Focardi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica https://www.carmillaonline.com/2015/09/23/chi-ricorda-debra-libanos-come-un-falso-mito-cancella-la-memoria-storica/ Wed, 23 Sep 2015 21:30:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25059 di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità [...]]]> di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità dell’accaduto, prendevano una decisione di fatto non più differibile, visti i cospicui risultati raccolti nel frattempo dalla ricerca storica nonostante i numerosi ostacoli incontrati e, spesso, da quelle stesse istituzioni frapposti, e abbandonavano, quindi, quell’imbarazzante atteggiamento omertoso che aveva contribuito in modo decisivo a censurare e ad allontanare dall’orizzonte della memoria collettiva italiana i crimini coloniali ed in particolare quelli commessi in A.O.I. (Africa Orientale Italiana). Ben tre interpellanze parlamentari e il lungo ed aspro, nonché noto, confronto polemico, consumatosi a mezzo stampa, tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli avevano finalmente acceso e puntato i riflettori di una parte almeno dell’opinione pubblica sul passato coloniale italiano, su pagine di “storia patria” in buona sostanza sconosciute o quasi a molti italiani. Il successore alla Difesa di Domenico Corcione, cioè Beniamino Andreatta, ministro del primo governo Prodi, si trovò ad affrontare nel 1997 lo scandalo dei crimini commessi dai soldati italiani in Somalia durante la missione ONU nota come Restore Hope, a cui l’Italia partecipò con un impiego di uomini, denominato Missione Ibis, inferiore solo a quello statunitense e con cui non si lasciò sfuggire l’occasione né di rimettere piede in una sua ex colonia del Corno d’Africa, né di macchiarsi di violenze e crimini contro civili, come già accaduto in epoca fascista.

2Si potrebbe pertanto supporre che a partire da queste vicende della metà dagli anni ’90, ricostruite ed analizzate nel dettaglio anche da Simone Belladonna nel suo libro, sia andato via via aumentando l’interesse per l’imperialismo italiano e soprattutto per gli aspetti peggiori e criminali di esso (o “più criminali”, si potrebbe dire, essendo un’aggressione coloniale già in quanto tale definibile, oggi, come un crimine contro l’umanità, se si applica l’art.7 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998) e che all’infaticabile e meritorio lavoro di ricerca storica di Angelo Del Boca innanzi tutto, che già a metà degli anni ’60 faceva uscire il suo primo libro sulla guerra d’Abissinia, e di Giorgio Rochat in secondo luogo, si siano aggiunti gli sforzi di altri storici e ricercatori. Ed in parte è quanto è accaduto, poiché al maggior africanista italiano e all’esperto studioso di storia militare sopra citati si sono affiancati, sia prima sia dopo le ammissioni governative del 1996, altri storici che con i loro lavori hanno di molto ampliato ed arricchito, per quantità e qualità, la conoscenza sia della guerra d’Etiopia e dell’uso di gas e armi chimiche in particolare, sia, più in generale, di altre pagine cupe della nostra storia recente: l’imperialismo italiano nel suo complesso e i crimini dalle nostre truppe commessi non solo in Abissinia, ma anche in Libia, oppure nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale; i campi di internamento per civili su suolo italiano o nelle zone di occupazione militare, ecc. Per citarne alcuni, con la consapevolezza di, involontariamente, dimenticarne altri, si possono ricordare i lavori di: A. Aruffo, L. Borgomaneri, D. Bidussa, A. Burgio, I. Campbell, S. Capogreco, M. Dominioni, F. Focardi, N. Labanca, G. Oliva, D. Rodogno, E. Salerno ed anche S. Belladonna, il cui libro da poco dato alle stampe costituisce l’occasione per la stesura di queste riflessioni.

3Ma se dall’ambito ristretto degli addetti ai lavori, degli storici e dei lettori interessati al passato coloniale italiano otto-novecentesco ci spostiamo in direzione dell’opinione pubblica, da intendersi in questo caso come consapevolezza e conoscenza diffuse dell’imperialismo italiano, delle sue guerre e delle sue politiche di repressione e occupazione, allora lo scenario cambia bruscamente e si delinea un quadro di sostanziale ignoranza, formatasi nel corso degli ultimi settant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla perdita dell’impero; insipienza che va addirittura oltre l’amnesia o il ricordo sfocato e impreciso di un passato che inevitabilmente si allontana sempre più, perché consiste in una sostanziale non conoscenza di quel passato, cioè di un pezzo della nostra storia lungo una sessantina d’anni, quelli che separano l’Italia di Depretis da quella di Mussolini e del secondo conflitto mondiale, in quanto fu a partire dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla guerra d’Etiopia e conseguente proclamazione dell’impero del 1935/’36 che l’Italia interpretò a più riprese una politica imperialistica di conquista coloniale dell’agognato “posto al sole” in terra d’Africa.
E non si trattò, come la vulgata più diffusa vorrebbe, di un colonialismo minore, più proclamato che praticato, ovvero, addirittura, bonario e benevolo, nonché – come ogni colonialismo occidentale ha sempre preteso di essere – civilizzatore. Per ambizioni e finalità, non ebbe molto da invidiare a quello di altre potenze europee del tempo e il suo carattere “tardivo” fu motivato dall’altrettanto tarda unificazione nazionale, un po’ come accadde all’imperialismo tedesco, bismarckiano prima e guglielmino poi. Prese le mosse, la conquista italiana di un “posto al sole”, negli anni ’80 dell’Ottocento e conobbe un momento apicale con la guerra italo-turca per la Libia del 1911/’12 e, quindi, nella sua fase “liberale” e non ancora fascista, si sviluppò negli stessi decenni in cui, per fare qualche esempio, la Francia si impossessò di Tunisia, Indocina, Marocco e l’Inghilterra prese il controllo di Suez e dell’Egitto, tasselli essenziali e strategici dei rispettivi imperi. Certamente i risultati italiani furono di ben minore portata, ma questo lo si dovette soprattutto a rapporti di forza nello scacchiere internazionale ed africano nei quali l’Italia era la parte debole, non certo alle intenzioni dei governi italiani, della classe dirigente liberale e dei settori del mondo economico coinvolti, soprattutto dai tempi di Crispi in poi. Per farsi largo tra le potenze del tempo, l’Italia intraprese due grandi guerre coloniali, che aggiunsero ulteriori elementi di criticità ai già incrinati e logori rapporti dei rispettivi scenari internazionali, che, pochi anni dopo l’una e l’altra guerra italiana, avrebbero condotto ai due conflitti mondiali: si tratta della già citata guerra di Libia e, ovviamente, di quella d’Etiopia. Ma il numero delle guerre potrebbe raddoppiare se si considera che tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, l’Italia – già fascista – fu impegnata nella riconquista di Tripolitania e Cirenaica e che quella del 1935/’36 fu, in realtà, la seconda guerra per l’Abissinia, preceduta da quella crispina, conclusasi con la disfatta di Adua del 1896, che costò più vittime di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. La mussoliniana aggressione dell’impero etiope, poi, fu realizzata con un dispiegamento di uomini, mezzi, forze mai visto prima in una guerra africana o coloniale, tanto che, come ricorda Belladonna (S. Belladonna, cit, p.19) sulla scorta delle analisi di G. Rochat, si deve parlare di una guerra “nazionale”, non solo coloniale. «Guerra coloniale voleva dire un corpo di spedizione piccolo con molte truppe africane, obiettivi limitati e tempi lunghi, poca pubblicità e scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica (come la riconquista della Libia). Mandare centinaia di migliaia di soldati invece voleva dire toccare direttamente tutti gli ambienti: ogni rione, ogni parrocchia, ogni villaggio avrebbe avuto i suoi “ragazzi di leva”. Voleva dire mobilitare la grande macchina propagandistica del regime, tutti i giornali, le scuole, i parroci, le industrie. Appunto una guerra “nazionale” […]» (G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, pp.25-26).

