folklore – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Colpi di testa in Sologne https://www.carmillaonline.com/2024/05/25/colpi-di-testa-in-sologne/ Sat, 25 May 2024 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82708 di Franco Pezzini

Claude Seignolle, La Malvenue, trad. dal francese di Elena Furlan, introd. e nota di Cesare Buttaboni, pp. 223, € 16,90, Hypnos, Milano 2021.

La storia si dipana a cavallo tra il 1896 e (circa) 1912 in Sologne, nel sud dell’Orleanese, più o meno al centro della Francia, tra campi, corsi d’acqua e paludi (più di tremila, nella regione): una zona faticosa e ingrata da coltivare e dove antiche divinità galloromane sembrano allignare ancora, trasfigurate da tradizioni tarde su losche lavandaie di sudari e bestie da incubo. Claude Seignolle (1917-2018), cultore di folklore e narratore di vaglia, offre in [...]]]> di Franco Pezzini

Claude Seignolle, La Malvenue, trad. dal francese di Elena Furlan, introd. e nota di Cesare Buttaboni, pp. 223, € 16,90, Hypnos, Milano 2021.

La storia si dipana a cavallo tra il 1896 e (circa) 1912 in Sologne, nel sud dell’Orleanese, più o meno al centro della Francia, tra campi, corsi d’acqua e paludi (più di tremila, nella regione): una zona faticosa e ingrata da coltivare e dove antiche divinità galloromane sembrano allignare ancora, trasfigurate da tradizioni tarde su losche lavandaie di sudari e bestie da incubo. Claude Seignolle (1917-2018), cultore di folklore e narratore di vaglia, offre in La Malvenue (1952) il suo capolavoro, dipanando in modo parallelo le vicende drammatiche del bretone Moarc’h, padrone della fattoria della Noue, alle prese con la testa maledetta di un’antica statua accidentalmente decapitata con l’aratro, e la tragedia – sedici anni dopo – della figlia di lui, Jeanne detta appunto la Malvenue.

Il romanzo ha una sua dignità letteraria pienamente valorizzata dalla splendida traduzione di Elena Furlan: e sprofonda il lettore nella realtà febbricitante e malsana di un mondo contadino dove il desiderio sensuale sembra puntare sempre nelle direzioni meno opportune, i corpi si fanno ricettacoli di fiati torbidi, impulsi malefici e sensi di colpa e il passato emerge, ingovernabile, senza trovare pacificazione. Gli incendi fatti scatenare dalla Malvenue ai suoi spasimanti (possessione o manipolazione adolescenziale?) rimandano a quelli che suscita nelle carni attorno. E quella statua acefala irraggiungibile tra terra e palude finisce con l’apparentarsi a un rimosso, in tutti i sensi possibili.

Seignolle attinge, è ovvio, a tutta una ricca produzione folklorica, ma insieme alla grande letteratura francese: il tributo al Mérimée de La Vénus d’Ille (scritto 1835, pubblicato 1837) sembra abbastanza evidente pur nell’estrema originalità dello sviluppo. Val la pena di ricordare che il fantastico francese dell’Ottocento e la sua stessa declinazione orrifica non costituiscono meri derivati di Hoffmann e di Poe, per quanto indubbiamente ne recepiscano gli influssi: il nero francese, come avvertito già da Sade, abbinava a un gotico di importazione il macabro degli eccidi della Rivoluzione e delle guerre napoleoniche, in una saldatura e reinvenzione visionaria che porterà frutti copiosi e originalissimi. Un fenomeno come quello del feuilleton, approssimativamente tra gli anni Trenta dell’Ottocento e i Trenta del secolo successivo, pur con le sue diverse declinazioni, veicola così a grandi numeri le sirene del macabro, emblematicamente celebrate da una forma di spettacolo molto francese come il Grand Guignol (1897-1963). E persino il surrealismo recupererà quella dimensione (importante ricordarlo, altrimenti nomina nuda tenemus), gli occhi fissi – sbarrati – al gotico più risalente e a un macabro dai connotati stranianti, onirici, insensati. A reinquadrare l’opera val la pena considerare tutto questo, e il fatto che in fondo la vera stagione d’oro del fantastico nero in Francia siano stati proprio l’Ottocento e gli anni di svolta col secolo dopo: la quantità di autori novecenteschi francesi o francofoni – anche grandi come Seignolle o Jean Ray – che traghetteranno nel linguaggio fantastico le inquietudini del Secolo Breve guarderà con entusiasmo a quel passato, che oggi permette tra l’altro il recupero di tutta una ricca produzione minore di grande successo. D’altra parte non dimentichiamo che molto del macabro francese si innesta anche in altri generi di narrazione: Dumas non scrive solo meravigliosi e nerissimi testi sovrannaturalistici, ma – come Hugo – riporta scorci genuinamente gotici nei suoi romanzi storici.

Anche per questo, senza polemiche inutili, sembra sviante cercar lumi su questo tema in Lovecraft e nel suo saggio sul sovrannaturale letterario: sia perché di molti testi francesi HPL non poteva avere conoscenza, sia perché – come ben noto – i suoi gusti stroncavano con sarcasmo una serie di declinazioni dell’orrore narrativo che invece oggi troviamo interessanti. Per non parlare di motivazioni cultural-razziali che ormai una critica letteraria seria giudica risibili e stantie (“[…] di fatto, il genio francese è per natura più incline a questo cupo realismo piuttosto che alle suggestioni dell’invisibile; perché queste ultime richiedono, per il migliore e coinvolgente sviluppo su vasta scala, l’innato misticismo dello spirito nordico”, corsivo mio). Mentre per un rapporto stretto e solo apparentemente contraddittorio tra realismo – non interpretiamo semplicisticamente questo termine – e fantasmi, pare interessante pensare a un autore come Maupassant.

Ciò detto sull’inquadramento di un’opera memore di tutta una tradizione di studi folklorici che affonda nell’Ottocento, è giusto sottolineare ancora una volta la qualità alta del testo. Una serie di figure, e particolarmente la giovane dark lady Jeanne, sorta di Giovanna d’Arco dell’inferno, restano vivide al lettore, scolpite caratterialmente con tratti non meno marcati ed enigmatici di quelli della testa maledetta emersa arando: al netto di un tema – la statua pagana fatale – fortemente connotante la scrittura visionaria tra i due secoli, come attestano anche Henry James e Vernon Lee, si tratta in fondo dell’ennesima testa mozza degli incubi di Francia, fatale come il capo di Medusa. Sul rapporto quasi illusionistico tra la statua e la Malvenue è bene non spoilerare, anche se la narrazione si regge su un godibilissimo gusto affabulatorio persino più che sulla trama.

A fronteggiare il Male, in un paese fortemente cattolico come la Francia, colpisce la latitanza di un clero con santabarbara esorcistica (c’è solo un mago, abbastanza inutile), parallelo all’altro “ordine” dei gendarmi, costantemente pronti ad arrestare innocenti. E, come nel migliore fantastico dell’imbarazzo, non possiamo che restare dubbiosi se gli eventi sovrannaturali descritti non scoperchino in fondo, a colpi di incubi e incidenti folk horror ma in realtà naturalissimi, i malesseri di un mondo subalterno ormai deprivato di certezze anche solo simboliche.

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Storie di un dio bugiardo e sciocco https://www.carmillaonline.com/2023/11/08/storie-di-un-dio-in-difetto-e-di-una-cultura-scomparsa/ Wed, 08 Nov 2023 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79923 di Sandro Moiso

Frank B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 156, 10 euro

«Ormai avete capito che il Vecchio non sempre era saggio, anche se ha creato il mondo e tutto ciò che contiene. Spesso si ficcava nei guai, ma poi in qualche modo accadeva sempre qualcosa per cui riusciva a cavarsela.» (Aquila di Guerra, stregone dei Blackfeet)

In periodi come questo, in cui il male di vivere occidentale si manifesta con tutte le sue contraddizioni, convulsioni e i suoi disastri che, oltre che a precederne la fine inevitabile, non [...]]]> di Sandro Moiso

Frank B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 156, 10 euro

«Ormai avete capito che il Vecchio non sempre era saggio, anche se ha creato il mondo e tutto ciò che contiene. Spesso si ficcava nei guai, ma poi in qualche modo accadeva sempre qualcosa per cui riusciva a cavarsela.» (Aquila di Guerra, stregone dei Blackfeet)

In periodi come questo, in cui il male di vivere occidentale si manifesta con tutte le sue contraddizioni, convulsioni e i suoi disastri che, oltre che a precederne la fine inevitabile, non risparmiano i popoli che non hanno ancora voluto sottomettersi alle sue leggi, ideologie e condizioni, può rivelarsi utile affrontare letture come quella proposta da Mattioli 1885 con il testo di Frank Bird Linderman appena pubblicato.

Il testo pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1915, con il titolo “Indian Why Stories: Sparks from War Eagle’s Lodge-Fire”, sotto le innocenti apparenze di una raccolta di racconti per bambini nasconde una visione del mondo, della natura e del divino distanti anni luce da quella imposta a suon di cannoni, inquisizioni e violenze dall’Occidente fin dall’inizio delle sue avventure e conquiste coloniali.

A riportarci indietro nel tempo e alle fondamenta di culture ormai scomparse è Frank Bird Linderman (New York, 25 settembre 1869 – New York, 12 maggio 1938), uno scrittore, politico, alleato ed etnografo dei nativi americani. Nato a Cleveland, Ohio, si recò nel West all’età di sedici anni, dove si innamorò della vita sulla frontiera del Montana e delle tradizioni dei suoi abitanti originari, con le cui tribù Salish e Blackfeet, visse e cacciò per diversi anni, imparando le loro lingue e tradizioni e i loro modi di vivere. Abitudini e stili di vita a cui si adeguò talmente da diventare noto tra i Crow come “Sign-talker” o, a volte “Great Sign-talker”; mentre i Blackfeet lo chiamavano “Tooth”, i Kootenai lo conoscevano come “Bird-Singer” e i Cree e Chippewa “Occhi” o “Sings-like-a-bird”.

