Flint – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Kick out the jams, moterfuckers! Wayne Kramer (1948 – 2024) https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/kick-out-the-jams-moterfuckers-wayne-kramer-1948-2024/ Mon, 19 Feb 2024 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81093 di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!». Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per [...]]]> di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!».
Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per l’etichetta discografica Elektra. I cinque di Detroit (Motor City) ovvero Rob Tyner (voce, 1944-1991), Fred “Sonic” Smith (chitarra, 1949-1994), Wayne Kramer (chitarra, 30 aprile 1948 – 2 febbraio 2024), Michael Davis (basso, 1943-2012) e Dennis Thompson (batteria, 1948), attualmente unico sopravvissuto del gruppo, si erano conosciuti intorno alla metà degli anni ’60 quando erano ancora studenti delle scuole superiori a Lincoln Park, una cittadina della contea di Wayne, nella regione metropolitana di Detroit.

Davis e Thompson erano subentrati nel 1965, al posto del bassista Pat Burrows e del batterista Bob Gaspar che avevano lasciato il gruppo quando Fred Smith (futuro marito di Patti Smith) e Wayne Kramer avevano iniziato a sperimentare muri di feedback e rumore bianco con le loro chitarre, ispirandosi entrambi al free jazz di Archie Shepp, Sun Ra e John Coltrane ancor più che a Jimi Hendrix.

Rob Tyner era entrato prima come manager, con il suo vero nome di Rob Derminer, dei Bounty Hunters, il gruppo originario formato da Wayne Kramer con Fred Smith al basso, Leo Le Duc alla batteria e Billy Vargo come seconda chitarra, ma poi aveva cambiato il suo nome diventandone di fatto il frontman e cantante. Ma, in realtà, lui e Wayne si erano conosciuti quando erano ancora ragazzini, entrambi provenienti, come poi tutti gli altri membri, da famiglie operaie di quella che all’epoca era considerata la capitale mondiale della produzione automobilistica.

Wayne se ne era andato di casa a diciassette anni, in un ambiente in cui tutti, comunque, si conoscevano sia per condizione di classe che per provenienza geografica, poiché gran parte di quegli operai, bianchi e neri, erano giunti a Detroit dal Sud degli Stati Uniti dopo la guerra, perché avevano sentito dire che lì avrebbero trovato lavoro.

Erano, in qualche modo, dei reietti quegli eredi della classe operaia, e sapevano di esserlo, come migliaia di altri ragazzi della loro stessa età che vivevano nei sobborghi cittadini a quell’epoca. Che alle spalle non avevano l’estate dell’amore di San Francisco, ma dello stesso anno, il 1967, la più grande rivolta urbana di quel decennio. Durante la quale la Guardia Nazionale, per sedare i disordini, aveva dovuto impiegare anche l’aviazione
Questo elemento, insieme all’ascolto del jazz d’avanguardia, fu sicuramente alla base del disastro sonoro che uscì dalle due chitarre di Kramer e Smith che, di fatto, costituirono sia il tappeto di distorsioni su cui si svilupparono le loro canzoni che il proto-punk cui, nel giro di pochissimo tempo, si ispirarono altri gruppi della stessa area metropolitana: gli Stooges di James Newell Osterberg Jr. (1947, in arte Iggy Pop), gli Up, i Grand Funk Railroad (originari di Flint, a nord-ovest di Detroit), la James Gang oppure Alice Cooper, in un elenco che per motivi di spazio rimane qui incompleto.

Dal punto di vista musicale, in una città in cui il proletariato bianco si frammischiava al proletariato afro-americano, grande era stata anche l’influenza del blues e del rhythm’n’blues di cui, precedentemente, si erano appropriati altri gruppi seminali quali i Woolies (resi celebri da una più che travolgente versione di Who Do You Love di Bo Diddley), i Rationals di Scott Morgan (che raggiunsero il successo grazie a una versione proto-garage di Respect di Otis Redding) e, soprattutto, Mitch Ryder con i suoi Detroit Wheels, autentico padrino di tutta la musica bianca e arrabbiata che sarebbe venuta a partire dalla fine degli anni Sessanta dall’area di Detroit. Ma, nella sostanza, la novità dirompente rappresentata dagli MC5 fu quella di costituire la prima rock’n’roll band apertamente politicizzata. Nelle parole rilasciate dallo stesso Wayne Kramer in un’intervista a Pat Wadsley, Tre anni di galera e quindici di Rock, negli anni Ottanta:

C’erano anche i Fugs, ma erano più underground, mentre noi combinavamo la retorica politica con il rock’n’roll […] Il rock è stato sempre qualcosa di politico: lo era Chuck Berry, lo erano i Doors. Il rock’n’roll ha sempre rappresentato la ribellione dei giovani contro il potere.
All’inizio tutte le nostre idee erano ad un livello molto semplice e grezzo. Eravamo ragazzotti che venivano dalla strada e sapevamo solo che potevano fregarci se solo avessero voluto, in qualsiasi momento.

Da questo primitivo sentimento di oppressione sociale derivano sicuramente le parole urlate da Rob Tyner all’inizio di Motor City Is Burning, nel primo e più riuscito album del gruppo:

“Fratelli e sorelle, voglio dirvi una cosa! Sento un sacco di chiacchiere da un sacco di stronzi seduti su un sacco di soldi dicendomi che sono l’alta società. Ma voglio che voi sappiate una cosa, se me lo chiedete: questa è l’alta società! Questa è l’alta società!“

Così mentre, da un lato, ogni loro concerto era definibile come “una forza catastrofica della natura che la band era a malapena in grado di controllare”, dall’altro, i giornali conservatori definivano le loro esibizioni “orgasmi collettivi, ubriacature selvagge, valanghe di suono scaricate alla rinfusa sul pubblico, traboccanti di oscenità e slogan.” Sesso, droga, protesta e rock’n’roll riuscivano dunque a colpire nel segno. Ma fu l’incontro con John Sinclair, il teorico e attivista delle White Panthers a definire meglio l’attitudine di Kramer e compagni:

Quando arrivò John non fece altro che dire le stesse cose in termini politici e noi fummo d’accordo. Pensammo che aveva proprio ragione. Era un poeta, un critico e un organizzatore. Era l’unico che riuscisse a comunicare con noi, a trasformare un gruppo di maniaci del rumore in un complesso musicale che potesse esibirsi e continuare a far funzionare il tutto nel tempo1.

