, fu imprigionato e portato lontano, in una clinica psichiatrica” (stessa sorte era toccata a Dioniso nelle Baccanti di Euripide).

Ma lo sguardo non banale della follia, la “sua prodigiosa riserva di significati” continuerà a scavare la realtà interpretandone i lati inesplorati, come capiamo leggendo gli altri racconti di Lombardi e Folie presenti in Il presidente venne dopo sette secondi. È tempo, quindi, che la mia voce si taccia per poterli direttamente scoprire e leggere, alla scoperta di nuovi, inusitati “punti di ignoto”.

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Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano https://www.carmillaonline.com/2018/05/06/libro-delle-metamorfosi-intervista-piero-cipriano/ Sat, 05 May 2018 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45116 di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non è possibile sfuggire. In attesa dell’uscita del libro ti chiediamo di anticiparci brevemente qualcosa a tal proposito.

[pc] I quarant’anni di una legge straordinaria ma tutto sommato per lo più tradita offrono l’occasione per fare il punto. Quella legge era fatta a misura del manicomio classico, quello che siamo abituati a pensare essere il manicomio, l’unico manicomio, il manicomio inventato da Pinel nel 1794, il manicomio lager che serviva per segregare i devianti affetti da un qualche elemento di follia, non per curarli e restituirli alla società ma per separarli per sempre da essa. Un luogo dove si compiva un’eutanasia sociale prossima a quella dei lager nazisti. Il luogo della definitiva sparizione degli esseri umani diversamente ragionanti. Diciamo che con la legge 180 si decretava, in Italia almeno, la fine di questi dispositivi di annientamento. Ma, è quel che sostengo in questo libro, il manicomio è un Proteo, è cangiante, e la psichiatria ha saputo sempre declinarsi in un manicomio; posto fuori legge il manicomio concentrazionario ecco ascendere, proprio a partire dal 1980, un manicomio fatto di etichette diagnostiche e psicofarmaci conseguenti, a vita, quel manicomio che ho definito chimico, il 2.0, diciamo. Ma questo manicomio invisibile si embrica con un ulteriore manicomio, trasparente, emanazione di questa società della trasparenza, la società digitale del web, della rete, dei social network, dove ognuno si denuda e mette in piazza la sua esistenza, dove il controllo è totale, come in un panottico dove, a differenza di quello benthamiano, i controllori sono gli stessi controllati, un controllo reciproco a 360 gradi, perfetto. Dirai ok, ma come questo si interseca con il manicomio chimico e quello concentrazionario? Ti faccio un esempio. La Food and Drug americana sta sperimentando un sistema detto Proteus (non per caso ispirato al Proteo mostro cangiante della mitologia) per rendere l’assunzione dei nuovi antipsicotici sicura, certa, assoluta. Il malato psichico del prossimo futuro digitale ingoia la pasticca, dotata di un sensore ingeribile che comunica con un sensore posto sulla pelle che a sua volta comunica col tablet dello psichiatra, il quale alla prima trasgressione provvederà al ricovero obbligatorio, in un reparto chiuso. Ecco che il manicomio chimico si embrica con quello digitale e con quello concentrazionario. L’uno non esclude l’altro ma si combinano. Poi mi sono perfino immaginato un povero paziente psichico digitale la cui assunzione o meno del farmaco con sensore sarà premiata con un like o biasimata con un dislike da parte dei suoi cosiddetti amici social-virtuali. E così via. Non ti racconto tutto…

[ght] Nel libro, ricostruendo la lunga lotta condotta da Basaglia contro il manicomio concentrazionario e il significato assunto dalla Legge 180 da essa derivata, insisti sulla necessità di una nuova rivoluzione anti-manicomiale. Ti chiediamo di fornirci qualche elemento utile a motivare l’urgenza di una nuova rivoluzione nell’ambito del disagio mentale.

[pc] La Legge 180 è stata una legge straordinaria, meglio di così non si poteva fare. Però è stata applicata solo in pochi luoghi, che peraltro dimostrano proprio il contrario di ciò che sostengono i detrattori, ovvero che sapendola attuare è una legge che fa quel che deve fare, ovvero elimina la manicomialità, e permette la cura delle persone nei luoghi di vita e non nelle cliniche, nei letti, nei luoghi a parte, nei tanti manicomietti e caravanserragli sparsi per il paese, che si chiamino SPDC che si chiamino casa di cura che si chiamino comunità terapeutica che si chiamino REMS. Una rivoluzione politica e scientifica che, come spesso succede, è stata in parte riassorbita, se non vanificata. La vicenda del suo ispiratore, Franco Basaglia, sulla cui figura imposto questo libro, assomiglia a quella del ginecologo viennese della metà dell’Ottocento, Filippo Ignazio Semmelweis. Il quale aveva intuito che la sepsi puerperale delle donne gravide dipendeva dalle mani dei medici, che non lavate, le infettavano a morte. Bastava lavarsi le mani, suggerì Semmelweis. Grandissima intuizione, politica e scientifica. Ebbene, fu necessario mezzo secolo perché Pasteur dimostrasse, con le scoperte microbiche, che Semmelweis aveva ragione. Nel frattempo i medici avevano ottusamente continuato a non lavarsi le mani. Nel nostro specifico sembra sia accaduta la stessa cosa. Basaglia come Semmelweis dice sono gli psichiatri che con i loro dispositivi internanti ovvero i manicomi uccidono, socialmente e fisicamente, le persone. Ancora una volta il motivo della malattia è iatrogeno. Lavatevi le mani. Eliminate i manicomi. Be’, siamo anche noi in attesa di un Pasteur della psichiatria che confermi l’intuizione di Basaglia e dica: i manicomi ammalano, non curano.

[ght] Nel libro concedi spazio ad autori come Paolo Virzì, Silvano Agosti, Nicola Lagioia e Pierpaolo Capovilla, accomunati dall’avere raccontato al grande pubblico il mondo della sofferenza mentale. Mi sembra sia importante raggiungere un pubblico diffuso perché quella rivoluzione anti-manicomiale di cui parli richiede una rivoluzione dell’immaginario collettivo e il ruolo del cinema, della musica, della narrativa e di altre forme di comunicazione è probabilmente fondamentale per il raggiungimento di questo scopo.

[pc] In effetti non l’ho detto ma lo dico ora: sono due libri, appunto. Nel primo libro, che rappresenta la prima parte, faccio una contro-storia della follia e dell’anti-follia ovvero la psichiatria, da Pinel a oggi, dove il fulcro è Basaglia. C’è insomma, io penso, nella storia della psichiatria, un prima e un dopo Basaglia. Un po’ come quell’altro, che non nomino. Nel secondo libro, appunto per capire con chi farla questa rivoluzione se di rivoluzione vogliamo parlare, oppure questa nuova 180 di cui c’è bisogno, do la parola ai nuovi tecnici, operatori, esperti della salute mentale. Capire da loro cos’hanno in testa. Cosa pensano di fare. Purtroppo erano tanti a cui ho dato la parola, e siccome il libro è fatto di pagine e di carta, ad alcuni di loro a malincuore ho dovuto toglierla, nel senso che troveranno spazio nella versione e-book, ma non nella forma cartacea, in cui saranno presenti solo cinque: uno psicologo che fa lo psicologo non nello studiolo dorato ma in un orto, una filosofa che fa le consulenze filosofiche, un giovane psichiatra che come me a trent’anni si sente un cane in chiesa, un’infermiera poco più che ventenne che vede le fasce come il fumo negli occhi, e un’economista nonché esperta di jazz che non ha neppure uno straccio di attestato che la abiliti alla cura eppure ha delle splendide idee di come una società dovrebbe prendersi cura di sé invece di ricorrere agli esperti.
Prima di arrivare a quelli famosi di cui mi chiedi, devo dirti che ho dato la parola anche agli esigenti, ovvero impazienti che hanno delle idee molto chiare su cosa vogliono e cosa non, hanno avuto un inciampo psichico ma non gli piace di essere maltrattati da operatori poco gentili. Sono una filosofa una poetessa e un narratore. Sono stupendi. Infine questi quattro grandi autori. Perché? Quando Basaglia prese la direzione del manicomio di Gorizia prima e di Trieste poi cosa fece? Per prima cosa li aprì, e dopo li distrusse. Per distruggerli però li dovette prima aprire. Aprire alla cittadinanza. Da lager diventarono nel giro di pochi anni luoghi di vita: concerti, spettacoli, teatro. Entrarono Dario Fo, De Gregori, gli Area, Battiato, molti altri. Nel momento in cui erano stati aperti, fu facile abolirli, a quel punto non avevano più senso come luoghi di internamento.
Per i nostri manicomi succedanei direi che è un po’ la stessa cosa. Abbiamo bisogno di farli conoscere. Ho individuato alcuni artisti che per un verso si sono già occupati a fondo di questi temi, per altri versi sono dei potenti amplificatori. Virzì veniva fuori dal film La pazza gioia dove racconta benissimo le contraddizioni della psichiatria italiana di questi anni. Mi venne a cercare nell’ospedale dove lavoro dopo aver letto Il manicomio chimico, a quei tempi era voracissimo di tutto ciò che ineriva il tema, sapeva tutto, ed era appassionato e direi decisamente schierato. Era con noi, con Basaglia, con Marco Cavallo, nel film denunciava le contenzioni, l’elettrochoc, la follia dei manicomi giudiziari, le pasticche facili, insomma, il suo film l’ho trovato molto più potente e immediato di molti saggi o documentari. Direi che è stato, per questo tema, ciò che negli anni Settanta era stato Silvano Agosti, autore di Matti da slegare e del documentario Il volo con cui filmava Basaglia e duecento internati in gita aerea su Venezia. Perciò ho voluto intervistare pure Agosti, testimone di quella rivoluzione. Nicola Lagioia, invece, apparentemente è il meno dentro alla questione manicomi, però è esperto di quel tipo di manicomio che sono le sostanze o gli psicofarmaci. In che senso. Nel senso che con lui i mediatori sono stati due narratori su cui lui è ferratissimo, e che, secondo me, sono stati i massimi esperti dei due manicomi di cui scrivo: Roberto Bolaño dei grandi manicomi concentrazionari dell’America latina, di cui parla nei Detective selvaggi e in 2666, e David Foster Wallace del manicomio chimico, essendo un dichiarato dipendente da antidepressivi, i nuovi psico-cosmetici che alimentano questa nostra contemporanea società della prestazione. Infine Pierpaolo Capovilla, è stato divertente intervistare un cantautore rock di cui, essendone diventato amico, pensavo di sapere già molte cose. Invece viene fuori ancora il fuoco, la passione civile che lo divora, e che ha messo a disposizione della causa dei perdenti. Dei soccombenti, voglio dire, in questa lotta cartesiana tra chi ha la ragione e chi no.


[Su Carmilla:Conversazione con Piero Cipriano, psichiatra riluttante” – P. Cipriano, “Le psichiatrie al lavoro” – P. Cipriano, “Il manicomio che non vuole morire” – P. Cipriano, “Lo specialista pericoloso” – P. Cipriano, “Metapsicologia dell’inanalizzabile” – P. Cipriano, “Il selvaggio Abrahams: tra Bolaño e Basaglia” – Volumi di Piero Cipriano recensiti: P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale (2013) – P. Cipriano, Il manicomio chimico (2015) – P. Cipriano, La società dei devianti (2016)]

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La guerra nel cervello https://www.carmillaonline.com/2017/01/20/35886/ Fri, 20 Jan 2017 22:30:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35886 di Armando Lancellotti

copertina-sorcinelli-follia-della-guerra-bassa-ris-rgbPaolo Sorcinelli, La follia della guerra. Storie dal manicomio 1940-1950, Odoya, Bologna, 2016, pp. 223, € 16,00

La scelta dell’editore bolognese Odoya di riproporre, a ventiquattro anni di distanza, questo libro pubblicato nel 1992 dalla casa editrice Franco Angeli, ci sembra condivisibile ed apprezzabile, sia per l’argomento in sé – il rapporto eziologico tra guerra e follia – tragicamente ed inevitabilmente sempre attuale, sia per l’interessante analisi che l’autore principale, Paolo Sorcinelli, storico e per molto tempo docente di storia sociale presso l’Università di Bologna e i suoi collaboratori, Maurizio Camellini, Sabina Cremonini e Paolo Giovannini, presentano nei [...]]]> di Armando Lancellotti

copertina-sorcinelli-follia-della-guerra-bassa-ris-rgbPaolo Sorcinelli, La follia della guerra. Storie dal manicomio 1940-1950, Odoya, Bologna, 2016, pp. 223, € 16,00

La scelta dell’editore bolognese Odoya di riproporre, a ventiquattro anni di distanza, questo libro pubblicato nel 1992 dalla casa editrice Franco Angeli, ci sembra condivisibile ed apprezzabile, sia per l’argomento in sé – il rapporto eziologico tra guerra e follia – tragicamente ed inevitabilmente sempre attuale, sia per l’interessante analisi che l’autore principale, Paolo Sorcinelli, storico e per molto tempo docente di storia sociale presso l’Università di Bologna e i suoi collaboratori, Maurizio Camellini, Sabina Cremonini e Paolo Giovannini, presentano nei nove capitoli che compongono il libro.