Tornato tra i “bianchi”, divenne in seguito un sostenitore dei diritti degli indiani delle pianure settentrionali. Scrisse delle loro culture e lavorò, anche come uomo politico eletto per il partito repubblicano nel 1902 e nel 1904, per aiutarli a sopravvivere alle pressioni degli europei americani e continuò come avvocato per i nativi americani fino alla sua morte.

Pubblicò la sua prima raccolta di storie tribali dei nativi americani nel 1915 e scrisse altri venti libri nei due decenni successivi. Scrisse per condividere ciò che sapeva sulle culture dei nativi americani e per preservare le loro storie tradizionali.

Aveva passato la sua vita a raccogliere storie, e sentiva il dovere di scriverle. Scrisse altrettanto in una lettera a un amico: “Sento che è un dovere, in qualche modo, preservare il vecchio West, in particolare il Montana, nell’inchiostro della stampante, e se posso solo realizzare una piccola parte di questo, morirò soddisfatta”. Scrisse sei libri di leggende dei nativi americani, un’autobiografia, una raccolta di storie di frontiera, sei romanzi, tre storie di animali e una raccolta di ricordi sul suo amico e artista Charles Marion Russell. Le sue opere più importanti, tuttavia, rimangono le biografie di Pretty Shield e Plenty Coups. Anche se antropologi ed etnologi hanno notato che Linderman rimaneggiò le narrazioni in modo significativo, ma tuttavia hanno dovuto poi riconoscere che il suo lavoro contiene tutt’ora informazioni utili sulla vita dei nativi e dei Crow in particolare.

I venti racconti che Linderman immagina narrati da uno stregone Blackfeet ai giovani della tribù, sono sufficienti a delineare una cosmogonia molto articolata e complessa, in cui non vi è differenza gerarchica tra uomini e animali, tra natura e civiltà. Anzi sono spesso gli uomini e le loro usanze a dover sottostare alle leggi e alle norme della Natura e del mondo animale. Non per forza e costrizione, ma per saggia osservazione della realtà.

Anche se negli ultimi decenni il delirio new age ha trasformato troppo spesso questa visione del mondo e dei racconti che la tramandano in filosofia spicciola oppure in spiritualità da operetta, è piuttosto importante osservare come al loro interno questo rispetto arcaica della Natura e di coloro che condividono con l’uomo l’ambiente, pur non essendo umani, non danno vita ad una vera e propria religione. Non sono presenti Manitù e il sacro bisonte bianco, se non su uno sfondo piuttosto distante e sbiadito, mentre è presente, in quasi tutti i racconti, la figura del Vecchio Uomo, o Napa come è noto tra i Blackfeet, che è:

il personaggio più strano del folklore indiano. A volte appare come un dio o un creatore, e altra come uno sciocco, un ladro o un pagliaccio. Ma per l’indiano, Napa non è la Divinità; occupa una posizione alquanto subordinata, e possiede molti attributi che a volte hanno fatto sì che venisse confuso con lo stesso Manitù. […] Su quest’ultimo non si raccontano storie futili […] Ma con Napa la questione è completamente diversa. Non sembra aver diritto a nessun rispetto; è uno strano miscuglio fra un umano fallibile e un potente dio minore. Commette parecchi errori e raramente ci si può fidare di lui, e le sue azioni e scherzi variano dal sublime al ridicolo1.

Vicino ai semidei greci e alla inaffidabilità di tante divinità dell’Olimpo ellenico, Napa ci rivela un altro modo di intendere la religiosità: dubbioso quasi sempre, spesso ironico e mai del tutto succube dell’insegnamento, che va sempre interpretato oppure non ascoltato come se fosse una verità assoluta. Lontano tanto da Jahvè, i cui insegnamenti si vedono oggi in azione nelle striscia di Gaza per opera del “profeta” Netanyahu, quanto dalle interpretazioni di Allah rappresentate dal fanatismo islamista, ma anche dalle interpretazioni più autoritarie del Dio dei cattolici e dei protestanti.

Un modo di vivere la religiosità prossimo allo spettacolo della natura, lontano da ogni forma di fanatismo e per niente avvezzo a credere alla superiorità dell’Uomo e dei suoi dei sulle altre creature. Prossimo a una concezione cosmica lucreziana: Nessuna centralità dell’uomo nell’universo […] e nessuna gerarchia tra le foglie degli alberi, i fiocchi di neve, i sassi del fiume, le messi, gli arbusti, le specie dei viventi, il cielo, il mare, la terra2.

Creature che, come in ogni favola che si rispetti, sono altrettanto dotate di parola e saggezza sia che si tratti di castori che di uccelli oppure di topi, orsi, lupi e coyote. Animali, spesso totemici, che sono molto spesso i veri protagonisti delle favole narrate da Aquila di Guerra, insieme agli uomini e a Napa che, talvolta, deve rassegnarsi ad accogliere i consigli di che è più saggio di lui pur provenendo dal mondo animale.

Napa, il Vecchio, è davvero molto vecchio. Ha creato questo mondo e tutto ciò che vi sta sopra. […] Il Vecchio viveva in questo mondo con gli animali e gli uccelli. Allora non c’erano altri uomini o donne, e lui era il capo di tutti gli animali e di tutti gli uccelli.[…] Il Vecchio però commise anche grandi errori anche se poi sgobbava per far sì che tutto tornasse a posto. Spesso, tuttavia, faceva grandi dispetti e insegnava cose cattive. Tutti avevano paura del Vecchio e dei suoi inganni e delle sue bugie, persino gli animali, prima che creasse uomini e donne3.

Un dio ingannevole, infido e burlone non obbliga certo a una grande devozione e questo sembra essere l’intento centrale di un insegnamento che più che a servire il Cielo mira a rendere gli uomini e le donne più capaci di scegliere e comprendere ciò che va fatto per vivere in armonia con chi e cosa ci circonda. Eppure, eppure…

Come ci ricorda l’autore in prima persona, non fu quella società e non furono quegli insegnamenti a sopravvivere se non a livello di folklore nativo, come insegna, al termine della raccolta, il fantasma di un bisonte a un vecchio indiano che, nelle Badlands, si domanda dove siano finite le grandi mandrie che un tempo pascolavano sulle pianure create dal Missouri e quale sarà il destino del suo popolo.

Oh, uomo rosso, la mia gente se n’è andata tutta […] tutta la mia tribù è andata a pascolare tra le colline dell’ombra [quando] arrivò l’uomo bianco e ci fece guerra senza motivo o necessità. Io fui uno degli ultimi a morire, e con mio fratello fuggii in queste terre impervie per potermi nascondere; ma un giorno in cui la neve ricopriva il mondo, un bianco assassino seguì le nostre impronte, e con la sua arma rumorosa mandò i nostri spiriti a unirsi alle grandi mandrie d’ombra. Carne? No, non prese la nostra carne, ma dalla nostra carne tremante prese e strappò le vesti che Napa ci diede per riscladarci, e ci lasciò in pasto ai Lupi. Arrivarono quella notte e litigarono, si azzuffarono, si spartirono i nostri corpi, lasciando solo le ossa a salutare il Sole del mattino. I Coyote e altre bestie più deboli le trascinarono queste ossa e le scorticarono, e poi le scorticarono ancora, finché l’ultimo pezzo di carne o muscolo non scomparve, Poi giunse il vento con la sua canzone e tutto terminò4.

Oggi, mentre sta per avverarsi la profezia dei nativi americani5, è giusto, bello e utile ripercorrere queste pagine per tornare ad immaginare un mondo che non è più, ma che potrebbe tornare a vivere oltre l’avidità e l’egoismo causati dal capitale e dal mondo che ne è risultato. Fino ad ora.


  1. F. B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 10-11.  

  2. I. Dionigi, L’Apocalisse di Lucrezio. Politica, religione, amore, Raffaele Cortina Editore, Milano 2023, p. 15.  

  3. F. B. Linderman, op. cit., pp. 16-17.  

  4. Ivi, pp. 147-148  

  5. Stan Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

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Black Empusa. Füssli, la koiné degli incubi e il fantastico moderno (IV) https://www.carmillaonline.com/2018/08/17/black-empusa-fussli-la-koine-degli-incubi-e-il-fantastico-moderno-iv/ Fri, 17 Aug 2018 21:22:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48129 di Franco Pezzini

La koiné degli incubi

“[…] Stia dunque a sentire quello che non sa. I tre fiumi dell’antico mondo dei morti, l’Acheronte, il Flegetonte e il Cocito, appartengono oggi all’inferno musulmano, ebraico e cristiano. Il loro corso segna i confini che separano i tre inferni: la Gehenna, l’Ade e l’inferno glaciale dei maomettani. Proprio laggiù, sotto le terre che un tempo appartennero ai Chazari, si incontrano i tre regni dei morti: l’infuocato regno di Satana, con i nove cerchi dell’Ade cristiano e con il trono di Lucifero e [...]]]> di Franco Pezzini

La koiné degli incubi

“[…] Stia dunque a sentire quello che non sa. I tre fiumi dell’antico mondo dei morti, l’Acheronte, il Flegetonte e il Cocito, appartengono oggi all’inferno musulmano, ebraico e cristiano. Il loro corso segna i confini che separano i tre inferni: la Gehenna, l’Ade e l’inferno glaciale dei maomettani. Proprio laggiù, sotto le terre che un tempo appartennero ai Chazari, si incontrano i tre regni dei morti: l’infuocato regno di Satana, con i nove cerchi dell’Ade cristiano e con il trono di Lucifero e le bandiere dell’imperatore infernale; gli inferi dell’Islam dove regnano le gelide pene di Iblis; e infine la regione di Ghebhurah, alla sinistra del Tempio, la Gehenna dominata da Asmodeo, dove siedono gli spiriti ebraici del male, della lascivia e della fame. Questi tre inferni sono ben divisi, i loro confini sono segnati da un aratro di ferro e a nessuno sarà concesso di superarli. Capisco che è la sua mancanza d’esperienza a farle immaginare questi tre inferni in modo sbagliato. Nell’inferno ebraico, nel regno di Beliaal, l’angelo delle tenebre e del peccato, non bruciano come lei crede, gli ebrei. Laggiù bruciano solo gli arabi o i cristiani. Allo stesso modo nell’inferno cristiano non ci stanno i cristiani, bensì i maomettani o quelli del popolo di David, mentre nel regno musulmano delle sofferenze, dove Iblis è sovrano, si trovano solo cristiani ed ebrei, e neanche un turco o un arabo. S’immagini un po’ quel che significherebbe per Masudi, il quale teme il suo tremendo ma tuttavia ben conosciuto inferno, ritrovarsi nello Sheol ebraico o nell’Ade cristiano, dove ad accoglierlo ci sarò io! Invece che in Iblis, s’imbatterà in Lucifero. Sull’inferno in cui soffre un ebreo si leverà un cielo cristiano!”.