Nato a Flint, nel 1941, John Sinclair fu tra gli organizzatori del giornale underground di Detroit, “Fifth Estate”, alla fine degli anni ’60; contribuì alla formazione della Detroit Artists Workshop Press; lavorò come giornalista jazz per “Down Beat”dal 1964 al 1965, essendo un esplicito sostenitore del nuovo movimento del Free Jazz e fu uno dei “Nuovi Poeti” presenti alla seminale Berkeley Poetry Conference nel luglio 1965. Nell’aprile del 1967 fondò l’”Ann Arbor Sun”, un giornale underground, mentre dal 1966 al 1969 è stato il manager degli MC 5. Sotto la sua guida la band abbracciò la politica rivoluzionaria della controcultura del White Panther Party, fondato in risposta all’appello delle Pantere Nere affinché i bianchi sostenessero il loro movimento.

Durante questo periodo, Sinclair, teorico dell’”amore armato”, fece in modo che la band fosse ingaggiata regolarmente al Grande Ballroom di Detroit, dove in seguito fu registrato dal vivo, il 30 e 31 ottobre 1968, il loro primo album, Kick Out the Jams. Stava gestendo gli MC5 al momento del loro concerto gratuito fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica del 1968 a Chicago, quando la band fu l’unico gruppo ad esibirsi prima che la polizia interrompesse la massiccia manifestazione contro la guerra in Vietnam. Lui e la band si separarono nel 1969. Nel 2006, Sinclair si è riunito però ancora all’ex-bassista degli MC5 Michael Davis per lanciare la Music Is Revolution Foundation.

Dopo una serie di condanne per possesso di marijuana, Sinclair fu condannato a dieci anni di carcere nel 1969 dopo aver offerto due joint a un’agente della narcotici sotto copertura. La severità della sua condanna scatenò diverse proteste pubbliche che culminarono nel John Sinclair Freedom Rally alla Crisler Arena dell’Università del Michigan ad Ann Arbor nel dicembre 1971. Tre giorni dopo la manifestazione, Sinclair fu rilasciato dal carcere quando la Corte Suprema del Michigan stabilì che le leggi statali sulla marijuana erano incostituzionali.

Nel 1972 Sinclair fu accusato di cospirazione per distruggere proprietà governative insieme a Larry Plamondon e John Forrest, ma in appello la Corte Suprema degli Stati Uniti emise una decisione storica, vietando l’uso da parte del governo degli Stati Uniti della sorveglianza elettronica domestica senza un mandato, liberando ancora una volta Sinclair e i suoi coimputati2. Sui motivi della rottura con Sinclair, Wayne Kramer si sarebbe in seguito espresso così:

Si arrivò alla rottura con John e con tutto il partito delle White Panther. Forse accadde perché in quel periodo John stava per essere condannato ad una pena detentiva e quando capisci che stai per andare in prigione cominci a diventare nervosissimo. Di solito te la prendi con tutti quelli che hai intorno oppure giuri di smetterla. John invece, per reazione, divenne ancor di più un militante convinto. A quel tempo non sapevo ancora cosa vuol dire avere davanti la prospettiva di andare in galera, lo imparai solo più tardi, così non potevo capire la sua esplosione di militanza [In precedenza] tutto era iniziato come una specie di club atletico-sociale, poi decidemmo di metterci a fare sul serio. Le Black Panthers erano tipi duri? Anche le White Panthers dovevano esserlo. Le Black Panthers avevano armi? Anche noi allora e se loro sparavano anche noi dovevamo sparare. Ci esaltavamo con la retorica del momento, ma quando decidemmo alla fine di non avere più niente a che fare con loro, capimmo che il nostro attivismo era consistito nel suonare e pagare i conti delle attività di quel partito da operetta 3.

La fine degli MC5 sarebbe arrivata nel 1971, quando la band perse il contratto discografico con l’Atlantic, che aveva sostituito quello con la Elektra, e non riusciva più a suonare. Fino a quando Mick Farren (1943-2013), capo della sezione inglese delle White Panthers e cantante della band proto-punk inglese dei Deviants (tre album tra il 1967 e il 1969) riuscì a organizzare un loro tour europeo in concomitanza con un festival musicale. Ancora dai ricordi di Kramer:

Non ci pagarono, ma ci diedero i biglietti per il viaggio, così cercammo di farci ingaggiare per qualche altro concerto in Inghilterra. Partimmo per Londra dove rimanemmo per circa un anno. Era l’ultimo viaggio all’estero degli MC5, sapevamo che non saremmo rimasti insieme ancora per molto. Ci fu poi quella tournée, la migliore che avessimo mai avuto, Avrebbe dovuto durare sei settimane, dieci giorni in Scandinavia poi l’Inghilterra, la Francia, con apparizioni alla televisione e alla radio, per finire con due settimane in Italia. Avremmo potuto separarci con stile alla fine della stessa, avendo qualche migliaio di dollari in tasca per incominciare qualcosa di nuovo, ma quando stavamo per partire arrivò la moglie del cantante: disse che non avrebbe lasciato venire suo marito. Risposi che ero pienamente d’accordo con lei sul fatto che suo marito non avrebbe dovuto cantare in un complesso, per il semplice fatto che non ne era all’altezza. A spassarsela fra un concerto e l’altro era bravissimo, ma solo a far quello. Pensavo però che avendo firmato un contratto avrebbe dovuto rispettarlo, se non altro perché se non fosse venuto avrebbe messo in difficoltà tutti noi. Finimmo però per partire senza di lui.

Io e Fred facemmo a turno i cantanti, senza sapere neanche la metà delle parole delle canzoni o cantandole nella tonalità sbagliata. Fu un’esperienza orribile, la peggiore della mia vita: si arrivava in un posto, c’era il finanziatore con la moglie, si mangiava qualcosa, si beveva, dicevamo le solite cose. «Come siamo contenti di essere qui» eccetera eccetera. Poi salivamo sul palco, facevamo uno spettacolo pietoso e quando tornavamo nei camerini se ne erano andati tutti, non riuscivamo a trovare nessuno per farci pagare. Gli italiani, visto come andavano le cose, cancellarono i nostri spettacoli: «Paghiamo per cinque e ne vengono soltanto quattro. Potete scordarvelo». Questo capitava mentre Sinclair era in prigione.4.