“La follia della guerra” è il titolo ed è da intendersi tanto come indicazione del senso complessivo del saggio e della ricerca che ne sta alla base, quanto come denuncia dell’assurdità delle guerre, non solo di quelle che ci stanno alle spalle, ma anche di quelle che abbiamo davanti agli occhi quotidianamente. Come viene spiegato nella Premessa, l’idea di studiare le connessioni tra guerra e follia attraverso l’analisi delle cartelle cliniche di alcuni ospedali psichiatrici risaliva al 1984 e ad un convegno sulla Linea Gotica a cui Sorcinelli prese parte; idea poi sviluppata presso il corso di laurea in Storia contemporanea dell’Università di Bologna. E nell’area prossima tanto all’ateneo bolognese quanto alla Linea Gotica rientrano gli ospedali psichiatrici di cui furono studiati gli archivi: il San Lazzaro di Reggio Emilia – a cui appartiene il 55% delle 431 cartelle cliniche e fascicoli personali consultati – e a seguire il San Benedetto di Pesaro e il Sacchi di Mantova, a cui si aggiunge, ma solo molto marginalmente, l’ospedale psichiatrico Roncati di Bologna.

Quando il libro fu pubblicato per la prima volta costituiva di certo un lavoro innovativo, dal momento che indagava il problema dell’esperienza bellica come causa determinante e principale di malattie e turbe mentali, focalizzando l’attenzione non sulla Grande Guerra – terreno allora già più frequentato per la questione in oggetto – ma sulla seconda guerra mondiale, sul periodo 1940-1950 e con l’intenzione di allargare lo spettro dell’osservazione a tutte le categorie toccate dal problema: non solo i soldati sui diversi fronti, ma anche i civili, le donne, tanto i partigiani quanto i repubblichini di Salò, gli internati e i deportati dei campi.

Due terzi dei casi esaminati riguardano uomini, dato statistico che non sorprende, mentre stupisce forse di più quello attinente al divario, tutto sommato contenuto, tra militari e civili. In parte perché la seconda guerra mondiale, ancor più della prima, ha coinvolto completamente la popolazione civile e in parte anche perché la ricerca riguarda il decennio 1940-1950 e quindi comprende pure numerosi casi di persone che si sono rivolte alle strutture psichiatriche dopo il ’45, per procurarsi certificazioni mediche allo scopo di ottenere il riconoscimento di una pensione e che pertanto sono classificate come civili, anche se in realtà si tratta spesso di ex militari.

Interessante la lettura dei dati riguardanti il numero dei ricoveri calcolato sulla base di tre periodi: dall’entrata dell’Italia in guerra nel 1940 all’8 settembre 1943, dall’armistizio al 25 aprile 1945 e dopo la Liberazione. Solo a Pesaro il numero dei ricoveri effettuati dopo il 25 aprile supera di molto quello del periodo bellico e questo – a giudizio dell’autore – come conseguenza di un ben preciso orientamento ideologico del direttore dell’ospedale e degli psichiatri pesaresi che, contrariamente all’indirizzo prevalente nella psichiatria del tempo, non esitavano a porre una diretta relazione causale tra la guerra e le patologie psichiatriche, anche al fine, talvolta, di facilitare l’ottenimento di una pensione, «malgrado questo comportasse una limitazione dei diritti del paziente e dei suoi congiunti» (p. 16).

Fin dalle prime pagine del libro va delineandosi quindi quello che possiamo indicare come il contributo principale e più interessante fornito da questo libro allo studio e alla conoscenza dell’argomento trattato e cioè la riflessione sulla storia della psichiatria, sui suoi fondamenti epistemologici nella prima metà del Novecento, sulle sue reticenze nel riconoscere le atrocità della guerra come condizione prima e sufficiente del manifestarsi di disturbi psichici.

Infatti, nonostante la seconda guerra mondiale sia stata non solo una catastrofe materiale ed una ecatombe per milioni di vite umane, ma anche un vero a proprio flagello psichico per l’umanità, il paradigma scientifico psichiatrico imperante nella prima metà del XX secolo e risalente alla cultura positivistica ottocentesca sostiene ancora che «la guerra non può provocare “la comparsa di psicosi in individui sani, siano pure terribilmente gravi le emozioni, gli strapazzi, le privazioni da essi subiti” e perciò è di per se stessa asettica e tuttalpiù semplice fattore casuale per quelli che sani non sono e non lo sono mai stati» (p. 35).

Dal punto di vista storico-epistemologico questo denota come la psichiatria del tempo ancora fosse saldamente ancorata ad un modello organicistico che considerava come determinati le cause patogene organiche ed endogene e come meramente concomitanti quelle esogene di carattere emotivo-traumatico. Pertanto, il soggetto che manifestava un disturbo psichico a seguito delle esperienze vissute al fronte (o in un campo di internamento o come conseguenza di un bombardamento o di violenze subite o di cui era stato testimone) era da considerarsi come organicamente predisposto alla malattia, alla follia e la guerra si riduceva a semplice e tutto sommato irrilevante causa secondaria che portava a manifestazione una predisposizione latente; insomma una sorta di casus belli che fa precipitare gli eventi pur non essendone la vera ragione scatenante.

Dal punto di visto storico-politico rivela quanto l’ideologia bellicistica, che a inizio Novecento aveva messo profonde radici nella mentalità e nell’immaginario del nazionalismo imperialista italiano, per poi trovare un momento di massima affermazione nell’interventismo della Grande Guerra e di sublimazione ideologica nel fascismo, fosse a tal punto dominante da condizionare incisivamente anche l’interpretazione medico-psichiatrica della guerra, che finiva per perpetuare l’immagine eroica del milite e positiva dell’atto bellico, immagine che avrebbe potuto essere offuscata dalla denuncia della stretta correlazione tra trauma bellico e psicosi.

Scrive Sorcinelli: «Nel dibattito sul “meccanismo di produzione” delle forme psichiche e nevrotiche di guerra, in teoria “il campo è diviso tra quanti ne sostengono l’origine prevalentemente organica, da commozione, e quanti ne affermano la genesi puramente psichica, da emozione; in realtà quella dell’origine organica svolgerà a tutti gli effetti una funzione interpretativa dominante secondo una tradizione culturale e scientifica ampiamente collaudata nel passato e che sarà alla base anche di gran parte degli studi psichiatrici e psicologici del secondo Dopoguerra» (p. 36).

Significative, a questo proposito, sono le parole del dottor Gorrieri, psichiatra presso il manicomio di Genova, che nel 1912, esaminando alcuni soldati italiani colpiti da disturbi psichici in seguito alla loro partecipazione alla guerra di Libia (1911-1912), sostiene che «cinque su sei avevano eredità psicopatica, ed erano stati in precedenza sofferenti di disturbi nervosi», per concludere poi che «non esiste una psicosi caratteristica conseguente alle emozioni di guerra […]. L’emozione di guerra non deve ritenersi di per se stessa sufficiente a produrre stati psicopatici. […] Un tal complesso di fattori (emozionali ed esaurienti) determina poi la psicosi, in quanto agisce sopra individui compromessi in via ereditaria, o nevrotici, o psicopatici in latenza» (p. 37).

Anche durante il secondo conflitto mondiale, i medici attivi presso i reparti neuropsichiatrici degli ospedali da campo riconfermano le tesi dei loro colleghi di trent’anni prima, come lo psichiatra Andrea Marri che è «a questo proposito categorico: la casistica di cui dispone lo porta a escludere […] che individui sani possano essere vittime di psiconevrosi in diretta conseguenza degli avvenimenti bellici» (p. 53).
Per insinuare il dubbio nelle granitiche certezze dello scienziato, basterebbero, con la loro disarmante semplicità, le parole «del “folle” soprannominato Mauthausen che, ancora agli inizi degli anni Sessanta, […] rivive i giorni della ritirata dell’Armir dalla Russia» e si chiede: «Dicono che sono matto. Ero matto quando sono andato a fare il soldato? Se ero matto perché mi hanno fatto abile?» (p. 41).

Non si deve dimenticare, come fattore che concorre a questa lettura delle relazioni tra guerra e follia, il forte condizionamento ideologico-politico, che va ad aggiungersi a quello scientifico-culturale e che muove dalla premessa assiomatica secondo cui la guerra e le guerre fasciste in particolare sono depositarie e promotrici di valori positivi per l’individuo e per la comunità nazionale. Ne consegue l’esigenza di presentare l’immagine di un esercito forte, sano, interiormente convinto dell’incarico affidatogli dal regime; un’immagine che sarebbe uscita quantomeno imbrattata dall’associazione diretta tra guerra e caduta nella follia di chi la combatte.
Come nel caso della “fascista” guerra di Spagna, quando «i casi di psiconevrosi», osserva Paolo Giavannini, «di simulazione e di esagerazione che si notano fra i volontari in Spagna vengono fatti risalire a predisposizione congenita e a fattori di criminalità costituzionale, nell’evidente tentativo di rilanciare un’immagine dell’esercito italiano “sotto ogni riguardo perfetto”, grazie all’opera di “bonifica umana” e di “elevazione della coscienza nazionale” operata dal fascismo e di fornire contemporaneamente una lettura del “fattore guerra” nell’ottica di una funzione selezionatrice, capace di temperare i caratteri, esaltare i forti e, perché no, mettere in luce predisposizioni a malattie mentali e nervose» (p. 48). Si tratta di un paradigma lombrosiano-evoluzionistico in cui la guerra fa da fattore selettivo in funzione di una “evoluzione sociale” di impronta fascista.

Questo può aiutare anche a comprendere le cause della differenza quantitativa, tra primo e secondo conflitto mondiale, riguardo all’interesse ufficiale degli psichiatri sulle relazioni tra guerra e follia: molti sono gli studi e gli articoli nel periodo della Grande Guerra, pochissimi durante la seconda guerra mondiale. Fu probabilmente la volontà, consapevole o meno, di evitare complicazioni politiche, a cui l’approfondimento scientifico e psichiatrico del rapporto tra guerra e follia poteva condurre, a rendere gli studiosi così parsimoniosi nel redigere articoli o pubblicare studi sull’argomento.
Al contrario, le argomentazioni di uno dei più importanti psichiatri del periodo, Giorgio Padovani, il quale, «partecipando nel 1950 a Parigi al primo congresso mondiale di psichiatria, crede di poter ravvisare le cause di questa carenza nella “disposizione di ostilità” degli italiani nei confronti della guerra in generale e di tutto ciò che “la concerne”» (p. 48), non solo sembrano poco pertinenti, ma soprattutto risultano coerenti con un altro paradigma – questa volta non scientifico e medico, ma ideologico-politico – e cioè il paradigma riduzionistico ed autoassolutorio che più tardi verrà chiamato degli italiani brava gente.