Così spiega il diavolo: almeno quello dell’inferno cristiano, almeno a quanto riporta lo scrittore serbo Milorad Pavić (1929-2009) in un libro strano e affascinante che deve parecchio a Borges. Si tratta del labirintico Dizionario dei Chazari. Romanzo Lessico (1987, in Italia 1988 per Garzanti) che intreccia a vicende del tutto inventate la raccolta di tre fantomatiche enciclopedie con riferimenti incrociati. Ciascuna nell’ottica di una delle tre religioni monoteiste: cristianesimo nel Libro Rosso (da cui la citazione, pp. 49-50, voce ‘Branković, Avram’), islam nel Libro Verde e giudaismo nel Libro Giallo – il tutto complicato dal fatto che il testo è proposto in due versioni, una “maschile” e una “femminile”, che differiscono solo in un paragrafo. Al centro, le vicende e i misteri dell’antico regno dei Chazari, tra Europa e Asia, convertitisi a fine VIII secolo o inizio del IX a una delle tre fedi (dopo un certo travaglio, quella d’Israele) ma in un rapporto di continuo travaso di suggestioni, pressioni e tentazioni culturali. Parecchie considerazioni si potrebbero articolare, su questo romanzo in realtà venato di pesanti ambiguità: se la frase “Sull’inferno in cui soffre un ebreo si leverà un cielo cristiano!” già richiama a un contesto raggelante del passato europeo, nei Chazari – che a dispetto del numero finiscono con l’essere dominati da altri – Pavić sembra richiamare i Serbi. Ambiguità che del resto preludono tragicamente a quanto succederà di lì a pochi anni tra rivalse, miti nazionalisti e fantasie geopolitiche (più tanto pelo sullo stomaco dell’Occidente) nell’area dell’ex-Iugoslavia.

Ed è proprio con un occhio a questa dimensione equivoca che, nel riprendere il filo del nostro tema, preme richiamare la suggestione evocata dal diavolo: la terribilità straniante di trovarsi in un inferno dalle categorie non conosciute, o – per dirla in termini più generali – di confrontarsi con dimensioni di paura che non trovano comprensione nelle categorie culturali note. È in fondo il motivo per cui, venendo a una grana molto più pop, il remake The Ring (2002) reca – a chi scrive, ma ho trovato conferme tra altri spettatori – ben più inquietudine del modello originale giapponese Ringu (1998): e non solo perché di quest’ultimo non riesco a cogliere il sapore di scene chiave (i riti funebri in Giappone, per esempio, hanno caratteristiche molto diverse da quelle che a livello profondo riconosco), ma anche e soprattutto per un problema di coerenza simbolica. In Ringu la storia è coerente a un contesto di credenze in spiriti di vario tipo, si colloca in un certo alveo culturale; The Ring è invece completamente destrutturato, le categorie vanno in palla, i personaggi non riescono a reagire perché il meccanismo è “altro” e non corrisponde a tutto ciò che in Occidente si può sapere sui “fantasmi” (con tutte le virgolette del caso). È un po’ lo scarto che Le Fanu presenta tra i fantasmi delle storie di Padre Purcell – tradizionali, spaventosi ma coerenti a un contesto folklorico – e quelli di In a Glass Darkly, dove i protagonisti colti e scettici non riescono più a gestirli per un deficit di categorie congrue.

Questa dell’alienità è idealmente una delle maschere della paura: il terrore di trovarci in una realtà che non riconosciamo nostra, neanche nel tipo di sofferenze. Ma che presenta un rovescio paradossale in un’altra e opposta forma di paura: quella di scoprirci meticci da sempre, di vedere relativizzate – e minate nelle fondamenta – una serie di categorie identificative del nostro consolidato e compiaciuto storytelling. Di scoprire ibridate le nostre tanto amate “radici”, e non così uniche le nostre specificità.

E proprio il nostro tema pare una buona metafora di tutto questo, per la curiosa, imbarazzante somiglianza delle storie notturne tra culture diversissime: qualcosa che non si esaurisce nelle componenti psichiche e neurologiche comuni ai Sapiens e ai loro fratelli più “primitivi” (sleep paralysis eccetera), o in analogie nei meccanismi culturali. Un magma perturbante che va ben oltre i contenuti specifici del quadro The Nightmare.

Ricapitoliamo: si è visto come a monte di film fantastici popolari degli anni Trenta emerga il successo del saggio sull’incubo di Ernest Jones; poi, con un passo indietro, come un influsso persino più diffuso (anche su Jones) sia recato da un’opera preromantica sul tema, il dipinto seminale di Füssli. Un ulteriore passo indietro ha portato ad allargare ancora la mappatura dell’area interessata e degli influssi artistici e culturali in riferimento a tradizioni e opere dal mondo latino in avanti. A giustificare non solo la genesi ma il successo del dipinto di Füssli è insomma tutto un intreccio di radici: qualcosa che conosce un’accelerazione in un momento di svolta inquieta della cultura europea, un passo prima della bufera rivoluzionaria. Un addensarsi di nubi tra sogni e incubi della ragione come nella famosa tavola di Goya di poco successiva col suo volo di nottole spettrali (El sueño de la razón produce monstruos, 1797/1799, sorta di controcanto al dipinto füssliano) o in altri dei suoi Los caprichos.

Eppure il discorso così impostato coglie ancora soltanto la cima dell’iceberg. E dobbiamo ora azzardare un ulteriore passo indietro, verso un passato assai più remoto.

Si è citato l’incubo a monte del primo romanzo gotico, nella forma del gigante onirico di Walpole; e una sorta di gigante sarà l’incubus/Creatura di Frankenstein. Ma in realtà il nesso tra incubi e giganti è saldato ufficialmente dal ricordo del nome con cui i Greci (Galeno compreso) etichettavano il fenomeno: Efialte, termine che sembra rimontare a un antroponimo miceneo e-pi-jata, e già nel mondo antico interpretato come un composto epi + allomai, “saltare su qualcuno”, ma che per altri si raccorderebbe a epialos/ēpialos, “febbre con brividi” (in riferimento al delirio?), oppure a iallō, “inviare, lanciare” nella forma composta di “getto su, in, verso”. Efialte è il nome di ben due figure di Giganti del mito greco, entrambi ribelli contro l’Olimpo: il primo figlio di Poseidone e di Ifimedia, e uno dei cosiddetti Aloadi; il secondo un figlio di Gea coinvolto nella Gigantomachia. Entrambi associati a un saltare o lanciare sopra: gli Aloadi sovrappongono il monte Ossa al monte Pelio (o viceversa), per raggiungere l’altezza dell’Olimpo; i giganti ribelli della Gigantomachia tentano di arrivare al cielo (saltare sopra) e finiscono sepolti negli Inferi (il peso della terra lanciato su di loro). Anche alla luce di certe associazioni mediterranee tra demoni e ombre degli antichi giganti – per esempio nel mondo ebraico degli apocrifi – il nesso tra queste entità ribelli del mito greco (ma in realtà precedenti a esso) e l’omonimo demone incubo non sembra esaurirsi in una semplice omonimia. Quanto al fatto che l’incubus/Alp del dipinto di Füssli non abbia tanto le caratteristiche del gigante quanto del nanerottolo, non esiste in realtà una vera contrapposizione: l’essere che schiaccia e incombe, il gioco del grottesco che veicola, il contesto onirico rimandano – come ben mostra Lewis Carroll coi cambi di dimensioni di Alice – a un unico orizzonte di spiazzamento.

Ma se Efialte è per l’antico mondo greco la maschera mitica dell’incubo inteso come demone maschile, non manca e anzi trova spazio persino eminente la sua controparte femminile, il succubo Empusa: una figura di protovampira della schiera della dea infera Ecate (nel cui profilo trascolora), dall’etimologia dubbia e forse pregreca, risolta talora come “colei che preme/comprime” (da empiezō), ancora una volta nel senso del gravare sul petto. Se altre orchesse della stessa schiera infera insidiano i bambini (e infatti sono spesso ricordate col diminutivo “d’allarme” del linguaggio infantile: Mormó/“lo Spauracchio”, Accó/“Colei che ghigna/fa smorfie”, Maccó/“la Stupida”, Alfitó/“l’Infarinata”, Carcó/“la Mordace?”, Gelló, Lamó cioè Lamia), Empusa minaccia la “seconda nascita”, quella sessuale dei giovani adulti. Entità metamorfica e plurale – come peraltro Lamia e le Lamie, con cui verrà confusa – l’Empusa in forma di procace fanciulla rimorchia sulle strade di notte o nel pericoloso meriggio i viaggiatori che intende divorare o drenare a morte. Senza entrare qui nei dettagli, è evidente che si tratta di un profilo molto simile a quello di un’altra entità stavolta del folklore mediorientale, quella già citata Lilith le cui prime tracce emergono in Mesopotamia e che estorcerebbe sesso al maschio standogli sopra: un’immagine che salda l’idea del sovrastare comprimendo con un più variegato orizzonte di suggestioni sulla temuta supremazia femminile e la minaccia alla virilità.