E pertanto non solo per aspirazioni ed obiettivi politici o per mezzi ed uomini impiegati quello italiano non fu un colonialismo “minore”, ma anche per coinvolgimento, via propagandistica, dell’opinione pubblica e dell’intero paese. Se il caso etiope, sopra ricordato da Rochat, è il più evidente, poiché architettato e messo in opera dalla macchina della propaganda di un regime totalitario, per sua natura avvezzo al modellamento coercitivo del pensare collettivo e pubblico, non meno importante fu il caso della sbornia nazional-colonialistica degli anni attorno alla guerra di Libia, che forgiò i capisaldi dell’ideologia nazionalistica che poi traslò nell’interventismo del 1914/’15, e di seguito nel fascismo e che ripropose, sostanzialmente immutate, le sue parole d’ordine anche nel 1935/’36.

Sulla scorta di queste, seppur sbrigative, considerazioni, verrebbe da chiedersi perché allora quello italiano sia dagli italiani stessi considerato un colonialismo di rango inferiore e magari un po’ “straccione” o perché, peggio ancora, esso sia così poco ricordato e conosciuto.
Se poi si apre il capitolo dei crimini coloniali italiani le cose peggiorano ulteriormente e una spessa coltre di nubi sopraggiunge ed avvolgendoli nasconde i fatti più incresciosi e i comportamenti più violenti e criminali di cui si sono rese responsabili le forze armate italiane nelle colonie. E’ come se un fitto ed impenetrabile muro di nebbia impedisse alla coscienza collettiva degli italiani di vedere il proprio passato e le permettesse di vivere pacificata nella serena ignoranza della propria storia rimossa. A tal proposito basta gettare uno sguardo all’editoria scolastica, per rendersi conto come dei crimini di guerra italiani, dei gas in Etiopia, e prima ancora dei campi di concentramento libici in cui fu deportato il 50% della popolazione della Cirenaica, della brutale repressione contro la resistenza prima libica poi abissina, dei campi di internamento nei Balcani aggrediti e occupati insieme all’alleato nazista, ecc quasi non ci sia traccia. Pochi i manuali di storia che dedicano più di qualche riga o paragrafo a questi argomenti e quasi mai entrando nelle questioni con sufficiente profondità di prospettiva e accuratezza di analisi.

4E le cose non migliorano se passiamo dalla manualistica scolastica ad altri mezzi e prodotti culturali e di informazione: giornali, televisione, produzione documentaristica e cinematografica.
E allora gli studenti e gli italiani in generale conoscono qualcosa – sempre troppo poco, certo, ma comunque qualcosa – di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine, ma ignorano per lo più la strage di Debrà Libanòs, in cui la furia di fascisti e soldati italiani si scatenò in una rappresaglia che fu una vera e propria mattanza, per punire l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il generale Graziani, viceré di Etiopia dopo il rientro di Badoglio a Roma a guerra conclusa: prima venne la popolazione civile di Addis Abeba, che subì un pogrom squadrista che durò tre giorni; poi i notabili dell’etnia amhara, fucilati o deportati nei campi di concentramento, in particolare a Nocra in Eritrea e a Danane in Somalia; poi i cantastorie e gli indovini, accusati di propagare notizie anti italiane di villaggio in villaggio, che vennero arrestati e uccisi ed infine i monaci, i docenti di teologia, gli studenti del convento copto di Debrà Libanòs, considerato il centro nevralgico della resistenza abissina ed anche il luogo in cui gli attentatori fuggiaschi avrebbero trovato rifugio ed aiuto. [Per i fatti di Debrà Libanòs si veda, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005]

Se ci limitiamo anche solo all’episodio culminante del monastero, il numero delle vittime va da un minimo di 1400 circa a un massimo di 2000 circa, eliminate secondo modalità e logiche che non presentano sostanziali differenze da quelle delle cosiddette “eliminazioni caotiche” degli Einsatzkommandos nazisti sul fronte orientale e contro gli ebrei sovietici, o da quelle delle rappresaglie stragiste dagli stessi tedeschi utilizzate per reprimere la resistenza partigiana nell’Europa occupata ed anche in Italia. Questa la sequenza delle fasi principali dello sterminio: controllo militare del luogo, rastrellamento e concentramento delle vittime, trasporto con camion delle stesse in un luogo prescelto per l’esecuzione di massa, la piana di Laga Wolde non lontana dal monastero, uccisione tramite fucilazione e ammassamento dei cadaveri in fosse comuni. E non solo il modus operandi, ma anche la logica e le finalità che mossero i fascisti e i soldati italiani in Etiopia non differivano da quelle che avrebbero mosso i nazisti qualche anno dopo: repressione vendicativa della popolazione civile rea di collaborazione con i resistenti, rottura dei collegamenti tra partigiani e civili, governo e controllo del territorio tramite il terrore, dimostrazione di forza brutale.
E ancora, risulta difficile rilevare essenziali differenze tra gli ordini impartiti, tra gli altri, dal colonnello Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine e le decisioni prese dal governatore del Regno del Montenegro, generale Alessandro Pirzio Biroli, che nel giugno del 1943, come rappresaglia per l’uccisione presso Podgorica da parte dei partigiani di 9 italiani del 383° reggimento di fanteria, fece fucilare 180 ostaggi, secondo una proporzione di 1 a 20, il doppio di quella applicata a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo1944. Ma di queste “Fosse Ardeatine jugoslave”, che ci vedono coinvolti in qualità di carnefici e non di vittime, non c’è memoria. [Per la repressione italiana della resistenza partigiana in Jugoslavia si vedano, tra gli altri: A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit; G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2003]

E, per aggiungere un altro ed ultimo esempio tra i tanti possibili di questa sperequazione della memoria storica, è grosso modo noto a tutti gli italiani, anche grazie alla ricca ed ottima produzione cinematografica americana, l’uso massiccio da parte statunitense di defoglianti durante la guerra del Vietnam, ma pochi in Italia sanno che una trentina di anni prima il Regio Esercito italiano avvelenò la popolazione, gli animali e la vegetazione dell’Etiopia con tonnellate di ordigni caricati con iprite o arsina.

5Ma quali sono allora le cause e i motivi di questa sperequazione della memoria, come poco sopra è stata definita, che porta la coscienza collettiva di un popolo, quello italiano, a conoscere e commemorare, come è doveroso e fondamentale, i crimini di guerra subiti, ma ad allontanare dal piano del proprio orizzonte visivo quelli compiuti?
Che cosa, dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, ha impedito e continua ad impedirci di impostare un rapporto con il nostro passato recente che sulla base di una verità storica seriamente ricostruita permetta di fare di quel passato stesso, per quanto scomodo o spiacevole possa essere, un tassello, un mattone per costruire un’identità storica collettiva consapevole e critica?
La ricerca storica procede nel suo lavoro di scavo e di ricostruzione, di indagine, di spiegazione e comprensione, ma non riesce a fare breccia nella coscienza collettiva, non è capace di sedimentarsi in essa perché si scontra con l’ostruzionismo pervicace di un mito collettivo, di una leggenda a cui, consciamente o inconsciamente, teniamo più che ad ogni altra immagine di noi stessi: la leggenda del “buon italiano”, degli “italiani, brava gente”. [Si vedano a tal riguardo, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit.; S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004]