Una descrizione impietosa della fine di una leggenda, com’è giusto che sia, ma i travagli per Kramer erano ancora soltanto agli inizi. Tornato a Detroit, Kramer avrebbe iniziato a collaborare con il suo idolo Mitch Ryder, ma anche quest’ultimo avrebbe ben presto iniziato a dare segni di follia con comportamenti anomali e pericolosi, per sé e per gli altri che lo circondavano. Come ancora racconta Wayne: « Era diventato pazzo perché aveva venduto più di dieci milioni di dischi senza mai riuscire a vedere un centesimo, per cui non si fidava più di nessuno. Alla fine aveva dato di fuori di brutto ».

Così Kramer, dopo aver girovagato tra complessini nemmeno degni di esser ricordati, musiche pubblicitarie e infimi club, avrebbe finito con l’approdare, grazie anche alle proprie dipendenze, ai giri più che loschi legati al commercio e allo spaccio di droga. Eroina e cocaina. Come ricordava ancora nell’intervista già citata:

Mi arrestarono diverse volte in quel periodo per delle scemenze, non voglio neanche parlarne, non è interessante. Ritengo, adesso che ho avuto un po’ di tempo per pensarci su, di essere arrivato a immischiarmi in quel tipo di traffici anche perché ne ero attratto, mi sembrava di essere un ribelle […] Ma il fatto è che se non riesci nella musica perdi tempo e denaro, ma se sbagli in quel tipo di affari vai in galera o ci rimetti la pelle […] così un affare oggi, un affare domani mi ritrovai davanti ad un giudice per aver cercato di vendere cocaina a due agenti federali […] Il giudice disse: « Per il suo caso, signor Kramer, la legge prevede tre anni di reclusione». Prima mi aveva detto un massimo di cinque, per cui ero contento e mi dicevo: « Va bé, me li farò», ma in quello si alza un impiegato del tribunale e dice: « Vostro onore, c’è un errore, la legge prevede cinque anni di carcere ». E il giudice: « Insomma, tre o cinque che siano… Faremo una via di mezzo, gliene darò quattro » […] Lo sceriffo mi mise una mano sulla spalla e alle sei di quella sera ero chiuso in prigione.

Dopo gli anni di galera iniziò la lenta, faticosa risalita. Prima con l’esperienza, ancora una volta fallimentare, con i Gang War messi insieme ad un altro noto tossico e loser, Johnny Thunders, poi via via con dischi solisti o con compagni più affidabili. Dieci in tutto tra la fine degli anni Ottanta e il 2004, non molto. Eppure, eppure….

Wayne ha dimostrato, insieme a Fred “Sonic” Smith e agli altri suoi compagni di un effimero, violento, selvaggio e spericolato viaggio che la “musica giovanile” può essere ben altro da ciò che, oggi, gruppi tardo-glam o finti rapper e veri trapper vogliono proporre come novità musicali e artistiche. Lanciando, contro di loro e i vari promotori del business dello spettacolo, quell’indomito e sempre attuale grido di rabbia e disprezzo: Kick Out the Jams, Motherfuckers!!


  1. P. Wadsley, intervista a Wayne Kramer, cit.  

  2. Alcuni degli scritti di John Sinclair tradotti in italiano sono reperibili in J. Sinclair, Va tutto bene, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2006 e J. Sinclair, Guitar Army. Il ‘68 americano tra gioia, rock e rivoluzione, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2007.  

  3. P. Wadsley, intervista, cit.  

  4. Ibidem.  

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Venaus, 17 e 18 novembre: da Flint a Flint passando per la Valsusa e il Salento. https://www.carmillaonline.com/2018/11/15/venaus-17-e-18-novembre-da-flint-a-flint-passando-per-la-valsusa-e-il-salento/ Wed, 14 Nov 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49567 di Sandro Moiso

Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie [...]]]> di Sandro Moiso

Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie umana nel suo complesso.

Nel primo, Roger and Me (1989), sono ricostruite le vicende legate al licenziamento di 30.000 lavoratori dagli stabilimenti della General Motors della città di Flint, situata nel Michigan a poco più di cento chilometri da Detroit, le cui conseguenze hanno portato quella località ad essere, da insediamento industriale legato al ciclo dell’auto qual era, una delle città meno vivibili degli Stati Uniti, con conseguente crescita della criminalità e diminuzione del numero degli abitanti.

Nell’ultimo, Fahrenheit 11/9 (2018), all’interno della descrizione del processo di nazificazione della società americana dell’era Trump, Flint torna in scena sia per il dramma scatenatosi, ufficialmente a partire dal 2014, con l’inquinamento da piombo delle acque distribuite dall’acquedotto locale, sia per l’utilizzo del suo territorio (fabbriche dismesse e quartieri abbandonati tutt’altro che distanti da quelli ancora abitati) come luogo di esercitazione anti-guerriglia da parte dell’esercito americano, con l’utilizzo di armi, esplosivi ed autentiche tempeste di fuoco e di piombo scatenate dagli elicotteri d’assalto.

L’inquinamento, ed è per questo che vale la pena di parlare di Flint in questo contesto, è derivato dall’avvio di una grande opera inutile costituita da un nuovo acquedotto che avrebbe dovuto sostituire quello già esistente, che prelevava l’acqua dal lago Huron, lago di antichissima origine glaciale e la cui profondità delle acque garantiva una qualità pressoché ottimale delle stesse, con uno nuovo, la cui costruzione ha richiesto che le acque metropolitane fossero prelevate dal fiume Flint, inquinatissimo dagli scarichi industriali che in esso si sono riversati per decenni.

Nonostante le denunce dei residenti e di tutti i servizi sanitari, che hanno rilevato da subito le gravissime conseguenze dall’avvelenamento da piombo sulla popolazione locale, prevalentemente ormai di origine afro-americana, l’opera è andata avanti e l’acqua fornita è rimasta la stessa. Tranne che per gli stabilimenti superstiti della General Motors cui è stata nuovamente fornita l’acqua del lago Huron, visto che quella del fiume Flint rovinava e corrodeva la componentistica delle auto prodotte negli stessi.

Non è stato dunque un caso legato soltanto all’abbandono di una parte del territorio urbano, in cui il valore delle case è sceso praticamente a zero, a far sì che l’U.S. Army scegliesse quell’area per le sue esercitazioni a fuoco ma, piuttosto, la necessità di sperimentare violentissime tecniche anti-guerriglia in ambiente urbano proprio là dove una vasta protesta di massa contro condizioni di vita bestiali ed impossibili potrebbe sorgere a breve. In un’America che, come molti osservatori rilevano, assomiglia sempre di più ad una nazione sull’orlo della guerra civile.