Beninteso, si tratta solo di due facce tra le tante repertoriate da imbarazzati mitologi: orchesse e predatrici del respiro-vita – dal sembiante di volatile o di sfinge o di qualunque altra bestia o ibrido (cfr. Hecate Britannica) – che al di là di specializzazioni locali muovono sullo stesso fronte arcaicissimo. Per poi riemergere a infestare la modernità: e non è un caso se tra fine Ottocento e inizio Novecento, archiviate le luminose e numinose signore preraffaellite, l’arte simbolista sprofondi la donna nel torbido moltiplicando immagini dell’incubo anche e soprattutto in chiave femminile. È del 1896 l’Empusa di Carl Schmidt-Helmbrechts (1872-1936) ritta – bontà sua, senza vittime – tra ragni e serpenti; ma nel 1899, Ernst Stöhr (1860-1917) illustra una propria lirica Vampir sulla rivista Ver Sacrum mostrando una vampira che incombe come un incubo su un uomo riverso. Al 1910 circa risale L’incubo di E. Turbacky, dove una figura femminile nuda accucciata su un dormiente – di lei non vediamo il viso, nascosto dai capelli quasi a prefigurare Ringu – punta le mani sugli occhi della vittima, impedendo di aprirli. Poco prima l’artista tedesco Fritz Schwimbeck (1889-1972) aveva offerto nel quadro Il sogno (1909) la visione raggelata di un incubus – una carcassa con zampe ramificate accucciata su un dormiente – e nel Sogno di Semiramide (1909) la regina similmente oppressa da un toro alato Lamassu: ma pochi anni dopo dipinge Il mio sogno, il mio incubo (1915) con il dormiente compresso da una donna-uccello che chiaramente rimanda alla nebulosa arcaica, tra Mesopotamia ed Egeo. Più o meno in contemporanea, il pittore e scultore polacco Bolesław Biegas (1877-1954) vara un’intera galleria di straordinaria potenza visionaria – Les Vampires de guerre, quaranta dipinti 1915-18 – dove gli orrori del conflitto mondiale sono resi come l’incombere su uomini riversi di demoni femmina in genere alati, molto simili alle antiche protovampire con funzioni d’incubo… Se a queste raffigurazioni pittoriche aggiungiamo tutte quelle presenti nella narrativa o in altre forme artistiche (per esempio nel Nosferatu del 1922 Empusa è il nome sostitutivo dello stokeriano Demeter per la nave maledetta che porta il vampiro a spargere contagio e morte), e tanto più se consideriamo anche i richiami in chiave di metafora, ci accorgiamo non solo – e non è una novità – del peso di un certo immaginario sul Femminile allarmante, ma che sul piano tipologico il tema dell’incubo conosce con l’avvio inquieto del Novecento una nuova stagione di successi.

Ma a colpire persino di più è un altro elemento: e cioè la ricorsività lungo i millenni dei nomi di queste entità, nell’ambito di un evidente meticciato. Che il nome di una mattatrice dell’immaginario tra Otto e Novecento come Lilith rimandi all’antica Mesopotamia – e forse più indietro, ma solo da allora ci giungono testimonianze – è un fatto noto: di lì ne troviamo parecchie varianti in Medio Oriente e poi in Europa tramite le comunità ebraiche. Ma per una sua collega, il demone ammazzabambini Gelló, esistono ipotesi etimologiche dal greco (geleĩn, “esplodere di una risata agghiacciante”), in generale dall’indoeuropeo (*gel, “inghiottire”) però anche dal Gallû o Galu sumero-accadico; la ritroviamo in età bizantina (Gylo o Gyllou), nella demonologia ebraica (Gilu, nome segreto di Lilith) e in quella araba come ghoul, nota al fantastico fino a Lovecraft. Per l’orchessa Lamia – “libica” o almeno collocata su set non greci – principale imputata nel mito classico di ratto di bimbi e pedofagia, s’individuano radici mesopotamiche (Lamma sumerica, Lamassu accadica e assira, la diavolessa accadica Lamaštu), transiti nel punico (laham come “mangiare”, “divorare”) e nel greco (lamuros, “vorace/impudente” e laimos, “gola”) e parentela con Lamo, l’Orco per antonomasia, fondatore di Telépilo, città dei Lestrigoni antropofagi dell’Odissea. L’elenco potrebbe continuare, a mostrare l’esistenza di un tessuto condiviso di credenze al di là di distanze geografiche e politiche di territori. Un insieme di travasi continui a partire da un passato remotissimo con forti connessioni. Dove l’interesse dell’esempio sta proprio nella sua apparente marginalità.

Nel suo discutibile ma insieme fondamentale Black Athena (tre voll. 1987, 1991, 2006), Martin Bernal mostra come il mondo greco non rappresenti il miracolo autonomo che una certa lettura nazionalista moderna ha voluto vedere, bensì il frutto – originale, ma in fecondissimo scambio – di una quantità di influenze sui popoli balcanici e delle isole dalle grandi civiltà dell’Africa e dell’Asia, come del resto sostenevano già gli storici antichi. Ma questo intreccio di imprestiti e relazioni corre fin dai tempi che rozzamente ci ostiniamo a considerare pre-istoria, dimenticando che già allora esisteva una storia di uomini tessuta di eventi e di idee. Un meticciato da tempi arcaicissimi, una comunità che nelle stesse paure – anche e in particolare quelle della notte, associate ai grandi misteri a partire dalla morte – vede una koiné, una cultura condivisa. Accanto a Black Athena potremmo individuare un filone di studi Black Empusa.

Con una koiné degli incubi che almeno dal neolitico continua ad avvicinare popoli lontani: perché è un fatto che figure analoghe a incubi e succubi fluiranno in tutte le culture. In Europa, a parte le tipologie citate, il folklore ne conosce innumerevoli altre: andiamo dalla ricca demonologia sarda dove l’incubus principale è l’ammuntadòre (ammuntare, “avere incubi”) – ma altre figure possono avvicinarsi, come le surbiles, le cogas, la busha, la surtora, la stria, la giana… – alle credenze ungheresi sul lidérc e l’éjjeljáró (“quello che va di notte”), a quelle estoni sul painaja (“schiacciatore”) e il külmking (“scarpafredda”). Per entità affini all’incubus l’Asia conosce per esempio il karabasan (“minaccioso schiacciatore”) turco, il bakhtak persiano, il pori dell’Assam, il pee ahm thailandese; alla famiglia dei succubi possono richiamarsi l’arabo qarînah – plausibilmente derivato da tempi preislamici – e le indiane yakshini. In Africa troviamo, tra mille altri, il popo bawa di Zanzibar e il tokolosh sudafricano; e in America meridionale il trauco cileno, il tintín ecuadoriano, per non parlare del Brasile, dove si attribuisce al delfino del Rio delle Amazzoni una natura di incubo sciupafemmine.

In un’epoca come la nostra, piena di angosce (la grande invasione, l’estinzione dei figli d’Occidente, la fine di culture strutture identità, l’ossessione delle radici…), ragionare sul rapporto tra alterità culturale e paura sembra fondamentale: tenendo presenti le due facce ideali, astratte del tema – il terrore dell’alienità da un lato, e dall’altro l’allarmante novella che siamo meticci da sempre.  In questo senso, il tema dell’incubo diventa anche metafora di una soffocante dimensione “notturna” della paura: “notturna” nel senso di non razionale, coltivata dai grandi media come negli scambi al bar. E diventa occasione e macchina per pensare alle dinamiche sessiste (maschio su femmina, femmina su maschio, mancata accettazione del rifiuto e violenza conseguente…) e razziste con cui possiamo interpretare la realtà; alle ansie in un mondo che scricchiola come al tempo di Füssli, tra crolli di paradigmi e rivoluzioni epocali; alla continua proiezione di tali ombre e maschere nell’odierno immaginario – compreso quello del fantastico moderno, lingua franca e lente efficace per mettere la realtà a un giusto fuoco, cogliendo ciò che altrimenti ci sarebbe precluso. A farci ricordare che un punto comune del nostro essere umani potremmo ritrovarlo persino nelle nostre paure.

[4-Fine. Le puntate precedenti sono qui, qui e qui]

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Black Empusa. Füssli, la koiné degli incubi e il fantastico moderno (III) https://www.carmillaonline.com/2018/08/10/black-empusa-fussli-la-koine-degli-incubi-e-il-fantastico-moderno-iii/ Fri, 10 Aug 2018 21:48:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47818 di Franco Pezzini

Alle spalle di Füssli

All’originalità di The Nightmare – come accennato (cfr. le puntate precedenti qui e qui) – non osta il fatto che Füssli dia espressione artistica a un tema già considerato di notevole interesse nell’Inghilterra del tempo. Sull’onda, va detto, di secoli di elaborazione del mito dell’incubus nell’Europa cristiana: e non è questa la sede per affrontare nei dettagli tale sviluppo, attraverso il doppio filo dell’elaborazione popolare/folklorica e di quella dotta, prima demonologica (Agostino, Tommaso d’Aquino, Delancre, Bodin, Kramer & Sprenger, re Giacomo…) e poi [...]]]> di Franco Pezzini

Alle spalle di Füssli

All’originalità di The Nightmare – come accennato (cfr. le puntate precedenti qui e qui) – non osta il fatto che Füssli dia espressione artistica a un tema già considerato di notevole interesse nell’Inghilterra del tempo. Sull’onda, va detto, di secoli di elaborazione del mito dell’incubus nell’Europa cristiana: e non è questa la sede per affrontare nei dettagli tale sviluppo, attraverso il doppio filo dell’elaborazione popolare/folklorica e di quella dotta, prima demonologica (Agostino, Tommaso d’Aquino, Delancre, Bodin, Kramer & Sprenger, re Giacomo…) e poi medica. Tuttavia qualche cenno pare necessario. E per vedere cosa Füssli si trovi alle spalle – o per certi versi sul petto, a premerlo – torniamo al dipinto.