Si tratta di una rappresentazione collettiva ampiamente auto assolutoria e rassicurante secondo la quale l’italiano – per indole, carattere o storia – non sarebbe capace di atti efferati, di crudeltà e crimini e, pertanto, anche in tempo di guerra, sarebbe mite, bonario e tollerante, sempre ben disposto anche nei confronti del nemico, se non addirittura sentimentale e comunque sempre umano. Uno stereotipo in piena regola, costruito su misura come un abito sartoriale, tagliato e cucito da mani esperte per le migliori occasioni e per le foto in posa.
Un’autorappresentazione fantasiosa, tanto deformata quanto a sua volta deformante – di cui in seguito verranno indicate per sommi capi genesi e ragioni – che dal dopoguerra è andata progressivamente radicandosi, innervandosi per divenire infine contenuto e forma essenziali dell’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso.
Da simili premesse, quali conseguenze? Numerose e tutte venefiche, in quanto travisano la realtà e producono, nell’ordine, falsità, oblio ed ignoranza. E pertanto il colonialismo italiano sarebbe stato un “colonialismo umanitario”, che costruiva ponti, pozzi e strade, quasi più missionario che conquistatore, che esportava – non violava – civiltà. Proprio come vuole il più inattaccabile degli stereotipi a supporto dell’ideologia imperialistica, quello della missione civilizzatrice, del “fardello dell’uomo bianco”, che nelle sue varianti ha resistito, e resiste, ben oltre l’età storica del colonialismo. Sullo sfondo di una visione così edulcorata della presenza italiana in Africa non c’è posto per crimini, violenze o stragi, che risultano conseguentemente minimizzati, quando non totalmente rimossi. E il paradigma di pensiero si sposta facilmente dall’Africa all’Europa, ai Balcani o al fronte russo, dove, ancora una volta i crimini compiuti vengono dimenticati o addirittura – è il caso dell’ARMIR – responsabilità e ruoli vengono capovolti e i soldati italiani da “invasori” diventano “vittime”. [Si veda a tal proposito Th. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009]

Storture e travisamenti diventano riduzionismo e sfiorano il negazionismo quando si tocca la delicata questione del razzismo, che non riguarderebbe, se non limitatamente e in forme sempre blande, l’indole italiana, senza che di questa edulcorata lettura del fenomeno si possano trovare riscontri, dati e fatti comprovanti e a fronte, invece, delle Leggi razziali e antisemite del ’38 e dei provvedimenti legislativi segregazionisti e razzisti introdotti in A.O.I nel 1936 e 1937, che non solo mostrano come l’atteggiamento degli italiani in Etiopia fosse tutt’altro che fraterno e benevolo nei confronti della popolazione africana, ma anche dimostrano, scavalcando e confutando facilmente le interpretazioni minimaliste del razzismo italiano che immancabilmente lo vorrebbero spiegare come diretta emanazione e imposizione di Berlino su Roma, che esso conobbe invece una genesi e sviluppi propri e complessivamente autonomi dall’antisemitismo tedesco e collocabili per l’appunto in terra africana. [Si consulti E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2003]

E allora anche il ricorso ai campi di concentramento non rientrerebbe nelle modalità propriamente italiane di esercitare il potere, reprimere e combattere i nemici, nonostante la costruzione di campi, per condizioni di internamento terribili, in Libia prima ancora che sul territorio nazionale o nelle zone di occupazione in Jugoslavia. Il lager diventa quindi una esclusiva dei nazisti, che, per bilanciamento complementare del mito del “buon italiano”, assurgono a mito negativo, quello del “tedesco malvagio”, per indole o per tratto etnico-nazionale. [Si consultino, tra gli altri, E. Collotti, L. Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia in guerra, Ediesse, Roma, 1996; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, Roma-Bari, 2013]

6-1Di fronte ad un così ben articolato armamentario di distorsioni e banalizzazioni storiche, i tentativi non tanto di fare luce sui crimini coloniali italiani, da questo punto di vista un cospicuo lavoro è già stato e continua ad essere svolto, ma piuttosto quelli di divulgare i risultati della ricerca, affinché possano divenire parte essenziale di una autocoscienza storica nazionale consapevole e critica, sembrano quasi sempre destinati alla sconfitta. Tale è la resistenza opposta dal meccanismo di rimozione censoria del “buon italiano”. Ovviamente quello italiano non è l’unico caso di memoria storica collettiva di problematica incubazione e di distorta e gravemente parziale formazione: ne sono un esempio le memorie conflittuali che in Spagna si confrontano davanti al passato franchista e ai crimini dai nazionalisti compiuti, e poi negati, durante la guerra civile ed immediatamente dopo, in un paese in cui la fine del regime si è associata alla continuità istituzionale per mezzo della monarchia. Ma il confronto più significativo va fatto con la Germania, che, pur avendo dovuto fare i conti subito dopo la fine della guerra con il macigno dell’allora recente passato nazista e dei suoi crimini contro l’umanità, aveva mantenuto e coltivato per decenni un proprio mito, anch’esso auto assolutorio e rassicurante, quello del “blasone immacolato” della Wehrmacht. A partire dall’immediato dopoguerra era stata ripetutamente proposta la teoria secondo cui l’esercito si sarebbe comportato onorevolmente e sarebbe uscito “pulito” dal secondo conflitto mondiale e, soprattutto, dal nazismo. Esso non avrebbe fatto altro che adempiere al proprio dovere e non si sarebbe sostanzialmente macchiato di crimini o di atrocità, che, pertanto, sarebbero stati compiuti solo da SS e Waffen-SS, dalla Gestapo e dal partito. In questo modo un’istituzione forte dello stato – l’esercito – e il grosso della popolazione tedesca coscritta e inviata sui fronti a combattere erano privi di colpe particolari e venivano sottratti al sospetto di aver commesso atti efferati, mentre l’esclusiva dell’orrore veniva attribuita al regime, al partito e ai corpi di polizia da esso dipendenti. [Tra gli altri, si consultino F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli editore, Roma, 1997]

Fu una mostra sui crimini della Wehrmacht organizzata dal Hamburger Institut für Sozialforschung tra il 1995 e il 1999 (Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944 – Guerra di sterminio. Crimini della Wehrmacht dal 1941 al 1944) e poi dal 2001 al 2004 (Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941–1944 – I crimini della Wehrmacht. Le dimensioni della guerra di sterminio 1941-1944) a creare scompiglio e a mettere in discussione l’assunto di fondo della leggenda del “buon soldato tedesco”. La prima mostra attraversò 33 città in Germania ed Austria per un totale di 800.000 visitatori e la seconda fu portata in 11 città tedesche, a Vienna e in Lussemburgo e raccolse 420.000 visitatori. [Sito ufficiale della mostra]
Le dimensioni e il successo di pubblico della Wehrmachtsausstellung e il dibattito e le polemiche che ne scaturirono evidenziano come fosse difficile per molti tedeschi misurarsi con un’immagine di sé diversa da quella fino a quel momento coltivata, come fosse impegnativo dover rinunciare all’idea di un esercito complessivamente estraneo alle inumane pratiche del regime e del partito e dover ampliare considerevolmente l’area del coinvolgimento attivo nei crimini del nazionalsocialismo fino a farvi rientrare, appunto, l’esercito nel suo complesso. Coinvolgimento generalizzato del popolo, dello stato, dell’intera società, degli apparati economici nella costruzione e realizzazione del regime e nelle sue imprese, dalla guerra alla Shoah, che la ricerca storica aveva già ampiamente appurato e dimostrato, sempre più abbandonando letture “hitleriste” e, dagli anni Settanta in poi, virando verso approcci di tipo strutturalista, ma nell’opinione pubblica il mito della “Wehrmacht pulita” aveva resistito ben più a lungo.