Mi scuso con i lettori per questa, apparentemente, lunga divagazione, ma ritengo che il percorso economico, ambientale, sociale e politico della città del Michigan costituisca una significativa metafora di ciò che il capitalismo occidentale ha in serbo per il futuro della specie umana. Tema che è già stato trattato e approfondito nel convegno tenutosi a Melendugno tra il 5 e il 7 ottobre di quest’anno (qui e qui ).

Tema che riguarda il degrado economico ed ambientale dei territori, la sostituzione di un’economia reale con quella fittizia e devastante legata all’estrattivismo e alle “grandi opere inutili” e la conseguente e necessaria (per il capitale) repressione per sedare e reprimere (ovvero “pacificare” nel linguaggio soft degli apparati preposti alla stessa) i movimenti sempre più numerosi e vivaci che a partire dai territori e dal ‘basso’ si oppongono a tutto ciò.

No Tav, No Tap, No Muos, No Mose, e chissà quanti altri movimenti ancora, avranno modo nella due giorni di Venaus di confrontarsi sia sulle problematiche inerenti alle singole specificità territoriali ma, anche, su ciò che occorre rafforzare e organizzare a livello nazionale ed internazionale affinché tali movimenti possano coordinarsi in maniera sempre più stretta ed efficace affinché il motto valsusino “Si parte insieme e si torna tutti insieme” diventi davvero una pratica costante dell’opposizione, a livello locale, nazionale e sovranazionale, a un modo di produzione ormai devastante per la vita della specie e la sopravvivenza dei territori.

Organizzazione e collegamento che richiederà sempre più la coscienza del fatto che non esistono governi o partiti amici. Come dimostrano i fatti recenti della politica italiana, in cui tra i movimenti e gli interessi delle grandi compagnie petrolifere i partiti spergiuri scelgono i secondi. Per fare un esempio più chiaro si pensi alla promessa fatta da Conte a Trump sulla realizzazione della Trans Adriatic Pipeline e al successivo premio ottenuto dall’Italia (si legga ENI), che è stata esclusa dalle sanzioni americane nei confronti dell’Iran e dei paesi che continueranno a fare affari con quel paese.

Lo stesso Michael Moore, un tempo fervente democratico, è stato costretto a rilevare, proprio nel corso del suo ultimo film, la sostanziale identità tra gli interessi del Partito Repubblicano e quelli ‘profondi’ (finanziari, industriali, militari ed energetici) del Partito Democratico. Sintetizzata magnificamente nella scena in cui Obama finge di bere l’acqua dell’acquedotto di Flint davanti ai suoi, delusissimi, sostenitori per convincerli a fare altrettanto e in ‘tranquillità’.

Non esistono partiti e governi ‘amici’, ma non esiste nemmeno la possibilità di usarli come taxi. Sono già stati programmati per quella che dovrà essere la destinazione finale del viaggio, indipendentemente dalla volontà del passeggero salito a bordo. Anzi, il vero rischio è costituito dal fatto che possano essere proprio i movimenti a costituire il taxi di cui possono avvalersi, per un tratto del loro percorso, partitini e partitoni oppure fasulli movimenti pluristellati. Magari proprio ai danni che di chi provvede al loro trasporto.

I movimenti, oggi, non solo non possono più accontentarsi di promesse o di atti estemporanei non accompagnati da fatti concreti, ma, anche laddove si vincesse su una singola questione, non possono mai dimenticare che la loro forza sta proprio nel partire, lottare e tornare tutti insieme. Motivo per cui non ci si potrà accontentare di una singola vittoria con cui, forse, alcuni vorrebbero dividere un movimento che è, per sua natura e necessità, unitario e indivisibile.

D’altra parte è proprio questa sua natura a spaventare i suoi avversari, ben consci del fatto che con i partiti di governo si potrà sempre trattare, cosa che li ha spinti a ridar vita (anche se in realtà non era mai morto) ad un autentico blocco conservatore, costituito da impresari, sindacati, associazioni di categoria, organizzazioni fasciste e lobby politico-economiche, compresa quella del partito alleato di governo dei 5 Stelle, che con l’appoggio di tutti i media in queste ultime settimane ha deciso di attaccare frontalmente il movimento No Tav.

Il cui risultato si è visto con la manifestazione SìTav tenutasi a Torino il 10 novembre. Sicuramente partecipata, anche se non nei numeri sbandierati dai media, da quella che un tempo si sarebbe definita “maggioranza silenziosa”. Una maggioranza di cui ad aver bisogno, oltre al PD e Forza Italia e le consorterie connesse, sono proprio i partiti ‘amici’: per poter aprire trattative (come il sindaco di Torino, Appendino, ha già promesso) e giungere ad un accordo, ai danni di chi da sempre si oppone alle grandi opere inutili. Proprio come nel 1980, sempre a Torino e grazie al suo genius loci sempiterno perbenista e conservatore, la marcia dei quarantamila servì alle organizzazioni sindacali per firmare e giustificare un accordo che era stato respinto dalla assoluta maggioranza degli operai della Fiat.

Più che una manifestazione anti-grillina, come qualcuno si ostina a leggerla, è stata piuttosto l’espressione di quel all’ordine costituito e di accettazione dell’esistente, che da sempre costituisce l’anima delle maggioranza silenziose e reazionarie, che si contrappone al No della sovversione del presente stato di cose. Una manifestazione di quello scontro tra chi, in nome di pochi ed egoistici interessi immediati, vuole continuare a sfruttare l’uomo, l’ambiente e i territori adesso e subito, senza pensare al futuro e chi, invece, in nome di un futuro diverso e migliore di cui si sente già parte, lotta in nome della comunità umana e della salvaguardia di quell’ambiente senza il quale la specie non può sopravvivere. Una nuova forma di quel secolare scontro tra le classi e i modi di produzione che oggi sembra affrontare una fase nuova e decisiva.