Partiamo dalla figuretta del demone incubo. Sul fronte dell’elaborazione popolare, il mondo svizzero-tedesco dove Füssli nasce e cresce vede il tema già ben rappresentato, e proprio nel Settecento ne troviamo le prime trascrizioni in raccolte folkloriche. Due in particolare sono i profili mitici di riferimento: e anzitutto quello dell’Alp – stessa famiglia linguistica dell’inglese Elf, cioè Elfo, di cui può condividere tratti ambigui o allarmanti – diffuso in tutta l’area germanica, e di cui per esempio ci parlano anche i fratelli Grimm (“Der Alp”, Deutsche Sagen 1816/1818, n. 81). Originariamente uno spirito della natura come i Fauni classici, trascolorante in varie tipologie che noi tendiamo a distinguere (Elfi, Nani…) ma che nel folklore trascolorano in termini più equivoci, l’Alp dopo il medioevo vedrà accentuarsi soprattutto i propri tratti notturni e allarmanti, da cui un complesso sistema di profilassi. Viene considerato portatore di malanni di vario genere tra i quali l’epilessia; succhia sangue dai capezzoli di uomini e bambini ma anche latte alle donne (che sono in genere le sue vittime, anche se raramente il suo attacco presenta connotazione di abuso sessuale); colpisce anche il bestiame e ha la caratteristica di trarre poteri – in particolare l’invisibilità – da un copricapo magico, la Tarnkappe: qualcosa che sembra apparentare all’incubus romano col suo berretto conico, che se ritrovato offriva invece il potere di scoprire tesori nascosti (cfr. Petronio Arbitro, Satyricon, 38, a proposito del successo di Trimalchione: “a quel che si dice […] dopo aver rubato il pileo a un folletto [quom Incuboni pilleum rapuisset], è finita che ha trovato un tesoro”).

Ma soprattutto l’Alp reca oppressione e incubi orribili, da cui i termini Alpdruck/Alpdrücke, “oppressione da Alp” e Alptraum, “sogno da Alp” proprio a indicare l’incubo. L’Alp ha naturalmente poteri metamorfici e può cavalcare cavalli (eventualmente sfiancandoli): dunque, per quanto libera, la raffigurazione di Füssli – dove l’incubus non ha cappello e vanta una cavalcatura sovrannaturale, non un cavallo ordinario – può comunque ben rimandare a questa fattispecie. Ancora, l’Alp è normalmente inteso come un demone; ma in qualche caso risulta lo spirito di un morto o invece la manifestazione notturna di un vivo (Füssli stesso sopra la mancata moglie?), sulla base di una serie di criteri di predisposizione magica. Del resto il quadro è fluido, ed esistono diverse varianti dell’Alp: si pensi al Trud o al Walrider (sostanzialmente sinonimi di Alp) o allo Schratteli (Schrat è un altro sinonimo per Alp); oppure al Drude, soprattutto della Germania meridionale, associato alla Caccia selvaggia. Drudenfuss, “piede del Drude”, indica il vischio ma anche il pentagramma di utilizzo magico, detto anche Alpfuss, “piede dell’Alp”; Drudenstein è invece una pietra con un foro naturale, che viene appesa nelle stanze o nelle stalle come cacciaincubi.

Un inciso a parte merita poi un’altra creatura simile, l’Old Hag anglosassone (abbreviazione dall’antico inglese hægtesse, “strega”), un incubus dall’apparenza di vecchia ripugnante che salirebbe sul petto dei dormienti opprimendoli, da cui il termine inglese Old Hag Attack in riferimento a una situazione che comprenda stato ipnagogico, paralisi e allucinazioni. Se però sul piano fenomenologico l’Old Hag può definirsi un incubo, in quanto demone femminile richiama a una seconda categoria strettamente connessa, quella dei succubi. A differenza dell’incubus, il succubus – o senz’altro la succuba, per l’aspetto femminile – non implica con frequenza sensazioni angosciose (soffocamento, schiacciamento, eccetera) ma piuttosto una pericolosa seduzione che conduce ad attività sessuale irregolare, a sogni bagnati (la dispersione del seme vista come qualcosa di minaccioso e potenzialmente generativo di larve psichiche) e a conseguenze fisiche potenzialmente gravi fino alla follia e alla morte. Vedremo peraltro che non mancano storie in cui il demone succubo o lo stesso incubo desiderano soltanto amoreggiare, senza recare altri disturbi che qualche modico danno alla castità personale.

Ma torniamo al dipinto, e passiamo a considerare la figura del cavallo spettrale. Si è già detto che nel primo bozzetto Füssli non aveva pensato di inserirlo; e si è anche accennato al gioco di parole tra due significati di mare, giovane cavalla ma anche tipo di spirito. Beninteso, noi non sappiamo se il cavallo qui raffigurato sia maschio o femmina: si sarebbe tentati di immaginarlo maschio, visto che penetra la tenda quasi come a metafora di un atto sessuale. Se però l’Alp è costantemente immaginato come maschio e insidiatore di donne, al contrario lo spirito noto come mare – antico inglese mære, mare o mere, antico olandese mare, antico altotedesco e antico scandinavo mara, come pure nello slavo ecclesiastico antico (ipoteticamente da un protoindoeuropeo *mer-, “danneggiare”, o dal greco μόρος, indoeuropeo *moros, “morte”), con diffusione in tutte le lingue derivate, compreso il francese  cauchemar – presenta connotati spesso femminili.

La mare ha, anche più dell’Alp, la caratteristica di montare cavalli che poi lascia sfiniti, ma anche alberi di cui lascia i rami aggrovigliati. Le prime attestazioni note sono scandinave, ma il demone è ben noto in Germania (mara, mahr, mare, mårt) e nei paesi slavi fino alla Russia (il nome Mora del conte di Browning costituisce la variante non ceca – come dal titolo I vampiri di Praga ci si attenderebbe, e che suona můra – ma slovacca, croata e serba), nonché in Romania (dove la fisionomia del moroi sfuma in quella del vampiro). Per quanto le caratteristiche delle turbative recate siano parzialmente diverse tra una regione e l’altra (al mora si attribuisce per esempio la tendenza a strangolare le vittime, di nuovo a ricollegare al folklore sui vampiri), il riferimento all’orizzonte dell’incubus connota varie di queste fisionomie. Alla costellazione sembra appartenere il termine dalmata per incubo usato da Charles Nodier come titolo per la straniante opera Smarra, ou les Démons de la Nuit, conte fantastique (1821) liberamente ispirata da Apuleio.

L’associazione etimologica del mare al termine per giovane cavalla riporta all’immagine del dipinto di Füssli. Non è scorretto affermare che sia un Alp a stare assiso sul petto della ragazza mentre una mare occhieggia spuntando dalla tenda, ma si tratta di una definizione approssimativa per una suggestione dinamica mitica e simbolica. Legata forse anche al passaggio dell’autore dalla Svizzera tedesca all’Inghilterra: in Germania il brutto sogno legato all’incubus è spesso definito con un richiamo all’Alp (come detto, Alpdruck/Alpdrücke, “oppressione da Alp” e Alptraum, “sogno da Alp”, anche se non manca un Nachtmahr), in Inghilterra con un richiamo alla mare (night-mare, “mare notturna”, cfr. anglosassone e islandese martröð, “cavalcata della mare”, come nel danese mareridt e nel norvegese mareritt). Ma come al solito il magma immaginale non permette di costringere in cifre troppo rigide – cavallo maschio o cavallo femmina – qualcosa che appartiene al territorio dell’allusione.

Fin qui sul folklore: ma Füssli sa bene che esiste anche tutta un’elaborazione dotta; e che dalla ricca demonologia tardoimperiale assurta a tema per filosofi, gli incubi arrivano molto presto all’esame dei teologi cristiani. Nel V secolo Agostino (De Civitate Dei XV, 23), che considera troppe le testimonianze perché si possa negarle, associa la categoria ai Fauni e Silvani lubrichi e violentatori: e in effetti una prima dimensione di fenomeni associati agli incubi è quella erotica/sessuale. Nell’Europa cristiana l’incubus che attenta alla virtù femminile (dal latino tardo incubare, “giacere sopra”) e il succubus che insidia quella maschile (da subcubare, “giacere sotto”, ma i termini relativi a postura sovrastante e sottostante non vanno intesi in senso rigido) verranno in genere intesi come demoni della schiera di Satana, anzi di solito come le medesime entità che semplicemente si presentano in modo diverso (cioè come incubo o come succubo) a seconda di sesso e dinamica con la vittima. Agendo in fondo come maschere dell’oscuro mondo del desiderio, delle pulsioni notturne e dell’allentarsi coi freni inibitori di una serie di pastoie morali e culturali: il tema di una violenza sessuale implicito nel concetto non appare dunque un elemento necessario della narrativa derivata.

Il fronte erotico traghetta semmai a un tema ulteriore che la dice lunga sulla ramificazione mitopoietica, cioè quello dei figli dell’incubus. In queste storie, aperte a un antico retroterra mitico su unioni tra esseri umani e divini o angelici, troviamo in genere un rapporto di partnership sessuale tra una donna reclusa – per prigionia, ascesi, condizione religiosa – o ritrosa da un lato, e dall’altro un’entità sovrannaturale che la ingravida di un figlio speciale (Merlino, Roberto il diavolo…), eventualmente definito cambione (dal francese cambion, cfr. Dictionnaire Infernal di Jacques Auguste Simon Collin de Plancy, 1818). Di qui complicate spiegazioni – Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica (1265-1274), Heinrich Kramer e Jacob Sprenger nell’infame Malleus Maleficarum (1486, pubbl. 1487), re Giacomo nella sua Daemonologie, In Forme of a Dialogue (1597) e tanti altri – per giustificare il passaggio di seme tra un essere incorporeo e una donna. L’idea è in generale che il seme venga rubato ad altri uomini, vivi (il demone lo sottrarrebbe in forma di succubus, per poi riciclarlo come incubus) o morti, ma si considera anche la possibilità che il diavolo utilizzi alla bisogna un cadavere momentaneamente animato.