Anche in Italia, il mito degli “italiani, brava gente” trovò terreno fertile in cui attecchire nell’immediato dopoguerra, perché lo vollero un po’ tutti. Agli ex fascisti, che intendevano a tutti i costi evitare di dover rendere conto dei crimini compiuti, risultava utile far passare l’immagine buonista del soldato italiano, che, associata alle censure capillari operate dal regime negli anni precedenti su argomenti quali, per esempio, i gas in Etiopia di cui ovviamente non c’era traccia nella cospicua memorialistica coloniale, gettava fumo negli occhi e contribuiva ad avvalorare il teorema innocentista ed auto assolutorio. Tutto questo però, si badi bene, al costo di un tanto paradossale quanto totale capovolgimento dell’immagine dell’Uomo Nuovo fascista che il regime aveva teorizzato, propagandato e costruito per vent’anni. Di quell’idealtipo fascista l’esempio più fulgido era stato proprio Rodolfo Graziani, il “macellaio degli arabi” – secondo la definizione che ne avevano dato i libici – non certo l’immagine auto denigratoria e derisoria confezionata ad hoc di un soldato italiano forse un po’ bislacco e pasticcione, magari non efficiente come altri nel combattere, ma che compensa tali deficienze marziali con cameratismo, umanità e compassione anche verso il nemico.
Ma interessava anche al maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, che si proponeva di conseguire il fine della riconciliazione popolare, della armonizzazione nazionale, attraverso un rapporto col recente passato che privilegiasse più la continuità che la rottura ed evitando l’epurazione della classe dirigente e militare precedente. A tal fine era quanto mai utile costruire una rappresentazione “vittimistica”, quindi assolutoria, di un popolo italiano interamente e sostanzialmente buono, che aveva subito e non voluto o condiviso il fascismo, corpo estraneo o parentesi malata, per dirla con Croce, nella storia del paese.
Ma anche ai partiti della sinistra e in particolare al Partito comunista la favola del buon italiano tornava comoda. Attraverso di essa era possibile sottolineare ed amplificare i meriti dell’Italia partigiana e di quella forza politica che più delle altre antifasciste l’aveva combattuta, il Pci appunto, contrapponendo un popolo buono ad un regime feroce. Si poteva impostare l’equazione, politicamente legittimante lo stesso partito, tra Resistenza e popolo italiano, il cui risultato sarebbe stato quello di un partito comunista parte integrante della nazione e forza politica nazionale, anche a costo di rinunciare alla necessaria epurazione e alla doverosa punizione dei maggiorenti e dei criminali del precedente regime. Il tutto culminò, come è noto, nell’amnistia da Togliatti stesso voluta per il conseguimento – per dirla con le parole del segretario del Pci – “della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani”.
E diedero il loro contributo a questa mitopoiesi postbellica anche gli Alleati, per i quali l’Italia, paese strategico e confinante con la “cortina di ferro” e da governarsi più in continuità con il passato che attraverso traumatiche rotture, era così importante da meritare un trattamento diverso da quello dei suoi alleati del Patto Tripartito, con i quali aveva scatenato e combattuto la seconda guerra mondiale e così non vennero mai istruite una “Norimberga italiana” o una “Tokio italiana”. I criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia, dalla Grecia o dalle ex colonie africane non furono mai consegnati e le pene inflitte da tribunali italiani furono poche, lievi e incommensurabilmente inadeguate ai crimini perpetrati.

Ma se tutto questo spiega il passato, perché ancora oggi, quando ci separano dalla guerra di Etiopia ottant’anni esatti, quando le ragioni del dopoguerra sono ormai soltanto analisi storica, parlare dei gas in Abissinia e di altre atrocità continua a suscitare come automatica reazione la riproposizione della formula magica del “buon italiano”?
Possibile che quelle motivazioni, così strettamente legate al periodo fascista e coloniale, alla sua fine e alla problematica costruzione di una nuova identità nazionale, in un paese prima aggressore e poi aggredito, prima nemico degli Alleati poi in parte cobelligerante, spaccato in due territorialmente e politicamente, attraversato dalla lotta partigiana e dalla guerra civile, tessera fondamentale nel nuovo mosaico europeo della guerra fredda, ecc, possibile – ci si chiedeva – che ancora oggi mantengano un senso?
O dobbiamo forse, più semplicemente, rassegnarci ad ammettere che, al di là di tutte le considerazioni di ordine storico e politico sopra abbozzate ed indipendentemente da esse, a noi italiani piacciono questi panni? Ci sentiamo bene in essi? Ci rassicura l’immagine un po’ da commedia e un po’ da tragedia di un italiano sempre succube degli eventi della Grande Storia che lo sovrastano, ma capace anche di ricostruirsi un proprio piccolo mondo privato, nella famiglia, nel borgo o quartiere, con gli amici o i commilitoni, dove è in grado di conservare e coltivare quel lato umano che lo caratterizzerebbe comunque e sempre e che gli consente, quando poi dalla Grande Storia è chiamato alla guerra, di combattere con onore, ma mai con brutalità e talvolta di fraternizzare pure col nemico e di fare all’amore con le donne dei paesi invasi, mai, ovviamente, di violentarle?
Qualunque sia la spiegazione, è certo che tale falsa e sciocca, menzognera e meschina autorappresentazione collettiva è così radicata in noi che riemerge ad ogni occasione buona e contribuisce, oggi come in passato, a mantenere umido e pronto il terreno per la semina dei più nefasti revisionismi e giustificazionismi, atti a riabilitare un passato vergognoso attraverso il potente fertilizzante dell’ignoranza della storia.
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Immagini, in ordine dall’alto al basso:
– manifesto della R.S.I, Vogliamo essere comandati dai negri? Giammai! Italia, 1944
– copertina di A. Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-41, Feltrinelli, Milano, I edizione, 1965.
– copertina di S. Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015
Gruppo di militari italiani intorno a una bomba C.500.T caricata a iprite
– cartolina coloniale, Armamenti, 1935-‘36
La raccolta dei cadaveri della rappresaglia fascista, Addis Abeba, febbraio 1937

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Il cattivo tedesco e il bravo italiano https://www.carmillaonline.com/2014/02/20/il-cattivo-tedesco-il-bravo-italiano-intervista-filippo-focardi/ Thu, 20 Feb 2014 22:31:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12695 di Anna Luisa Santinelli

Il_cattivo_tedesco_e_il_bravo_italianoFilippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 285, € 24,00

Nel corso del secondo conflitto mondiale, in una fase antecedente al settembre 1943, comincia a prendere forma il ritratto autoassolutorio del “bravo italiano” in opposizione all’idea preconcetta del tedesco barbaro e sanguinario. Il mito identitario dell’italiano indulgente, bonario anche in veste conquistatore, è inizialmente plasmato dalla propaganda alleata e in seguito riproposto, con giustificazioni differenti, da una pluralità di soggetti. La [...]]]> di Anna Luisa Santinelli

Il_cattivo_tedesco_e_il_bravo_italianoFilippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 285, € 24,00