Dopo la guerra si registrano una ripresa dell’interesse per la “follia di guerra” ed un miglioramento quantitativo, ma non qualitativo, degli studi, rimanendo le teorie organicistiche di fondo sostanzialmente invariate, con l’aggiunta di analisi che vanno in direzione di una lettura “classista” delle malattie psichiche, che attribuisce come tipiche le manifestazioni isteriche alla truppa, mentre agli ufficiali, considerati più “evoluti” socialmente e culturalmente, associa le sindromi nevrasteniche.
Secondo Padovani, «le motivazioni che operano nella patogenesi dei disturbi neuropsichici degli ufficiali sono dunque di carattere altruistico, contraddistinte cioè dal senso di responsabilità verso la patria e verso i subordinati, mentre nella truppa hanno il sopravvento le tensioni connesse allo spirito egoistico e al puro istinto di sopravvivenza» (p. 56).
Un passo avanti lo si compie anche nell’interpretazione e nell’individuazione delle cause delle nevrosi di guerra – simili, ma non identiche – a quelle delle nevrosi in tempo di pace; prende forma la consapevolezza della differenza tra l’Io del soldato e l’Io del civile, ma questo non comporta ancora una radicale messa in discussione del modello psichiatrico complessivo.

Maurizio Camellini considera un altro interessante aspetto del fenomeno guerra-follia, ponendo in relazione l’aumento dei casi di ricovero in manicomio per cause riconducibili alla guerra con il venir meno del consenso al regime, cioè con l’indebolimento delle capacità persuasive della sua organizzazione propagandistica proprio a seguito dei rovesci bellici e dopo l’8 settembre.
In alcuni casi, fa notare lo studioso, si trattò di tentativi di sottrarsi al reclutamento ordinato dalla Rsi attraverso il ricovero in ospedale psichiatrico, ma complessivamente si può dire che fino a quando le strutture massificanti e spersonalizzanti della propaganda del regime furono in grado di reggere e di produrre identificazione ideologica con le ragioni della guerra, meno numerosi furono i casi di malattie mentali conseguenti alla guerra stessa; mentre questi andarono aumentando quando, venendo meno il condizionamento culturale ed ideologico complessivo, la soggettività individuale si ritrovò, sola, ad affrontare le proprie contraddizioni e i traumi subiti dalla guerra.

L’apparato sanitario dell’esercito italiano si dimostra attento e solerte nel registrare e valutare l’insorgenza dei sintomi di disturbi mentali e «presso gli ospedali militari e alle dipendenze della Sezione osservazione, funzionano appositi reparti neuropsichiatrici […] con il compito di discernere, in tempi brevi, la natura e la consistenza della patologia accusata e “compito importantissimo”, di verificare i casi di simulazione» (p. 62).
Le preoccupazioni principali dei medici militari sono quelle di allontanare dalla truppa combattente elementi che potrebbero essere nocivi per la loro instabilità nervosa e scoprire i “simulatori-disertori”. A fare da sfondo a questo programma igienico-militare vi è l’ideologia – non certo prodotta per primo dal fascismo, ma da questo enfatizzata – secondo cui l’immagine dell’esercito deve restare dissociata da quella della malattia mentale e, pertanto, non è opportuno considerare la guerra come causa scatenante di un disturbo psichico.

Di vera e propria fascistizzazione della scienza medica e psichiatrica si può parlare leggendo le parole scritte nel 1942 dal tenente colonnello medico Carvaglio, docente di medicina legale della Scuola di sanità militare di Firenze, per il quale «In linea generale, tutte queste psicosi dovranno essere dichiarate come non dipendenti da cause di servizio. Abbiamo detto come si tratti di forme costituzionali o, almeno, di forme nelle quali l’elemento predisposizione ha un’importanza preminente; il fatto di servizio […] non potrà mai assurgere al valore di causa unica e diretta delle sindromi» (p. 66).
Ancora una volta si può aggiungere che alla formulazione di questa indicazione di comportamento diagnostico del tutto conforme alle esigenze ideologiche del regime concorre in maniera determinante il paradigma psichiatrico organicistico, che arriva addirittura a far sì che venga trascurata l’indicazione della qualifica di soldato nella compilazione delle cartelle cliniche e che l’attenzione sia concentrata più sulle manifestazioni e sui comportamenti anomali dovuti alla malattia che sulle cause o sul contesto particolari della loro insorgenza.

Il rapporto direttamente proporzionale tra l’indebolimento delle strutture di inquadramento ideologico, atte a produrre una soggettività collettiva spersonalizzante e l’aumento dei casi di disturbi psichici viene utilizzato anche per spiegare la maggiore quantità di casi di disturbi nervosi registrati tra i militari della Rsi, proprio nel momento di minor consenso al regime, rispetto a quelli dei resistenti partigiani, sia prima sia dopo il 1945.
Nel periodo precedente la Liberazione è molto difficile, per ovvie ragioni, per i combattenti nelle file della Resistenza rivolgersi a strutture sanitarie e psichiatriche, mentre si registrano casi di ricoveri di uomini della Rsi, che, coinvolti negli episodi peggiori di guerra antipartigiana, talvolta manifestano stati di ansia, di confusione che può sfociare nel delirio e nella psicosi e quasi sempre nella messa in atto di meccanismi inconsci di autoderesponsabilizzazione difensiva.
Con la sconfitta del fascismo e la fine della guerra, il quadro peggiora ulteriormente e se per alcuni il ricorso al ricovero psichiatrico può rappresentare un sotterfugio per sottrarsi alla giustizia, per altri e più numerosi «Essere, o essere stati, fascisti diventa una condizione di responsabilità oggettiva, particolarmente per quelli che si sono trovati più coinvolti nelle azioni repressive e nella lotta contro i partigiani. I ricoveri manicomiali documentano in modo significativo questa condizione: cadute le coperture ideologiche e istituzionali fornite dal regime, i più si trovano ad affrontare un rischio reale, la cui percezione psichica diventa insostenibile» (p. 76).

odissea-partigiana-coverSituazione diversa, ritiene Camellini, quella dei partigiani, per i quali «lo stesso esito della guerra può in qualche modo aver agito […] come fattore di compensazione psicologica alle vicissitudini legate alla clandestinità e alle azioni militari» (p. 81).
Ma per quel che riguarda la complessa questione dell’internamento manicomiale dei partigiani dopo la Liberazione (i “pazzi per la libertà”), rimandiamo al libro molto più recente, estremamente informato ed accurato di Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli 2015 [si veda l’intervista a Mimmo Franzinelli su Carmilla]

È importante anche ricordare che nel caos in cui l’Italia precipitò dopo l’8 settembre, il manicomio talvolta funse da luogo di fuga per coloro che ricorsero, come estremo rimedio, al ricovero volontario. «Si tratta in massima parte», scrive Sorcinelli, «di persone che cercano nel manicomio una via di scampo a situazioni per loro pericolose: sono di volta in volta ebrei, disertori o renitenti alla Repubblica sociale, partigiani, fascisti. Non sempre l’ospedale psichiatrico si rivela indenne dai rastrellamenti e dalle rappresaglie; da quello di Trieste, il 28 marzo 1944 reparti di SS prelevano 24 internati ebrei e li caricano su dei camion “per destinazione ignota”» (p. 112).

L’attenzione e le analisi di Sabina Cremonini si concentrano in particolare sulle donne e le sue considerazioni si aprono con le parole – sconcertanti, ma in linea con il modello psichiatrico dominante – della dottoressa Maria Del Rio del San Lazzaro di Reggio Emilia, che nel 1916, studiando la relazione tra salute psichica delle donne e il conflitto in corso, arriva ad attribuire al corpo femminile il ruolo, attraverso l’atto generativo, di «tramite fisiologico tra la guerra e la follia» (p. 83). «Non si può accusare la guerra» – scrive la dottoressa Del Rio – «di aumentare da sola il numero delle malate di mente. Le si può attribuire, per il tramite della donna, una ripercussione sull’avvenire. Le generazioni concepite negli anni di guerra pagheranno un maggior tributo alle malattie mentali, tarda manifestazione delle sofferenze e delle angosce subite dalle madri» (p. 83).

L’opinione della psichiatra non cambia nel corso degli anni e nel 1950 conferma la sua impostazione tardo-positivistica, organicistica e maschilista in una recensione ad un saggio di uno studioso inglese, in cui è portata a «negare alla donna uno spazio psichico indipendente dalla sua funzione materna» (p. 85). Pertanto, conclude Sabina Cremonini, «Se ai soldati sono riconosciute le psicosi di guerra, pur facendole rientrare nella teoria della predisposizione, e se per i figli concepiti in periodo bellico può scattare il meccanismo della tara ereditaria, la donna sembra invece dover uscire necessariamente indenne dai guai psicologici della guerra» (p. 85), o meglio, anche in questo caso per la donna è ritagliato un ruolo esclusivamente secondario e strumentale rispetto al mondo maschile.

Degli effetti sulla salute psichica dei civili tratta Paolo Giovannini, in modo particolare soffermandosi sulla traumatica esperienza di coloro che sono sottoposti, via via sempre più frequentemente, ai bombardamenti e che, trovando riparo nei rifugi antiaerei, assumono comportamenti ed atteggiamenti anomali, disturbati, come quello che viene chiamato dalla letteratura psichiatrica del tempo “sonnolenza di attesa”, «che viene classificata come ”espressione più o meno camuffata” di una paura” che costringe molti individui a rimanere “per lo più in disparte, in un angolo del rifugio” […] senza scambiar parola con alcuno, con gli occhi chiusi, quasi “come pietrificati”» (p. 132).

Certamente tra le più traumatiche e quindi più frequenti cause di disturbi psichici c’è l’esperienza di deportazione ed internamento nei campi di prigionia, ma la scienza medica di quegli anni, nonostante alcuni psichiatri (Giorgio Padovani e Furio Martini) siano loro stessi reduci dai campi tedeschi ed abbiano potuto constatare direttamente e personalmente gli effetti dell’internamento, continua a riproporre il paradigma della predisposizione o della personalità già precedentemente disturbata, insomma il modello secondo cui le cause acquisite o esogene hanno effetto solo su antecedenti cause costituzionali o endogene. Con qualche interessante eccezione, che però sostituisce l’idea della predeterminazione organica con quella del condizionamento sociale, “di classe”: i casi di nevrastenia colpirebbero prevalentemente gli internati acculturati e di estrazione sociale medio alta, cioè gli ufficiali, che, anche senza segni di predisposizione organica e costituzionale, sembrano risentire e patire più degli altri delle condizioni di prigionia.

Per concludere questa presentazione de La follia della guerra, riteniamo che si tratti di un libro che a più di vent’anni di distanza valga la pena rileggere ed integrare con altri studi e ricerche sull’argomento che nel frattempo si sono aggiunti.

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Il manicomio che non vuole morire https://www.carmillaonline.com/2016/11/05/il-manicomio-che-non-vuole-morire/ Sat, 05 Nov 2016 22:30:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34116 di Piero Cipriano

opgEhi, dico a voi, laggiù in Sicilia, voi di Barcellona Pozzo di Gotto, lo sentite questo lamento di animale morente?

E a Secondigliano? Vi arriva questo rantolo cupo che non si decide a esalare l’ultimo fiato?

E a voialtri, poco più su, ad Aversa, non vi risuona nelle orecchie un grido straziante, come quello di un dinosauro che deve accettare di uscire dalla storia?

E a voi di Montelupo Fiorentino? La puzza, questa puzza di cadavere che ancora non è cadavere, di piaghe da corpo morente in decubito che tra poco saranno piaghe di corpo morto, la sentite [...]]]> di Piero Cipriano

opgEhi, dico a voi, laggiù in Sicilia, voi di Barcellona Pozzo di Gotto, lo sentite questo lamento di animale morente?

E a Secondigliano? Vi arriva questo rantolo cupo che non si decide a esalare l’ultimo fiato?

E a voialtri, poco più su, ad Aversa, non vi risuona nelle orecchie un grido straziante, come quello di un dinosauro che deve accettare di uscire dalla storia?

E a voi di Montelupo Fiorentino? La puzza, questa puzza di cadavere che ancora non è cadavere, di piaghe da corpo morente in decubito che tra poco saranno piaghe di corpo morto, la sentite questa puzza, o siete ancora troppo lontani?