A questo proposito, merita almeno un cenno per l’impatto sull’immaginario fantastico un’opera bizzarra a firma del demonologo francescano Ludovico Maria Sinistrari d’Ameno, De Daemonialitate et Incubis et Succubis (1680), articolatissimo trattato sull’erotica di incubi e succubi. Sinistrari tiene a distinguere l’attività sessuale dei demoni con le streghe, finalizzata a farne proprie collaboratrici, da una fattispecie assai meno grave, cioè le relazioni notturne di incubi e succubi con persone non solo estranee a ogni commercio con le tenebre, ma talora pie e decise a opporre resistenza allo stalker sovrannaturale. Tanto più che a differenza dei demoni della schiera satanica, assoggettati al potere degli esorcismi, questi spiriti – associabili senz’altro ai satiri e ai folletti – non ne risultano affatto turbati: si tratterebbe in sostanza di creature capaci di innamorarsi, sia pure magari in modo molesto, e il cui danno specifico starebbe nella pura minaccia alla castità dell’amante umano (il concetto di altre forme di danno recate dallo stalking è all’epoca del tutto ignorato). Il De Daemonialitate impatterà sull’immaginario sugli incubi post-Füssli seducendo vari letterati dell’Ottocento francese, compreso Huysmans: si parla di edizioni arricchite apocrifamente in senso malizioso (cfr. la correzione di rotta sul punto nelle due diverse edizioni dello studio di Massimo Introvigne sui satanisti, 1994 e 2010) ma un approfondimento sul tema sarebbe benvenuto.

Un discorso a parte riguarderebbe poi la lussureggiante elaborazione demonologica in tema di incubi e succubi nel folklore e nella dottrina ebraica, che Füssli potrebbe conoscere anche tramite la presenza di comunità israelitiche in Svizzera e in Germania. Si pensi al ruolo di Lilith, delle sue varie identità e della nebulosa di creature analoghe (a partire dalle sue tre sorelle Eisheth, Agrat Bat Mahlat e Naamah, con lei considerate le quattro regine dei demoni) sulla base di una mitopoiesi antichissima ma con ampi sviluppi medioevali e anche più tardi.

Da quanto detto è comunque abbastanza chiaro che il tema della violenza o seduzione notturna da parte di un essere sovrannaturale che tanto spazio avrà poi nel fantastico moderno trova in questa nebulosa immaginale già un ampio (si perdoni il bisticcio) incubatoio.

D’altro canto il nightmare può manifestarsi attraverso un ventaglio di sgradevoli o addirittura scioccanti fenomeni di malessere fisico. E a questo punto, dopo l’incubus (a destra) e la sua cavalcatura (a sinistra) è tempo di occuparci dell’altra presenza del dipinto, la giovane riversa: che pare un compendio ideale delle sofferenze legate a questo tipo di fenomeni.

Un ventaglio piuttosto vario, a partire dalla sensazione di un peso opprimente sul petto o la bocca dello stomaco, per cui la dormiente si sente schiacciata o soffocata (ecco la dispnea o fame d’aria). C’è poi il traumatica sensazione di una sorta di paralisi di tutto il corpo (la sleep paralysis); c’è un’indefinita ma concretissima sensazione di terrore (i cosiddetti night terrors); c’è la visione di entità da incubo che giungerebbero a perseguitare (ecco allucinazioni ipnagogiche e sogni lucidi); per non parlare della dimensione erotica che il dipinto mostra senza equivoci. E c’è infine, una volta liberati, il senso di una vampiresca privazione di forze, in ipotesi sottratte dall’incubus: il languore di questa figura già sembra evocarlo, e il quadro-sequel L’incubo abbandona il giaciglio di due fanciulle dormienti lo conferma in modo paradigmatico.

Del resto nel dibattito sulle interpretazioni occupano un certo peso per secoli le credenze nella stregoneria, per esempio sull’attacco nel sonno da parte di animali che sarebbero in realtà spiriti famigli. Non stupisce che dalla dimensione diabolica la fattispecie trascolori col tempo verso quella vampiresca: il vampiro folklorico – o meglio le tipologie che astraendo riconduciamo a una simile macrocategoria – e lo stesso vampiro della fiction hanno con l’incubus rapporti piuttosto stretti. Si pensi solo al tema della consunzione – termine generico usato tra Sette e Ottocento evocante una pluralità di patologie connesse al respiro/vita – in stretta correlazione immaginale con la figura del vampiro, e che ben potrebbe essere figurata in questa pallida ragazza.

Ma accanto alla spiegazione sovrannaturale o in complesso interscambio con essa, fin dall’antichità la medicina cerca di fronteggiare gli incubi ricorrenti anche come malattie, e per esempio Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXX, 10, 84) menziona l’uso di massaggi con decotti di parti di serpente, vino e olio. All’inizio dell’età moderna – da metà del Cinquecento a metà del Settecento – si trovano spesso citati quali cause di incubi l’indigestione (Thomas Hobbes parla di male da golosi) o lo squilibrio di umori; e se la progressiva laicizzazione nel Settecento della cultura europea non reca un omogeneo affermarsi di interpretazioni razionaliste (emblematico è il caso delle analisi del fenomeno vampirismo), proprio la dettagliata fenomenologia fisica dell’incubo permette a un certo punto di strappare il tema a contesti superstiziosi.

Con un precedente al freudiano Jones che Füssli potrebbe conoscere persino in via diretta. A occuparsi infatti pionieristicamente del tema a Londra, appena una decina d’anni prima che Füssli vi metta piede, è John Bond, un medico inglese di cui poco si conosce, ma personalmente soggetto a questo tipo di disturbi notturni. Intrigato dal fronte scientifico della faccenda ma toccato anche nella vita personale, Bond redige An Essay on the Incubus, or Night-mare, 1753, trattandolo per primo in modo organico – forte dei nuovi studi sulla circolazione – quale fenomeno patologico legata a un meccanismo di stagnazione del sangue.

Bond lamenta la scarsa attenzione prestata dalla dottrina medica al tema degli incubi, e gli “imperfect accounts” (Preface) dei pochi autori che se ne sono occupati: da cui la necessità e insieme la complessità di addentrarsi in tale materia. Inizia dunque a trattare “Della storia e delle varie opinioni riguardanti la causa di questo Disordine” (cap. I), indicato dai Greci con il nome Ephialtēs, dai Romani con quello di Incubus, e in inglese come Night-mare, la cui etimologia associa alle superstizioni popolari (ma in fondo non gli interessa). Dopo aver descritto a vividi cenni il fenomeno che ben conosce, e aver affrontato una rapida disamina delle tesi mediche susseguitesi, passa a “Un’indagine sul tema della vera causa dell’Incubo” (cap. II), esaminando il tema della postura del dormiente e dei relativi aspetti circolatori. Per esempio in relazione al “too common method of making the feet of beds higher than the heads, since a stoppage of the Blood is always productive of dangerous consequences” (p. 11): e in effetti notiamo la postura riversa della fanciulla del dipinto di Füssli.

Bond continua con “Un resoconto dei Sintomi” (cap. III): presenza di “frightful Dreams” (p. 21), “The vast oppression on the Breast, and immobility of the Body” (p. 24) con un senso di paralisi, e ancora ansia, palpitazioni eccetera, in sostanza proprio il contesto che sembra evocato dal dipinto.  Affronta quindi il discorso “Della Cura Naturale” (cap. IV) riportando il caso di un certo colonnello Townshend capace di scivolare in una strana condizione catalettica a causa di una grave patologia che portava contraccolpi circolatori. Segue un esame “Delle Cause che concorrono all’Incubo” (cap. V) – nel senso che la causa principale, legata a posizione supina del corpo e problemi di circolazione, non basterebbe da sola a determinarlo – e Bond offre resoconti di casi di persone affette, quattro donne tra i 15 e i 20 anni (anche nel dipinto la ragazza è molto giovane), e un “corpulent Clergyman” cinquantenne (p. 55). Questi “immaginava che il Diavolo venisse al suo letto, lo afferrasse alla gola e cercasse di soffocarlo” (ibidem) con tanto d’impronte sul collo: lo smarrimento è già quello del reverendo di Green Tea di Le Fanu, tormentato da un presunto spirito, e in ogni caso le testimonianze suggeriscono il sopravvivere tra la gente di convinzioni sull’origine sovrannaturale del night-mare. Seguono considerazioni “Dei Pronostici di questo Disordine” (cap. VI), con nuove analisi di casi e il parere dell’antico Galeno che già considerava l’incubo come una sorta di epilessia, rimarcandone la pericolosità se abituale in quanto minaccia di epilessia vera e propria, apoplessia o melancolia; e “Della Cura” (cap. VII), sul cambio di postura nel letto e l’uso di farmaci, salassi, purganti e diete. Anche se poi “Temperate living is certainly the most effectual method of preventing this and many other Disorders” (p. 80).

Nel periodo successivo all’uscita del testo di Bond parecchie opere riprendono il tema. In quel Settecento dove stanno fermentando sogni e incubi della ragione e gli illuministi vanno a braccetto con gli illuminati, l’uomo moderno scopre che le sue notti sono un ideale campo di battaglia tra antichi demoni e patologie sfuggenti. La melanconia pretende spazio, e non è un caso se il primo Paradiso perduto del fantastico – ben prima di quello dell’età vittoriana, poi considerato archetipico – sia proprio l’epoca tra metà del secolo dei lumi (di qualunque tipo) e primi decenni del successivo. Di cui il quadro di Füssli, tra conati erotici, sopravvivenze mitico-magiche, urgenze mediche ed emersioni letterarie è insomma in qualche modo un manifesto.