Nel corso del secondo conflitto mondiale, in una fase antecedente al settembre 1943, comincia a prendere forma il ritratto autoassolutorio del “bravo italiano” in opposizione all’idea preconcetta del tedesco barbaro e sanguinario. Il mito identitario dell’italiano indulgente, bonario anche in veste conquistatore, è inizialmente plasmato dalla propaganda alleata e in seguito riproposto, con giustificazioni differenti, da una pluralità di soggetti.
La narrazione rassicurante dell’italiano benevolo poggiava su una comoda rimozione delle colpe passate, ovvero il consenso al regime fascista e gli orrori delle conquiste coloniali. Adoperando gli espedienti tipici della guerra psicologica, gli Alleati invitavano il popolo italiano alla defezione, ad abbandonare il camerata germanico intenzionato a relegare l’Italia in una posizione di subalternità. Nel racconto strumentale creato dalla propaganda, gli italiani erano vittime del duce, ostili al conflitto e alla collaborazione italotedesca. La scelta dell’entrata in guerra ricadeva perciò su Mussolini e sui gerarchi fascisti, colpevoli di aver trascinato la nazione in una sconsiderata e invisa avventura bellica. Dopo l’8 settembre, il refrain antitedesco verrà utilizzato dagli antifascisti per promuovere la lotta resistenziale e dall’élite badogliana per giustificare il voltafaccia nei confronti dell’ex alleato. Nel dopoguerra, il cliché antigermanico sarà politicamente reimpiegato per evitare all’Italia il peso di una pace punitiva: in sintesi, le responsabilità dei Paesi sconfitti andavano distinte per tutelare gli interessi nazionali.
A poco a poco la rappresentazione “smussata” dell’italiano innocente cominciò a retroagire sulla costruzione della memoria collettiva, divenendo un utile collante adatto a ricomporre i ricordi divergenti cagionati dalla guerra civile. Da ultimo, la mancata azione penale contro i crimini bellici – l’assenza di una “Norimberga” nostrana – rinsaldò lo stereotipo del soldato italiano pacifico e generoso sedimentandolo nell’immaginario comune. Nel saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano lo storico Filippo Focardi indaga la genesi e la complessità del fenomeno descritto che, diffuso in passato con una molteplicità di mezzi (radio, letteratura, cinema, memorialistica…), continua ancora oggi a essere presente nel discorso pubblico, suggerito più o meno inconsciamente e di conseguenza rinvigorito.

1) Quando inizia a formarsi l’immagine autoassolutoria del “bravo italiano”? Possiamo stabilire delle coordinate cronologiche? Quali strumenti vengono adoperati per crearla?

A mio avviso, il momento cruciale, per così dire genetico, in cui tale immagine autoassolutoria viene consapevolmente elaborata corrisponde al periodo compreso fra la proclamazione dell’armistizio italiano, l’8 settembre 1943, e la firma del trattato di pace nel febbraio 1947. È infatti in questo periodo che viene sviluppata una narrazione dell’esperienza della Seconda guerra mondiale, e anche del fascismo, imperniata sui due stereotipi intrecciati del “bravo italiano” e del “cattivo tedesco”. Il racconto scarica sulle spalle dell’ex-alleato germanico il peso pressoché esclusivo delle responsabilità per lo scatenamento della guerra e la perpetrazione di crimini nei territori occupati dalle armate dell’Asse, così come promuove l’edificazione di un’interpretazione benevola del fascismo come dittatura all’”acqua di rose” (eccetto la fase della RSI) contrapposta all’immagine diabolica del nazismo e di Hitler. Il popolo italiano è descritto come vittima della guerra di Mussolini, “non voluta e non sentita”, e i soldati sono lodati per le virtù umanitarie dimostrate nei confronti delle popolazioni dei territori aggrediti per ordine del Duce. Lungi dal render conto delle violenze e dei crimini commessi, i soldati italiani sono raffigurati come “salvatori di ebrei” e dispensatori di aiuti e protezione a popolazioni minacciate dal crudele alleato germanico, in Francia come in Unione sovietica, in Jugoslavia come in Grecia.

La contrapposizione fra italiani e tedeschi recupera materiali culturali che risalgono almeno al periodo delle lotte d’indipendenza risorgimentali (se non a Tacito!) e che erano stati poi ampiamente rilanciati con la Prima guerra mondiale: humanitas e pietas contro furor teutonicus, in generale latinità contro germanesimo, cultura cattolica contro cultura protestante ecc. Né va dimenticato che lo stesso fascismo – ad esempio la rivista “Primato” di Bottai – aveva rivendicato a suo vantaggio il retaggio della romanità contrapposta al germanesimo per affermare una superiorità rispetto al Terzo Reich. Inoltre, è molto importante ricordare che la distinzione fra popolo italiano (innocente) e regime fascista (colpevole) nonché fra italiani (bonari) e tedeschi (guerrafondai) era stata al centro della martellante ed efficace propaganda di guerra alleata sia angloamericana sia sovietica, utilizzata per incrinare il fronte interno italiano e lo “spirito” delle truppe. Mi riferisco alle trasmissioni di Radio Londra o di Radio Mosca, così come ai milioni di volantini lanciati sull’Italia dagli aerei inglesi e americani.

Ad ogni modo, la contrapposizione fra italiani e tedeschi – che aveva dunque un lontano e variegato retroterra culturale – fu codificata fra il 1943 e il 1947 dalle elites culturali e politiche che facevano riferimento alla monarchia e alle diverse forze antifasciste come strumento di mobilitazione degli italiani alle armi contro la Germania dopo l’8 settembre e soprattutto come strumento per ottenere dagli Alleati un trattamento favorevole al tavolo della pace. Va tenuto presente che l’Italia con l’armistizio era uscita sconfitta dalla guerra firmando una resa incondizionata. Allo stesso tempo gli anglo-americani, attraverso il cosiddetto “documento di Quebec” firmato da Roosevelt e da Churchill, avevano promesso che in futuro avrebbero tenuto conto dell’impegno italiano nella lotta contro la Germania. Da qui uno sforzo energico e costante dell’intera classe dirigente italiana – monarchici e antifascisti, insieme dall’aprile 1944 nei governi di unità nazionale – per esaltare da un lato l’azione dell’Italia cobelligerante e partigiana contro l’occupante nazista e dall’altro lato per sottolineare la diversità del comportamento italiano rispetto a quello tedesco nella guerra dell’Asse combattuta a fianco del Terzo Reich fra il 1940 e il 1943. Forte era la paura che se gli Alleati avessero imposto all’Italia un trattamento draconiano, l’umiliazione nazionale avrebbe riaperto le porte alla reazione fascista. Occorreva dunque fare tutto il possibile per distinguere nettamente l’Italia dalla Germania nazista, accusata come unica reponsabile della guerra dell’Asse e dei suoi crimini. Dunque, “bravo italiano” contro “cattivo tedesco”.

2) Il refrain antitedesco apparteneva già alla cultura risorgimentale e alla memoria della Grande guerra. Come avviene il recupero strumentale di questa tradizione in seguito riproposta?

Il refrain antitedesco legato alla cultura risorgimentale e alla Grande guerra era patrimonio ancora molto vivo nel Paese e fu riutilizzato sia da parte monarchica sia da parte antifascista per spingere gli italiani, per lo più stanchi della guerra, alla lotta contro l’occupante. Sia il Regno del Sud che le forze antifasciste del Cln riscoprirono ad esempio Garibaldi come campione della lotta antigermanica. “Bastone straniero l’Italia non doma. Va fuori d’Italia, va fuori stranier”: i versi dell’Inno di Garibaldi si ritrovano tanto sulle colonne della stampa clandestina comunista quanto in onda tutti i giorni su Radio Bari in apertura della trasmissione più seguita: l’”Italia combatte”. Per la monarchia il richiamo al retaggio risorgimentale era uno dei pochi strumenti di una certa efficacia rimasti a disposizione dopo la drastica caduta di credito seguita alla fuga del re e dell’establishment da Roma dopo l’8 settembre. Esso serviva anche a operare un taglio netto rispetto all’Asse recuperando il solco della vecchia alleanza della Grande guerra con la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Voleva essere il ritorno dell’Italia di Vittorio Veneto, cui aveva fatto riferimento anche la propaganda alleata. Per le forze antifasciste, specialmente le sinistre, il richiamo ideale al Risorgimento in chiave antitedesca non costituì l’unico movente della lotta, che fu animata anche da motivazioni di trasformazione radicale dell’assetto politico ed economico del paese ispirate al marxismo. Nondimeno, anche da sinistra si fece ampio ricorso alla tradizione garibaldina e mazziniana come ispirazione della lotta di liberazione nazionale. Di matrice risorgimentale era il nome delle brigate partigiane comuniste – le Brigate Garibaldi, appunto – e Partito d’Azione volle chiamarsi la nuova forza politica nata dal movimento di Giustizia e Libertà. Certamente non fu un caso che si affermasse sia fra i monarchici sia fra gli antifascisti la definizione della Resistenza come “secondo Risorgimento”. Infine, non va dimenticato che sulla continuità o meno con l’esperienza risorgimentale si giocò anche lo scontro interno con la Repubblica sociale italiana, anch’essa impegnata a rivendicare una presunta discendenza da Mazzini e Garibaldi.