La sentono, forse, quelli di Reggio Emilia, che pure loro ci avevano un mostro bifronte, un cane cerbero con due teste, un tirannosauro che hanno appena seppellito.

Di sicuro il lamento, l’agonia, il lento, ansimante respiro, la bradicardia di un cuore in affanno, e l’olezzo di carogna noi che siamo andati a Castiglione delle Stiviere la settimana scorsa li sentivamo, hai voglia se li sentivamo. Ma noi ci avevamo il naso affilato e le orecchie addestrate, ma noi perché siamo i killer di questi animali fuori dal tempo, fuori dalla storia, fuori dalla civiltà.

Eravamo lì, nel paese del manicomio che non si decide a morire. Che non decide a farsi una ragione, che gli tocca morire. Perché si era fatta la nomea d’essere il manicomio perfetto, l’aveva fatto credere e infine ci aveva creduto pure lui. Tutti fanno schifo, si diceva in giro, al mercato, alla posta, al bar, ovunque c’è la merda, uno solo è pulito, ed è a Castiglione delle Stiviere il manicomio bello. Ora che gli altri manicomi dei criminali colti da follia, o dei folli diventati criminali, ora che gli altri si sono arresi alla loro pericolosità, alla loro perniciosità, a Castiglione delle Stiviere c’è l’ultimo manicomio rimasto. Il manicomio che si credeva eterno, il manicomio che non vuole morire. Eppure deve morire. Perché noialtri, che siamo i killer, noialtri che ci siamo scelti il difficile mestiere di boia di questi luoghi infami, vogliamo agevolarne l’estinzione. Somministrare la giusta eutanasia a un luogo fuori tempo massimo. Ma questa bestia, questo mostro bifronte, questo cerbero mezzo carcere mezzo ospedale ci tiene a sopravvivere, e si sta legando all’ultimo simbolo della sua storia, capace di tenerlo in vita. Si sta legando alle fasce. Le fasce, con cui gli homines sacri che trasgrediscono vengono legati, da Ulisse in poi, le fasce sono la sineddoche del manicomio. Le fasce sono il manicomio. È per questo che noi, che ci proclamiamo i killer dei manicomi, combattiamo le fasce, perché esse sono il manicomio, per mezzo delle fasce il manicomio morente si è perfino trasferito nell’ospedale civile, che non è per niente civile se là dentro ci sono le fasce che, fornite di volontà propria, come fantasmi, agiscono. Si avvolgono. Atterriscono. Atterrano gli uomini. Li allettano, nel senso che clinicizzano, costringendoli in posizione clinica, gli homines sacri, i trasgressori, quegli uomini furibondi, o meglio, forsennati, come scrive Antonin Artaud, li mettono al letto in posizione cadaverica, cadaveri, mummie legate, l’avresti mai detto possibile che in un ospedale civile, dove devi provare a guarire, ti mettono a fare il morto?, e ti inoculano flebo e iniezioni obtorto collo, per aver trasgredito: chi per aver bevuto troppo alcol, chi per aver inalato troppa cocaina, chi per essere uscito fuori solco, de lirium, si dice, o aver preso a udire le voci, o aver ingoiato troppa bile nera sì da diventare cupi al punto che bisogna farla finita col mondo e col tempo. A queste e altre decine di trasgressione dal pensiero e dal comportamento comune la risposta dell’ospedale, e dei dottori che lo dirigono, e degli infermieri che obbediscono ai dottori, è nelle fasce.

Ma ecco che questo dinosauro che si ciba di questi homines sacri avvoltolati nelle fasce è tempo che muoia, e che non dia più il cattivo esempio all’ospedale civile, e per accompagnarlo a morire noi del Forum Salute Mentale, noi di Stop OPG, noi tecnici democratici, noi di Slegalo subito, siamo andati lì, nel paese dell’ultimo manicomio, a parlare di lui, a parlare di loro, delle loro pratiche. Io ci sono andato per raccontare il perché ho scritto certi libri che ho chiamato riluttanti, e mi sono fatto sostenere in questo racconto dal cantante degli orrori, dalla voce e dal corpo che muove il Teatro degli orrori, quel genio partigiano di Pierpaolo Capovilla, che a un certo punto si è trasformato (ne è stato proprio posseduto, direi, l’ho visto, e lo posso giurare) in Antonin Artaud (colui che scriveva di questa eterna lotta tra l’uomo forsennato e gli altri uomini), e poi c’era con noi Giovanni Rossi, il genius loci, lo psichiatra che in quei territori ha sempre combattuto le fasce, ha aperto i reparti, ha inventato la radio di chi sente le voci, ebbene, è stato proprio lui a svelare, a un certo punto, il segreto di Pulcinella che il manicomio giudiziario che non intende morire preservava gelosamente.

Ricordate, voi che avete letto Il manicomio chimico? Avevo scritto che nell’OPG perfetto di Castiglione delle Stiviere c’è una donna, con un ritardo mentale grave a quanto pare, che da dieci anni è costantemente legata, di giorno in carrozzina e di notte al letto. Quanto è pericolosa questa donna?

Bene. Capita che siccome Franco Corleone (nome perfetto per un necroforo gentile che ha dichiarato: anche a costo di avere le peggiori REMS, chiuderemo gli OPG), il commissario designato per il superamento degli OPG, deve aver chiesto, a tutte le REMS (dunque pure alla mega REMS di Castiglione, che il giorno dopo la data stabilita dalla legge 81 di chiusura degli OPG furbamente cambiò targa e si chiamò REMS) di censire, contare, e comunicare i propri numeri a proposito delle persone che vengono legate, ecco i dati.

Dalla Gazzetta di Mantova del 3 ottobre 2016, un estratto della relazione di Corleone: «Su 26 Rems, 17 dichiarano che non si sono verificati episodi di contenzione all’interno della struttura». «Un discorso a parte va fatto sul sistema polimodulare Rems Provvisorie di Castiglione, il quale ospita un numero di persone pari a 162 (di cui 110 definitivi e 52 provvisori). All’interno della struttura vengono effettuate regolarmente delle contenzioni. Nel periodo che va dall’1 aprile 2015 al 31 marzo 2016, si registrano 918 episodi che interessano 59 pazienti». Nella relazione Corleone sottolinea che «si tratta di un numero di contenzioni molto alto, ma ricorda che 742 sono rivolte ad una sola donna».

Bene. Anzi male. Malissimo. Ecco che allora Giovanni Rossi, il genius loci, il combattivo psichiatra in pensione ha formulato il suo j’accuse: è falso che questo fosse l’OPG modello, se queste sono le contenzioni che si fanno, se una sola donna è stata legata in un anno 742 volte, questo è il peggiore OPG, o REMS, che dir si voglia. Balbetta una sterile difesa uno psichiatra dell’OPG-REMS: non ho seguito la cosa, negli ultimi tempi, fa, però so che negli ultimi mesi le contenzioni sono scese a cinque o sei al mese. Dunque stiamo migliorando, voleva dire.

Ah! Delle due l’una. O ciò è vero, e allora significa che le mille contenzioni che avete fatto l’anno prima, o negli anni precedenti, erano tutti abusi. E quindi facciamo bene, noi che le fasce vogliamo farle sparire dai luoghi di cura, a sostenere che la contenzione va abolita. Oppure ciò non è vero.

In entrambi i casi il manicomio, l’ultimo manicomio rimasto, deve morire.


gazzettaMa andiamo un poco indietro nel tempo, e proviamo a fare una rapida storia di questo istituto, per chi non sa come sono andate le cose e come stanno, adesso.

1978. La legge 180 chiude, ovvero abolisce i manicomi civili, quasi uno per provincia ce n’erano, quasi un centinaio, in Italia.

Il Codice Penale però non cambia, con la legge 180, e il doppio binario rimane, e una persona che compie un reato in presenza di un disturbo mentale non trova il dipartimento di salute mentale, ma neppure il carcere, perché gli tocca questo luogo ibrido, né carcere né ospedale, e però tutt’e due, il peggio di un manicomio e di un carcere insieme. Un posto in cui entri folle e ne esci morto.
Perché? Perché il giudice affida a uno psichiatra (dica il perito…) la decisione: è folle?, allora è incapace di intendere di volere, può ripetere il reato essendo folle?, allora è socialmente pericoloso. E dunque niente processo, che il folle reo non è in grado di comprendere, e niente possibilità di difendersi, e niente condanna (magari era uno schiaffo il reato, e la condanna sarebbe stata poca cosa, una bagattella), ma solo internamento, in OPG. Però questa cosa si trasformava in un ergastolo, la pericolosità sociale veniva ribadita, di controllo in controllo, sovente per paura, talvolta per infingardia (valeva più che mai il motto di Basaglia: quando il malato mentale è internato il medico mentale si sente libero, quando il malato mentale è libero è il medico mentale a sentirsi internato, ovvero a sentirsi in pericolo, in pericolo di essere condannato; dunque per scongiurare il pericolo per sé, il medico mentale conferma la pericolosità sociale al malato, che resta internato, sine die, ergastolo bianco lo si chiama, un ergastolo anche quando il reato è minimo, giacché solo pochi sono i reati efferati, per la verità).

Così siamo andati avanti per quasi trent’anni, dopo la legge 180 del 1978, con questi manicomi giudiziari, gli ex manicomi criminali, il primo dei quali fu istituito ad Aversa, nel 1876, molto prima della legge 36 del 1904 che regolava i manicomi civili.

Negli anni 2000 alcune sentenze della Corte Costituzionale (253/2003, 367/2004) stabiliscono che è più importante la cura della custodia, e dunque il ricovero in OPG costituisce una disuguaglianza di trattamento rispetto a ciò che prevede la 180: il trattamento territoriale. Ecco, con queste sentenze il Codice Penale avrebbe potuto essere eroso, eppure (la solita infingardia, il solito timore) furono poco utilizzate.

Nel 2008 il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 aprile stabilisce il trasferimento delle competenze per gli OPG dalla sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale.

Sempre nel 2008 il Consiglio d’Europa, in seguito a una visita effettuata nell’OPG di Aversa, denuncia le condizioni di degrado di questo istituto. Ciò dà il destro al Senato per istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta per valutare l’efficienza del Sistema sanitario nazionale, la presiedeva Ignazio Marino. Marino dà luogo a ispezioni a sorpresa presso i sei OPG, evidenziando, nella maggior parte di loro, tali fatiscenze e orrori, da far pronunciare all’allora presidente Napolitano la più volte ripetuta (non bellissima) frase: «Istituti indegni di un paese appena civile» (bastava dire istituti indegni, senza aggiungere nient’altro, no?). Sempre da allora si cominciò a ripetere questa cosa: che la maggior parte erano reati bagatellari, che si trasformavano in ergastoli bianchi.

A quel punto, 2011, in seguito a un convegno del Forum Salute Mentale tenutosi ad Aversa proprio, nasce Stop Opg, sotto il cui impulso, lentamente (ma nemmeno tanto) scaturiscono delle leggi (legge 9/2012, legge 52/2013), che di volta in volta propongono una data per la chiusura degli OPG, che poi viene prorogata. Finché la legge 81, del 2014, stabilisce che gli OPG, inderogabilmente, chiudano il 31 marzo del 2015.

É lì che, scaltramente, l’OPG che si riteneva modello (neppure Marino gli mosse critica alcuna, pure il videomaker che fece il video sostenne che era un luogo bello), Castiglione delle Stiviere, si giocò l’ultima carta per non morire. Il giorno dopo, 1 aprile 2015, cambiò targa, et voilà, ora mi chiamo REMS. Altro che gattopardo.