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Hard working men: John Henry, Stachanov e la leggenda aurea del lavoro https://www.carmillaonline.com/2017/03/08/hard-working-men-john-henry-stachanov-due-leggende-auree-del-lavoro/ Wed, 08 Mar 2017 21:10:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36787 di Sandro Moiso

john henry statuaSoltanto il passato appare veramente necessario, perché non vi si può togliere né aggiungere nulla. Ma il passato è veramente necessario?” (Georg Lukács – L’anima e le forme, 1911)

A volte lavorando sull’immaginario si riescono a fare straordinarie ricostruzioni di come mentalità e convinzioni, pur appartenenti a contesti storici e culturali apparentemente molto diversi e lontani, vadano inconsapevolmente uniformandosi tra di loro. Per questo può rivelarsi importante procedere ad un lavoro di disincrostazione delle certezze e delle conoscenze che spesso vengono date troppo facilmente per scontate sia in ambito politico che culturale.

Così procedendo nella ricostruzione [...]]]> di Sandro Moiso

john henry statuaSoltanto il passato appare veramente necessario, perché non vi si può togliere né aggiungere nulla. Ma il passato è veramente necessario?” (Georg Lukács – L’anima e le forme, 1911)

A volte lavorando sull’immaginario si riescono a fare straordinarie ricostruzioni di come mentalità e convinzioni, pur appartenenti a contesti storici e culturali apparentemente molto diversi e lontani, vadano inconsapevolmente uniformandosi tra di loro. Per questo può rivelarsi importante procedere ad un lavoro di disincrostazione delle certezze e delle conoscenze che spesso vengono date troppo facilmente per scontate sia in ambito politico che culturale.

Così procedendo nella ricostruzione del percorso di formazione dell’immaginario di una classe operaia, quella americana, che dall’essere stata una delle più combattive, a cavallo tra XIX e XX secolo, si è trasformata in un bel serbatoio di voti e di fiducia per un presidente dalle indubbie tendenze fascistoidi, è quasi impossibile non fare incrociare la storia leggendaria di un operaio nero della fine dell’Ottocento, John Henry, con quella di un eroe del lavoro sovietico degli anni del trionfo dello stalinismo: Aleksej Grigor’evič Stachanov.

stachanov 1 Aleksej Grigor’evič Stachanov,1 fu un minatore sovietico che lavorò nelle miniere di carbone della regione di Donbass. Nel 1935 divenne famoso per aver messo in atto un nuovo metodo di estrazione del carbone: eseguendo egli stesso il lavoro specializzato del “taglio” del carbone ed utilizzando i propri compagni per il trasporto del minerale sui carri, riuscì ad aumentare la produttività della squadra di lavoro fino a quattordici volte, arrivando a raccogliere102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti proprio il 31 agosto di quell’anno.

Il governo sovietico diede enorme risalto al suo metodo che fu così adottato in altre miniere, mentre Stachanov fu celebrato come “lavoratore modello” e fu nominato, ancora nel 1970, Eroe del lavoro socialista ed era diventato membro del Partito Comunista dell’Unione Sovietica fin dal 1936. Da lui ebbe origine lo stacanovismo, volto ad aumentare la produttività dei lavoratori incoraggiandoli sia a livello propagandistico che tramite incentivi. Lo stesso Stachanov, infatti, intraprese una carriera che lo portò a diventare direttore e assistente capo ingegnere di impianti minerari fino al pensionamento nel 1974.

John Henry è invece un eroe del folklore operaio ed afro-americano degli Stati Uniti. Si narra che egli abbia lavorato come operaio nella costruzione delle ferrovie e che il suo compito fosse quello di scavare con il suo martello la roccia per preparare i fornelli in cui si facevano brillare le mine destinate a spaccare le rocce durante la costruzione delle gallerie. Secondo la leggenda, per misurare la sua abilità e la sua forza nello spaccare le rocce con il suo martello, egli volle sfidare in una gara una delle prime trivelle azionate a vapore per vedere chi riuscisse a scavare più roccia a parità di tempo.

Una gara che egli vinse morendo, però, subito dopo per un collasso cardiaco causato dallo sforzo eccessivo. L’immagine di John Henry morto, con la mazza di ferro ancora fortemente stretta nel suo pugno è rimasta nell’immaginario ed è stata trasposta, come tutta la sua vicenda, in una classica canzone folk che è stata tramandata in tantissime e, spesso, non poco differenti versioni.2

Big_Bend_Tunnel_John_Henry La sua storia è entrata tanto nella narrativa orale che nella letteratura, nel teatro popolare ed è stata anche il soggetto di numerosi fumetti e film di animazione, di cui uno prodotto dalla Disney ancora nel 2000; mentre numerose località vantano ancora, a più di un secolo di distanza, il primato di aver costituito il reale contesto in cui si svolse la sfida prometeica tra l’operaio afro-americano e la macchina. Tra queste basterà qui ricordare il Big Bend Tunnel in West Virginia, il Lewis Tunnel in Virginia e il Coosa Mountain Tunnel in Alabama.

L’operaio russo ha una data di nascita, 3 gennaio 1906, e una di morte, 5 novembre 1977, riconosciute. John Henry è vivissimo nella cultura popolare, ma non si sa nemmeno se sia davvero esistito e dove abbia realmente compiuto le sue gesta. Entrambi però costituiscono i cardini di una cultura operaista in cui il lavoratore rappresenta la forza della Nazione e di un Popolo, orgoglioso di dare tutto se stesso, anche la vita, per dimostrare il proprio valore. Valore che, guarda caso, si confonde sempre con quello che è possibile trarre marxianamente dai suoi muscoli e dalla sua intelligenza.

john-henry-stamp Sarà per questo motivo che, nel 1996, le poste degli Stati Uniti hanno dedicato a John Henry un francobollo da 32 centesimi, insieme ad altri tre dedicati ad altrettanti eroi del folklore americano: Pecos Bill, Paul Bunyan e Mighty Casey. Rispettivamente un cow-boy, un boscaiolo e un ferroviere. Come dire: la nostra epica si fonda sul lavoro e sui lavoratori.

Senza essere, tra l’altro, neppure troppo distanti dall’ex-nemica URSS-Russia. In cui per ricordar Stachanov nel 1936, nella città sovietica di Donec’k fu fondata una squadra calcistica con il nome di Stachanovec’ in suo onore, mentre ancora nel 1978 la città ucraina di Kadievka prese il nome di Stachanov. Sempre negli anni Trenta il settimanale Time gli dedicò una copertina indicandolo come il grande eroe dello stakanovismo, mentre la miniera Tsentralnaja-Irmino, in cui Stachanov aveva compiuto le sue gesta, fu a lungo segnalata su tutti i libri di storia delle scuole sovietiche.

Time_-_Stakhanov “Lavoratori eroici” entrambi, Stachanov e John Henry portano indelebile le stimmate della schiavitù salariale; stimmate che, come nei peggiori oggetti di culto cattolico-romani, testimoniano la santità di chi le porta e, per riflesso, del lavoro coatto. Se, però, la figura di Stachanov è tutta compresa all’interno dell’immagine di “Stato operaio” e di socialismo “in un solo paese” che l’apparato staliniano voleva trasmettere nell’immaginario proletario russo e mondiale proprio negli anni delle grandi purghe, nel mito di John Henry è ravvisabile anche qualcosa di peggiore.

Dei quattro eroi americani celebrati dalla serie di francobolli dedicata ai “folk heroes”, John Henry è l’unico afro-americano. Come tale però si trova a metà strada tra lo schiavo e il proletario. Una figura di transizione che affonda le sue radici in quel momento di passaggio dell’economia statunitense tra una funzione eminentemente esportatrice di materie prime (cotone e tabacco) ancora basata su un’organizzazione del lavoro basata sullo schiavismo e il latifondismo ed una preminentemente industriale e, poi, finanziaria. In cui il plusvalore si estrae principalmente dalla forza lavoro operaia.

Questo passaggio avviene nei decenni successivi alla Guerra di Secessione, che tutto fu tranne una guerra di liberazione degli schiavi africani. Sono gli anni in cui si situa la leggenda di John Henry, a metà strada tra schiavo e proletario,3 in cui la coscienza dell’essere popolo americano deve essere diffusa tra le masse, indipendentemente dal colore della pelle e dalla collocazione di classe. In fin dei conti proprio la guerra civile aveva costituito l’ultimo passaggio per raggiungere l’indipendenza economica definitiva dall’ex-madre patria inglese.4

john henry springsteen In questo modello immaginario lo schiavo nero deve passare dal lavoro nelle piantagioni a quello nelle ferrovie, nelle miniere e nelle fabbriche senza modificare troppo le sue pretese. Deve essere soddisfatto di non dover più fornire obbligatoriamente il suo sudore ad un unico proprietario, ma di poter vendere la sua forza lavoro in libertà ad imprenditori diversi. Punto e fine. La libertà degli ex-schiavi inizia e finisce lì. E possono essere contenti quando, ammazzandosi letteralmente di fatica, possono raggiungere l’empireo del folklore americano.