3) L’establishment politico-istituzionale (la Corona, i vertici militari, gli apparati diplomatici) e le forze antifasciste si avvalgono politicamente dell’antitesi “bravo italiano/cattivo tedesco”. Le motivazioni di tale utilizzo sono simili o differenti?

Condiviso, come accennato, era l’obiettivo fondamentale di separare le sorti dell’Italia da quelle della Germania per evitare al paese una pace punitiva. Dietro l’azione della Corona e degli apparati militari e diplomatici c’era però anche la necessità di scaricarsi di dosso ogni responsabilità individuale e istituzionale per l’alleanza con la Germania nazista, la partecipazione alla guerra di aggressione e i gravi crimini commessi. Molti militari e diplomatici, attivi nelle campagne di stampa in cui si esaltavano i “bravi italiani”, erano stati coinvolti in prima persona, da protagonisti, nelle guerre del Duce, prima in Africa e poi in Europa. Lo stesso Badoglio figurava, insieme al maresciallo Graziani, come il principale criminale di guerra richiesto dall’Etiopia. Il generale Vittorio Ambrosio e il generale Roatta, rispettivamente Capo di Stato maggiore delle Forze Armate e Capo di Stato maggiore dell’Esercito, fuggiti da Roma insieme al re, erano in cima alla lista dei criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia in quanto ex-comandanti della Seconda armata di stanza in Slovenia, Croazia e Dalmazia, responsabili di ordini repressivi criminali come quelli contenuti nella famigerata Circolare 3C di Roatta. Scaricare ogni responsabilità per la guerra sulle spalle dei “cattivi tedeschi” e del solo Mussolini rispondeva in questo caso non solo all’esigenza di tutelare l’interesse nazionale minacciato da una pace punitiva, ma anche – e forse prima ancora – all’esigenza di garantire la sopravvivenza di persone e di interi pezzi di establishment a rischio di venir spazzati via dalle misure di epurazione e dalla giustizia contro i criminali di guerra, di cui gli accordi internazionali prevedevano la consegna agli Alleati.

Diversamente, le forze antifasciste agivano sulla spinta di motivazioni ideali sincere. La distinzione fra popolo italiano e regime fascista, ancorché fuorviante e tale da disconoscere le forme di adesione attivate dal regime, riproduceva il tradizionale punto di vista dell’antifascismo secondo cui il regime si era imposto e si era mantenuto al potere principalmente attraverso l’oppressione e la violenza. La lettura delle sinistre era inoltre imperniata sulla definizione del fascismo come espressione del capitalismo, dunque un fenomeno storico di cui erano responsabili le ristrette elites borghesi, agrarie industriali e finanziarie, non il popolo italiano.

Comune fu la tendenza a definire i crimini commessi durante la guerra come “crimini fascisti” e non “crimini italiani”, con la differenza che da parte monarchica si intendeva addossarne la responsabilità unicamente alle camicie nere, mentre le sinistre li imputavano anche agli alti gradi dell’esercito. ‘Immacolato’ restava, in ogni caso, il comportamento dei soldati e sottufficiali italiani, i “figli del popolo” esaltati anche a sinistra per la loro umanità. Essi avrebbero aborrito fin dall’inizio la guerra fascista e l’alleato germanico, simpatizzato e fraternizzato coi popoli aggrediti tanto da scegliere dopo l’8 settembre di schierarsi con i movimenti locali di resistenza, in Grecia come in Albania e in Jugoslavia. Si tratta di quel percorso che il comunista Luigi Longo nel suo volume Un popolo alla macchia definì come il cammino compiuto “da occupanti a partigiani”. In realtà, solo una minoranza, pur numericamente significativa, dei soldati italiani compì effettivamente quella scelta.

È opportuno anche ricordare che per un breve periodo di tempo, fra la liberazione di Roma nel giugno 1944 e la fine della guerra nell’aprile-maggio 1945, i partiti della sinistra antifascista – comunisti, socialisti, azionisti – fecero alcuni tentativi per portare in giudizio i responsabili italiani di crimini di guerra come il generale Roatta e non mancarono alcuni articoli su riviste e giornali che affrontarono la questione delle nefandezze compiute dall’esercito italiano, soprattutto nei Balcani. Bisogna osservare però due cose: primo, che le accuse erano rivolte unicamente agli alti gradi delle forze armate e mai nei confronti dei ranghi inferiori e che, secondo, questo atteggiamento cambiò comunque dopo la fine della guerra, soprattutto a seguito della temporanea annessione jugoslava della Venezia-Giulia (maggio-giugno 1945). Non appena si manifestò in questo modo una concreta minaccia sul destino dell’Italia e cominciarono a diffondersi le voci sulle violenze compiute nei confronti degli italiani (foibe), si produsse nelle forze della sinistra una reazione improntata alla difesa degli interessi nazionali: qualsiasi campagna per la punizione dei criminali di guerra cessò e dai giornali scomparvero gli articoli sui crimini italiani. Questo riguardò anche il partito comunista, che da allora tenne una posizione ambigua: da un lato rivendicò saltuariamente sulla stampa l’esigenza di una punizione dei criminali di guerra, dall’altro operò invece dall’interno delle istituzioni per ostacolarne la consegna, in sintonia con la posizione del governo e della diplomazia italiani.

4) Esiste un fondo di verità nella raffigurazione benevola degli italiani divulgata durante e dopo il secondo conflitto mondiale?

Come tutti gli stereotipi, anche quello del “bravo italiano” poggia su un nucleo di verità. Ed è inutile dire che lo stesso vale per quello contrapposto del “cattivo tedesco”. Sul piano comparativo, nel corso della guerra 1940-43 gli italiani non commisero crimini di gravità analoga a quelli compiuti dall’alleato tedesco. Non si macchiarono ad esempio di crimini di massa di tipo genocidario come lo sterminio degli ebrei o dei rom (anche se poi la RSI ebbe un attivo coinvolgimento nella Shoah). Fu reale poi l’opera di salvataggio messa in atto nei confronti degli ebrei in tutti i territori occupati, dalla Francia meridionale alla Jugoslavia e alla Grecia, così come va ricordato anche l’aiuto prestato in Croazia ai serbi braccati dagli ustascia di Ante Pavelic. Dunque è evidente una differenza di comportamento rispetto ai tedeschi.

Occorre sottolineare, però, che non sempre gli italiani difesero gli ebrei. Nella provincia di Fiume, ad esempio, furono oltre 800 gli ebrei che furono respinti alla frontiera o ricacciati fuori, dopo essere entrati clandestinamente in cerca di salvezza, ben sapendo a quale fine li si condannava. Esistono inoltre esempi documentati di ebrei consegnati direttamente nelle mani dei carnefici tedeschi, in Russia come in Kossovo. L’azione di salvataggio fu poi condotta per vari motivi, non solo per ragioni umanitarie, certo presenti, ma anche per ragioni di prestigio (le richieste di consegna tedesche in molti casi furono viste come indebita interferenza nella sfera di occupazione italiana, in Jugoslavia come in Francia) e talvolta per ragioni di opportunità politica come nel caso di Salonicco, dove risulta che l’azione a protezione degli ebrei scaturisse dalla volontà di mantenere buone relazioni con le ricche e influenti comunità ebraiche presenti nei grandi centri del Mediterraneo per poter svolgere un’influenza politica nell’area. Non di rado, infine, gli ebrei furono salvati dietro pagamento di somme di denaro e la consegna di beni preziosi.