I compagni del movimento NoTap ci hanno scritto:

“Nel mese di Novembre TAP, agevolato da un governo che ha levato la maschera della menzogna, ha ripreso i lavori a Melendugno. Il via libera pentastellato, figlio del tradimento di un governo nei confronti del popolo, è però avvolto nella nebbia: infatti, è tutt’ora sotto sequestro un’area di cantiere denominata “le paesane” per mancato rispetto dei vincoli paesaggistici, è in corso un’indagine nell’area dove dovrebbe sorgere il PRT per valutare la possibile assoggettabilità dello stabilimento alla normativa Seveso III, ed è di questi giorni la notizia che un’altra indagine è stata aperta in località San Basilio (dove è stato costruito il pozzo di spinta) per probabile inquinamento della falda acquifera. A questo, si aggiungono i lavori in mare che, sempre per mano di un governo traditore, sono stati autorizzati senza necessità di una concessione demaniale.
I ministri si sono incartati sulle loro stesse dichiarazioni: l’arroganza del Ministro del Sud, che si permette di definirci “teppistelli”, o l’irriverenza del Ministro dell’Ambiente, che si concede il lusso di dichiarare di “non aver riscontrato irregolarità”, sbattono violentemente contro i documenti ufficiali: non esiste alcun contratto vincolante tra TAP e il governo italiano, né tanto meno (per dichiarazione ufficiale degli stessi ministeri dopo che associazioni e liberi cittadini hanno effettuato una richiesta di accesso civico agli atti) esistono analisi costi/benefici reali e approfondite. Inoltre, il fantomatico calcolo di 20 miliardi di € di risarcimenti, come afferma il MISE, non è stato effettuato dal governo italiano bensì da Socar, società privata azionista di Tap, che avrebbe dunque tutto l’interesse ad arrotondare per eccesso le sue stime.
La scelta politica di lasciare via libera a Tap contrasta con la realtà dei fatti sopra descritta.”

Tutto assolutamente vero, ma occorrerebbe ricordare ciò che si è già detto all’inizio: tutti i governi, parlamentari o autoritari che siano, sono potenzialmente ‘traditori’ poiché, anche se eletti con i voti e il consenso di una maggioranza pur sempre parziale dei cittadini, sono tenuti a rispettare, prima di tutto, gli interessi nazionali ed internazionali delle classi detentrici del potere economico. Come ha dimostrato anche la scelta attendista, in attesa di ordini dall’alto dei vertici europei, scaturita dall’incontro avvenuto lunedì 12 novembre tra il ministro dei trasporti Toninelli e la sua omologa francese Borne.

Dimenticare o rimuovere dal dibattito tutto questo significa, semplicemente, condannare i movimenti alla perdita della loro autonomia e alla loro inventiva, unica vera alternativa al modo di produzione esistente e agli interessi che lo sottendono (politici, economici, culturali, mediatici). Significa, inoltre, relegare la democrazia esclusivamente all’ambito dei giochi parlamentari e politici che rappresentano proprio l’autentica negazione della stessa ovvero l’essere, prima di tutto, democrazia dal basso.

Come hanno ricordato recentemente i compagni NoTav:

“C’è chi cerca di nascondere le proprie responsabilità sul saccheggio e la devastazione dei nostri territori, su una politica dei governi che non ha investito sulla messa in sicurezza e sulla tutela dell’ambiente, sullo sperpero di risorse pubbliche a favore di grandi opere inutili togliendo risorse a sanità, emergenza abitativa, welfare, scuola, ricerca e lavoro.
Mentre in Italia si continua a morire per il maltempo e intere aree del paese vengono messe in ginocchio, c’è ancora chi nega quale siano le vere priorità della collettività, provando a mettere avanti a tutto gli interessi delle grandi aziende e dei profitti di pochi.
Non ci siamo mai fatti ingannare e continueremo a lottare per la nostra terra e per un modello di sviluppo sostenibile per tutti.”

Per questo motivo l’8 dicembre, che dal 2010, è la Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte e in difesa del pianeta, molti movimenti sul territorio italiano si mobiliteranno per la tutela dei territori e contro lo spreco di risorse pubbliche.
Pertanto in quella data, storica per il movimento No Tav, lo stesso scenderà nuovamente in piazza a Torino per una grande manifestazione. Poiché, al di là dei giochi di palazzo e di potere, c’eravamo, ci siamo e ci saremo SEMPRE.

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Hard Rock Cafone #6 https://www.carmillaonline.com/2016/09/15/hard-rock-cafone-6/ Thu, 15 Sep 2016 21:46:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33057 di Dziga Cacace

Nothing Swings Like 4/4 (John Coltrane)

emerson2_3593553bKeith Emerson: bentornati amici allo show che mai finisce. Il locale è il Live, di Trezzo sull’Adda. Ottimo cartellone e acustica discreta. Sono qui per intervistare un mio mito dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’attuale maturità e penso pure della futura vecchiaia: Keith Emerson. È già presente un mucchio di fanatici del prog, li riconosci subito (Lombroso etc., ma non voglio farla fuori dal vaso). Il soundcheck è entusiasmante come sarà poi il concerto, con parecchio repertorio dedicato ai Nice, oltre che – ovviamente – agli Emerson, [...]]]> di Dziga Cacace

Nothing Swings Like 4/4 (John Coltrane)