La legge 81 non risolve il problema, si disse. A che ci serve trasformare il grande OPG nella piccola Residenza per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza (REMS)? Fare un travaso, una transumanza di internati dal grande al piccolo contenitore? Confermare, ancora una volta, l’eterogenesi dei fini che sempre caratterizza il mondo della psichiatria? (1793, Philip Pinel separa il manicomio dal carcere, vuol dare dignità di malato al folle, e però lo trasferisce in una prigione camuffata da ospedale; 1978, Franco Basaglia distrugge il manicomio dopo due secoli, e però la manicomialità che non vuole morire si trasferisce altrove, in luoghi più piccoli: SPDC, case di cura, comunità, posti dove si lega e si seda e si chiude): adesso, transumare gli internati dall’OPG alla REMS? Può darsi. Il rischio è consistente. Però un paio di cose buone questa legge le ha: stabilisce che la durata della misura di sicurezza non possa superare il massimo della pena edittale, per esempio, per cui non più proroghe sine die, non più ergastoli bianchi. E impedisce i ricoveri in REMS, in attesa di accertamenti diagnostici, così che le REMS non diverranno, come gli OPG, il bidone di scarico dei Dipartimenti di Salute Mentale per i loro indesiderati.

Ciò in attesa di svecchiare questo Codice Penale, figlio del fascista Codice Rocco, eliminando gli articoli 88 e 89, che consentono di stabilire la incapacità di intendere e di volere. Ma chi, davvero è incapace di intendere e di volere? Ci avete mai parlato coi 1400 internato degli OPG (tanti erano fino al 2011), o con gli attuali 600 rimasti nelle REMS? Vi sembrano dei vegetali, forse? Suvvia.

Ecco, questa, per sommi capi, è la storia. Questi dinosauri stanno crepando, uno dopo l’altro, prima l’ha fatto Secondigliano, a Napoli, poi Reggio Emilia, e dopo Aversa, a Montelupo Fiorentino rimangono 15 persone internate, e 22 a Barcellona Pozzo di Gotto, quindi sono alla fine, solo Castiglione, dicevo, tiene duro, con la sua maxi REMS che trappola ancora circa 160 persone.

Ma creperà, ah se creperà.

 


[Il pezzo di Piero Cipriano si riferisce al convengo tenutosi a Castiglione delle Stiviere il 14-15 ottobre 2016 nell’ambito della Campagna nazionale per l’abolizione della contenzioneght]

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Macchina diagnostica, agenzie della salute sovranazionali e campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione https://www.carmillaonline.com/2016/10/04/macchina-diagnostica-agenzie-della-salute-sovranazionali-campagna-labolizione-delle-fasce-contenzione/ Tue, 04 Oct 2016 21:30:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33600 di Gioacchino Toni

Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”

pillola[ght] Dopo aver raccontato il manicomio fisico con La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), con Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] hai ricostruito come si è giunti all’era della psichiatria chimica in cui il manicomio è somministrato al paziente attraverso gli psicofarmaci. Nell’ultimo libro, La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ti soffermi soprattutto sull’aspetto diagnostico indicandolo come macchina in grado di conferire identità e destino all’individuo.

Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale [...]]]> di Gioacchino Toni

Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”

pillola[ght] Dopo aver raccontato il manicomio fisico con La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), con Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] hai ricostruito come si è giunti all’era della psichiatria chimica in cui il manicomio è somministrato al paziente attraverso gli psicofarmaci. Nell’ultimo libro, La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ti soffermi soprattutto sull’aspetto diagnostico indicandolo come macchina in grado di conferire identità e destino all’individuo.

Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale diagnostico sostanziale accettato e applicato acriticamente a livello mondiale, si ha la netta impressione di avere a che fare con l’ennesimo pacchetto normativo che si impone sull’umanità dettato da agenzie internazionali (come la World Health Organization) o da lobby che finiscono, di fatto, per dettar legge a livello internazionale (come l’American Psychiatric Association). Si tratta di agenzie che impongono a livello globale una precisa visione del mondo, in questo caso inerente alla salute/malattia degli individui, in strettissimi rapporti con un altro potentato sovranazionale: la lobby dell’industria farmaceutica.

Insomma, al lungo elenco di agenzie economiche e politiche internazionali che determinano la nostra vita – International Monetary Fund, World Bank, Goldman Sachs, European Union, United Nations, European Central Bank ecc. -, possiamo aggiungere anche agenzie ed associazioni come la World Health Organization e l’American Psychiatric Association con la loro bibbia diagnostica… Cosa ne pensi?

[pc] Sì, direi che è così. Una serie di etichette, da quelle mediche a quelle psichiatriche a quelle giudiziarie a quelle sociologiche, determinano una sequenza di percorsi terapeutici, rieducativi, riabilitativi, punitivi, espulsivi, a cui è sempre più difficile sottrarsi. Una società nosografica, che per forza di cose poi diventa società terapeutica: siamo anormali, dobbiamo curarci. Come? Coi farmaci, per lo più. Eccoci dunque in questa era della farmacocrazia.

[ght] Nel tuo La società dei devianti si parla dell’urgenza di intraprendere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione. Tale campagna, oltre che a fare pressione sui politici affinché si arrivi all’abolizione di tale pratica, deve necessariamente raggiungere l’opinione pubblica mettendola al corrente della pratica della contenzione e di quanto sia ancora diffuso il ricorso ad essa. Informare l’opinione pubblica comporta un’estensione della responsabilità; un’opinione pubblica sensibilizzata a proposito del ricorso a tale pratica costrittiva dovrebbe sentirsi in dovere di farsi carico della questione. La difficoltà maggiore mi sembra quella di individuare le modalità con cui raggiungere la gente comune in una realtà che vede i media interessati a tutto ciò che riguarda il disagio mentale solo quando ad esso è possibile imputare qualche forma di violenza particolarmente cruenta. Non di rado nel trattare tali episodi i media danno voce a una sempre meno celata “nostalgia di manicomio”. Sicuramente scriverne è importante e da questo punto di vista la tua “Trilogia della riluttanza” può essere considerata un ottimo contributo alla denuncia ed all’informazione così come tutte le iniziative di presentazione dei libri può essere utile a sensibilizzare l’opinione pubblica. Cos’altro si può fare di concreto, a tuo avviso, per supportare la campagna contro la contenzione?

[pc] Bella domanda. Che mi fai proprio in un momento in cui questa campagna, per slegare i cristi in croce legati nei luoghi non solo della psichiatria ma dell’intera medicina, un po’ langue, boccheggia, stenta. Perché stenta? Perché lo sapevamo che era un’iniziativa difficile, lunga, piena d’insidie, e che chi, come me, si esponeva (sono uno psichiatra che è contrario alle fasce e ne chiede l’abolizione, che tuttavia continua a lavorare in un reparto dove vengono, anche se sempre di meno, ancora adoperate), rischiava molto. Perché le fasce sono economiche. Sono comode. Sono facili, semplici. Non comportano il difficile esercizio del pensiero (per dirla con Hannah Arendt). Non comportano mettersi più di tanto in discussione. Basta un po’ di rimozione, o l’abitudine, abituarsi alla pratica, anche a torturare il torturatore in fondo si abitua (leggersi Notturno cileno o Stella distante, di Bolaño, per esempio), dopo essere stato opportunamente inziato. Difficile è sbarazzarsi delle fasce e domandarsi: e ora?, come faccio a relazionarmi con quest’uomo, o questa donna, o questo adolescente, o questo vecchio, o questo cocainomane, o questo ubriaco, che si agita, che mi aggredisce? Lì è la sfida. Invece ci addestrano a fare i legatori. Leghiamo l’umanità! E dopo averla legata (e torno alla tua domanda di prima) con le etichette diagnostiche che t’incanalano per sempre in percorsi obbligati, dopo averla legata con molecole che ti gessano i pensieri, te li paralizzano, o viceversa ti esaltano innaturalmente le emozioni, dopo averla legata con contenitori e luoghi d’ogni sorta, se tutto ciò non basta, per i più indomiti recalcitranti riluttanti, ecco il legamento più primitivo, e però più sicuro: le fasce.

Le fasce, come gli altri legamenti che le precedono, sono entrate ormai nel nostro immaginario, nelle prassi, in ospedale, tra gli addetti ai lavori, medici infermieri ausiliari psicologi ma anche tra i famigliari, ne troverai pochi che si scandalizzino. Lo scandalo, al contrario, lo procuriamo noi che proponiamo l’abolizione delle fasce. Siamo noi, i medici infermieri psicologi che contestano i legamenti a essere scandalosi, e dunque pericolosi, con questa nostra iniziativa velleitaria. La follia è pericolosa, il matto è da legare, e anche solo proporre l’eliminazione di questo millenario strumento per gestire la follia è scandaloso, ed è pericoloso.
Per questo la campagna per abolire la contenzione si profila come un modo per continuare a contestare la manicomialità. Mettendo in discussione, stavolta, non solo il manicomio civile o quello giudiziario, ma proprio l’ospedale generale, l’intera medicina dunque. Per cui, cosa si può fare?, mi domandi.

87oreRicominciamo con varie iniziative, a ottobre, per esempio, un convegno a Castiglione delle Stiviere, per andare a stanare questa pratica proprio nell’OPG perfetto (anche se ora si è trasformato in una mega REMS), talmente perfetto che si legano agevolmente gli internati, anzi, vi è internata una donna che da una decina d’anni è costantemente legata, di giorno in carrozzina e di notte al letto. Coinvolgere persone che possano raccontare questa battaglia fuori dallo specifico degli addetti ai lavori. Persone della società dello spettacolo, per dirla alla Debord, per esempio Pierpaolo Capovilla, del Teatro degli Orrori, che si sta spendendo molto su questo tema, e ne canta nei suoi dischi, o Paolo Virzì, che nel suo ultimo film descrive bene cosa succede a chi entra nella morsa del circuito psichiatrico, e ci mostra Michaela Ramazzotti legata al letto. Ma servirebbero altri, come loro. Che realizzino altre opere esplicite, film come 87 ore, per esempio, dove viene mostrata la lenta agonia del maestro Mastrogiovanni legato a un letto per quattro giorni fino a morire, ecco, questo è un documento che bisognerebbe proiettare nelle scuole. Cose così, insomma.

[ght] Questa campagna contro le fasce di contenzione deve fare i conti con una società sempre più cinica e propensa a delegare la soluzione di tutto ciò che individua come “problema” a comodi “specialisti” di turno. Cogliere i devianti come problema comporta facilmente la concessione di una sorta di “delega in bianco” in favore di ogni pratica volta a toglierli dalla vita sociale. Da questo punto di vista, evitata ad arte una terminologia troppo esplicita, la segregazione in luoghi separati e il ricorso a forme di contenzione tutto sommato possono anche non essere viste con ostilità dall’attuale opinione pubblica. Una volta etichettati come devianti, saranno gli “esperti”, i “tecnici”, a farsi carico del “problema-devianti”. Farmaco o non farmaco, cinghia o non cinghia, l’importante è lavarsene le mani una volta che il problema viene rimosso dalla vita pubblica. Ripensando alla battaglia di Franco Basaglia e Franca Ongaro viene da pensare che se da un certo punto di vista la società degli anni ’60 e ’70 non era poi tanto più “aperta” mentalmente rispetto all’attuale, è anche vero che proprio in quel periodo si stavano aprendo “brecce di libertà” all’interno della cultura e della società italiana che oggi onestamente è difficile individuare. Cosa ne pensi?

[pc] Sottoscrivo ciò che dici. Ci siamo tutti rassegnati e consegnati al potere/sapere degli psichiatri, che nell’arte della manomissione delle parole, per dirla con Carofiglio, sono dei veri talenti. Hanno suddiviso il grande contenitore della follia in più di trecento partizioni, come a dire che oggi nessuno più è folle, ma nessuno più può dirsi del tutto normale, tutti noi abbiamo almeno due tre diagnosi possibili, ormai. Diagnosi che accettiamo passivamente, supinamente. Anzi, siamo a tal punto acritici che talvolta ci presentiamo e ci raccontiamo con quella diagnosi, io sono un borderline, io sono un bipolare, poco ci manca che le mettiamo perfino nel nostro biglietto da visita: Mario Rossi, depresso. Le diagnosi psichiatriche ristrutturano la nostra identità, un po’ come accade per i segni zodiacali, con la differenza che i segni zodiacali lasciano il beneficio del dubbio (non è roba scientifica, per quanto suggestiva), le diagnosi psichiatriche invece non lasciano dubbi, perché sono opera di scienziati della mente (è scienza, insomma).

contenzioneMa pure rispetto ai loro luoghi, gli psichiatri hanno messo in gioco il meglio della loro semantica: i manicomi non esistono? Perfetto. Vuol dire che la manicomialità la distribuiremo in altri contenitori più piccoli, meno appariscenti, che chiameremo soprattutto con acronimi: SPDC, CSM, CT, OPG, REMS, eccetera. I ricoveri ad infinitum non sono più possibili? Non c’è problema. Esiste un gioco dell’oca della cronicità per cui realizzo l’internamento circolare: dieci giorni in SPDC, un mese in Casa di Cura che ora si chiama STIPT, sei mesi in CT. Compi un reato ma sei deviante? Un anno in REMS, e poi ricominci il giro, magari ripassando dal SPDC.