In ogni caso, come dicevamo, non c’è dubbio che sia esistito un fondo di verità dietro la raffigurazione del “bravo italiano”. Ciò però è servito a coprire l’altra faccia della medaglia, eticamente imbarazzante e politicamente pericolosa, che aveva visto gli italiani nei panni di aggressori, occupanti, oppressori e spesso carnefici. I crimini perpetrati non erano stati paragonabili a quelli tedeschi, ma erano stati pur sempre crimini di guerra assai gravi, commessi non solo contro i partigiani ma anche contro i civili, considerati “fiancheggiatori” dei movimenti di resistenza. Si erano, infatti, applicate su larga scala misure di punizione collettiva tradottesi in brutali pratiche di guerra ai civili: incendi di villaggi, depredazioni, rastrellamenti, prelevamento e uccisione di ostaggi, deportazione della popolazione – compresi donne e bambini – in campi di concentramento (si parla ad esempio di circa 110 mila sloveni, croati, montenegrini deportati), vere e proprie stragi come quella di Domenikon in Grecia nel febbraio 1943 (145 civili maschi passati per le armi per rappresaglia). Tutto questo è stato nascosto dietro l’immagine autoassolutoria e autogratificante del “bravo italiano”.

5) Il topos dell’italiano pacifico è accostato con frequenza alla figura del soldato italico dipinto spesso come vittima dell’alleato tedesco. Nel caso di El Alamein e della ritirata sul Don (argomenti trattati nella sua ricerca), come si riproduce il cliché antigermanico sul racconto a posteriori di questi eventi drammatici?

La sconfitta subita in Egitto a El-Alamein e la rotta dell’Armir sul Don rappresentarono due momenti bellici cruciali. Da lì in poi fu chiaro che il paese si avviava alla sconfitta, da lì in poi – non a caso – si incrinò definitivamente la fiducia in Mussolini e il consenso alla guerra e dilagarono sentimenti antitedeschi mai del tutto sopiti. A questo contribuì certamente la raffigurazione del soldato italiano come vittima del “camerata” tedesco che a El-Alamein e sul Don l’avrebbe tradito lasciandolo appiedato a fronteggiare le soverchianti armate nemiche. Questa versione dei fatti fu innanzitutto un prodotto della propaganda alleata che diffuse immagini destinate a segnare a lungo il ricordo collettivo: l’immagine degli alpini abbandonati nelle gelide steppe russe, schiacciati dalle slitte tedesche o gettati fuori dalle isbe unico rifugio per sopravvivere all’assideramento; così come l’immagine dei soldati italiani “mollati” nel deserto africano e respinti col calcio dei fucili dai camion che portavano invece in salvo gli uomini di Rommel. Queste immagini “prodotte” dalle radio e dai volantini alleati si diffusero in un lampo nel paese e furono poi confermate nel discorso pubblico dell’immediato dopoguerra attraverso una vasta produzione pubblicistica e memorialistica. In realtà, esse riflettevano solo una parte della verità, di fatto fuorviandola. Nelle fasi convulse della ritirata, sia sul fronte orientale sia in Africa, vi erano stati certamente episodi di prevaricazione da parte tedesca, ma in molti casi era successo esattamente il contrario: anche gli italiani non avevano esitato ad agire a danno dei “camerati” per cercare di mettersi in salvo. In genere, poi, va detto che il comportamento di italiani e tedeschi era stato piuttosto improntato alla collaborazione nel combattimento per sfuggire alla morsa del nemico. Ciò è quanto ha messo in evidenza la ricerca storiografica in anni recenti. Allora e per lungo tempo è stata invece presa per “oro colato” l’idea del tradimento tedesco ai danni degli italiani, dipinti anche per questo come vittime della guerra.

6) Nel saggio lei parla di chi ha provato a contrastare l’oblio delle colpe. Si tratta di esempi in controtendenza, voci fuori dal coro che hanno tentato di arginare la rimozione.

Nell’immediato dopoguerra, fino alla firma del trattato di pace nel 1947, non vi fu comprensibilmente alcuno spazio per denunciare le colpe, perché tale denuncia avrebbe compromesso la “pace italiana” e nessuno poteva permettersi di apparire come un “nemico della patria” né voleva esserlo. Non è un caso che socialisti e comunisti tornarono a sollevare la questione dei criminali di guerra italiani nei primi mesi del 1948, dopo che il trattato di pace era già entrato in vigore, sostenendo in quel momento le richieste di estradizione avanzate dalla Jugoslavia. Fu un breve momento. Nel giugno 1948 la Jugoslavia di Tito ruppe con Stalin e fu isolata all’interno del movimento comunista internazionale. Per di più, proprio in quegli anni fu stretto con Belgrado una sorta di “patto del silenzio” per cui da parte jugoslava si cessava di insistere sulla richiesta dei criminali di guerra italiani e da parte del governo di Roma si evitava di chiedere misure contro i responsabili delle foibe (il governo italiano aveva preparato nel 1946 delle liste di criminali di guerra jugoslavi). Questo per quanto riguarda il principale accusatore dell’Italia, cioè la Jugoslavia. Per quanto riguarda gli altri, come la Grecia o l’Etiopia, fu la guerra fredda a “risolvere” le pendenze legate ai crimini italiani: i governi conservatori greci lasciarono perdere preferendo coltivare buoni rapporti nell’ambito del blocco occidentale; mentre il desiderio di giustizia di Addis Abeba fu inibito da Londra che non voleva mettere in difficoltà l’alleato italiano.

Sul versante interno, bisogna ricordare che la raffigurazione dell’esperienza dell’Italia in guerra incentrata sullo stereotipo del “bravo italiano” contrapposto al “cattivo tedesco” risultò condivisa e coltivata anche – e in particolar modo – dagli ambienti conservatori che esprimevano una cultura che oggi definiamo “anti-antifascista”, quelli per capirsi che si riconoscevano in Guareschi o Montanelli. Da questa parte non vi era naturalmente nessuna intenzione di affrontare la questione delle colpe, anzi vi era un’attenta vigilanza in senso contrario, come dimostra la lunga diatriba fra Montanelli e Angelo Del Boca a proposito dell’impiego degli agenti chimici in Etiopia, per anni caparbiamente negato da Montanelli. Ma anche la cultura antifascista ha manifestato serie difficoltà a fare i conti con le “pagine oscure” del passato fascista. La contrapposizione fra “bravi italiani” e “cattivi tedeschi” ha costituito infatti – come si è accennato – un pilastro importante, forse fondamentale, della memoria della Resistenza. Un esame di coscienza approfondito avrebbe svelato le responsabilità nei crimini di guerra non solo delle gerarchie militari e politiche del fascismo ma anche di un buon numero di semplici soldati, raffigurati – al pari del popolo italiano – come vittime del regime e delle sue guerre. Ciò avrebbe compromesso dunque l’immagine di una netta separazione fra italiani e fascismo e anche la raffigurazione nazionalpatriottica della Resistenza come guerra di liberazione nazionale, cui gli stessi partiti della sinistra – PCI e PSI – mai hanno rinunciato a richiamarsi.