emerson2_3593553bKeith Emerson: bentornati amici allo show che mai finisce.
Il locale è il Live, di Trezzo sull’Adda. Ottimo cartellone e acustica discreta. Sono qui per intervistare un mio mito dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’attuale maturità e penso pure della futura vecchiaia: Keith Emerson. È già presente un mucchio di fanatici del prog, li riconosci subito (Lombroso etc., ma non voglio farla fuori dal vaso). Il soundcheck è entusiasmante come sarà poi il concerto, con parecchio repertorio dedicato ai Nice, oltre che – ovviamente – agli Emerson, Lake and Palmer.
Keith ha recentemente pubblicato un album dal titolo eloquente, Emerson Plays Emerson, e mi fa accomodare in un camerino che, dai graffiti sui muri, ne ha viste di ogni colore. Parto alla grande: sapendo della passione del musicista per alcuni alcolici italiani (come Pinot Grigio e Asti Spumante), mi presento con una bottiglia di Fernet Branca. Keith ringrazia, ma la allunga subito al suo chitarrista: non può berla perché ha problemi cardiaci. Chi comincia bene è a metà dell’opera.
È gentile, molto pacato, un po’ sulla difensiva e non sempre pronto a ironia e provocazioni, forse perché il mio inglese prescolare non aiuta. Io non ho freni e faccio un’intervista poco professionale e molto personale, ma ‘sticazzi: lui s’imbarazza quando la domanda esula dagli abituali percorsi, ma tutto sommato è un pezzo di pane, melanconico, innamorato della sua musica. Ed è un inguaribile romantico.
Dopo tutti i guai che ti son capitati (dita, naso, costole rotti, interventi al cuore e ai nervi del braccio destro), come sta adesso Keith Emerson?
Bene, grazie! Sono un po’ ipocondriaco, sempre determinato a trovare qualcosa di sbagliato con la mia salute… ma per adesso funziona tutto.
Cosa pensi di Palmer e della sua band, con un chitarrista che suona le tue parti?
Penso solo bene! L’ho visto live e la band va forte. Il chitarrista, tra l’altro, è bravissimo anche perché non sono parti facili e non sono state pensate per una chitarra.
Non soffri nei confronti dei chitarristi, di una specie di “invidia del pene”? (Mi guarda abbastanza stranito, allora espando la domanda) Chitarristi come Hendrix o Blackmore, con la chitarra, hanno portato all’estremo la ricerca sonora e con una chitarra è più semplice farlo che non con una tastiera, anche se tu hai un passato di abusi sul tuo Hammond… (Sempre peggio: il termine “abuso” non gli piace per niente, ma prova a rispondere)
Io sto ancora sperimentando, cerco nuovi suoni e la tecnologia digitale permette ulteriori miglioramenti in questo senso. In effetti ho “abusato” delle tastiere in passato… (lo ammette, infine, eccazzo) ma mai da rendere inservibile uno strumento, dopo erano sempre riutilizzabili. C’è sempre un limite all’abuso! Quando improvvisi, il solista avventuroso cerca di suonare tra le note e questo con le tastiere non è possibili, sei costretto dalla scala cromatica, dai semitoni, mentre i chitarristi o i suonatori di sax possono glissare le note. Ogni sera, salgo sul palco e suono un assolo differente, ed è grande quando riesco a trovare un fraseggio che non ho mai suonato prima. È divertente, esaltante, inventare al momento qualcosa di nuovo, ed è un dono. E molte volte non lo registri! Certe notti, scendiamo dal palco e ci complimentiamo l’un l’altro per certe improvvisazioni e ci chiediamo: cos’era? E il problema è che non son cose che puoi riprodurre, diventano aride senza il feeling del momento.
Quello che rende speciale la musica degli anni Settanta è forse proprio nella capacità e nella disponibilità ad improvvisare, no?
Ma guarda, qualche settimana fa mi han fatto notare che alcuni miei contemporanei, tipo gli Yes o i Genesis, quando arrivano gli assoli, rimangono fedeli a ciò che avevano inciso nei dischi originali. Io non l’ho mai fatto: lo scopo di un assolo è provare a suonare qualcosa di veramente differente.
C’è mai stata rivalità con Jon Lord e Rick Wakeman?
No, rivalità no. Rispetto Jon Lord come musicista ed è anche una bella persona. E anche Rick è un grande. Jon non segue le mode, ha una sua voce con l’Hammond e il piano. Un altro che apprezzo ma che è stato sottavalutato è Brian Auger. Quando Rick Wakeman è venuto fuori e anche lui aveva diverse tastiere e il costume di scena, beh, mi son chiesto: dove l’ho già visto? Comunque dopo poco tempo ci siamo conosciuti e ne abbiamo parlato e lui ha un grandissimo sense of humour. Oltre a essere un grande musicista, ovviamente.
hrc602Senti, perché l’abilità tecnica, ad un certo punto, è diventata fuori moda? (Anche grazie al punk…)
La musica passa attraverso fasi diverse, di critica e di pubblico (fa spallucce). Generazioni diverse… e la musica punk, poi… (fa un vocione impostato, non l’ha ancora digerita trent’anni dopo) la musica punk mi piace! E Johnny Rotten abita vicino a me! (La voce torna normale) In effetti abitiamo vicini… dopo che ha cantato contro il Capitale e per l’anarchia, io sto in un condominio e lui in un villone!
Hai mai incontrato di nuovo i membri della PFM o del Banco?
L’altra sera, a Roma, ho incontrato il tastierista del Banco ma non so bene cosa abbiano fatto in questi anni. Nella Manticore (l’etichetta fondata e gestita dagli Emerson, Lake and Palmer) non mi occupavo io delle band che producevamo. Erano Pete Sinfield e Greg Lake. E a dirla tutta mi sembrava una cosa stupida: non riuscivamo a prenderci cura di noi, figurati degli altri.
E Dario Argento, mai più rivisto?
No, non recentemente, ma i suoi film mi piacevano molto ed era bellissimo che la mia musica fosse usata per un assassinio o per creare una situazione di tensione o orrore. Quando ammazzi qualcuno col tuo Moog, non mancano mai le idee, anche quando arrivi alla settima vittima! E poi scrivere per il cinema è una bella disciplina, devi adattarti a una cornice precisa, non come sul palco dove vai avanti fino a che hai idee.
Qual è stato il responso critico per Emerson plays Emerson?
Non ho letto molto, devo dire. Comunque il motivo per cui ho fatto questo CD risponde a due esigenze. Lo chiedevano i fan – che nei miei diversi album avevano sempre solo un brano o due per pianoforte – e poi anche l’EMI Classics. L’acquirente abituale di musica classica è un po’ disperato, sai. Il CD è bello resistente e quando ti sei già comprato tutto Wagner, cosa rimane? E questo è anche il motivo per cui si cercano sempre nuove idee, tipo le opere di McCartney o Roger Waters (e non che mi siano piaciute, sinceramente).
Usi il computer per comporre?
No, sono computerfobico! Se componessi su PC son sicuro che andrebbe in crash e perderei tutto! Scrivo sul mio Steinway e al limite lascio la trascrizione ad altri.
Però hai l’iPod, no?
Sì, e ci tengo dentro di tutto, ma soprattutto jazz, fine anni Cinquanta, inizio Sessanta. La roba di oggi non mi fa impazzire.
Quando arriva Natale, non temi di dover sentire di nuovo i singoli di Greg Lake?
Ma perché, dai. Mi piacciono i singoli di Lake! Sul serio, lo adoro e abbiamo fatto grande musica assieme.
Però quei singoli erano, in qualche modo, differenti dalla musica che componevate per gli album, contrastanti.
Sì, ma dovresti parlarne con Greg e con Sinfield: era una giustapposizione al nostro repertorio.
La cosa più politica che hai fatto, sul palco, è stato bruciare la bandiera americana. Cosa pensi della guerra, oggi, in Iraq?
Era stata una trovata, sul serio, e se pensi al 1968, in effetti, nessuno aveva osato fare tanto. Sai, c’erano i cantautori di protesta, allora, Dylan o Donovan. Ma fino a quel punto, non s’era spinto mai nessuno. E noi avevamo soldati americani che venivano ai nostri concerti che ci chiedevano di bruciare le loro cartoline di arruolamento: c’era la guerra in Vietnam e decisi di usare il tema di America… ma non sono nella posizione per dare giudizi politici.
Senti, non pensi che, per esempio, l’ultimo Dvd degli ELP, o il tuo passato distolgano l’attenzione dal tuo lavoro attuale?
Tipo un effetto nostalgia? Non credo, sai. La gente viene ad ascoltarci ancora e c’è sempre un grande interesse. E noi proviamo a spingerci sempre in avanti. Questa è la differenza tra la musica progressive e il pop di oggi.
E che fine ha fatto il costume d’armadillo?
È bruciato, con la mia casa!
E i coltelli della gioventù hitleriana – regalo di Lemmy quand’era tuo roadie – per accoltellare l’Hammond?
Venduti! Quando ho divorziato avevo bisogno di un sacco di soldi e li ho fatti vendere.
Dopo questa lunga carriera, hai trovato un senso della vita?
(Trasecola e ride) Questa non è una domanda, è LA domanda! Mah! Oggi io cerco soltanto una compagna con cui mettermi tranquillo, poi boh!
(4 dicembre 2005)