[ght] Nel tuo La società dei devianti ragioni sui comportamenti che possono adottare gli operatori psichiatrici nella pratica quotidiana al fine di evitare trattamenti disumani nei confronti dei devianti. Inviti, ad esempio, a praticare un colloquio continuo con i pazienti, a portarli fuori dai luoghi di ricovero, a revocare i TSO, a sciogliere i legati ed a ridurre i farmaci. Attraverso tali comportamenti, sostieni, sarebbe più facile convincere i giovani operatori del settore, i pazienti e i loro famigliari che esistono altri modi per affrontare i disturbi mentali. Naturalmente gli operatori, così come le famiglie dei pazienti, si trovano a vivere in un mondo in cui l’aspetto produttivo, con i suoi ritmi sempre più infernali e dilatati nel tempo e nello spazio, sottrae buona parte del tempo e delle energie che possono essere dedicate a chi è in difficoltà. La stanchezza psicofisica degli operatori e dei familiari di certo si riversa negativamente su chi è in difficoltà. Non credi che nel mondo degli operatori psichiatrici una campagna finalizzata a un trattamento “più umano” dei pazienti debba intrecciarsi a rivendicazioni di tipo sindacale volte a rendere il lavoro meno sfiancante? Mi riferisco al numero di operatori impiegati in rapporto ai pazienti, ai turni di lavoro ecc.

[pc] Assolutamente sì. Lavoro in un reparto dove ci sono minimo dodici persone ricoverate. Tre infermieri non bastano, non possono bastare. Però il numero fa la differenza, ovviamente. Se già con tre-infermieri-che-non-vogliono-legare è possibile non legare le persone, per mia esperienza, figuriamoci con sei (se quei sei vogliono non legare). E’ ovvio che se invece ti trovi con infermieri-che-vogliono-legare, anche con dodici (potendoti dunque permettere un rapporto uno a uno) leghi le persone, non si sfugge. Discorso a parte per i medici. I medici sono coloro che, in fin dei conti, decidono se legare o non legare. I medici, per mia esperienza, più sono e meno decidono. O meglio, più sono e meno sono coraggiosi, e più si nascondono dietro le fasce. E più legano. Ma perché legano? Non lo so. A me pare che la maggior parte dei medici abbiano più dimestichezza con i libri, con le diagnosi, con i farmaci, con le molecole, che con le persone in carne e ossa. Sarà per la lunga formazione a cui sono stati sottoposti, formazione medica che invece di avvicinarli alle persone li allontana, che in qualche modo li disumanizza, apprendistato che gli fa perdere di vista la persona, che li addestra quasi esclusivamente allo studio del caso (clinico), caso (clinico) che diventa cosa. Oggetto. E qui torna attuale Franca Ongaro Basaglia quando ci ricorda che la medicina si forma sul corpo morto, e il medico impara a conoscere l’uomo vivo (malato) studiando il cadavere nelle aule di anatomia patologica, e memore di questo debito tende, il medico, sempre, a ricondurre l’uomo vivo (malato), a corpo morto, disteso sul letto d’ospedale, allettato, clinico, esanime, o coi farmaci o con le fasce.

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La società dei devianti nell’epoca della prestazione https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/la-societa-dei-devianti-nellepoca-della-prestazione/ Tue, 27 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32708 di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo [...]]]> di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).

Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento. «Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).

Si viene divorati dalla società produttivista non solo se, come afferma Basaglia, si fa parte della classe sbagliata, della famiglia sbagliata, della razza sbaragliata ecc., ma anche, aggiunge Cipriano, su uno si ritrova ad essere «più banalmente, troppo magro o anoressico, obeso, iperattivo, depresso, bipolare, borderline, schizofrenico, schizoide, hikikomori, psicopatico, ovvero nichilista, ovvero terrorista, zingaro che non si adatta, migrante, apolide, rifugiato e così via. A ognuna di queste etichette, spesso, corrisponde un farmaco, o una tecnica psicoterapeutica, o un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione, insomma tutti questi devianti riluttanti sono pane, sono guadagno per il mondo dei normali, di coloro che sanno lavorare» (pp. 14-15).

Dopo aver raccontato il manicomio fisico nel libro La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013) ed aver ricostruito ne Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] i passaggi principali che hanno condotto all’era della psichiatria chimica in cui il paziente assume il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco, con La società dei devianti (Elèuthera, 2016) Cipriano, che ama definirsi “psichiatra riluttante”, racconta «cos’è questo nuovo manicomio illimitato, che è definitorio, diagnostico, categoriale, che rispecchia questo bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di trovare sempre un’etichetta a ognuno, sia esso disturbo o malattia, etichetta che diventa tatuaggio identitario di un individuo, diventa destino, da cui tutto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che potrà o non potrà fare nella vita» (p. 234).
In particolare, in questo terzo ed ultimo volume di quella che Cipriano definisce “trilogia della riluttanza”, si ricostruisce come la stanchezza esistenziale, sempre più diffusa in questa società votata alla prestazione, sia stata trasformata in “depressione” grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ed al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) e si lancia una campagna contro la contenzione tramite fasce, pratica molto più diffusa di quel che si pensi.

Non solo gli psichiatri trasformano spesso la tristezza in depressione ma, in generale, ormai chi è semplicemente colto da stanchezza, esaurimento o “mal di vivere”, si sente in dovere di rivendicarsi depresso e di pretendere la relativa cura (chimica). Si potrebbe dire che viviamo in una “società dei malati per forza”, in cui chi si trova in uno stato di sofferenza è pressoché costretto a dichiararsi malato e ad accettarne le conseguenze che il più delle volte si presentano sotto forma di farmaco. Non occorre individuare le cause che determinano uno stato di tristezza; questa viene facilmente trasformata in depressione e la depressione, di questi tempi, richiede farmaci antidepressivi. Non solo non interessano le cause del disagio, ma non interessano nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo: il DSM è la nuova bibbia e chiede solo di essere applicato, senza farsi troppe domande.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948, la “salute” è «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, non una mera assenza di malattia» (p. 44). Dunque, sostiene Cipriano, viene da pensare che «i poveri, i miserabili, non possano mai essere in buona salute, date le loro esigue risorse per raggiungere il pieno benessere psichico, fisico e sociale, e che la loro miseria sia già malattia. E che tutti gli africani che si imbarcano sulle carrette per attraversare il Mare Nostrum e raggiungere la fortezza Europa lo facciano per venire incontro al proprio benessere psichico, fisico e sociale, per raggiungere il paese della salute, e sfuggire al loro destino di malati. E noi, noi Stati europei, li respingiamo. Ecco che alcuni esseri umani vengono sottoposti ai Trattamenti Sanitari Obbligatori in nome della salute (psichica) che non hanno, e ad altri esseri umani i trattamenti sanitari vengono negati» (p. 44).

Sempre secondo l’OMS, la depressione è la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra i 15 ed i 44 anni) ma, sostiene Cipriano, non esiste uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali siano le cause e che si tratti in effetti di una malattia. Fin dagli anni ’60 si sostiene che la depressione derivi da un basso livello di serotonina e noradrenalina nel sistema nervoso centrale e, ancora oggi, in mancanza di altre spiegazioni, ci si rifà a tale convinzione. Dagli anni ’50 si è imposta quella che è diventata la “bibbia diagnostica” degli psichiatri: il DSM, opera dell’American Psychiatric Association (APA) e con il DSM-III del 1980 si impone l’abbandono di diverse teorie psicologiche sui disturbi psichici in favore di «un manuale di pura descrizione di sintomi, nudi e crudi. Si compie […] la scelta ideologica di eliminare tutte le diverse teorie e interpretazioni dei disturbi psichici» (p. 45). Dunque, dal 1980, grazie al DSM-III, si è depressi se per un periodo di almeno due settimane si hanno almeno cinque sintomi tra: «umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi;pensieri di morte o di suicidio» (46). Perché cinque sintomi e non meno o di più e perché l’elenco prevede un massimo di nove sintomi non è dato a sapersi.

Nel ripercorrere la “storia della depressione”, Cipriano ricorda come Ippocrate distingua tra tristezza cum causa e tristezza sine causa, ove solo quest’ultima è da ritenersi patologica, dunque compie una distinzione tra una “malinconia esogena” (con causa) ed una endogena (priva di causa). Tale impostazione di fondo resta in vigore a lungo, tanto che diversi secoli dopo, lo stesso Sigmund Freud (Lutto e melanconia) sostiene che non si deve curare chi è triste, ad esempio, per un lutto in quanto si tratta di un “dolore normale” che necessita solo di tempo. «Insomma, per duemilacinquecento anni si è tenuta separata la tristezza normale, che ha una causa, dalla tristezza abnorme, che una causa non ce l’ha ma poi tutto cambia dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III, il manuale ateoretico, che non vuole più basarsi su alcuna interpretazione (la differenza tra causa esterna o interna, in fondo, è un’interpretazione), ma solo sui sintomi osservabili. Addio alla millenaria differenza tra le due forme di tristezza, dal 1980 esiste una sola depressione: quella che dura più di due settimane e che presenta almeno cinque dei nove sintomi» (p. 47). Se il DSM-III del 1980 almeno specifica che è “normale” provare tristezza per un lutto, anche se si sente in dovere di quantificarne la durata ad un anno (oltre questa durata non si è in lutto ma depressi), con il DSM-IV del 1994 il periodo di “normalità” del lutto scende a due mesi e dal 2013, con il DSM-5, si giunge a due settimane di tristezza consentita. Insomma, sostiene Cipriano, dal 2013 il lutto è pressoché scomparso. È facile capire come grazie a tale logica la depressione si sia trasformata da patologia rara in pandemia.

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoDal momento che i manuali diagnostici hanno via via reso depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, questi hanno posto fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena. Se il fine è quello di ottenere la salute attraverso la guerra alla stanchezza ed all’infelicità, lo stesso lutto deve essere regolamentato: due settimane devono bastare a tutti ed in ogni caso. Passate le due settimane occorre tornare ad essere felicemente produttivi. Alcuni decenni di chimica antidepressiva e la cinica riscrittura dei manuali diagnostici hanno portato ad una vera e propria pandemia di depressi. I dati riportati da Cipriano sono impressionanti: al mondo si contano 400 milioni di depressi e 60 milioni di bipolari, ove la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore. Se il disturbo bipolare risulta un fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, con la diffusione degli antidepressivi diviene la seconda patologia psichica più diffusa ed è stato esteso agli adolescenti.
La maggiore fonte di profitto delle case farmaceutiche deriva dagli antidepressivi (negli ultimi due decenni negli USA il ricorso ad antidepressivi è aumentato del 400%), chiaro allora, sostiene Cipriano, che alle aziende farmaceutiche è convenuto l’allargamento dei confini diagnostici della depressione voluto dagli psichiatri dell’American Psychiatric Association. Il dubbio che tale allargamento sia stato dettato dalle industrie farmaceutiche è del tutto legittimo e non sarà un caso se i finanziamenti per redigere il DSM-IV sono arrivati quasi per intero dalle case farmaceutiche e se metà dei redattori è direttamente legata ad esse.