D’altra parte l’andamento della canzone riportata precedentemente in nota è ancora quello della work song più che del blues. Le stesse work song che per decenni, e forse ancora oggi, erano cantate nelle chain gang di detenuti neri condannati ai lavori forzati.5 Il più famoso interprete e testimone di quella memoria popolare trasmessa attraverso il canto fu proprio Huddie William Ledbetter, in arte Leadbelly, che, rinchiuso nel Penitenziario di Stato della Louisiana fin dal 1930, fu qui scoperto, nel luglio 1933, da John Lomax, etnomusicologo, e suo figlio Alan.

leadbellyViaggiando attraverso il sud per conto della Library of Congress per raccogliere e registrare le ballate tradizionali, tramandate fino ad allora solo per via orale, i due scoprirono che le prigioni del sud degli U.S.A. costituivano i luoghi più fertili per reperire canzoni di lavoro, ballate, spiritual e canti tradizionali. Grazie a loro Leadbelly riuscì ad uscire dal carcere e ad incidere successivamente numerosissimi dischi di musica folk (bianca e nera), spesso in compagnia di artisti militanti quali Woody Guthrie e Cisco Huston, mentre proprio la sua versione di John Henry può essere considerata di riferimento per molte altre.

Il mito del lavoratore nero che si riscatta, operaio o schiavo che sia, attraverso il lavoro più che attraverso la rivolta giunge a noi, quindi, attraverso il carcere e il lavoro ultra-coatto delle chain gang. Ancora una volta il cerchio si chiude adeguatamente e l’ordine costituito non è messo né in discussione né, tanto meno, in pericolo. Anche se, per intima contraddizione di una cultura popolare e proletaria che non sempre si lascia così facilmente ingabbiare, per decenni gli studiosi del folklore americano confusero la ballata di John Henry con quella dedicata a John Hardy (il tema e gli accordi sono gli stessi) in cui si parla, però, di un ferroviere bianco che uccide a colpi di pistola un suo rivale o, ancor più probabilmente, di un fuorilegge della West Virginia.

doc holliday Addirittura, se lo sguardo e l’udito si facessero soltanto un po’ più attenti, nelle strofe di John Hardy in cui si parla di un “Desperate, little man”, ci si accorgerebbe che allora la memoria potrebbe andare ad un altro John Henry, questa volta piccolo e bianco: John Henry Holliday detto “Doc”, giocatore d’azzardo, assassino di ranger, tenutario di case da gioco e bordelli,compagno di Wyatt Earp nella, a sua volta leggendaria, sfida dell’O.K. Corral avvenuta a Tombstone nel 1880 e morto di tisi a trentasei anni nel 1887. Armi, denaro, violenza fai da te finiscono così col rivelarsi, ancora una volta, come l’altra faccia del mito americano. Proletario o borghese che sia.

Stachanov finì la sua esistenza, depresso e semi alcolizzato, in un ufficio di Mosca con una lunghissima targhetta d’ottone: “Capo del settore per l’emulazione socialista presso il commissariato del Popolo per l’estrazione del carbone”. Dopo l’impresa del 31 agosto 1935, gli erano stati consegnati 220 rubli, che corrispondevano a più di due stipendi mensili; una casa di tre stanze, ammobiliata con tappeti e un pianoforte a coda; un buono per una vacanza al mare con la moglie in Crimea; due abbonamenti a vita a tutte gli stadi, cinema e teatri della sua città.

Stakhanov 2 Le rivelazioni, mai smentite, di giornali statunitensi che parlavano di bluff, di record costruito con intere squadre di minatori che lavoravano per l’eroe, furono bollate come “invidia dei capitalisti”.
La propaganda stalinista sfruttò al meglio il personaggio con l’obiettivo dichiarato di sconfiggere la proverbiale indolenza del lavoratore russo. E con lo scopo, più nascosto, di scoraggiare ogni sorta di lamentela sul posto di lavoro: solo sacrificio e produzione per la causa del Socialismo6

John Henry finì rappresentato in numerose immagini che lo ritraevano morto, con il martello ancora in pugno. Una sorta di semi-dio7 immolatosi per il lavoro più che per la salvezza di una razza o della specie. Ritratto in una posizione a braccia aperte, con qualche imprenditore e redneck ai suoi piedi, che lo avvicina di più allo zio Tom di Harriet Beecher Stowe,8 il cui abolizionismo rimaneva relegato alla pietà cristiana e all’azione dei “buoni” padroni bianchi più che all’azione diretta degli schiavi sfruttati,9 che alla figura dell’autentico liberatore.

john-henry-dead La sua lotta con la macchina non ha nulla dell’odio dei luddisti per le macchine che riducevano forza e salario dei lavoratori, incrementandone la produttività. No, è una lotta arcaica che non emancipa il lavoro e che, sposandone l’etica del sacrificio, al contrario lo imbestialisce, caratterizzandolo soltanto in termini di rivalità con la macchina che, tutto sommato, potrebbe liberarlo davvero. Una lotta in cui l’orgoglio operaio non è di classe, ma di mestiere e il lavoro è ridotto a semplice strumento per la valorizzazione del capitale. Senza alcuna speranza di riscatto finale.

Valeva la pena narrare e ricostruire tutto ciò ancora una volta? Basti guardare ai risultati della presidenza di Barack Obama la cui unica eredità sembra essere costituita dal premio Oscar assegnato a un film come “Moonlight”. Una storia di “diritti umani” più che di classe, in cui la pregiudiziale anti-razzista è fortemente minata dal fatto di rendere ancora una volta le vicende degli afro-americani sufficientemente digeribili e patinate per un pubblico bianco e borghese bicolore. Ignorando del tutto le ragioni che hanno spinto anche una parte dell’elettorato operaio “nero” a votare per Trump e contribuendo così a far sprofondare ancor di più ogni rappresentazione dei conflitti di classe e razziali nel folklore più convenzionale.

Valeva la pena di rispolverare Stachanov e trarlo fuori dall’oblio? Si pensi alla proposta di Matteo Renzi per uno stipendio di cittadinanza legato, molto probabilmente, ad un lavoro sottopagato in stile cooperativistico, in cui i riferimenti alla dignità del lavoro e all’articolo primo della Costituzione sono da leggere in chiave puramente strumentale all’abbassamento della spesa di ciò che rimane dei servizi destinati ai cittadini e del costo del lavoro. Oppure alla straordinaria promessa di Calenda per ventimila nuovi posti di lavoro in Italia: tutti nei call center, una volta che le compagnie interessate avranno ridimensionato quelli aperti in Romania, Albania, Polonia e in altri paesi dove il valore dei salari è ormai prossimo a quelli pagati nel sud italiano. Tutte le risposte arriveranno da sole.

(2 continua)


  1. In realtà il suo vero nome era Aleksandr, ma nel giorno del record il corrispondente locale della Pravda aveva scritto per sbaglio Aleksej. In pochi giorni la complessa burocrazia sovietica cambiò tutti i suoi documenti per adeguarli alla svista del giornale. Pravda vuol dire verità e per questo non ammetteva smentite  

  2. Se ne presenta qui un estratto da una versione ricostruita che le riassume un po’ tutte:
    […] John Henry disse al capitano*:
    «Capitano, andate in città
    Portatemi due mazze di quelle da dieci chili
    Vedrete come batto la trivella, Signore, Signore
    Vedrete come batto la trivella»

    John Henry disse alla sua gente:
    «Sapete che uomo sono io.
    Posso battere ogni tappola che è mai stata inventata
    O morirò con la mazza stretta in pugno, Signore, Signore
    O morirò con la mazza stretta in pugno»

    La trivella era messa sulla destra:
    John Henry sul lato sinistro.
    Disse: «Batterò la trivella a vapore
    Oppure mi ucciderò a mazzate, Signore , Signore
    Oppure mi ucciderò a mazzate»

    John Henry buttò la mazza da cinque chili
    E prese quella da dieci;
    Ogni volta che batteva sulla mazza
    Il ferro trapassava la roccia, Signore, Signore
    Il ferro trapassava la roccia

    John Henry aveva appena cominciato
    E la trivella era già a metà;
    John Henry le disse: «Adesso sei avanti, trivella
    Ma all’ultimo vedrai che ti batto, Signore, Signore
    All’ultimo vedrai che ti batto»

    […] L’uomo che aveva fabbricato la trivella
    Pensava fosse buona assai;
    Johnn Henry avanzò per più di quattro metri
    La trivella ne fece a stento tre, Signore, Signore
    La trivella ne fece a stento tre.

    […] John Henry era uno spaccapietre,
    In tante squadre lavorò;
    Adesso è tornato all’inizio dei binari
    Per scavare ancora più lontano, Signore, Signore
    Per scavare ancora più lontano
    ”.
    Questa versione rielaborata si trova in Colson Whitehead, John Henry Festival, Minimum Fax 2002, pp. 108-113 *Capitano, captain in ambiente di lavoro sta per caposquadra, ma poteva anche essere colui che dirigeva il lavoro degli schiavi oppure i condannati al lavoro forzato.  

  3. Si veda a proposito di questa transizione: C.L.R. James – H. M.Baron – H.G. Gutman, Da schiavo a proletario, Musolini Editore 1973  

  4. Fondamentali, in questo senso, sono da ritenersi le riflessioni di Marx ed Engels scritte a caldo in quegli anni. Si vedano in: Marx – Engels, La guerra civile, Silva Editore 1971 e Hosea Jaffe, Marx e il colonialismo, Jaca Book 1977  

  5. Si ascoltino, solo come esempio tra i tanti, i due cd pubblicati dalla Rounder nel 1997: Prison Song. Historical recordings from Parchman Farm 1947-48, Volume 1: Murderous Home e Volume 2: Don’tcha Hear Poor Mother Calling?  

  6. cfr. http://www.repubblica.it/esteri/2010/08/13/news/stkanovista_super-6257615/  

  7. Cosa fu Gesù Cristo se non l’incarnazione di un ennesimo semi-dio?  

  8. Autrice nel 1852 dell’omonimo Uncle Tom’s Cabin or Life Among the Lowly  

  9. Protagonisti di infinite rivolte e azioni violente contro i proprietari e i loro cacciatori di schiavi, come si può leggere in George P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba: la formazione della comunità nera durante la schiavitù negli Stati Uniti, Feltrinelli 1979  

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