hrc603L’attualità (per motivi sbagliati) dei Grand Funk Railroad
Son passati trent’anni dall’immortale copertina di Survival, con i membri dei Grand Funk Railroad ritratti in comodi panni neanderthaliani. Trent’anni in cui il gruppo più vituperato degli anni Settanta s’è sciolto, s’è riunito e ridisciolto senza perdere mai la fama di adorabili sfigati dell’hard più fracassone. Non erano blues oriented come gli Aerosmith, non cavalcavano il glam cartoonish dei Kiss, non proclamavano la loro politicizzazione come i MC5, né passavano per outsider intellettuali come i Blue Öyster Cult: erano semplicemente i trogloditi del rock, senza capacità virtuosistiche o compositive, e provenivano dalla tremenda Flint, città natale dell’arrabbiatissimo Michael Moore e colonia della General Motors. Oggi il pubblico americano li conosce grazie alla tifoseria sfegatata del capofamiglia Simpson (e che Homer li adori spiega tante cose). Sono passati trent’anni anche dal loro ellepì migliore, quell’E Pluribus Funk che rivoluzionava il concetto di packaging (presentandosi come una enorme moneta d’argento); un po’ meno quello della musica, anche se, a ben guardare, la tracklist possiede ancora oggi una sorprendente attualità. A fianco di sfrenati inviti alla danza (la travolgente Footstompin’ Music), sbulaccate machistiche (Upsetter) e pensosi tentativi pseudopoetici (la melensa Loneliness) c’era anche lo slancio ecologista di Save The Land e, soprattutto, l’accorato appello di People, Let’s Stop The War. Nell’arco di una quindicina di anni i GFR hanno licenziato diversi dischi memorabili, per un motivo o per l’altro. Il terremotante Live Album del 1970 è diventato una pietra miliare degli album dal vivo, Shinin’ On è, credo, il primo – se non l’unico – LP con la copertina 3D (con gli occhialini inclusi nella confezione!). Ma era notevole musicalmente anche Caught in the Act, dove veniva fuori l’attitudine soul e blues del gruppo, del resto stimato da Todd Rundgren (produsse l’ottimo We’re An American Band) e pure da Frank Zappa, istigatore di Good Singin’, Good Playin’ del 1976 e che di loro disse: “Sono fantastici. FAN TAS TI CI. Con una “F” alta tre volte te!”. Bene: io li ho amati e voi a breve sarete conquistati, ma se siamo qui a parlarne è perché la longevità dei Grand Funk Railroad (poi dispersi in altre formazioni, anche con derive religiose) non è nella lungimiranza del progetto artistico ma nel cammino a ritroso dell’amministrazione Bush che sta regalando al mondo un nuovo Vietnam all’anno e disattende bellamente il protocollo di Kyoto. Dopo la geniale pensata che il conteggio dei morti in Iraq non debba tenere più conto dei civili (da noi la chiamano contabilità creativa), sono arrivate anche le tremende “cartoline dall’inferno” con le torture del carcere di Abu Ghraib. Prima i sospetti, poi le prove, e ora pensano di metterci una pezza mandandoci il direttore di Guantanamo (e non è una battuta. Il mostro di Milwaukee era già occupato?). Tra le tecniche per sciogliere la lingua ai prigionieri, il cosiddetto “bombardamento sonoro”: quale gruppo di hard rock cafone verrà inconsapevolmente coinvolto in questa porcata? Dov’è finita l’America generosa e bonacciona di Homer Simpson e dei Grand Funk Railroad? (Giugno 2004)

negrita_3Ehi! Negrita!
I miei primi Negrita risalgono a quindici anni fa, al Canguro di San Colombano al Lambro, 200 spettatori stipati all’inverosimile. Mi sentivo come Jon Landau la sera che sigillò il destino suo e di Springsteen e pensai: stasera ho visto il futuro del r&r italiano. Ero giovane, erano giovani, ma tenevano il palco come veterani. Gli anni passano e oggi i Negrita sono una rock band affermata, vendono bene, fanno tour pieni, però sono rimasti sempre a margine del successo di massa, da stadio. E per fortuna, vien da dire, parlandogli, perché sono di quella razza ormai rarissima in Italia, di chi fa coerentemente di testa propria. Nessun compromesso e nessun proclama; mai leccato il culo ai giornalisti (cosa che hanno pagato eccome), mai convenientemente posato da star per rotocalchi, mai storiacce di corna e droga per solleticare le voglie gossip dei lettori. Come mi dice il cantante Pau, disarmante nella sua sincerità: “Siamo una comunità di amici fricchettoni con figli, che vuoi farci?”. All’inizio erano cinque dottori per curare la peste, come recitava l’autobiografica Ehi! Negrita, e il loro momento di crisi non è coinciso con vendite in ribasso o nebbia creativa ma con l’abbandono per motivi personali del fraterno batterista. Dopo un incontro nei camerini (“Per piacere, non chiederci anche tu Che rumore fa la felicità!”) in cui si parla di crisi economica, di Sanremo e di downloading, tocca al concerto, una mezcla piccante, due ore di blues, funky e reggae: tutti i suoni del sud del mondo, sublimati nello scintillante suono elettrico del nord. L’ultimo album Helldorado è i Negrita all’ennesima potenza, un Buenos Aires Calling che dal vivo viene proposto quasi per intero. Si danza maschi e femmine con le dovute pause per le ballate perché se c’è qualcuno a cui devono qualcosa – come ricordano Pau e il chitarrista Drigo – quello è il pubblico. Tantissimo, del resto: sold out vero, mica da agenzia stampa. Sono sempre stato convinto che fossero la migliore live band rock italiana e trovo ulteriore conferma: nei Negrita senti gli Stones e Rino Gaetano, la tradizione e il futuro, il meticciamento e le basi del r&r, con una potenza di fuoco fenomenale (anche grazie all’altro chitarrista, Cesare, un riff dopo l’altro) e un groove continuo. E anche i testi scintillano in questo mare di lava sonora ulteriormente arricchito da una consolle e delle percussioni latine. È una festa che celebra la loro libertà, come sintetizza il coro totale del palasport di Lampugnano su A modo mio. E dopo quindici anni penso che io ero Jon Landau e non lo sapevo. E che questo paese non se li merita, i Negrita. Tra poco partiranno per il Sud America e l’Europa con lo spirito di quando hanno iniziato, perché sanno che la vita è una verifica continua e chi si abitua alle recite negli stadi poi non produce più una nota decente. E hanno ragione. (Aprile 2009)