Fino agli anni ’50 la malattia “giustificante la psichiatria” è la schizofrenia, malattia priva di definizione e basata su sintomi. Dopo che l’OMS ha trasformato la salute in benessere psicofisico e sociale, l’agire psichiatrico cambia; non occorre più curare una malattia mentale giudicata inguaribile (la schizofrenia) ma si deve mirare al raggiungimento del “completo benessere psicofisico”. Alla schizofrenia si sostituisce così la depressione. Probabilmente, sostiene Cipriano, l’American Psychiatric Association ha saputo approfittare di qualcosa che “era nell’aria” e la grande stanchezza esistenziale dei nostri tempi è stata tramutata in malattia: la depressione.

Visto che gli individui sembrano davvero essersi trasformati da oggetti di ubbidienza a soggetti di prestazione, lo “psichiatra riluttante” si chiede se l’esaurimento psicofisico e quello che i manuali diagnostici chiamano depressione non possa essere conseguenza dell’imperativo della prestazione. «Questo è il paradosso dell’uomo moderno, che per la prima volta nella storia si trova a essere padrone, sfruttatore, schiavista di se stesso […] la sua è solo un’apparente libertà. La sua è patologia della libertà. È una nuova società del lavoro, una società che sembra libera ma non lo è, perché è iperattiva, frenetica, schiava della sua stessa isteria di lavoro e iperproduzione. Una società che non contempla il riposo, e ancor meno l’ozio. Di qui la stanchezza […] che ora è diventata depressione» (pp. 49-50).

Nel libro viene riportata l’interessante ricostruzione di Mario Colucci, derivata da Ethan Watters (Crazy like us: the globalization of the American psyche), di come la depressione sia stata introdotta in Giappone al fine di poter inondare il paese di antidepressivi serotoninergici. In Giappone la personalità melanconica non ha tradizionalmente nulla di patologico, anzi, è sempre stata considerata sintomo di serietà, dunque, non facendo parte della cultura nipponica, la depressione deve essere introdotta ed è così che su quella cultura «negli anni Duemila, irrompe la nuova, moderna, scientifica, semplificata, omogenea narrazione proposta (o imposta) dal DSM […] E gli antidepressivi fanno il boom» (pp. 51-52).

Dagli USA arriva anche la “pillola dell’intelligenza”, si chiama Modafinil (“Moda”) ed il suo nome commerciale è “Provigil”, dunque, come suggerisce il nome, si preoccupa di favorire la vigilanza. Inizialmente «doveva servire come farmaco contro la narcolessia. Oggi viene proposta come smart drug, droga furba, cioè pillola dell’intelligenza. Infatti dovrebbe migliorare attenzione, memoria, concentrazione, e dunque intelligenza. Questa molecola sembra davvero l’equivalente del Ritalin dato ai piccoli scolari distratti, da distribuire a quegli adulti che, per stare in tiro, s’ingozzano di troppi caffè, o sono costretti a farsi la cocaina ogni tanto. Con la differenza farmacodinamica, però, che il metilfenidato (Ritalin) agisce solo aumentando la quantità di dopamina, il modafinil (Provigil) agisce anche riducendo il livello di acido gamma amino-butirrico (GABA), che è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC» (pp. 80-81).

Nel libro viene ricordato come già i militari americani siano costretti per contratto ad assumere farmaci che li rendono più resistenti alla fatica ed al sonno e più performanti in guerra. Dunque, sulla scorta di tale ricorso al potenziamento chimico, c’è chi propone di estenderlo a tutte le professioni impegnate in emergenze. Piloti d’aereo, chirurghi e medici del pronto soccorso, ad esempio, potrebbero presto essere tenuti ad assumere neurostimolatori per migliorare le loro prestazioni in situazioni d’emergenza. Gli studi sugli effetti di queste molecole, però, vengono effettuati sul breve periodo (poche settimane) esattamente come è accaduto per il Ritalin somministrato ai bambini definiti “iperattivi”, col risultato che ci si ritrova, a distanza di anni, di fronte ad individui ridotti a zombie. Un’eventuale estensione ad altre professioni, oltre all’ambito militare, aprirebbe nuove opportunità per il business della salute; si potrebbero avere futuri pazienti depressi o bipolari a cui somministrare farmaci stabilizzatori od antipsicotici. Insomma, si tratta di un perverso meccanismo in cui una pillola chiama l’altra.

Se da un lato è quantomeno inquietante pensare di salire su un aereo con al comando un pilota “rinforzato” da qualche neuro-stimolatore, o di sottoporsi al bisturi di un chirurgo impasticcato, ci preme sottolineare come, anche in questi casi, i lavoratori vengano “potenziati” per essere più “performanti” (produttivi) per un lasso di tempo sempre più breve, per poi essere “scartati” in quanto non più “sicuri” (non più produttivi). Si delinea un quadro in cui la “spremitura” del lavoratore avviene, anche grazie alla chimica, sempre più velocemente e, in un sistema lavorativo votato al mito dell’autoimprenditorialità, quel che è peggio è che sarà il lavoratore stesso a potenziarsi per migliorare la sua posizione sul mercato del lavoro. Sarà il lavoratore stesso a spremersi sempre più velocemente bruciandosi il corpo ed il cervello per poi divenire velocemente scarto, rifiuto improduttivo per sé ma non per il business della salute, capace, come stiamo vedendo, di trarre profitto anche dai “rifiuti umani”. Al pari del business per il trattamento dei rifiuti prodotti dal consumismo, esiste un business che ricava profitto dagli scarti umani.

Prendendo spunto dalla serie televisiva di successo Dr. House, Cipriano tratteggia alcune inquietanti caratteristiche della società contemporanea. Il Dr. House, medico a cui interessa la malattia ben più che il paziente, rappresenta davvero il «medico perfetto per questa società schizoide […] È un medico schizoide a cui non piace, o meglio teme, la relazione. Tant’è che per potersi permettere una sufficiente capacità relazionale si droga, si fa, si prende farmaci, ora non lo so cosa diavolo prenda lui di preciso, di certo antidolorifici, ma come lui moltissimi medici o terapeuti si prendono la cocaina o gli antidepressivi, per essere più socievoli e performativi, più terapeutici, perché proprio loro non ce la fanno, se no, a essere in sintonia con l’altro. Ecco il dramma, allora, di una società disconnessa, schizoide, nel senso di portata per l’autismo, arelazionale, che sempre più sta perdendo il contatto con il mondo, con gli altri, con il koinós kósmos (mondo comune) eracliteo, a favore dell’autistico ídios kósmos (mondo proprio). È una società, quella che acclama il paradigma del medico schizoide dottor House, che è essa stessa schizoide, perché manca di sintonia, di capacità di entrare in relazione affettiva con gli altri. E questo modo i porsi viene scambiato per apatia, o tristezza, e quindi depressione. Ma la depressione è un’altra cosa. La depressione, i moderni, mistificatori manuali americani, non lo sanno che cosa sia. Dunque apparentemente abbiamo un’epidemia di depressione. In realtà è, questa, l’epoca della schizoidia. L’epoca dei dottor House, e dei malati a lui speculari» (pp. 84-85).

Tra la depressione e la psicosi si colloca una nuova sindrome che i giapponesi definiscono “hikikomori”, letteralmente starsene in disparte, isolarsi dalla vita sociale. Dunque, ritirarsi dalla prestazione o, almeno, aggiungiamo noi, pensare di farlo, perché in questa società si diventa facilmente produttivi anche quando si pensa di non esserlo. L’hikikomori è spesso un adolescente che si isola socialmente, passa il tempo chiuso in casa costantemente davanti al computer a navigare in rete sopperendo così ad una solitudine reale con la convinzione, dettata dall’iperconnessione virtuale, di non esserlo. La studiosa Sherry Turkle (Reclaming Convesation), un tempo entusiasta delle incredibili potenzialità di affermazione della propria identità grazie ad internet, ed ora decisamente pessimista al riguardo, accusa i social network di aver condotto ad un’atrofia dell’empatia.

Grazie alla legge 180, per il solo fatto di soffrire di un disturbo psichico, non si fa più riferimento al malato definendolo “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo” (criterio d’internamento in manicomio della legge 36 del 1904) al fine di giustificare il ricovero coatto. La 180 per il trattamento dei disturbi psichici prevede la volontarietà del paziente e solo eccezionalmente si può agire in maniera impositiva. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio può darsi solo se: «1. esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2. gli stessi non vengono accettati dal paziente; 3. non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere» (p. 148). L’obbligo della cura (TSO) non avviene più per “tutelare la società” ma per “dovere etico di cura”; si è passati da una questione di pubblica sicurezza ad una terapeutica. I dati dimostrano come più un servizio territoriale è debole, maggiore è il ricorso ai TSO e, nonostante la 180, secondo Cipriano, la psichiatria italiana non solo non si è liberata dal manicomio ma sembra sempre più farvi ritorno: «nessuna prevenzione, nessuna presa in carico, prevalente intervento sull’emergenza con trattamenti coatti gestiti con modalità poliziesche, ricoveri ad infinitum con aggressive terapie farmacologiche e contenzione al letto» (p. 150).

Cipriano si dice convinto che TSO e contenzione siano strettamente collegati. «La contenzione, il legare le persone, sovente inizia già per strada, la iniziano poliziotti o carabinieri, e gli psichiatri che si trovano recapitate persone già ammanettate, nei pronto soccorso, non fanno altro che togliere le manette e mettere le fasce» (p. 152). Dunque sussiste la necessità e l’urgenza di promuovere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione: legare una persona ad un letto di ospedale è l’ultimo atto violento di una lunga serie che magari inizia con le manette, poi continua con la perquisizione, l’essere spogliati di tutti gli effetti personali e la scansione temporale ferrea degli orari in cui mangiare, dormire, fumare, assumere farmaci ed avere colloqui. Di fronte a tutto ciò Cipriano si chiede quanto possa sorprendere un’eventuale reazione rabbiosa da parte del ricoverato. «Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattamento provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce al trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in un suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?» (p. 161).

Come disobbedire da psichiatri alla consuetudine di legare? Secondo Cipriano si può disobbedire trovando altri modi per contenere la rabbia, la furia e la violenza del paziente e rendere pubblica la disobbedienza, raccontando, scrivendo, facendosi delatori, svelando che legare le persone al letto è una pratica diffusa. «Per vincere, e sconfiggere questo spettro, lo spettro delle fasce, e il fascismo subdolo che il loro uso comporta, c’è bisogno di persone (operatori) etiche e disubbidienti, che sappiano opporsi a questa prassi, che sappiano disubbidire all’assurdità di questa consuetudine, all’assurdità dei protocolli e delle linee guida, che sappiano sottrarsi alla banalità del male di una medicina e di una psichiatria che per curare esercita forza e violenza» (pp. 164-165). Dunque, insiste lo “psichiatra riluttante”, occorre convincere la società civile e gli operatori che ricorrono alle fasce, occorre far capire che con quelle fasce gli operatori legano tanto i pazienti quanto loro stessi, si umiliano, in modo diverso, entrambi.
Gli attacchi di Cipriano prendono di mira anche la psicoterapia che, a suo avviso, può avere senso soltanto se poco interpretativa e molto narrativa, perché il suo scopo non è guarire ma conoscersi attraverso il racconto della propria esistenza. Intanto gli operatori possono nella pratica quotidiana provare ad abolire l’ottocentesco giro di visita giornaliero in favore di un colloquio continuo, portare fuori i ricoverati, revocare i TSO, sciogliere i legati costi quel che costi e ridurre i farmaci. Almeno, suggerisce lo “psichiatra riluttante”, sarebbe utile riuscire a convincere i giovani operatori del settore, i pazienti ed i loro famigliari che «un altro modo per curare i disturbi dell’anima è possibile» (p. 26).