Ecco perché si sono riscontrati, fino a tempi recenti, solo tentativi isolati e coraggiosi di critica al cliché del “bravo italiano”, tutti comunque provenienti da ambienti antifascisti. Pensiamo ad esempio ad alcuni romanzi di Ugo Pirro (Le soldatesse, Jovanka e le altre) ma soprattutto, a partire dagli anni Sessanta, alle ricerche storiche di Angelo Del Boca, Enzo Collotti, Teodoro Sala o Giorgio Rochat sulle occupazioni e i crimini italiani in Africa e nei Balcani. Dagli anni Novanta in poi si è diffusa invero una consapevolezza maggiore nell’opinione pubblica circa le responsabilità del fascismo grazie allo sviluppo delle ricerche portate avanti da nuove generazioni di storici e grazie anche, probabilmente, a un diverso atteggiamento culturale di fondo della società, sensibile al tema dei diritti umani. Ormai la storiografia ha messo a nudo gli elementi fallaci del mito del “bravo italiano” indagando i crimini coloniali e quelli commessi durante la seconda guerra mondiale, la questione della mancata punizione dei criminali di guerra italiani, il tema dei nostri campi di concentramento, le politiche razziste contro slavi, africani ed ebrei. I risultati di queste ricerche hanno trovato una più vasta diffusione attraverso la stampa (i giornali “di sinistra” ma anche quotidiani cosiddetti indipendenti come La Stampa e Il Corriere della Sera), le trasmissioni radio, i siti web e, molto più limitatamente, la televisione grazie ad alcuni documentari come ad esempio La guerra sporca di Mussolini. Libri come Italiani brava gente? di Del Boca e «Si ammazza troppo poco» di Gianni Oliva, che hanno raggiunto vendite di decine di migliaia di copie, testimoniano un’attenzione che ha superato la cerchia degli specialisti. Lo stesso vale certamente per romanzi di ambientazione storica come il recente Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara.

Tutto ciò però, va detto, non ha inciso ancora sulle coordinate della memoria pubblica nazionale né sulla memoria istituzionale. Se nel 2004 il parlamento ha introdotto su proposta di AN il “Giorno del ricordo” per commemorare le vittime delle foibe e delle espulsioni dall’Istria e dalla Dalmazia, in un nulla di fatto sono finite invece le proposte avanzate due anni dopo dai Comunisti italiani di dedicare una commemorazione alle vittime del colonialismo italiano e alle vittime del fascismo. Emblematico poi risulta il fatto che la RAI – uno dei vettori principali di creazione del comune senso storico – mai abbia trasmesso documentari come Fascist Legacy sui crimini italiani e abbia relegato altri documentari di denuncia in orari quasi impossibili. Anche i Presidenti della Repubblica – Ciampi e Napolitano – che hanno svolto un ruolo importante patrocinando efficaci politiche della memoria, non hanno incluso nelle loro “narrazioni” questi nuovi elementi (pur non mancando alcuni segnali positivi negli ultimi due-tre anni, ad esempio nelle celebrazioni al Quirinale del “giorno del ricordo” adesso accompagnate da riconoscimenti anche delle colpe italiane).

7) A distanza di anni la narrazione distorta dell’italiano affabile e generoso è ancora viva e radicata nell’autorappresentazione nazionale. Perché?

Ho già detto del forte e diversificato background culturale su cui quella narrazione è nata ed è stata alimentata. Così come non è da trascurare che la contrapposizione fra “cattivi tedeschi” e ”bravi italiani” poggi su alcuni elementi oggettivi di distinzione. Essa si presta dunque a essere rilanciata.

Detto questo, secondo me dobbiamo tenere presenti altri due fattori che spiegano la longevità del mito. Il primo è rappresentato dalla costante vigilanza delle istituzioni italiane, attente a salvaguardare – anche dopo il 1947 – l’immagine positiva del “bravo italiano”. Ricordiamo ad esempio il processo intentato negli anni Cinquanta per vilipendio delle forze armate contro Renzo Renzi e Guido Aristarco accusati (e condannati!) per il progetto di film S’agapò sull’occupazione della Grecia, che metteva in evidenza l’organizzazione da parte italiana di un ramificato sistema di prostituzione. O ancora, ricordiamo che quando nel 1989 la BBC inglese mandò in onda il documentario Fascist Legacy il governo italiano reagì inoltrando immediatamente a Londra una nota diplomatica di protesta. Poi la RAI acquistò il documentario, ne fece una versione in italiano, che si guardò bene però dal trasmettere per ben noti veti politici. In anni più recenti, è emerso poi il problema della consultabilità dei documenti sui crimini italiani depositati presso gli archivi militari (vedi la questione del fondo H-8 presso l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito). Solo nel 1996 questo sbarramento difensivo ha mostrato una crepa, quando il ministero della Difesa e quello degli Esteri, sollecitati da Montanelli e Del Boca e da varie interpellanze parlamentari, hanno ammesso – pur in forma reticente – l’impiego di agenti chimici da parte italiana nella guerra d’Etiopia. Negli anni dei governi di centro-destra di Berlusconi naturalmente lo “sbarramento” è stato prontamente ripristinato.

L’altro fattore da prendere in considerazione è l’atteggiamento dell’opinione pubblica internazionale. Mentre nel caso della Germania, giustamente vi è sempre stata dall’esterno un’attenzione e un allarme in presenza di segnali di un ritorno al passato (vedi episodi di antisemitismo), nel caso dell’Italia invece si può constatare un atteggiamento molto diverso, più incline cioè ad assecondare l’autoraffigurazione nazionale dell’italiano “buono”, magari solo un po’ cialtrone. È l’immagine, ad esempio, che prevale nel cinema americano di marca hollywoodiana. Si veda il film Il mandolino del capitano Corelli, interpretato da Nicolas Cage e Penelope Cruz, dove gli italiani a Cefalonia sono raffigurati in maniera stereotipata, tutti appunto “mandolini e maccaroni”. È un po’ anche l’immagine dell’”occupazione allegra” italiana diffusa nell’ ex-Jugoslavia, o degli “italiani, greci… una faccia, una razza”. È vero che se si vanno a scandagliare più a fondo le memorie nazionali, se ne ricava un quadro diverso: seppure la distinzione fra gli italiani e i “cattivi” tedeschi è presente ovunque, non certo unanime risulta infatti il riconoscimento della presunta “bontà” italiana. Non è così in Slovenia, non è così in Montenegro e nemmeno in Grecia, dove il giorno della festa nazionale, che ricorre il 28 ottobre anniversario dell’aggressione di Mussolini, non circolano affatto umori favorevoli al nostro paese. Per non dire dei ricordi dell’occupazione italiana in Etiopia. In generale, tuttavia, è prevalsa fino adesso la raffigurazione benevola di cui si diceva e questo certamente non ha spinto gli italiani ad affrontare il loro passato, come invece hanno fatto i tedeschi, anche perché sollecitati dalla pressione esterna.

Pure in questo caso, si sono visti negli ultimi quindici anni alcuni segnali di cambiamento nell’atteggiamento straniero nei confronti dell’Italia, e ciò dopo la nascita di governi di centro-destra che contavano sull’appoggio di forze provenienti dal neofascismo. Molti giornali europei e statunitensi hanno svolto inchieste sulla persitenza in Italia di legami politico-culturali col passato fascista e denunciato i rischi che questo comporta. Uno dei saggi di maggior successo sul mercato tedesco è stato ad esempio nel 2010 il volume dello storico svizzero Aram Mattioli intitolato «Viva Mussolini!». La guerra della memoria nell’Italia di Berlusconi, Bossi e Fini, pubblicato in italiano da Garzanti l’anno successivo. Si è cominciato cioè a guardare con allarme la mancata resa dei conti dell’Italia col fascismo. Allarme che dall’esterno è risuonato anche in occasione della costruzione del mausoleo a Graziani ad Affile, un comune del Lazio.

Tutto ciò è utile, ma non rappresenta ancora una definitiva inversione di tendenza. Spetterà innanzitutto agli italiani sviluppare una memoria non vittimistica e non reticente, capace di fare i conti con il retaggio del fascismo e dei suoi crimini, una memoria autocritica, una memoria europea, che dovrà essere necessariamente sorretta da una conoscenza della nostra storia molto più approfondita di quanto certi quiz televisivi non abbiano recentemente mostrato.

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