hrc605Io brindo agli Uriah Heep
Melissa Mills dovrebbe essere una mia collega, ma non so se abbia tenuto fede all’impegno preso recensendo il primo album degli Uriah Heep, proprio su un Rolling Stone del 1970: “Se hanno successo questi, mi suicido”, letteralmente. E nella fattispecie, nel terzo millennio gli Uriah Heep continuano ad avere successo: magari non come nel 1972 (l’annus mirabilis di Demons and Wizards e di The Magician Party), però prendendosi le loro belle soddisfazioni. È appena uscito Live in Armenia, località se non altro balzana, ma il presidente locale è un grande fan e allora, perché no? Del resto il russo Medvedev ama i Deep Purple e li ha fatti esibire al Cremlino e non escludo, prima o poi, un Live At Arcore delle giovanissime Ruby and the Jets, con opener Mariano Apicella. Comunque: io ho visto Werner Herzog mangiarsi una scarpa per scommessa (era di cuoio: bollita otto ore con verdure è diventata edibile), ma il regista tedesco è un genio. Invece della Mills, pur googlando, non ho trovato notizia di suicidio e credo che ogni volta che esce un disco degli Heep provi un po’ di vergogna per quella sparata infantile. Perché il primo LP (dalla copertina sinceramente emetica, seconda solo ai repellenti Abominog, degli stessi Heep, e Born Again, dei Black Sabbath) era buono eccome, se non forse un po’ grezzo, e tra alti e bassi il sestetto è arrivato fino al recente Into the Wild, tosto assai e per niente arcaico. Questi qui si son barcamenati per quarant’anni tra cambi di line-up, un bassista fulminato sul palco, ritiri, ritorni, dischi inutili e altri sottovalutati, svernando nel terzo mondo musicale quando qua da noi non era aria, per poi tornare trionfalmente ad ogni revival. E ora che viviamo nell’ottusa nostalgia di tutto, il loro strambo ma coinvolgente mix di hard rock, progressive e voci in falsetto alla New Trolls, funziona ancora. Capelli – quando ne sono rimasti – bianchi, pance debordanti, posture epiche, ugole sguaiate e sound martellante (nonostante le occasionali ballate pastorali come la splendida Come Away Melinda), gli Heep non son diventati più belli. Erano orrendi allora (sembravano il gruppo TNT, giuro) e i superstiti non sono migliorati, ma il vino, invecchiando, ha acquisito corpo: alzo il mio calice verso di loro, prosit, lo meritano. (Gennaio 2012)

hrc606Matt Filippini Story
Fossimo a Hollywood, la storia che sto per raccontarvi sarebbe un blockbuster conteso dai produttori, un Flashdance hard rock e per di più una storia vera, cosa che agli yankee piace sempre sottolineare, specie quando la vicenda è assolutamente inverosimile. Cremona, Italia: un giovane chitarrista coltiva il sogno di milioni di rockettari. Fare l’album della vita, accompagnato dai propri idoli musicali. Matt Filippini è tecnico in un’acciaieria ma, pur non suonando metallo pesante, non disdegna la schitarrata con la giusta saturazione timbrica. Non ha un gruppo suo, ma gli piace suonare in giro e una sera finisce a jammare con Ian Paice, batterista dei Deep Purple spesso dalle nostre parti, e gli allunga un demo con tre pezzi originali. Paice apprezza, risuona le parti di batteria e incoraggia Matt che non se lo fa dire due volte. S’indebita appoggiato dalla moglie – bassista che crede nella coppia e nel rock quanto lui – e autofinanzia il Moonstone Project. E gli altri partecipanti? Una rockstar è lontana solo l’invio di una mail e chiedere è lecito: Glenn Hughes, basso e voce ultra-funky (dai Deep Purple degli anni Settanta fino alle recenti collaborazioni con diversi Red Hot Chili Peppers), risponde subito e partecipa entusiasta. Dopo di lui è una sarabanda di adesioni dal bel mondo dell’hard storico e degli anni Ottanta: Carmine Appice (batterista dei Vanilla Fudge e co-autore con Rod Stewart di Da Ya Think I’m Sexy, per dire), le voci di Eric Bloom (Blue Öyster Cult), Graham Bonnet (Rainbow) e Steve Walsh (Kansas), il basso di Tony Franklin (Whitesnake)… Un cast stellare che provoca un’immediata pavloviana salivazione in chiunque ami il buon rock, quello con chitarre turgide, riff trascinanti e con la sezione ritmica che si sente davvero. Il progetto è promosso da un’etichetta inglese, la Majestic Rock Records che, se non dimostra gran gusto estetico (la copertina dell’album è una cafonata unica), ha certamente fiuto musicale. Il buon Matt adesso dovrà scegliersi bene le ferie: lo aspettano showcase in USA ed Europa e un tour in Giappone, Russia e Sud America, dove i vari ospiti si alterneranno. Se siete il fanatico musicomane che passa le serate al pub a fantasticare di line-up ideali davanti a una birra, beh: non vi resta che cercarvi Time To Take A Stand. Jennifer Beals aveva una controfigura, Matt Filippini ha fatto tutto da solo e con un piccolo aiuto dagli amici. E ha fatto benissimo. (Giugno 2006)

(Fine – 6)

Le puntate precedenti sono qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter: #RadioCacace (edit)

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