CIPRIANO_Fabbrica_Cura_MentaleAi nostri giorni si ricorre frequentemente al termine “schizofrenia”; tutti credono di sapere cosa essa sia mentre in realtà non è così. Nel saggio viene ricostruito, seppur per sommi capi, il processo storico che ha costruito tale diagnosi a partire da Emil Kraepelin (1856-1926) che, a fine ‘800, classifica i disturbi psichici osservando la loro evoluzione nel tempo. La sua fiducia sulla genesi organica della follia lo porta a distinguere la dementia praecox (una serie di forme morbose che si manifestano già prima dei 30 anni di età e che sfociano in demenza) dalla follia maniaco-depressiva (che ritorna alla normalità). Nel suo approccio i giudizi di valore hanno la meglio su quelli clinici e, pur senza ammetterlo, molti psichiatri ai giorni nostri sono intimamente e nichilisticamente kraepeliniani al pari del famigerato DSM-5. È chiaro, sottolinea Cipriano, come la visione pessimistica semplifichi il lavoro dello psichiatra: lo deresponsabilizza. L’incurabilità è comoda per i medici ma significa condanna certa per i pazienti.

Eugen Bleuler (1857-1939) sostiene, invece, che l’esito demenziale è raro e non la regola in questo disturbo, dunque introduce il termine “schizofrenia” provando a concedere ad essa una speranza terapeutica. Nonostante ciò la nozione di schizofrenia si è rivelata “una nuova prigione” perché molti psichiatri continuano a curare gli schizofrenici come dementi precoci. Bleuler distingue tra sintomi fondamentali ed accessori ed indica nella frammentazione delle funzioni psichiche il nucleo della malattia da cui derivano alterazioni dell’affettività, ambivalenza e tendenza ad isolarsi dalla realtà. Bleuer, sostiene Cipriano, pur soffermandosi eccessivamente sui sintomi accessori a discapito di quelli da lui stesso indicati come fondamentali, ha il merito, almeno sul piano teorico, di riportare «il più grave disturbo psichico dal territorio dell’incomprensibile e del non curabile a quello della comprensibilità e della curabilità» (p. 207).

Eugéne Minkowski (1885-1972), riprendendo i disturbi individuati come fondamentali nella schizofrenia da Bleur restringe ulteriormente il campo e si concentra in particolare sull’autismo considerato dallo studioso come perdita del senso della realtà. Cipriano pone l’accento sull’influenza esercitata dalla filosofia di Henri Bergson su Minkowski: «la nozione di intuizione (suggestione bergsoniana) diventa per Minkowski la chiave di volta per un metodo, un modo, una possibilità di incontrare la persona schizofrenica» (p. 210). Diviene così più importante cogliere le confidenze dei malati rispetto al mero elenco dei sintomi. Nel libro Schizofrenia (1927) Minkowski sottolinea come etichettare nosograficamente un essere umano significhi marchiarlo per sempre precludendosi la possibilità di comprenderlo. «È per questo che, sulla scorta del pensiero di Bergson, si è fatto promotore della cosiddetta diagnosi per penetrazione, cioè di una diagnosi intuitiva, non intellettiva, una diagnosi per sentimento, una diagnosi che sente, una gefüldiagnose, una diagnosi che ha bisogno di un modo particolare dello psichiatra di stare con quella persona, attento, interessato a lui e non ai suoi sintomi caldo e non freddo, affettivo e non staccato. Ecco che, in questo modo, diagnosi, comprensione, relazione e terapia sono un tutt’uno, diventano inestricabili» (p. 211). Nel libro viene ricostruita l’idea minkowskiana di schizofrenia ponendo l’accento sulla centralità della nozione di curabilità in psichiatria; partire dall’idea di incurabilità significa condannare a priori le persone. Purtroppo, continua Cipriano, oggi ad avere la meglio è la linea kraepleiniana rispetto a quella minkowskiana e dire schizofrenia significa dire incurabilità.

La messa in discussione di manicomi inizia a darsi soltanto negli anni ’60 di pari passo con il trattamento farmacologico a cui fanno ricorso anche gli psichiatri anti-istituzionali. Per certi versi si passa dalla camicia di forza al manicomio chimico ma, probabilmente, sostiene Cipriano, si tratta di una sorta di passaggio obbligato utile a porre fine al manicomio tradizionale, inoltre, nel breve periodo, gli antipsicotici risultano efficaci sui sintomi più eclatanti. «I sintomi cosiddetti floridi, nel giro di settimane o mesi, di solito si spengono. Lasciando il posto, per lo più, ad altri vissuti. Per esempio a uno stato di introflessione, di chiusura, di asocialità, insomma di schizoidia esasperata, di contatto vitale con il mondo ormai perduto, anche se i deliri o le allucinazioni magari non ci sono più» (pp. 223-224). Come mai gli psichiatri si concentrano su tali sintomi accessori trascurando «il vero disturbo generatore della schizofrenia, che è l’autismo, inteso come perdita del contatto vitale con la realtà?» (p. 224).

Secondo Cipriano qualche responsabilità deve essere imputata a Kurt Schneider (Psicopatologia clinica), psichiatra che a metà degli anni ’50 descrive lo schizofrenico molto diversamente da come viene indicato precedentemente da Minkowski. Se in quest’ultimo «dominava la visione di uno schizofrenico arroccato nel suo autismo, isolato, staccato […] In Schneider prevale la sensazione di una persona esposta al mondo esterno, che quasi ha perduto la sua pelle, senza più intimità, alla mercé degli altri» (p. 225). Nella visione schneideriana pare dominare l’idea di perdita dei confini dell’io (la perdita della meità) e da tale visione pare prendere il via «il filone più tipicamente clinico-nosografico della schizofrenia, che disinteressandosi del disturbo generatore, ma interessandosi dei sintomi patognomonici, condizionerà fortemente la nosografia di questo disturbo, e dunque il manuale americano che dagli anni Cinquanta si è venuto ad affermare, manuale che schneiderianamente si professa ateoretico, disinteressato alle cause dei disturbi ma attento ai sintomi» (p. 225). Arriviamo così a quell’elenco burocratico dei sintomi delle schizofrenia del DSM-5 del 2013 che gli operatori del settore debbono considerare per «formulare una diagnosi così tanto grave, diagnosi che ancora non sappiamo se è un destino o una malattia: – due o più di questi sintomi, durante più di un mese, tra deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, abulia); – disfunzione sociale o lavorativa; – durata del disturbo per più di sei mesi; – esclusione di disturbi dell’umore o disturbo schizoaffettivo; – esclusione dell’uso di sostanze o patologie mediche» (p. 226).

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Tears of Rage https://www.carmillaonline.com/2014/02/28/tears-of-rage/ Thu, 27 Feb 2014 23:20:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12718 di Sandro Moiso

osage county Tears of rage, tears of grief Why am I the one who must be the thief? Come to me now, you know We’re so alone And life is brief1

Rabbia. Il minimo comune denominatore di gran parte del migliore cinema americano dalla fine degli anni sessanta in poi. E nel [...]]]> di Sandro Moiso

osage county
Tears of rage, tears of grief
Why am I the one
who must be the thief?
Come to me now, you know
We’re so alone
And life is brief
1

Rabbia. Il minimo comune denominatore di gran parte del migliore cinema americano dalla fine degli anni sessanta in poi. E nel film di John Wells, I segreti di Osage County, sceneggiato da Tracy Letts che è anche l’autrice dell’opera teatrale da cui è tratto2 , di rabbia ce n’è tanta. Una vera esplosione di rabbia e frustrazione. Tutta al femminile e quasi sempre incompresa nelle sue ragioni profonde.

Rabbia. Intorno e dentro ad una riunione di famiglia in occasione della scomparsa del patriarca (interpretato da Sam Shepard). Morte cercata? Annunciata? Ignorata da chi per troppo tempo aveva condiviso i problemi del matrimonio e della maternità senza, mai, condividerne la gioia? Ma esiste la gioia nel matrimonio e nella famiglia per una donna? Per tutte le donne? La commedia nasconde spesso la tragedia e un’autrice donna può far letteralmente esplodere la poetica aristotelica. Da cui, sicuramente, elimina l’epica.

L’epica resta per gli uomini: l’eroismo, il sacrificio volontario, il conflitto con il padre. Tutto ciò che sa di sublime è destinato agli uomini. Edipo, da Sofocle a Freud, è dramma e problema maschile. Come nella lettera al padre di Kafka o in decine di altre opere. La donna, la moglie, la figlia si sacrificano per dovere. Tale è la condizione femminile. Sembrerebbe per natura oggettiva. E quindi non può esserci eroismo, non può esserci pathos.

Il conflitto madre-figlia, spesso il più drammatico poiché si svolge all’ombra dell’apparentemente imperturbabile autorità maschile, resta troppo spesso fuori dal campo visivo. Nascosto, escluso, proibito. E’ il non detto dell’anoressia, è la ribellione silente di coloro che, non potendo scalzare il dominio patriarcale, sono costrette a rivolgere gli artigli verso le proprie simili. Così il dolore diventa furia, scherno, odio. Di solito rimosso o trattato come follia.

Rabbia e follia. Il destino delle donne forti. Più forti dei loro uomini anche se la società, anche quella di oggi, non vuole davvero sentirlo dire. E loro non lo possono dire. Devono chiudersi in difesa e rasentare la follia. Oppure volare via con la testa con la dipendenza dai farmaci. O dall’alcol. Perché la famiglia è, comunque, sacra. Per l’uomo, altrimenti a cosa varrebbe ancora la sua autorità? Uomo cui si può e si deve perdonare qualsiasi debolezza e qualsiasi viltà, mentre per la donna non è perdonabile nemmeno l’invecchiamento fisico.

Invecchiamento fisico, che fa scontare alle donne troppo forti il loro peccato principale: la forza di carattere appunto. Quella che non può essere perdonata o ammessa. Che se si manifesta nell’adolescenza deve essere derisa, mentre nella maturità deve essere trattata come una malattia. Anche nel cristianissimo ed evoluto occidente. Anche nell’estremo occidente della provincia americana. On the Great Plains of Oklahoma. Dove la moglie di uno scrittore e docente universitario, poeta colto ed intelligente, resta comunque e sempre, prima di tutto, una moglie.

Rimane il problema della colpa originaria che, proprio nel cristianesimo, viene attribuita alla donna. Tentatrice e irresponsabile se non lavora, ma, allo stesso tempo, colpevole e deprecabile se per il lavoro trascura affetti e doveri famigliari. Colpevole sempre e guai a lei se si ribella contro un’attribuzione di colpa troppo spesso profondamente interiorizzata dalle stesse interessate. Colpa che produce frustrazione, paura ed è causa di conflitti. Anche tra sorelle.

Sorelle in lotta per lo stesso uomo. Sorelle che si amano e si odiano. Sorelle vittime della stessa colpa e, magari, dello stesso uomo. Non occorrono i serial killer per far soffrire le donne. Possono soffrire in ambito domestico anche senza violenze. Anche se quelle sono state sofferte in gioventù, in una società arcaica, e non durante l’età adulta. Vittime del fascino maschile. In nome del perbenismo e della norma occorre digerire tutto. Ma fin dove e fino a quando?

E poi ci sono tutte le altre donne: le figlie deboli, impaurite, incerte, smarrite. Non c’è pietà nemmeno per loro. Se vogliono possono accompagnarsi ad un imbecille o a un cretino pieno di soldi. Naturalmente mettendo da parte orgoglio, speranze e rassegnandosi. Così è, così è stato e così sempre sarà. Solo rabbia e follia sembrano poter sfuggire a tale destino. Anche se colei che le manifesta è condannata, inevitabilmente, alla solitudine.

Tutto ciò, e molto altro ancora, è evidenziato in quella che per ora si è rivelata la miglior pellicola dell’attuale stagione cinematografica. Bravi tutti gli interpreti, anzi le interpreti, da Juliette Lewis a Julianne Nicholson. Bella la fotografia con un che di anni settanta nel taglio delle inquadrature e nella scelta della luce. Standing ovation, infine, per Meryl Streep e Julia Roberts. Magnifiche interpreti di una madre e di una figlia “vittime” dello stesso carattere forte ed accomunate da un identico destino di solitudine.


  1. Lacrime di rabbia, lacrime di angoscia / Perché devo essere l’unico colpevole / Vieni da me adesso, tu lo sai / Siamo così soli / e la vita è così breve (Bob Dylan, Richard Manuel, Tears of Rage, The Basement Tapes, 1967-1975)  

  2. Tracy Letts, Agosto, foto di famiglia, Rizzoli 2014, pp. 208, euro 10,00  

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